ZoneModa Journal. Vol.9 n.1 (2019)
ISSN 2611-0563

Moda, curatela, museo: un dibattito lungo un decennio, un decennio lungo quarant’anni

Gabriele MontiUniversità IUAV di Venezia (Italy)

Ph.D., he is a researcher in fashion design theory and criticism and an assistant professor at IUAV University of Venice, Italy. Among his research interests are theories of fashion design, fashion curating and visual culture, fashion and celebrity culture. He was associate curator of the exhibitions Diana Vreeland After Diana Vreeland (2012) and Bellissima: Italy and High Fashion 1945–1968 (2014–16). He has recently published a book devoted to Italian fashion models, In posa. Modelle italiane dagli anni cinquanta a oggi (Marsilio, 2016). His last project: the book and the exhibition ITALIANA. Italy Through the Lens of Fashion 1971–2001 (Milano, Palazzo Reale, February–May 2018 – Marsilio, 2018).

Pubblicato: 2019-07-30

Abstract

The goal of this contribution is to recover six significant experiences of the 1980s that in different ways have been able to set central questions on the cultural status of fashion in its comparison with the exhibition machine and the museum. 1922–1943: Vent’anni di moda italiana curated by Grazietta Butazzi in Milan in 1980; Intimate architecture: Contemporary Clothing Design curated by Susan Sidlauskas at the Hayden Gallery of the Massachusetts Instituite of Technology in 1982; Conseguenze Impreviste: Moda curated by Rossana Bossaglia in Prato in 1982; Yves Saint Laurent curated by Diana Vreeland in New York in 1983; Il genio antipatico: Creatività e tecnologia della moda italiana 1951–1983 curated by Pia Soli in Rome in 1984; Gianni Versace: L’abito per pensare curated by Nicoletta Bocca and Chiara Buss in Milan in 1989. Through the analysis of these exhibitions, the paper tries to recover the 1980s as a fundamental decade, not only for the development of fashion exhibitions as designed objects, but also for the definition of fashion itself; this, especially by focusing on themes such as the reconstruction of its history; conservation of objects; authorship; the disciplinary status of fashion in comparison with design, architecture and art; fashion carried out as a project made of precise constituent elements; cultural and museum display practices in their comparison with commercial display.

Keywords: Fashion curating; Fashion exhibitions; Fashion cultures; Grazietta Butazzi; Diana Vreeland.

L’obiettivo di questo contributo è recuperare sei significative esperienze espositive degli anni ottanta che in modi diversi hanno saputo impostare domande centrali sullo statuto culturale della moda nel suo confronto con la macchina espositiva e con il museo. I casi di mostre sono stati selezionati per affrontare una riflessione sul dispositivo “mostra di moda” come strumento per dispiegare riflessioni attorno alla disciplina della moda. 1922–1943: Vent’anni di moda italiana organizzata a Milano nel 1980; Intimate architecture: Contemporary clothing design organizzata a Cambridge, Massachusetts nel 1982; Conseguenze impreviste. Arte, moda, design: ipotesi di nuove creatività in Italia organizzata a Prato nel 1982; Yves Saint Laurent: Twenty-five years of design organizzata a New York nel 1983; Il genio antipatico: Creatività e tecnologia della moda italiana 1951–1983 organizzata a Roma nel 1984; Gianni Versace: L’abito per pensare organizzata a Milano nel 1989: attraverso l’analisi di queste mostre si cercherà di raccontare gli anni ottanta come decennio fondamentale non solo per la messa a punto dell’oggetto “mostra di moda”, ma anche e soprattutto per la definizione della moda stessa, attraverso la messa a fuoco di temi e questioni come la ricostruzione della sua storia; la conservazione degli oggetti; lo statuto disciplinare della moda nel suo confronto con il design, l’architettura, l’arte; il progetto di moda svolto nei suoi elementi costitutivi; il problema delle pratiche espositive culturali e museali nel loro confronto con le forme commerciali di display. Le modalità con le quali il saggio intende procedere si muovono fra il racconto degli eventi espositivi e l’analisi del loro ruolo all’interno degli studi di moda, negli anni in cui, soprattutto in Italia, si affermava la consapevolezza della necessità di immaginare dispositivi ed istituzioni in grado di conservare e studiare la moda. Questo saggio si apre e si chiude con l’analisi di due mostre in particolare, 1922–1943: Vent’anni di moda italiana e Gianni Versace: L’abito per pensare, perché lo sguardo agli eventi espositivi dedicati alla moda nel corso degli anni ottanta intende essere un modo per riflettere primariamente sulla situazione italiana. Ancora oggi, infatti, una delle questioni centrali in Italia è una latitanza delle istituzioni nella promozione di un museo nazionale della moda, in grado di confrontarsi compiutamente con il panorama internazionale. Queste due mostre si illuminano attraverso le altre selezionate, e allo stesso tempo – nel dialogo con le altre esperienze espositive individuate – ci permettono di svolgere considerazioni sull’avanzamento in Italia degli studi curatoriali in relazione alla moda e al museo, e sulla consapevolezza delle diverse modalità con cui si può affrontare un progetto espositivo dedicato alla moda.

Alle origini: una mostra per definire un museo

La mostra 1922–1943: Vent’anni di moda italiana è organizzata al Museo Poldi Pezzoli di Milano dal 5 dicembre 1980 al 25 marzo 1981,1 con la partecipazione delle Civiche raccolte d’arte applicata del Castello Sforzesco di Milano (Fig. 1).

Figura 1: La mostra 1922–1943: Vent’anni di moda italiana, a cura di Grazietta Butazzi, Milano, Museo Poldi Pezzoli, 5 dicembre 1980–25 marzo 1981. © Milano, Museo Poldi Pezzoli
Figura 1: La mostra 1922–1943: Vent’anni di moda italiana, a cura di Grazietta Butazzi, Milano, Museo Poldi Pezzoli, 5 dicembre 1980–25 marzo 1981. © Milano, Museo Poldi Pezzoli

È promossa dal Comune di Milano (assessorato Cultura e spettacolo), dalla Regione Lombardia (assessorato Cultura e informazione), con il contributo di Assomoda (Associazione nazionale italiana rappresentanti moda), dell’Associazione italiana industriali dell’abbigliamento e dell’Associazione italiana produttori maglieria. Il comitato organizzatore e promotore vede direttamente coinvolti: Carlo Bertelli, Soprintendente per i beni artistici e storici di Milano; Clelia Alberici, direttore delle Civiche raccolte di arte applicata del Castello Sforzesco; Grazietta Butazzi, consulente del settore costume delle Civiche raccolte; Rosita Levi Pisetzky, storico della moda; Alessandra Mottola Molfino, direttore del Museo Poldi Pezzoli; Roberto Manoelli, presidente di Assomoda e presidente del Cimm (Centro italiano manifestazioni moda).

Gian Alberto Dell’Acqua, presidente della Fondazione artistica Poldi Pezzoli, nella presentazione che apre il catalogo2 sottolinea l’importante sforzo istituzionale dietro al progetto, la collaborazione con il sistema moda, ed evidenzia la rilevanza dell’evento che segna la prima collaborazione fra il Museo Poldi Pezzoli e le Civiche raccolte di arte applicata non solo per la mostra in sé, ma nel più ampio progetto di promuovere un museo della moda a Milano. Non a caso, il sottotitolo della mostra nel frontespizio del catalogo recita appunto Proposta per un museo della moda a Milano.

La mostra curata da Grazietta Butazzi con il coordinamento di Alessandra Mottola Molfino, rappresenta un progetto pionieristico nel panorama italiano delle mostre di moda, in grado di confrontarsi con le azioni intraprese da Diana Vreeland a partire dal 1972, quando inizia il suo percorso al Costume Institute del Metropolitan Museum of Art di New York in qualità di Special Consultant, e come primo gesto organizza la mostra The World of Balenciaga.3 Questa mostra affronta in modo diretto il Novecento e quindi, nel suo farsi, inizia a mettere a punto metodi di ricerca, di conservazione e di esposizione diversi rispetto ad abiti e oggetti che appartengono a un passato meno recente e che solitamente sono collocati nella categoria del costume: è una mostra di moda, ed è diventata negli anni (soprattutto attraverso il catalogo) un riferimento per chi intendeva occuparsi di moda contemporanea.4

Questo non significa appunto che in Italia non si sia assistito a esempi importanti e significativi di mostre di moda negli anni precedenti al progetto in questione, ma sicuramente questa mostra – per il periodo indagato, per le scelte allestitive, per le problematiche affrontate più o meno direttamente – introduce in modo evidente non solo la questione delle modalità di esporre la moda, ma anche quella relativa al ruolo del gesto espositivo nel più ampio progetto culturale di un museo dedicato alla moda. Non è infatti un caso che la mostra sia idealmente l’introduzione alla conferenza internazionale Per un museo della moda, organizzata alla Fiera di Milano il 27 marzo 1981, in coincidenza con la chiusura della mostra: un progetto dedicato esplicitamente alla riflessione attorno al museo della moda, voluto da un comitato scientifico che sostanzialmente replica quello della mostra 1922–1943: Vent’anni di moda italiana.

L’indagine che precede la mostra coincide con lo studio e il recupero di un periodo cruciale per la moda italiana contemporanea, che si mette a fuoco come sistema proprio durante il ventennio fascista. Il lavoro di Butazzi è quello di riunire materiali provenienti da collezioni museali5 con una capillare ricerca di pezzi rintracciati in collezioni private. Allo stesso tempo l’articolazione della mostra e quindi gli oggetti esposti non si limitavano alla moda femminile, ma restituivano il ventennio in esame attraverso tutte le tipologie di materiali legati alla moda: biancheria, moda infantile, moda maschile, abiti sportivi, scarpe, cappelli, scialli, fino a includere manifesti e pubblicazioni periodiche in grado di testimoniare i discorsi sulla moda prodotti a livello commerciale ed editoriale. Più di trecento pezzi complessivamente, con più di ottanta manichini (fra figure intere e busti).

L’elaborato progetto allestitivo6 occupava tutto il Museo Poldi Pezzoli, dal piano terra al primo piano, colonizzando così in tutto lo spazio museale. Al piano terra la mostra si sviluppava fra quelli che attualmente sono indicati come il Salone dell’affresco, la Stanza dei tessuti e la Sala dei pizzi, con una complessa struttura di vetrine progettata dall’architetto Takashi Shimura, per contenere e mettere in scena la sequenza di temi individuati: le tavole progettuali conservate presso l’archivio del museo raccontano di una progressiva messa a fuoco della struttura, un labirinto di vetrine da attraversare, animate all’interno da diversi livelli e da più moduli espositivi, tinteggiati con colori diversi, per permettere di esporre accessori, tessili, manichini e busti (Fig. 2).

Figura 2: La mostra 1922–1943: Vent’anni di moda italiana, a cura di Grazietta Butazzi, Milano, Museo Poldi Pezzoli, 5 dicembre 1980–25 marzo 1981. © Milano, Museo Poldi Pezzoli
Figura 2: La mostra 1922–1943: Vent’anni di moda italiana, a cura di Grazietta Butazzi, Milano, Museo Poldi Pezzoli, 5 dicembre 1980–25 marzo 1981. © Milano, Museo Poldi Pezzoli

Un gruppo di manichini “in conversazione” alla base dello scalone antico introduceva in modo scenografico all’allestimento del piano piano (Fig. 3), dove il visitatore poteva muoversi fra le diverse sale.

Figura 3: La mostra 1922–1943: Vent’anni di moda italiana, a cura di Grazietta Butazzi, Milano, Museo Poldi Pezzoli, 5 dicembre 1980–25 marzo 1981. © Milano, Museo Poldi Pezzoli
Figura 3: La mostra 1922–1943: Vent’anni di moda italiana, a cura di Grazietta Butazzi, Milano, Museo Poldi Pezzoli, 5 dicembre 1980–25 marzo 1981. © Milano, Museo Poldi Pezzoli

Fra le opere conservate ed esposte nel museo era disseminata una serie di gruppi di manichini in dialogo fra loro (nel Salone dorato l’installazione metteva in relazione manichini seduti e in piedi, di fronte alla grande finestra, secondo un modello che ricordava una conversation piece) (Fig. 4).

Figura 4: La mostra 1922–1943: Vent’anni di moda italiana, a cura di Grazietta Butazzi, Milano, Museo Poldi Pezzoli, 5 dicembre 1980–25 marzo 1981. © Milano, Museo Poldi Pezzoli
Figura 4: La mostra 1922–1943: Vent’anni di moda italiana, a cura di Grazietta Butazzi, Milano, Museo Poldi Pezzoli, 5 dicembre 1980–25 marzo 1981. © Milano, Museo Poldi Pezzoli

L’unico elemento che riprendeva gli elementi della struttura allestitiva del piano terra era posizionato nella Sala del settecento veneto: una vetrina per le riviste guidava il visitatore fino alla Saletta dei trecenteschi dove era allestita un’altra coreografia di manichini. Fatta eccezione per la vetrina, gli elementi del primo piano non erano protetti da teche, e queste allusioni a possibili conversazioni fra eleganti signore riattivavano cinematograficamente la forma della casa museo, sfruttando al meglio uno spazio non progettato originariamente per ospitare le attività di un museo.7

Molto interessante è la presenza fra i documenti conservati nell’archivio del Poldi Pezzoli di una lettera inviata da Alessandra Mottola Molfino ad Anna Piaggi.8 L’idea iniziale era quella di coinvolgere lo sguardo di un fashion editor e la sua sensibilità contemporanea per costruire un dialogo con l’architetto responsabile del progetto allestitivo, Takashi Shimura. Sempre fra i documenti conservati nell’archivio del museo appare infatti una ipotesi di colophon della mostra dove a Piaggi viene affidato il coordinamento artistico. Come ricorda oggi Mottola Molfino,9 ci fu un incontro con Piaggi, anche se la collaborazione non ebbe seguito. La decisione fu quella di non introdurre il linguaggio contemporaneo della moda con azioni di styling troppo evidenti. I manichini laccati bianchi, che rinunciavano al colore antropomorfizzante, erano completati da parrucche bianche di carta appena accennate. In questo senso le scelte si collocavano all’interno di un dibattito che vedeva come riferimento le esperienze del neonato Kyoto Costume Institute,10 e la mostra Curiosità di una reggia: Vicende della guardaroba di Palazzo Pitti curata nel 1979 a palazzo Pitti da Cristina Aschengreen Piacenti e Sandra Pinto (che avrebbe portato poi nel 1983 alla costituzione della Galleria del Costume di Palazzo Pitti).11

Il gruppo di lavoro dedicato al restauro e alla preparazione degli abiti in mostra al Poldi Pezzoli era composto da Francesco Pertegato, Gabriella Pelluccani, Laura Marelli, Carlo Barzaghi, Elena Pasti. Francesco Pertegato – allora giovane restauratore di tessili appena rientrato dal Victoria & Albert Museum di Londra, dove aveva restaurato alcuni vestiti e visto la preparazione di quelli che sarebbero stati esposti nella rinnovata galleria del costume – era il responsabile dell'allestimento degli abiti e dei manichini.12 La testimonianza di Pertegato è preziosa oggi perché chiarisce come la mostra abbia agito come campo di prova per sperimentare e verificare tecniche di conservazione ed esposizione specifiche per la moda novecentesca, peraltro in un museo, come abbiamo già detto, che non disponeva di spazi progettati per la preparazione e l'esposizione, né di attrezzature specifiche. Fu messo a punto un ambiente di lavoro il più efficiente possibile, con strumenti utili al restauro e alla cura degli abiti: Gabriella Pelluccani, proveniente dallo staff del Castello Sforzesco, aveva lavorato lungamente per una sartoria d’alta moda, e fu fondamentale per le lavorazioni di cucito necessarie non solo per restaurare, ma anche per esporre i capi nel modo più efficace possibile. Il senso di impostare delle condizioni di lavoro era anche quello di formare un team di lavoro che unì alla preparazione scientifica una serie di invenzioni che solo nel work in progress si possono sperimentare e mettere a punto.13 Ricorda ancora Pertegato che alle parrucche non si poté dedicare tutto il tempo e i materiali necessari per riprodurre quelle stilizzate del Kyoto Costume Institute. Seguendo le indicazioni di Butazzi, furono utilizzati sottili cartoncini bianchi sagomati e modellati, per accennare le acconciature, senza ricostruirle integralmente.

Le parole di Pertegato sono centrali anche perché restituiscono al progetto un ruolo nella formazione di quelle figure professionali che ruotano attorno a una mostra e a un museo che colleziona ed espone la moda. Pertegato parla appunto di un “terzetto paradigmatico per ogni operazione condotta sulle collezioni museali” che si è messo a registro durante i lavori per la mostra al Poldi Pezzoli: il direttore dei lavori, il curatore-conservatore, il restauratore.14

L’esperienza della mostra 1922–1943 Vent’anni di moda italiana al Museo Poldi Pezzoli si configura così, ancora oggi, come un’esperienza pioneristica per le mostre e i musei dedicati alla moda, nel panorama nazionale ma anche nel confronto con quello internazionale. Non a caso, come brevemente accennato in precedenza, la conferenza internazionale Per un museo della moda organizzata alla Fiera di Milano il 27 marzo 1981, in coincidenza con la chiusura della mostra, vedeva nel comitato scientifico la presenza di Alberici, Bertelli, Butazzi, Levi Pisetzky e Mottola Molfino, e nel comitato organizzatore quella delle associazioni di categoria già coinvolte per il Poldi Pezzoli.15 Nelle parole di apertura dell’allora sindaco di Milano Carlo Tognoli il rapporto di filiazione diretta fra questa conferenza e la mostra è esplicitato in modo evidentissimo. E l’evento si struttura come un importante momento di confronto internazionale, che raccoglie le testimonianze dei più importanti musei dedicati al costume e alla moda a livello mondiale. Fra i partecipanti: Penelope Byrde del Museo del Costume di Bath, Madeleine Delpierre del Musée de la mode et du costume di Parigi (il Palais Galliera), Jun Kanai del Kyoto Costume Institute, Stella Blum del Costume Institute del Metropolitan Museum di New York, Valerie Mendes del Victoria & Albert Museum di Londra. Le relazioni si concentrarono non solo sulle storie legate alla costruzione delle collezioni museali, ma anche sulle azioni necessarie per implementarle, e sulle tecniche di conservazione ed esposizione messe in atto da ogni museo. Si tratta di un vero e proprio momento di riflessione che vede i musei a confronto nella ricerca di standard e pratiche condivisibili, nella comune consapevolezza della necessità di una attiva ed efficace riflessione museale sulla moda.

È evidente che la mostra 1922–1943: Vent’anni di moda italiana, come hanno confermato anche le testimonianze di Mottola Molfino e Pertegato, affrontava il display dell’abito con un’attenzione alla sua materialità e alle sue esigenza e conservative e di restauro. Alla base del lavoro di Butazzi, e della collaborazione fra Poldi Pezzoli e Civiche raccolte era forte l’esigenza di fondare una collezione museale, con un’attitudine espressa molto bene anche dalle ragioni che avevano portato qualche anno prima alla fondazione del Cisst Centro italiano per lo studio della storia del tessuto, di cui Mottola Molfino non a caso è primo presidente (ed è con questa carica che compare nel già citato convegno del 1981).16

Sono quelli anni centrali per l’affermazione in Italia di una cultura della moda nel suo confronto con il museo. L’esperienza del Poldi Pezzoli si colloca esattamente un anno dopo il progetto presentato alla XVI Triennale di Milano che inaugura nel dicembre del 1979 e che presenta una sezione specificamente dedicata alla moda, Il senso della moda. Una sezione che vede coinvolti una serie di protagonisti, fra cui anche il centro di ricerca Dxing voluto da Elio Fiorucci, che intendono la moda come un fenomeno eminentemente visuale, legato indissolubilmente alle forme spettacolarizzate della cultura di massa.

Il progetto della sezione Il senso della moda della XVI Triennale nasce da una riflessione sull’importanza che ha assunto la moda negli ultimi anni sia per gli aspetti economici e produttivi, sia in senso simbolico come manifestazione di processi immaginari e inconsci, connessi con le trasformazioni sociali, politiche e le tendenze culturali della società.17

La mostra, con l’allestimento di Eleonore Peduzzi-Riva, è una visualizzazione della ricerca (affidata a Giannino Malossi, Nicoletta Branzi, Veronica Levis, Claudio Possenti) che indagava le connessioni tra moda e comunicazione di massa, industria culturale e movimenti sociali, “per mettere in luce i meccanismi di formazione del linguaggio della moda”. La Mappa della moda e il progetto Multivision su cinque schermi erano i due momenti principali, ed entrambi enfatizzavano la potenza visiva della moda nel definire i nostri immaginari e i movimenti sociali. Nel comitato scientifico sono presenti Francesco Alberoni, Anna Piaggi, Umberto Tirelli, oltre al Soprintendente Carlo Bertelli, che testimoniava un chiaro progetto: anche nelle intenzioni di questa sezione c’era la volontà quella di contribuire alla costituzione di un museo della moda a Milano, per il quale le azioni della XVI Triennale erano intese precisamente come un anticipo sperimentale.

Nel far dialogare fra loro queste due esperienze, intrecciate anche nei rispettivi coinvolgimenti istituzionali, si configura l’innesco di un dibattito fra modalità differenti nel trattare la moda: da un lato con una maggiore attenzione alla materialità della moda nelle sue relazioni con il costume storico e con le pratiche museali che legano in modo indissolubile questioni conservative ed espositive; dall’altro uno sguardo che riflette sulle relazioni fra moda e linguaggio, in un orizzonte interdisciplinare che intreccia teoria della comunicazioni di massa, semiologia, sociologia e che tende a smaterializzare la moda nella dimensione dell’immagine. Da un lato la moda nel suo confronto con il museo, dall’altro la moda nel sistema dei cultural studies. Si innesca indirettamente un dibattito che probabilmente ancora oggi non abbiamo risolto, e che non riguarda semplicemente l’interpretazione che diamo della moda in sé, ma anche quella che diamo di mostra e di museo. Oltre alla già citata esperienza di Firenze che nel 1983 vedrà poi la nascita della Galleria del Costume di Palazzo Pitti, non dobbiamo dimenticare che gli anni ottanta sono un momento centrale anche nelle attività dello Csac (Centro studi e archivio della comunicazione) dell’Università di Parma, instituito da Arturo Carlo Quintavalle alla fine degli anni sessanta e che si stava dedicando alla moda già dalla fine degli anni settanta, con però un’attenzione privilegiata al progetto inteso come disegno, grafica e immagine fotografica, e simultaneamente alla costruzione di un archivio, piuttosto che al momento espositivo.18 E nel 1981 Alessandro Mendini, quando sancisce ufficialmente l’ingresso della moda nel tempio italiano della cultura architettonica e progettuale con l’invenzione di Domus Moda, si sofferma proprio sul problema di un museo della moda a Milano, suggerendo come un progetto di questo tipo non debba essere confuso “con un po’di vestiti poggiati sui manichini come fantasmi”.19 In questo modo, all’inizio del decennio, si inizia a riflettere su questioni che intrecciano la definizione della moda al suo rapporto con il museo e con il fare mostre.

Lo sguardo dell’arte e del giornalismo di moda

Se come abbiamo visto gli anni ottanta si aprono in Italia con una riflessione legata al fare mostre di moda e al problema di immaginare un museo dove collezionarla (e quindi definirla), questo decennio è importante anche perché vede l’affermazione di modalità espositive che affrontano la moda nel suo confronto con l’arte e il design industriale, o che la leggono attraverso la lente di chi la commenta e la conosce direttamente, ovvero il giornalista di moda. L’analisi di due esperienze emblematiche ci aiuta a comprendere quindi come si evolve l’evento mostra di moda e come si articola la riflessione culturale attorno a questa disciplina.

Conseguenze impreviste. Arte, moda, design: ipotesi di nuove creatività in Italia20 è una grande mostra organizzata dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Prato nel centro storico della città, fra il 18 dicembre 1982 e il 28 febbraio 1983.21 La mostra ha contribuito a codificare una modalità espositiva diffusa, che colonizza gli spazi del centro storico di una città e li mette a confronto con le discipline della contemporaneità. Non dimentichiamo infatti che azioni come questa, nel progetto dell’assessore Giampiero Nigro,22 hanno rappresentato i primi movimenti verso la costituzione del Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, inaugurato nel 1988.23

Il catalogo pubblicato da Electa è composto da un cofanetto che riunisce i tre volumi dedicati alle tre discipline affrontate.24 È specchio di un altrettanto articolato progetto espositivo generale di Luca Alinari con l’allestimento di Malina Mihailova declinarsi poi negli specifici allestimenti per ogni sezione. Il comitato scientifico riunisce i curatori delle tre sezioni: per l’arte Achille Bonito Oliva, per la moda Rossana Bossaglia, per il design Alessandro Mendini e Studio Alchimia. Se Bonito Oliva in quel momento è indubbiamente uno fra i critici d’arte più significativi per l’Italia e Mendini non è solo un architetto e un designer celebrato, ma anche il direttore della rivista Domus, Bossaglia è uno storico dell’arte – che ricordiamo in particolare per gli studi dedicati al liberty italiano – che si confronta con la moda. Questo dato è significativo per certificare una minore strutturazione della moda come campo disciplinare dotato di profili in grado di affrontarla e raccontarla non solo in questo sistema professionale e commerciale, ma in quanto sistema culturale. Significativamente accanto a Bossaglia compare Maria Pia Bobbioni, già collaboratrice di Butazzi per la ricerca e la schedatura dei materiali in relazione alla mostra 1922–1943: Vent’anni di moda italiana.

A questo possiamo aggiungere anche un’altra differenza fra le tre sezioni: sia per l’arte, sia per il design, l’allestimento ha una specifica responsabilità che si inserisce dentro il progetto complessivo dell’evento. Studio Archigruppo segue l’allestimento per l’arte; il design ha una doppia articolazione: da un lato la mostra Oggetto naturale, una collezione di trenta progetti inediti realizzati da altrettanti giovani designer su un brief pensato specificamente per la mostra, per immaginare ipotesi per il futuro prossimo; dall’altro la mostra Oggetti di produzione industriale che riuniva trenta oggetti già in produzione fra i più significativi nel panorama contemporaneo. Le due sezioni intendevano dialogare in termini di verifica del livello di sofisticazione tecnologica e concettuale nei processi di progettazione e produzione industriali. Quest’ultima era seguita specificamente da Patrizia Scarzella, mentre per Oggetto naturale il progetto di allestimento era di Pier Carlo Bontempi e Giorgio Gregori, con la collaborazione di Prospero Rasulo per le scenografie che ritmavano il percorso dei progetti presentanti. Addirittura, nel caso del design viene precisata la curatela del catalogo, che è di Francesca Alinovi, impegnata a introdurre le atmosfere che prefigurano e accolgono gli “oggetti naturali” con il testo critico Affetti artificiali, e simultaneamente a redigere le didascalie narrative che presentano questi progetti inediti.25 Nel caso della moda invece non è dichiarata una specifica responsabilità per il progetto allestitivo.

Nel suo complesso Conseguenza impreviste si configurava come una rassegna che voleva essere decisamente più spettacolare che filologica: uno spettacolo delle idee, delle invenzioni, degli oggetti che intendeva essere percepito come un evento profondamente inserito nella contemporaneità. Era dislocata per tutto il centro storico di Prato, con un percorso segnalato da tubi al neon colorati: rossi per l’arte, blu per la moda, verdi per il design. La moda era l’unica sezione allestita interamente in una sola location, a palazzo Pretorio; il design era articolato fra palazzo Novellucci, il castello dell’Imperatore, il ridotto del teatro Metastasio; l’arte si muoveva fra palazzo Novellucci, palazzo Datini, il chiesino di San Jacopo.

La sezione Moda, raccolta a palazzo Pretorio, manteneva – unica fra le discipline coinvolte – un’unità di luogo che in qualche modo sembra proteggere arte e design da pericolose contaminazioni. Simultaneamente, questa sezione era significativa per l’attenzione con cui cercava di definire lo statuto culturale della moda nel suo confronto con l’arte e il design industriale. Il saggio con cui Bossaglia introduce il progetto riflette esplicitamente sui rapporti fra moda e arte, e presenta con una straordinaria consapevolezza lo stato del sistema italiano della moda: si parla di stilisti che non coincidono designer, e di sarti che non esistono più.26 Le parole di Bossaglia rivelano anche il punto di vista sulla moda, definita nelle sue relazioni con l’arte. Discipline molto più intrecciate di quello che si tenda a pensare, al punto che secondo Bossaglia l’arte è giunta a contendere alla moda il “blasone dell’effimero”, trasformando l’effimero in qualcosa di “testimoniabile” e “commerciabile”.

[La moda] non possiamo dire differisca sostanzialmente dall’arte, sul piano teorico, se prestiamo ancora attenzione al fatto che obbedisce in maniera impeccabile al principio della coincidenza fra convenzione e trasgressione, rispettando l’imperativo implicito nel binomio bipolare «di moda-fuori moda» […], ma insieme tenendo come modello ideale la pratica dell’alta moda, cioè del pezzo unico per molto versi imprevedibile.27

Artista e stilista condividono una dimensione, quella del divismo, anche se secondo Bossaglia il divismo è parte integrante della moda, perché “il rito pretende il divo come immagine perentoria e punto di riferimento”, e perché “il vestito si consuma, il divo resta”.28 L’artista può non avere un volto, a differenza dello stilista. E così, il saggio di Bossaglia, in qualche modo, serve anche a motivare e innescare la tipologia espositiva scelta per la mostra: gli stilisti invitati si presentavano infatti attraverso le ultime creazioni, con un bilancio dell’attività degli ultimi anni in grado di precisare la loro immagine. Una mostra collettiva, dove però ognuno si ritagliava il suo spazio preciso, individuando autonomamente la cifra del display per restituire “divisticamente” l’universo creativo del singolo designer. Se abiti, disegni, tessuti erano gli elementi comuni agli allestimenti, ognuno dei dieci marchi in mostra sceglieva il proprio linguaggio: Krizia aveva optato per un consuntivo degli ultimi anni celebrando la maglieria animalier, il plissé, le ricerche tessili; i Missoni avevano tradotto il loro progetto cromatico e materico attraverso una serie di arazzi; i Vergottini celebravano il loro stile con un labirinto scenografico di pannelli neri per esaltare il binomia linea-volume nelle acconciature; Fiorucci evocava le vetrine dei suoi negozi mitologici; le Fendi proponevano un lungo fregio di pelli a intarsio; Coveri enfatizzava lo sportswear e la magliera; Versace si affidava a manichini avvolti dalla sua maglia metallica; Ferré, forse il più efficace fra tutti gli allestimenti, proponeva i suoi pezzi più significativi adagiati su tavoli con pluripiani di perspex, il tutto appoggiato su pavimento di gommapiuma nel quale il visitatore poteva affondare.29 All’insegna della celebrazione dei capricci del divo, Valentino, pur presente nel catalogo, all’ultimo minuto si era rifiutato di partecipare, mentre Giorgio Armani aveva fin da subito declinato l’invito a prendere parte all’iniziativa.

Nella stampa dell’epoca l’accusa più frequentemente mossa a questa sezione era quella di risultare una sequenza di allestimenti sfarzosi, che rischiavano di sembrare stand fieristici30 al limite dell’effetto supermarket, e del pericoloso scivolamento nella dimensione meramente commerciale intesa come unico linguaggio possibile per raccontare la moda. Ed è comprensibile, perché alla sezione Moda mancava l’unitarietà di progetto che invece la presenza di Bonito Oliva, per esempio, garantiva alla sezione arte, dove presentava opere di scultori della transavanguardia e di giovani pittori, e arrivava addirittura a ipotizzare, sulle pagine di Avanti, non solo la transavanguardia, ma anche il trans-design e la trans-moda, come effetto di una mostra che mirava a mettere “a confronto realtà produttive che si confrontano con implicazioni culturali, sociali, con la produzione degli immaginari”.31

Anche la sezione design si configurava come un progetto compatto, grazie all’allestimento di Pier Carlo Bontempi e Giorgio Gregori e alle scenografie di Prospero Rasulo,32 protagonisti della copertina di Domus del marzo 1983, che celebrava la mostra attraverso Paolo Bettini e i suoi studenti dell’ISIA di Firenze, partecipanti a Conseguenze impreviste con un progetto per la sezione Oggetto naturale (Fig. 5).

Figura 5: Paolo Bettini e i suoi studenti dell’ISIA di Firenze, partecipanti alla mostra Conseguenze impreviste (Prato, Centro storico, 18 dicembre 1982 – 28 febbraio 1983) con un progetto per la sezione Oggetto naturale. Sullo sfondo, scenografia di Prospero Rasulo per l’allestimento di Pier Carlo Bontempi e Giorgio Gregori. Progetto di Occhiomagico e Studio Alchimia. Copertina di Domus, no. 637, marzo 1983
Figura 5: Paolo Bettini e i suoi studenti dell’ISIA di Firenze, partecipanti alla mostra Conseguenze impreviste (Prato, Centro storico, 18 dicembre 1982 – 28 febbraio 1983) con un progetto per la sezione Oggetto naturale. Sullo sfondo, scenografia di Prospero Rasulo per l’allestimento di Pier Carlo Bontempi e Giorgio Gregori. Progetto di Occhiomagico e Studio Alchimia. Copertina di Domus, no. 637, marzo 1983

Dentro al numero della rivista, un lungo servizio presentava la sezione Design, con foto dei progetti e degli allestimenti.33 Si potrebbe facilmente ricondurre questa celebrazione al fatto che Mendini era direttore di Domus oltre che curatore della sezione Design per Conseguenze impreviste. Eppure, ci sembra più corretto concludere che le due sezioni Arte e Design presentavano una unitarietà nel progetto in grado di testimoniare due sistemi strutturati sia del punto di vista della produzione e della diffusione, sia dal punto di vista della autoriflessione culturale: una dimensione sistemica testimoniata da un gesto curatoriale più forte, che nella sezione di moda veniva a mancare nel confronto con le potentissime voci dei singoli “divi”.

Il divismo è protagonista di un’altra mostra, Il genio antipatico: Creatività e tecnologia della moda italiana 1951–1983, che la giornalista di moda Pia Soli34 ha curato nel Salone dei congressi del Parcheggio al Galoppatoio di Villa Borghese.35 La mostra inaugura il 14 aprile 1984 e si chiude a maggio36 dello stesso anno (Fig. 6).

Figura 6: La mostra Il genio antipatico: Creatività e tecnologia della moda italiana 1951–1983, a cura di Pia Soli, Roma, Salone dei congressi del parcheggio al Galoppatoio di Villa Borghese, aprile-maggio 1984. © Archivio Domus/Casali
Figura 6: La mostra Il genio antipatico: Creatività e tecnologia della moda italiana 1951–1983, a cura di Pia Soli, Roma, Salone dei congressi del parcheggio al Galoppatoio di Villa Borghese, aprile-maggio 1984. © Archivio Domus/Casali

Il progetto era profondamente collegato al sistema della moda: infatti il comitato d’onore è composto principalmente da figure interne al sistema della moda, da Anna Venturini Fendi, a Giancarlo Giammetti, a Beppe Modenese, a Marco Rivetti, a Santo Versace.

Sulla copertina del catalogo il titolo viene significativamente trattato come un logo: “il genio” è una scritta in corsivo composta da un filo che si infila in un ago, mentre la parola “antipatico” si impone con un maiuscolo in grassetto. Il titolo è accompagnato dal simbolo che indica il maschio registrato. Siamo evidentemente nella dimensione della moda, del valore della firma, del marchio, unico e allo stesso tempo riproducibile. Non a caso il logo in copertina compare duplicato, sia a colori, sia in bianco e nero.37 Perché genio, perché antipatico è il testo introduttivo di Pia Soli, che con piglio giornalistico chiarisce che la mostra è una galleria dei personaggi che hanno fatto grande la moda italiana, proprio perché hanno saputo esercitare un genio che va al di là del singolo oggetto, confermandosi nel tempo, collezione dopo collezione.

Il genio della moda costretto, ma anche volenteroso di cambiare a ogni stagione, è prepotente, antipatico, condizionante, trasformista. […] La moda sta molto bene nel carattere dell’italiano perché è individualista e capace di vedere soluzioni sempre diverse e uniche rispetto a quelli che si inquadrano facilmente nei gruppi e spesso dicono che «è impossibile».38

La genialità è quella presente nel cambiamento continuo necessario per affermarsi, l’antipatia è quella generata dalla megalomania dei sarti e degli stilisti. Il testo è su due pagine, veloce, rapido, ed esprime in modo chiaro che l’approccio non intende presentarsi come scientifico, ma piuttosto come il progetto di una giornalista che celebra la moda italiana attraverso i suoi protagonisti, che sono sarti e stilisti. Anche se la parola tecnologia compare nel sottotitolo, non c’è traccia dell’industria della moda nella galleria di nomi selezionati. L’operazione è doppiamente agiografica: da un lato nei confronti dei designer; dall’altro, nei confronti della giornalista di moda che ha assistito alla parabola personale e professionale delle figure che racconta, e che ora le celebra fissandole in modo indelebile nella memoria collettiva attraverso una mostra e un catalogo. Nonostante questo, per i ricchissimi materiali fotografici presentati nel catalogo, e per le schede dedicate a ogni nome in mostra (redatte da giornaliste come Silvana Bernasconi e Gisella Borioli, da stilisti come Angelo Tarlazzi, o disegnatori come Elio Costanzi), questo libro rappresenta da sempre un riferimento imprescindibile per ricostruire la storia della moda italiana, nonostante il linguaggio a volte iperbolico. Il genio antipatico è possibile grazie alla prossimità della giornalista al sistema della moda, alla conoscenza diretta di sarti, modelle, fotografi, disegnatori, stilisti: protagonista del progetto sono la sensibilità e lo sguardo dell’insider.

Non stupisce quindi che Adriana Mulassano, sul Corriere della Sera, riveli in qualche modo questo meccanismo, da giornalista che riconosce (e smaschera) un’altra giornalista.39 Pur riconoscendo l’importanza dell’operazione (più di duecento abiti per raccontare la moda italiana dagli anni cinquanta ai primi anni ottanta, principalmente provenienti da archivi di case di moda e da collezioni private), Mulassano non condivide l’operazione celebrativa che esalta la “firma” a scapito della cronologia: la mostra è una sequenza di diorami dedicati ai nomi40 dei sarti e degli stilisti selezionati,41 che presentano gruppi di manichini in relazione fra loro. Dominano i nomi delle socialite e delle aristocratiche che hanno prestato (e indossato) i capi: Marta Marzotto per Lancetti; Lee Radziwill per Mila Schön; Jackie Kennedy, Sophia Loren, Audrey Hepburn per Valentino. L’approccio secondo Mulassano è quello di una cronista che vuole esaltare la dimensione mondana: in questo modo sembra venire meno una riflessione sul peso che il settore tessile, moda e abbigliamento ricopre nell’economia italiana, e anche sul fatto che ormai la moda, soprattutto quella italiana, negli anni ottanta non è più un fatto elitario, ma una costante che appartiene alla quotidianità. Le stesse didascalie per Mulassano sono povere di informazioni, e monumentalizzano in modo eccessivo il prestatore e la dimensione della celebrità, a scapito degli effettivi progressi fatti dalla moda italiana. La mostra in sostanza penalizzerebbe gli stilisti degli anni ottanta, e Mulassano avrebbe voluto vedere non tanto una sequenza di bei vestiti realizzati per le celebrities, quanto piuttosto “il processo di costruzione dei miti attraverso la documentazione del loro lavoro”.42

La mostra ha avuto un successo confermato dalle tappe successive all’allestimento romano. Prima a Genova, dall’11 dicembre 1984 al 12 gennaio 1985; poi, con il titolo Italia: The Genius of Fashion, alle Galleries del Fashion Institute of Technology di New York dal 5 novembre 1985 al 4 gennaio 1986;43 poi, ancora una volta in Italia, alla Fiera di Milano, nell’aprile 1986 con il titolo Italia: Il genio della moda. Nella sua presentazione della tappa al Fashion Institute of Technology sulle pagine del New York Times, Anne-Marie Schiro apprezza l’idea curatoriale di costruire diorami privilegiando i singoli sarti e i singoli stilisti rispetto a un criterio cronologico immediatamente più collettivo, e valorizza la scelta di utilizzare manichini stilizzati (senza tratti del volto e senza acconciature) e sfondi che si limitano ad accennare i paesaggi italiani di Roma e Milano, per dare la giusta enfasi ai capi selezionati.

Anche se è molto difficile recuperare immagini dell’allestimento di questa mostra, due piccole fotografie sono pubblicate sul numero di Domus del luglio–agosto 1984 e accompagnano un breve testo di presentazione redatto da Maria Pia Bobbioni a proposito della tappa romana (Figg. 7 e 8).

Figura 7: La mostra Il genio antipatico: Creatività e tecnologia della moda italiana 1951–1983, a cura di Pia Soli, Roma, Salone dei congressi del parcheggio al Galoppatoio di Villa Borghese, aprile–maggio 1984. © Archivio Domus/Casali
Figura 7: La mostra Il genio antipatico: Creatività e tecnologia della moda italiana 1951–1983, a cura di Pia Soli, Roma, Salone dei congressi del parcheggio al Galoppatoio di Villa Borghese, aprile–maggio 1984. © Archivio Domus/Casali
Figura 8: La mostra Il genio antipatico: Creatività e tecnologia della moda italiana 1951–1983, a cura di Pia Soli, Roma, Salone dei congressi del parcheggio al Galoppatoio di Villa Borghese, aprile–maggio 1984. © Archivio Domus/Casali
Figura 8: La mostra Il genio antipatico: Creatività e tecnologia della moda italiana 1951–1983, a cura di Pia Soli, Roma, Salone dei congressi del parcheggio al Galoppatoio di Villa Borghese, aprile–maggio 1984. © Archivio Domus/Casali

Dall’archivio della rivista sono emerse poi altre quattro immagini che restituiscono alcuni momenti dell’allestimento e che confermano lo stile allestitivo scelto anche per le Galleries del Fashion Institute of Technology, rarefatto ma sufficientemente teatrale44 per evocare immediatamente un’interpretazione della moda in mostra che risente dell’attitudine da giornalista di Pia Soli. Certamente non un allestimento che intendeva restituire i meccanismi del sistema produttivo o gli elementi che definiscono il progetto del designer, quanto piuttosto le atmosfere che accompagnano la costruzione del mito del creatore, e che alimentano gli immaginari che associamo al sistema della moda.45 In questo senso, il progetto di Pia Soli si avvicina moltissimo alle modalità allestive agiografiche che Diana Vreeland46 stava sperimentando (e trasformando in un marchio di fabbrica, anche per molte mostre di moda che sarebbero venute dopo di lei) al Costume Institute del Metropolitan Museum di New York.

Celebritá o designer

Meno di un anno prima del progetto di Pia Soli, al Costume Institute del Metropolitan Museum of Art di New York viene inaugurata la mostra Yves Saint Laurent. Twenty-five years of design curata da Diana Vreeland e aperta dal 14 dicembre 1983 al 2 settembre 1984.

This is the first exhibition the Costume Institute at The Metropolitan Museum of Art has dedicated to the work of a living designer. Why Yves Saint Laurent? Because he is a genius, because he knows everything about women. He lives in a world of artistry, in the sensual life of France, which is still the fashion center of the world.47

Ricorre anche in questo progetto il tema del genio, evocato nelle parole che Vreeland affida all’introduzione del catalogo e che appare così come la ragione principale dietro al progetto espositivo. Le immagini dell’allestimento testimoniano una celebrazione di Saint Laurent attraverso una spettacolarizzazione del suo lavoro, una modalità agiografica non lontana dalla sensibilità di un fashion editor come Vreeland, che voleva evidenziare la capacità di Saint Laurent di imporre ancora il sogno e gli eccessi della couture in un decennio dominato dal modello produttivo e di consumo del prêt-à-porter. Lo stile di Saint Laurent coincideva con il gusto di Vreeland per lo stravagante, il ricercato, lo spettacolare.

L’immaginazione editoriale della Vreeland, quindi, dominava la mostra, che si configurava principalmente come una sequenza di conversation piece fra manichini, non avvicinati per ragioni cronologiche, ma principalmente sulla base di suggestioni cromatiche e di temi (Fig. 9), come l’evocazione di un altrove esotico creato attraverso riferimenti a un’idea del Marocco o della Russia.

Figura 9: La mostra Yves Saint Laurent: Twenty-five years of design, a cura di Diana Vreeland, New York, The Metropolitan Museum of Art, The Costume Institute, 14 dicembre 1983–2 settembre 1984. © 2019 The Metropolitan Museum of Art/Art Resource/Scala, Firenze
Figura 9: La mostra Yves Saint Laurent: Twenty-five years of design, a cura di Diana Vreeland, New York, The Metropolitan Museum of Art, The Costume Institute, 14 dicembre 1983–2 settembre 1984. © 2019 The Metropolitan Museum of Art/Art Resource/Scala, Firenze

Al centro di una delle sale, un tempio viola evocava un’immaginaria corte africana, come in un film hollywoodiano: la collezione della primavera/estate 1967 in rafia e perline in legno colorato era sorvegliata da un manichino adagiato ai piedi del tempio, con indosso un abito in crêpe satin stampato con motivo leopardato della collezione autunno/inverno 1982–83 (Fig. 10).

Figura 10: La mostra Yves Saint Laurent: Twenty-five years of design, a cura di Diana Vreeland, New York, The Metropolitan Museum of Art, The Costume Institute, 14 dicembre 1983–2 settembre 1984. © 2019 The Metropolitan Museum of Art/Art Resource/Scala, Firenze
Figura 10: La mostra Yves Saint Laurent: Twenty-five years of design, a cura di Diana Vreeland, New York, The Metropolitan Museum of Art, The Costume Institute, 14 dicembre 1983–2 settembre 1984. © 2019 The Metropolitan Museum of Art/Art Resource/Scala, Firenze

Anche nel catalogo è un gusto decisamente teatrale a condurre il lettore attraverso le pagine, esattamente come accadeva al visitatore della mostra. Gli abiti di Saint Laurent sono fotografati da Duane Michals in set costruiti attraverso l’utilizzo di tela grezza, per enfatizzare le operazioni di styling sui manichini, e costruire scenari che, utilizzando i materiali connessi alla creazione degli abiti, alludevano ai drappeggi delle scenografie teatrali e dei palcoscenici. Gli abiti sono fotografati nelle pose che ritroviamo poi nel percorso della mostra.48 In sostanza, il catalogo intendeva amplificare le azioni allestitive messe in scena da Vreeland nel museo.

Certamente si tratta di scelte controverse, come non manca di sottolineare anche la stampa dell’epoca, rilevando una mancanza di logica nell’allestimento a favore della spettacolarizzazione,49 che rendeva arduo rintracciare in modo chiaro gli elementi della carriera di Saint Laurent. Eppure una delle vetrine era dedicata a un elemento del progetto del couturier: una sequenza di giacche esposte su busti a scomparsa si configurava come uno statement sul grande contributo di Saint Laurent alla moda del ventesimo secolo, ovvero la sua capacità di lavorare sull’evoluzione delle proporzioni nella costruzione sartoriale che aveva definito e stava definendo la donna contemporanea. Non mancava quindi un’attenzione a elementi specifici del progetto di moda, anche se questo aspetto tendeva a perdersi nel percorso complessivo. In sostanza, Vreeland ha anche inaugurato soluzioni allestitive inedite.

Come ricorda Judith Clark, la scelta di esporre su sagome piatte gli abiti Mondrian della celebre collezione dell’autunno/inverno 1965–66 a fianco di un quadro di Mondrian ha rappresentato probabilmente il primo tentativo di mettere in relazione moda e arte attraverso la tridimensionalità dell’allestimento (Fig. 11).50

Figura 11: La mostra Yves Saint Laurent: Twenty-five years of design, a cura di Diana Vreeland, New York, The Metropolitan Museum of Art, The Costume Institute, 14 dicembre 1983–2 settembre 1984. © 2019 The Metropolitan Museum of Art/Art Resource/Scala, Firenze
Figura 11: La mostra Yves Saint Laurent: Twenty-five years of design, a cura di Diana Vreeland, New York, The Metropolitan Museum of Art, The Costume Institute, 14 dicembre 1983–2 settembre 1984. © 2019 The Metropolitan Museum of Art/Art Resource/Scala, Firenze

E se Clark nella sua analisi del lavoro di Vreeland parla – con il punto di vista dell’exhibition-maker – di “re-styling” della storia, Robert Storr nel 1987 accusava Vreeland di Unmaking History, dal titolo del suo articolo apparso su “Art in America”: per Storr la retrospettiva dedicata a un designer vivente ancora in attività era un’operazione assimilabile al concedere gli spazi del Costume Institute alla General Motors, per mettere in mostra delle Cadillac.51 Nel 1986 Debora Silverman, in un libro dedicato proprio a questi aspetti, ha parlato di selling culture a proposito del lavoro di Vreeland, collocando il suo periodo al Metropolitan nell’orizzonte della “nuova aristocrazia del gusto nell’era reaganiana”.52 Secondo Silverman azioni come questa mostra si configuravano come un “literal mirror held up to the affluent stratum of the 1980s society”.53

Vreeland, controversa, mediatica, dittatoriale, ha però riconosciuto alla moda contemporanea, in tutte le sue manifestazioni, un ruolo centrale come chiave d’accesso alla comprensione della cultura contemporanea, nella sua accezione più ampia e complessa allo stesso tempo. Richard Martin e Harold Koda54 nel ricordare la sequenza di mostre curate da Vreeland al Costume Institute insistono nel sottolineare che pur nel progetto di spettacolarizzazione della moda in mostra, non mancavano tentativi di sottolineare la dimensione progettuale della moda, attraverso un’attenzione specifica alla definizione di quegli elementi che definiscono gli abiti e la loro storia sartoriale.55 Nel lavoro di Vreeland al Costume Institute, il fashion curating iniziava, con alcuni gesti accennati sicuramente da sviluppare, a essere inteso come pratica che poteva coniugare elementi spettacolari, più immediatamente connessi con la cultura visuale e gli immaginari che appartengono alla moda, alla riflessione culturale (Fig. 12).

Figura 12: La mostra Yves Saint Laurent: Twenty-five years of design, a cura di Diana Vreeland, New York, The Metropolitan Museum of Art, The Costume Institute, 14 dicembre 1983–2 settembre 1984. © 2019 The Metropolitan Museum of Art/Art Resource/Scala, Firenze
Figura 12: La mostra Yves Saint Laurent: Twenty-five years of design, a cura di Diana Vreeland, New York, The Metropolitan Museum of Art, The Costume Institute, 14 dicembre 1983–2 settembre 1984. © 2019 The Metropolitan Museum of Art/Art Resource/Scala, Firenze

È evidente che nel corso degli anni ottanta le mostre di moda che stiamo considerando affrontano problemi che si intrecciano direttamente alla definizione di questa disciplina, aspetto che ovviamente influenza la scelta di cosa collezionare in un museo a essa dedicato. Le mostre non si limitavano più ad allestire tableaux che ricostruivano scene di vita quotidiana, mostrando l’utilizzo degli abiti, e simultaneamente si assiste al tentativo di superare la messa in scena di fantasiose narrazioni da fashion editor. La riflessione sulla progettazione della moda e sugli elementi che compongono il processo di messa a punto dell’abito stava diventando una questione centrale per le mostre.

Nel 1982, la mostra Intimate Architecture: Contemporary Clothing Design curata da Susan Sidlauskas e allestita alla Hayden Gallery del MIT (Massachusetts Institute of Technology) – il centro per le arti visive fondato nel 1950 e attualmente noto come List Visual Arts Center – affrontava la moda contemporanea con un atteggiamento non lontano dallo spirito con cui nel 1944 l’architetto e designer Bernard Rudofsky aveva curato al MOMA (Museum of Modern Art) di New York la mostra Are Clothes Modern?, un tentativo molto elaborato di teorizzazione sulla natura del fashion design, interessante proprio perché affrontava il rapporto fra abito, design della moda e corpo. Il progetto di Rudofsky si può considerare probabilmente una delle prime e più raffinate mostre di moda, non perché non fossero ancora state realizzate mostre con abiti su manichini, ma perché il display era prima di tutto strumento per riflettere sullo statuto teorico della moda.56 Il titolo della mostra di Sidlauskas alludeva all’abito come architettura più prossima al corpo e insiste sulla dimensione progettuale piuttosto che evocare i cosiddetti capricci della moda. Non a caso nel catalogo57 le qualità formali e scultoree degli oggetti progettati dai designer selezionati (Giorgio Armani, Gianfranco Ferré, Krizia, Stephen Manniello, Issey Miyake, Claude Montana, Ronaldus Shamask, Yeohlee Teng) erano fissate dagli scatti di Robert Mapplethorpe sul corpo di Lisa Lyon (Fig. 13).

Figura 13: Lisa Lyon con un ensemble di Issey Miyake. Foto Robert Mapplethorpe. Pagina da Intimate architecture: Contemporary Clothing Design, a cura di Susan Sidlauskas, catalogo della mostra (Cambridge Mass., Hayden Gallery MIT, 15 maggio–27 giugno 1982). Cambridge Mass.: MIT, 1982
Figura 13: Lisa Lyon con un ensemble di Issey Miyake. Foto Robert Mapplethorpe. Pagina da Intimate architecture: Contemporary Clothing Design, a cura di Susan Sidlauskas, catalogo della mostra (Cambridge Mass., Hayden Gallery MIT, 15 maggio–27 giugno 1982). Cambridge Mass.: MIT, 1982

In mostre gli oggetti scelti erano esposti in sequenze che enfatizzano gli aspetti costruttivi, su busti privi di testa, rinunciando così al manichino, alle sue pose e all’automatica associazione con le atmosfere editoriali praticate dalla fotografia di moda.58

In Italia, il decennio ottanta si chiude con una retrospettiva che per molte ragioni dialoga con entrambe queste esperienze americane del 1982 e del 1983, curate rispettivamente da Sidlauskas e da Vreeland. Nel 1989, la mostra Gianni Versace: L’abito per pensare, allestita al Castello Sforzesco di Milano dal 14 aprile al 21 maggio 1989 su progetto di Nicoletta Bocca con la collaborazione di Chiara Buss, analizzava il processo creativo dello stilista italiano, soffermandosi sulla definizione degli elementi stilistici e sulla sperimentazione nei materiali. Le due retrospettive dedicata a Saint Laurent e a Versace sono utili proprio per mettere in evidenza sia le intenzioni dietro al progetto espositivo, sia il sempre evidente problema del rapporto fra operazione culturale e operazione commerciale. La critica che ha maggiormente segnato la mostra di Vreeland al Metropolitan è sicuramente quella di commercializzazione di uno spazio museale, probabilmente perché l’elemento dominante appariva essere una spettacolarizzazione fra servizio di moda e vetrina commerciale, non visibilmente sostenuta da un’indagine sui processi di lavoro del couturier francese. Quello che indubbiamente il progetto dedicato a Versace evidenzia è invece un’accuratezza estrema nell’identificare gli elementi del suo progetto di moda.

Per esempio, il catalogo della mostra dedicata a Saint Laurent si trasforma rapidamente in un luogo dove il creatore geniale viene celebrato da muse come Paola Picasso, Marella Agnelli, Catherine Deneuve, che intervengono amplificando la relazione della moda con la celebrity culture (che sembra diventare così la ragione della rilevanza del couturier). In confronto, il catalogo Gianni Versace: L’abito per pensare ancora oggi rimane un esempio, quasi insuperato, di straordinario approfondimento nelle pieghe del progetto di moda di un designer, che univa l’attenzione agli abiti, la schedatura del tessile, la riflessione sugli immaginari attraverso i contributi di Omar Calabrese e di Enrica Morini. Coinvolgeva direttamente lo stilista e il suo staff, affrontando così la moda contemporanea nel confronto con i suoi protagonisti. Era, ancora una volta, un evento patrocinato dal Comune di Milano, sempre nell’ottica di favorire i presupposti per un museo della moda milanese. Nel comitato scientifico troviamo nomi che abbiamo evocato più volte nel corso di questo saggio: Cristina Aschengreen Piacenti, Grazietta Butazzi, Alessandra Mottola Molfino.59

La mostra60 era allestita su progetto dell’architetto Gianfranco Cavaglià con le luci di Piero Castiglioni nella Sala della Balla61 al primo piano del Castello Sforzesco. Sul Corriere della Sera Laura Dubini parla di “chiarezza didascalica” del percorso espositivo, equiparato a quello di una monografica dedicata a un artista, perché il visitatore poteva cogliere i tratti specifici dello stile Versace: dal drappeggio, alle asimmetrie, ai materiali tecnologici, al desiderio di eccesso neobarocco.62 La sala era scandita da una struttura architettonica che utilizzava pannelli tagliati obliquamente rispetto al pavimento (un’allusione alla metà della lettera “V”) che ritagliavano nello spazio una serie di nicchie, dedicate alle collezioni (rappresentate sinteticamente da tre pezzi) e suddivise secondo i temi nei quali la mostra era articolata (Fig. 14).

Figura 14: La mostra Gianni Versace: L’abito per pensare, a cura di Nicoletta Bocca con la collaborazione di Chiara Buss, Milano, Castello Sforzesco,14 aprile-21 maggio 1989. Foto Beppe Caggi. Courtesy Archivio Versace
Figura 14: La mostra Gianni Versace: L’abito per pensare, a cura di Nicoletta Bocca con la collaborazione di Chiara Buss, Milano, Castello Sforzesco,14 aprile-21 maggio 1989. Foto Beppe Caggi. Courtesy Archivio Versace

Significativamente, il progetto diventa anche l’occasione per sviluppare una riflessione sul manichino nello spazio dell’allestimento museale, e la ditta La Rosa realizza il modello Tosca, ispirato ai busti di tradizione classica e messo a punto appositamente per Gianni Versace e per la retrospettiva a lui dedicata.

La mostra e il catalogo erano profondamente connessi, come ricorda anche Alessandra Mottola Molfino. Nella sua introduzione63 sottolinea l’importanza e le istanze innovative di un progetto che all’analisi storico-critica della moda di Versace associa anche lo studio e la catalogazione degli oggetti secondo le modalità più tradizionali delle arti decorative. Mostra e catalogo procedono parallelamente per temi e problemi, per analizzare il lavoro di Versace e decodificarne l’alfabeto stilistico (Fig. 15).

Figura 15: La mostra Gianni Versace: L’abito per pensare, a cura di Nicoletta Bocca con la collaborazione di Chiara Buss, Milano, Castello Sforzesco,14 aprile-21 maggio 1989. Foto Beppe Caggi. Courtesy Archivio Versace
Figura 15: La mostra Gianni Versace: L’abito per pensare, a cura di Nicoletta Bocca con la collaborazione di Chiara Buss, Milano, Castello Sforzesco,14 aprile-21 maggio 1989. Foto Beppe Caggi. Courtesy Archivio Versace

Le prime due sezioni della mostra affrontavano le origini e le prime esperienze nel prêt-à-porter degli anni settanta, avvicinando agli abiti disegni tecnici e immagini dalle sfilate e dalle campagne pubblicitarie. Poi si proseguiva con una sezione dedicata all’esperienza di Versace con i costumi teatrali. Le due sezioni centrali erano poi dedicate ai materiali (lavorazioni, sperimentazioni, utilizzi) e alla forma del progetto (disegno, prototipia e industrializzazione, costruzione dell’immagine pubblicitaria). La conclusione della mostra era la messa in scena dell’alfabeto stilistico di Versace (dal drappeggio, al confronto fra femminile e maschile, al rinnovo della tradizione) inteso come strumento per leggere il design dell’abito, e dei riferimenti culturali riattivati dallo stilista nel suo progetto (dall’arte, alla storia del costume,64 ai riferimenti all’esotismo).

Un progetto molto articolato, che aveva generato, nella collaborazione attiva con lo staff dello stilista, un’attenta operazione di schedatura65 e descrizione dei materiali e degli oggetti selezionati. Guido Vergani, nel suo articolo per La Repubblica in cui recensisce la mostra dopo l’inaugurazione, mette esplicitamente in relazione questa retrospettiva con quella realizzata da Vreeland e dedicata a Saint Laurent, riconoscendo al progetto milanese una volontà di approfondimento analitico del progetto dello stilista italiano che mancava alla spettacolare rassegna newyorkese.66 E non a caso Gillo Dorfles, nella postfazione al catalogo, sottolinea che la mostra “ci pone ancora una volta di fronte al problema di come debba essere collocata e considerata la moda nell’ambito d’un più ampio orizzonte culturale”.67

Conclusioni, quasi quarant’anni dopo

Il saggio si muove idealmente fra due esperienze italiane che si pongono ai due estremi del decennio in esame, gli anni ottanta: fra 1922–1943: Vent’anni di moda italiana del 1980 e Gianni Versace: L’abito per pensare del 1989 è racchiuso un dibattito sul fare mostre di moda che ancora oggi è rilevante non solo a livello italiano, ma a livello internazionale. Si tratta infatti di mostre che si sono confrontate direttamente con la moda contemporanea, con i problemi di esporla rendendola rilevante per il visitatore, e allo stesso tempo riconoscendole lo statuto di oggetto culturale da collezionare. Sono progetti che non solo interrogano il dispositivo mostra, ma anche il fare espositivo nel suo rapporto con le azioni necessarie a immaginare cosa un museo della moda debba conservare e quali professionalità debba formare, per arrivare a contribuire alla definizione di una disciplina così intrinsecamente connessa alla contemporaneità e alla dimensione commerciale. Sono mostre che ancora oggi sono rilevanti nel panorama italiano, che deve ancora fare compiutamente i conti con l’assenza di un progetto museale in grado di confrontarsi con le situazioni internazionali più qualificate.

Sono mostre che evidenziano anche come il dibattito ancora oggi oscilli fra due termini: conservatore e curatore. Da un lato un professionista che studia e restaura l’oggetto, e che nello studiarlo individua anche le modalità più efficaci per esporlo e riportarlo così in vita; dall’altro, una figura che si muove con più libertà, utilizzando il progetto allestitivo per sviluppare un ragionamento, spesso a prescindere dalla materialità degli oggetti che intende esporre. Il conservatore appare così maggiormente connesso alla dimensione dell’archivio e della conservazione museale, mentre il curatore più concentrato sul progetto espositivo. Se, come ricordava Pertegato, la mostra del 1980 al Poldi Pezzoli contribuisce a precisare il terzetto che vede direttore, conservatore e restauratore al lavoro in una prospettiva museale, la mostra del 1989, nel dialogo aperto con lo stilista che celebra, Gianni Versace, si muove alla ricerca di un linguaggio più contemporaneo per esporre la moda, senza trascurare l’accuratezza dell’analisi storico-critica e lo studio della materialità degli oggetti e di quegli elementi in grado di definire il fare moda come fare progettuale. Quest’ultimo progetto, anche nel modo in cui fa dialogare catalogo e allestimento, è un esempio ancora oggi di un modo di fare mostre che, con l’obiettivo di svolgere una riflessione culturale il più articolata possibile, cerca di tenere insieme le ricerca museale e accademica con l’universo professionale e commerciale che definisce il sistema moda (e che non può essere trascurato).

Il confronto con le altre quattro esperienze espositive scelte si è rivelato utile non solo per individuare altre tipologie di mostra, ma anche per chiarire che nel decennio preso in esame le mostre si sono interrogate sullo statuto disciplinare della moda, nel suo confronto con arte e design industriale, e nella ricerca della moda come progetto e non semplicemente come fatto comunicativo immateriale, protagonista principale della cultura dell’immagine. Si tratta solo di alcune delle mostre realizzate negli anni ottanta, e ovviamente avremmo potuto sceglierne altre per condurre questa riflessione, anche se abbiamo ritenuto quelle individuate più emblematiche ai fini del ragionamento svolto.

Queste esperienze, infatti, ci ricordano come lo sguardo del giornalista e del fashion editor sia stato considerato nel tempo, molto spesso, il modo più efficace per informare il gesto espositivo, in virtù della prossimità professionale con il sistema moda. In questo senso, il museo e lo studioso dovrebbero cercare una collaborazione attiva con queste figure, per immaginare mostre in grado di essere precise scientificamente, e allo stesso tempo spettacolari, per evocare la forza immaginativa del linguaggio della moda. Oggi è evidente che le attitudini del fashion editor e del curatore possono intrecciarsi, e queste figure a volte possono anche coincidere, proprio in virtù del modo in cui leggono, interpretano e, a volte, fanno la moda.

Mantenendo uno sguardo privilegiato alla situazione italiana, possiamo riconoscere che indubbiamente negli ultimi decenni le cose sono cambiate: alcune esperienze espositive in Italia, come quelle promosse dalla Fondazione Pitti Discovery a Firenze nei primi anni duemila, hanno proposto mostre in grado di restituire le forme della moda contemporanea, attraverso progetti allestitivi sofisticati e profondamente innovativi, perché in grado di tenere insieme gli elementi che definiscono la moda. Pensiamo per esempio alla mostra Excess. Moda e underground negli anni 80 curata nel 2004 da Maria Luisa Frisa e Stefano Tonchi,68 che ha affrontato il decennio oggetto di questo saggio e in generale di tutto il corrente numero di questa rivista, cercando di mettere in relazione moda, fotografia, musica, performance, arte, architettura, attraverso un progetto allestitivo che utilizzava il dispositivo del container negli spazi della Stazione Leopolda, per articolare i temi individuati come centrali per il decennio. Allo stesso tempo, in Italia, il dibattito attorno al museo della moda, che periodicamente viene rispolverato perché di fatto si tratta di un’istituzione largamente latitante, chiarisce perché ancora oggi è difficile immaginare un dialogo proficuo fra curatori, conservatori, fashion editor, giornalisti, e i professionisti del sistema della moda che preferiscono molto spesso rivolgersi ai grandi musei internazionali.

Bibliografia

XVI Triennale: Il senso della moda. s.l.: s.n., 1979.

Aschengreen Piacenti, Kirsten e Sandra Pinto. A cura di. Curiosità di una reggia: Vicende della guardaroba di Palazzo Pitti. Catalogo della mostra, Firenze, Palazzo Pitti, gennaio–settembre 1979. Firenze: Centro Di, 1979.

Atti della conferenza internazionale «Per un Museo della Moda»: 27 marzo 1981. s.l.: s.n., 1981.

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Zipoli, Alessio. “Affermare la coscienza del tempo. Prato e la genesi del Centro per l'arte contemporanea Luigi Pecci”. Prato Storia e Arte, no. 116 (2014).


  1. La mostra viene poi prorogata fino al 31 marzo 1981, anche per intercettare il pubblico delle sfilate milanesi di prêt-à-porter.

  2. Gian Alberto Dell’Acqua, “Presentazione”, in 1922–1943: Vent’anni di moda italiana, a cura di Grazietta Butazzi, catalogo della mostra, Milano, Museo Poldi Pezzoli, 5 dicembre 1980–25 marzo 1981 (Firenze: Centro Di, 1980), 9.

  3. The World of Balenciaga, a cura di Diana Vreeland, New York, Costume Institute of the Metropolitan Museum of Art, 23 marzo–9 settembre 1973.

  4. Si veda a questo proposito il dettagliato saggio di Marialuisa Rizzini, “Grazietta Butazzi. Le origini di un metodo”, in Moda Arte Storia Società. Omaggio a Grazietta Butazzi, a cura di Enrica Morini, Marialuisa Rizzini, Margherita Rosina, atti del convegno (Como: Nodo Libri, 2016), 13–32.

  5. In particolare quella di cui si stava occupando – seguendone la catalogazione – presso le Civiche raccolte d’arte applicata del Castello Sforzesco di Milano; in mostra erano presenti anche materiali provenienti dal Vittoriale di Gardone Riviera e dal Centro internazionale delle arti e del costume di Venezia.

  6. Si ringraziano il Museo Poldi Pezzoli e la dottoressa Martina Franzini dell’Ufficio Conservatori per l’accesso alla documentazione relativa alla mostra conservata in cinque faldoni depositati nell’archivio del museo.

  7. Il Museo Poldi Pezzoli è una casa privata che viene trasformata in museo alla fine del diciannovesimo secolo su indicazione del proprietario Gian Giacomo Poldi Pezzoli, che la lascia – insieme alla collezione di opere d’arte – alla Pinacoteca di Brera.

  8. Lettera del 14 ottobre 1980 conservata nel primo dei cinque faldoni depositati presso l’archivio del Museo Poldi Pezzoli.

  9. Conversazione via e-mail con Alessandra Mottola Molfino dell’1 febbraio 2019.

  10. Fondato nel 1978 su finanziamento della Wacoal Corporation in collaborazione con il Costume Institute del Metropolitan Museum di New York. I primi manichini specificamente pensati per il costume storico vengono sviluppati sempre in collaborazione con il Costume Institute di New York nel 1978. Si veda https://www.kci.or.jp/en/profile/, ultimo accesso 10 febbraio 2019.

  11. Kirsten Aschengreen Piacenti e Sandra Pinto, a cura di, Curiosità di una reggia: Vicende della guardaroba di Palazzo Pitti, catalogo della mostra, Firenze, Palazzo Pitti, gennaio–settembre 1979 (Firenze: Centro Di, 1979).

  12. Francesco Pertegato, conversazione via e-mail con l’autore, 2 febbraio 2019.

  13. “Ricordo che a un abito di organza di seta ricamato con perline (quindi pesante) si rinforzarono le spalline con calze maschili comprate alla Upim, perfette per la morbidezza, la resistenza e il colore.” (Francesco Pertegato, conversazione via e-mail con l’autore, 2 febbraio 2019).

  14. Una collaborazione “fondamentale soprattutto nel caso degli abiti che, come ricordava spesso Grazietta, sono, per loro natura, degli oggetti dinamici che mal sopportano di essere imbalsamati.” (Francesco Pertegato, conversazione via e-mail con l’autore, 2 febbraio 2019).

  15. Cfr. Atti della conferenza internazionale «Per un Museo della Moda»: 27 marzo 1981 (S.l.: s.n., 1981).

  16. Il Cisst (Centro italiano per lo studio della storia del tessuto) nasce nel 1978 per volontà di un gruppo di storici italiani con lo scopo di favorire e coordinare le ricerche per gli studi sulla storia e la conservazione del patrimonio tessile italiano, e di conseguenza anche su costume, moda, ricami, merletti, arazzi. Mottola Molfino è primo presidente del Cisst.

  17. Cfr. XVI Triennale: Il senso della moda (S.l.: s.n., 1979). La XVI Triennale di Milano si tiene dal dicembre 1979 al febbraio 1982.

  18. Per un dettagliato approfondimento sullo Csac e la sua ricerca sulla moda si veda il recente contributo di Elena Fava e Manuela Soldi, “Moda media storia. La ricerca di moda allo Csac”, in Laboratorio Italia. Canoni e contraddizioni del Made in Italy, a cura di Malvina Borgherini, Sara Marini, Angela Mengoni, Annalisa Sacchi e Alessandra Vaccari (Milano: Mimesis, 2018), 174–89.

  19. Alessandro Mendini, “Musei della moda? Considerazioni teoriche a proposito di un museo della moda per Milano”, in Domus Moda, no. 2, allegato a Domus, no. 621 (ottobre 1981), 1.

  20. Molte delle informazioni recuperate per analizzare Conseguenze impreviste sono state ricavate dalla consultazione della rassegna stampa conservata nella biblioteca CID/Arti Visive presso il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato. Si ringrazia in particolare Viola Casaglieri per l’assistenza.

  21. Dato il successo, la mostra viene prorogata fino al 20 marzo 1983.

  22. Giampiero Nigro, “Introduzione”, in Conseguenze impreviste. Arte, moda, design: ipotesi di nuove creatività in Italia, catalogo della mostra, Prato, Centro storico, 18 dicembre 1982–28 febbraio 1983, Arte, vol. 1, a cura di Achille Bonito Oliva (Firenze: Electa, 1982), 9.

  23. Si vedano Giampiero Nigro, “Il Centro per l’arte contemporanea di Prato”, in Archivio, bollettino periodico del Centro di Informazione e Documentazione/Arti Visive di Prato, vol. 1, no. 0 (1985), 11–3; Alessio Zipoli, “Affermare la coscienza del tempo. Prato e la genesi del Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci”, in Prato Storia e Arte, no. 116 (2014), 49–59.

  24. Sulla copertina del cofanetto e dei tre volumi l’appendiabiti progettato da Giacomo Balla diventa simbolo della mostra, declinato nelle tre discipline.

  25. Cfr. Francesca Alinovi, “Affetti artificiali”, in Conseguenze impreviste. Arte, moda, design: ipotesi di nuove creatività in Italia, catalogo della mostra, Prato, Centro storico, 18 dicembre 1982–28 febbraio 1983, Design, vol. 3 (Firenze: Electa, 1982), 11–4.

  26. È importante segnalare che Bossaglia nel suo testo fa esplicitamente riferimento alla mostra di Butazzi organizzata al Poldi Pezzoli, alle azioni intraprese da Quintavalle allo Csac di Parma, e anche alla grande mostra Gli anni trenta: Arte e cultura in Italia organizzata a Milano dal 27 gennaio al 30 aprile 1982, che aveva una sezione specificamente dedicata alla moda, allestita a Palazzo Reale e curata da Alessandra Gnecchi Ruscone.

  27. Rossana Bossaglia, “Arte e moda: qualche riflessione”, in Conseguenze impreviste. Arte, moda, design: ipotesi di nuove creatività in Italia, catalogo della mostra, Prato, Centro storico, 18 dicembre 1982–28 febbraio 1983, Moda, vol. 23, a cura di Rossa Bossaglia (Firenze: Electa, 1982), 11.

  28. Bossaglia, 12.

  29. Uno dei rarissimi articoli con una documentazione fotografica della sezione Moda appare sulla rivista Arbiter, non a caso curato da Maria Pia Bobbioni. Cfr. “Stilista e designer a braccetto con l’artista”, a cura di Maria Pia Bobbioni, in Arbiter, vol. 56, no. 2 (marzo–aprile 1983), 152–7.

  30. Cfr. Fiorella Minervino, “I capricci del genio in vetrina a prato”, in Corriere della sera, (28 dicembre 1982), 8.

  31. Achille Bonito Oliva, “Quella immagine prestigiosa in ogni parte del mondo”, in Attualità e cultura, supplemento di Avanti! (16 gennaio 1983), 12.

  32. Anche nel catalogo, i saggi, compreso quello di Mendini, sono ritmati dai disegni del progetto di allestimento, dove emerge con chiarezza che le scenografie sono fondamentali per svolgere il ragionamento che sosteneva il progetto di collezione collettiva Oggetto naturale.

  33. In Domus, no. 637 (marzo 1983), 48–57.

  34. Fra le testate con cui ha collaborato si ricordando Il Tempo, Il Messaggero, Il Mattino.

  35. Si tratta del parcheggio sotterraneo a Villa Borghese, progettato originariamente dall’architetto Luigi Moretti e ultimato nei primi anni settanta.

  36. La data di chiusura non è facilmente identificabile, se non per una lettera rivolta ai prestatori datata 16 maggio 1984 che annuncia la restituzione dei pezzi a chiusura della mostra, conservata presso la Biblioteca Emeroteca Archivio dell’Accademia di Costume e Moda di Roma che ha ricevuto in dono da Pia Soli la sua rassegna stampa. Si ringraziano Lupo Lanzara e Claudia Pracanica dell’Accademia per il supporto durante la ricerca.

  37. Si tratta a tutti gli effetti del logo della mostra, che compare anche nell’intestazione della carta da lettere utilizzata per le comunicazioni ufficiali (conservata presso la Biblioteca Emeroteca Archivio dell’Accademia di Costume e Moda di Roma).

  38. Pia Soli, “Perché genio, perché antipatico”, in Il genio antipatico: Creatività e tecnologia della moda italiana 1951–1983, a cura di Pia Soli, catalogo della mostra, Roma, Salone dei congressi del parcheggio al Galoppatoio di Villa Borghese, aprile–maggio 1984 (Milano: Mondadori, 1984), 10.

  39. Adriana Mulassano, “La moda italiana dal Cinquanta a oggi in una grande rassegna a Villa Borghese”, in Corriere della sera (17 aprile 1984), 9.

  40. I diorami nel percorso erano individuati dal nome del marchio o dello stilista stampato in grande e applicato a terra.

  41. Giorgio Armani sceglie di non partecipare anche a questa mostra, confermando il mito del genio antipatico, come sottolinea in modo allusivo la stessa Pia Soli nella prefazione al catalogo.

  42. Mulassano, “La moda italiana dal Cinquanta a oggi”, 9.

  43. Anne-Marie Schiro, “Bravura Fashion From Italy”, in The New York Times (5 novembre 1985), 14.

  44. Una sequenza di quinte in tessuto semitrasparente ritmava lo spazio del parcheggio sotterraneo.

  45. Fra le persone coinvolte nell’allestimento anche il fashion editor e art director Nando Miglio.

  46. Prima di approdare nel 1972 al Costume Institute del Metropolitan Museum di Nek York, Vreeland è fashion editor di Harper’s Bazaar dal 1936 al 1962, e poi editor-in-chief dell’edizione americana di Vogue dal 1963 al 1971. Mi sono occupato del lavoro di Diana Vreeland in diverse occasioni. Si vedano in particolare: Judith Clark, Maria Luisa Frisa, Diana Vreeland After Diana Vreeland, catalogo della mostra, Venezia, Palazzo Fortuny, 10 marzo–26 giugno 2012 (Venezia: Marsilio, 2012); Gabriele Monti, “After Diana Vreeland: The Discipline of Fashion Curating as a Personal Grammar”, in Catwalk, vol. 2, no. 1 (2013), 63–90.

  47. Diana Vreeland, “Introduction”, in Yves Saint Laurent, catalogo della mostra, New York, Costume Institute del Metropolitan Museum of Art, 14 dicembre 1983–2 settembre 1984 (New York: Metropolitan Museum of Art-Clarkson N. Potter, 1983), 7.

  48. Ancora oggi il Musée Yves Saint Laurent a Parigi utilizza i manichini Schläppi voluti da Vreeland per questa mostra.

  49. Si veda per esempio Martha Duffy, “Toasting Saint Laurent”, in Time, (12 dicembre 1983), 96–8.

  50. Judith Clark, “Re-styling history: D.V. at the Costume Institute”, in Lisa Immordino Vreeland, Diana Vreeland: The Eye Has to Travel (New York: Abrams, 2011), 224–43.

  51. Robert Storr, “Unmaking History at the Costume Institute”, in Art in America (febbraio 1987), 15–23.

  52. Debora Silverman, Selling culture: Bloomingdale’s, Diana Vreeland, and the new aristocracy of taste in Reagan’s America (New York: Pantheon, 1986).

  53. Silverman, 82–3.

  54. Cfr. Richard Martin e Harold Koda, a cura di, Diana Vreeland: Immoderate Style, catalogo della mostra, New York, The Costume Institute at The Metropolitan Museum of Art, 9 dicembre 1993–20 marzo 1994 (New York: Metropolitan Museum of Art, 1993).

  55. Martin e Koda, 26–7.

  56. Il curatore Sidlauskas aveva ben presente il progetto di Rudofsky del 1944 e in una conversazione via e-mail ha confermato di essere riuscita a organizzare un pranzo con l’architetto e designer, utilissimo per precisare in modo più duro le idee sottese al progetto della mostra. Conversazioni via e-mail del 2 e 3 gennaio 2019.

  57. Susan Sidlauskas, a cura di, Intimate architecture: Contemporary Clothing Design, catalogo della mostra, Cambridge Mass., Hayden Gallery MIT, 15 maggio–27 giugno 1982 (Cambridge Mass.: MIT, 1982).

  58. Su questi temi Sidlauskas ritorna quando viene invitata a scrive la postfazione per il catalogo della mostra Skin + Bones. Cfr. Susan Sidlauskas, “Afterword”, in Skin + Bones: Parallel Practices in Fashion and Architecture, a cura di Brooke Hodge, catalogo della mostra, Los Angeles, Moca, 19 novembre 2006–5 marzo 2007 (New York: Thames & Hudson, 2006), 260–1.

  59. Oltre a Carlo Salsi (direttore delle Civiche raccolte di arte applicata), Nicoletta Bocca, Chiara Buss e Omar Calabrese.

  60. Mentre il catalogo è co-curato da Bocca e Buss, il progetto della mostra è di Bocca, con Buss specificamente coinvolta nella curatela della sezione dei materiali.

  61. Attualmente ospita la collezione del Museo degli Strumenti Musicali e gli arazzi Trivulzio del Museo delle Arti decorative.

  62. Laura Dubini, “Esposto al museo il «neobarocco» di Versace”, in Corriere della sera (14 aprile 1989), 12.

  63. Alessandra Mottola Molfino, “Introduzione”, in Gianni Versace: L’abito per pensare, a cura di Nicoletta Bocca e Chiara Buss, catalogo della mostra, Milano, Sala della Balla del Castello Sforzesco, 14 aprile–21 maggio 1989 (Milano: Mondadori, 1989), 13–5.

  64. Grazietta Butazzi nel catalogo interviene con il testo “Creatività e tradizione. Il rapporto con il passato,” 303–5.

  65. Significativamente Mottola Molfino si sofferma nella sua introduzione sulla schedatura dei materiali curata da Chiara Buss, che reintroduce la tradizione tessile italiana nel progetto di moda, e permette di articolare il ruolo dell’abito in mostra: non solo oggetto assoluto, ma esito di un lungo percorso progettuale.

  66. Cfr. Guido Vergani, “Anche ‘L’abito fa pensare’ se lo firma il grande stilista”, in La Repubblica, (14 aprile 1989).

  67. Gillo Dorfles, “Postfazione”, in Gianni Versace: L’abito per pensare, a cura di Nicoletta Bocca e Chiara Buss, catalogo della mostra, Milano, Sala della Balla del Castello Sforzesco, 14 aprile–21 maggio 1989 (Milano: Mondadori, 1989), 342.

  68. La mostra è allestita alla Stazione Leopolda di Firenze dall’8 gennaio all’8 febbraio 2004.