La stagione della “libera uscita”
“L'inserimento da qualche anno nel mondo di fotografi degli operatori estetici, ha contribuito ad alimentare la problematica di questo medium che si colora di inedite ambiguità e determina nuovi interrogativi sul segno fotografico”.1 Così scriveva, nel 1979, Italo Zannier in un breve testo compreso in Venezia '79 la Fotografia, il poderoso catalogo pubblicato in occasione di una monumentale iniziativa espositiva (500 fotografi coinvolti, 3500 immagini in mostra, la presenza dei più grandi maestri del Novecento: da Lewis Hine a Henri Cartier-Bresson, da Alfred Stieglitz a Diane Arbus, da Edward Weston a Robert Capa) ospitata quell'anno nella città lagunare, durante i mesi estivi. Un progetto di grandissima ambizione, voluto e sostenuto dall'Unesco, che intendeva celebrare, a 140 anni esatti dall'annuncio ufficiale dell'invenzione, la raggiunta autorevolezza artistica del mezzo e soprattutto una sorta di presunta compattezza identitaria capace di unificare, sotto un'unica etichetta, tutta la ricerca fotografica. In realtà, a dispetto del tono buonista e conciliante di Zannier, a fine anni Settanta, proprio sulla spinta di quanto prodotto dai cosiddetti operatori estetici, erano giunte a massima evidenza quella frattura e quella contrapposizione tra fotografi-puri e artisti-fotografi che aveva cominciato a delinearsi in modo limitato, quasi elitario si potrebbe dire, ma già ben evidente, fin dagli anni cruciali delle Avanguardie Storiche. Ma chi erano in effetti questi operatori estetici, e soprattutto, in che modo e lungo quali direttive avevano alimentato la “problematica” del medium fotografico? Per individuarli occorre ovviamente riportarsi al quadro complessivo della ricerca artistica degli anni Settanta che nelle sue varie articolazioni extra-pittoriche (body, land e conceptual art) aveva, a ragione, indotto la critica a una opportuna ridefinizione del ruolo autoriale, non più risolvibile, per quelle pratiche, nella tradizionale logica dell'ars/techne, così da far apparire impropria l'etichetta di artisti per chi, di fatto, non era più impegnato in “un'attività produttiva di oggetti fisici ben delimitati”.2 La fotografia aveva certo svolto un ruolo importante nelle ricerche appena descritte, dimostrandosi strumento adattissimo nel sostenere dimensioni di autorialità smaterializzate e comportamentiste. Al tempo stesso però, questi usi avevano portato al capolinea un conflitto che in qualche modo aveva accompagnato l'intera vicenda della fotografia nei suoi rapporti con l'arte, presente in nuce già nel corso del XIX secolo, fino a divenire poi evidentissimo nel Novecento, a partire appunto, come si è appena detto, dallo snodo fondamentale delle Avanguardie Storiche. Lo scontro, sintetizzato nella formula “fotografi-puri” vs “artisti fotografi” contrapponeva un uso formale del mezzo, con attenzione ai vari aspetti tecnici del linguaggio (composizione, luce, toni), e dunque finalizzato alla dimensione oggettuale dell'immagine, anzi, della bella immagine, ad un uso concettuale dello stesso, con svalutazione degli elementi appena descritti in favore di aspetti quali la memoria, il tempo, l'attestazione di presenza. Una situazione specifica, ma evidentemente scaturita dal più generale fenomeno novecentesco descritto da Gianni Vattimo nei termini di “morte o tramonto dell'arte”3 (morte dell'ars/techne in favore di un' “esplosione dell'estetica fuori dai suoi tradizionali confini”4) un processo che in ambito fotografico favorì appunto, con l'entrata in scena degli operatori estetici, un “uso della fotografia non in quanto mezzo per la realizzazione di effetti formali, ma nel suo puro e semplice significato di duplicazione”.5
Un decennio più tardi Rosalind Krauss sarebbe ritornata su questa dicotomia riformulandola, a livello teorico, nell'opposizione tra fotografia e fotografico, interpretando quest'ultimo come riflessione “sulla natura dell'indice, sulla funzione della traccia nel suo rapporto con la significazione, sulla condizione dei segni deittici”.6 È poi noto come Krauss avesse affrontato questi temi a partire dalla “sostituzione delle regole dell'indicizzazione a quelle dell'iconicità messa in opera da Duchamp”,7 così da riportare a un livello più alto e più generale, le contrapposizioni in precedenza descritte, inserendole in una catena storica fondamentale per l'arte del Novecento.
Lo scontro tra “fotografi-puri” e “artisti fotografi” che dunque si manifesta con massima evidenza a fine anni Settanta, sintetizza bene, in ambito fotografico, il più generale andamento che aveva caratterizzato la ricerca artistica in quel decennio, un andamento duro, drastico, ideologico, segnato da scelte univoche che parevano imporre schieramenti assoluti, senza nessuna ipotesi di contaminazione tra un piano e l'altro. In definitiva, essere “fotografi-puri” significava accettare in pieno la logica della pittoricità, quella di una manualità attenta e raffinata (ancora l'ars/techne per intenderci), mentre l'identificazione nella categoria dei “fotografi artisti” (gli operatori estetici evocati da Zannier) equivaleva a schierarsi su quel fronte che, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, aveva rifiutato, se non addirittura dichiarato guerra, ai tradizionali strumenti della pittura. Una vicenda dunque emblematica, che suggerisce di ripensare in maniera più articolata e meno semplicistica la questione mediale che, proprio sulla scorta di quanto appena evidenziato, non può essere unificata e blindata su un solo fronte, riproponendo di fatto, al proprio interno, l'opposizione epocale tra via pittorica e via concettuale. Insomma, non basta dire “fotografia” per garantirsi, di default, un'identità extra pittorica, e lo scompenso generato dall'entrata in scena degli operatori estetici, di quelli che abbiamo chiamato artisti-fotografi, ne è stata un’evidentissima conferma sul campo.
Questo sistema di opposizioni che a fine anni Settanta appariva sclerotizzato e non permeabile, sul piano generale dell'arte e su quello particolare della fotografia, all'alba degli anni Ottanta viene investito dallo tsunami anti-ideologico che avrebbe sconvolto tutta la cultura di quel decennio, a partire dallo sviluppo di una riflessione filosofica che, rispetto al peso e all'invadenza di un “pensiero forte, ormai insostenibile”,8 percepiva l'esigenza di sostituire un “pensiero debole”, flessibile, aperto, non fondato su verità assolute e inamovibili. Al modello di una verità metafisica, si sostituiva un “vero inteso come libertà, cioè come apertura degli orizzonti entro cui ogni conformità diventa possibile”.9 Lo stesso senso di libertà che in quegli anni stava investendo (o magari aveva addirittura anticipato), in maniera dirompente, la ricerca artistica:
La grande conquista oggi, a dieci anni dalla rivoluzione, a dieci anni dalle barricate del «poverismo», è quella della libertà: libertà di usare la tecnologia più raffinata quanto la rude mano che dipinge o plasma la materia; libertà di fare riferimento al proprio corpo fisico quanto all'universo mitico del sogno; libertà di formulare un concetto quanto di perdersi nell'arbitrio della afasia e del non detto.10
Se il pensiero filosofico proponeva l'idea di un soggetto “rotolante”,11 dal centro alla periferia, concetto efficacemente tradotto in termini letterari da Pier Vittorio Tondelli nella formula del “sentirsi in libera uscita”,12 l'arte rispondeva con l'immagine dell'artista “nomade” al quale interessava “lo spostamento e non l'approdo”,13 protagonista eccentrico di quella scintillante ondata creativa criticamente sostenuta e alimentata da Achille Bonito Oliva sotto l'etichetta di Transavanguardia,14 Un sentimento di libertà, di vaghezza e di positiva erranza identitaria che naturalmente coinvolgeva anche i protagonisti della fotografia di inizio decennio, come si può ad esempio ricavare da quanto scriveva nel 1981 Luigi Ghirri, presentando un proprio progetto sul paesaggio: “Durante questo lavoro mi sono sentito come un viaggiatore in attesa di un treno, non sapendo se il treno su cui salirà è per andare o per tornare”.15
Per altro, tutti i discorsi sulla fotografia, a inizio anni Ottanta, trovano una straordinaria occasione di autoverifica teorica con la pubblicazione, quasi contemporanea fra Francia e Italia, di La chambre claire,16 ultimo lavoro di Roland Barthes, uscito purtroppo postumo nel 1980, pochi mesi dopo l'improvvisa scomparsa del grande intellettuale transalpino a seguito di un banale incidente stradale. Il libro non affronta direttamente questioni di poetica, anche se al suo interno non mancano citazioni e rimandi ad autori importanti della storia della fotografia (il riferimento più aggiornato, praticamente in tempo reale, riguarda Robert Mapplethorpe), però, pur senza entrare nel vivo delle questioni che abbiamo posto in campo, si pone subito come un contributo di svolta nella riflessione sul mezzo. In effetti Barthes si era già occupato in precedenza di fotografia, forzandola però negli schematismi rigidi dell'analisi semiotica.17 La chambre claire, al contrario, pur nell'apparenza di un approccio ontologico (la domanda sull'essenza della fotografia attraversa ripetutamente il testo) entra bene in sintonia con lo spirito nuovo del decennio, ponendo la soggettività al centro del rapporto con l'immagine. La nozione forse più nota ed originale del libro, quella di punctum, metodologicamente infatti altro non rappresenta se non la scelta di ricondurre l'eventuale verità della fotografia ad una dimensione personale, privata, non assoluta, chiaramente fondata su un qui e ora soggettivo.
Il quadro di quanto complessivamente stava succedendo nella cultura di inizio anni Ottanta, con il passaggio da situazioni ideologiche, rigide, sclerotizzate (a partire dalla nostra emblematica contrapposizione tra “fotografi-puri” e “artisti fotografi”) a situazioni aperte, mescolate, non sarebbe del tutto comprensibile se in qualche modo non si ricordasse come, tutti questi rivolgimenti trasversali, interni ai settori specifici che più ci interessano (la filosofia, l'arte, la fotografia) si inscrivessero nella più generale e decisiva ibridazione verticale tra alto e basso, tra posizioni d'élite e gusto popolare. Un fenomeno imponente e clamoroso, che almeno in fase inziale incontrò, da parte della tradizionale cultura accademica, non poche resistenze, spesso caratterizzate da pungente ironia. Lo stesso Gianni Vattimo, il già citato padre del “pensiero debole”, l'intellettuale che forse meglio ha saputo interpretare, sulla scena italiana, la svolta culturale degli anni Ottanta, proprio in relazione ai modi e allo stile adottati per diffondere e sostenere le proprie idee, fu sarcasticamente definito da qualche austero collega, “filosofo per rotocalchi”.18 Possiamo solo aggiungere che, nel caso particolare della fotografia, come per altro avremo modo di vedere meglio nel prosieguo di questo lavoro, il mescolamento fra alto e basso trovò un terreno particolarmente fertile sul quale esprimersi, coinvolgendo un mezzo di fatto già nato “a cavallo delle due culture”19 e poi costantemente in bilico tra ambiti differenti, fra alto e basso appunto, tra arte, informazione, pratica familiare ed altro ancora, Un art moyen, secondo la perfetta definizione coniata a suo tempo da Pierre Bourdieu,20 “media” come collocazione logistica, cioè all'incrocio tra ambiti, idee, usi e funzioni differenti, ma anche come esaltante forma di ibridazione tra realtà e immaginario.21
Helmut Newton e il mescolamento delle identità
Il 24 gennaio 2004 un imponente SUV Cadillac Escalade, un mostro esagerato di 8 cilindri per oltre 5000 cc di cilindrata, appena partito dal Chateau Marmont, uno dei più esclusivi hotel di Los Angeles, base dorata del migliore jet set internazionale, dopo un'improvvisa per quanto ingiustificata accelerata, probabilmente dovuta ad un improvviso malore del conducente, si schiantò contro un muro di contenimento di Sunset Boulevard, la più cinematografica strada del quartiere di Hollywood. Al volante sedeva l'ottantatreenne Helmut Newton, un protagonista assoluto della fotografia del XX secolo. “Una morte da star come si conviene al grande Helmut Newton, come una sua foto. Una morte per suicidio colposo”, commentò il giorno seguente su un quotidiano Oliviero Toscani, aggiungendo un piccolo ricordo personale, perfetto per celebrarne l'ironia sempre spiazzante. Nel maggio del 1968, a Milano, nei giorni infuocati della rivoluzione studentesca (il 30 di quel mese studenti di Brera, della Statale e del Politecnico, insieme a vari artisti di gran nome, avrebbero occupato, prima di un'importante inaugurazione, la sede della Triennale, restandoci poi per trenta giorni), Toscani stava seguendo come assistente un preoccupato Newton il quale, a un certo punto, se ne uscì dicendo, quasi già fosse entrato con grande anticipo nei suoi adorati anni Ottanta: “Spero soltanto che non rovinino la mia Bentley!”.22 Da un lato sintesi quasi imbarazzante del disimpegno, dell'individualismo e dell'edonismo che avrebbero caratterizzato quel decennio,23 dall'altro però anche spia di quell'ironia postmoderna che, come vedremo, ha segnato in profondità tutto il lavoro di Newton. Per altro, che la situazione, i modi e tutto il contesto della sua morte ricordassero la ricercata esagerazione delle sue foto era assolutamente vero. Arredi sfarzosi, suite extra-lusso, piscine oceaniche, ville faraoniche, la sensazione complessiva di trovarsi all'interno di un'infinita narrazione upper class, tutto il rutilante immaginario sul quale Newton aveva costruito il proprio stile e la propria fortuna di autore, appariva ora metaforicamente sintetizzato in quel drammatico schianto sul Sunset Boulevard.
L'intera carriera e tutto il lavoro di Helmut Newton rappresentano un perfetto caso studio rispetto al complessivo intreccio di idee e di questioni che hanno segnato la scena culturale degli anni Ottanta. Un prima tema da affrontare può essere proprio quello del confronto tra fotografi puri e artisti fotografi che, come precedentemente ricordato, aveva attraversato tutta la storia della fotografia novecentesca fino a raggiungere massima evidenza, negli anni Settanta. Una contrapposizione secca, ideologica, che, come già detto, prendeva origine dalla questione tecnica, per poi riflettersi sul piano autoriale fino ad esplicitarsi nella materialità stessa dell'opera. Cercando di chiarire ulteriormente quanto già accennato in apertura di questo studio, ricordiamo che : con l'etichetta “fotografo puro”, si intendeva un operatore dotato di buone capacità tecniche, emotivamente impegnato nel tradurre tali capacità in un processo linguistico dal quale a sua volta emergeva e si definiva una precisa identità autoriale, uno stile. Tutti elementi evidentemente ricavabili dal prodotto finale, dall'opera, che dunque si presentava, aldilà di ogni possibile diversità stilistica, come “bella immagine”, carica di tutti quei valori formali che l'abilità tecnico-linguistica aveva saputo produrre. Per avere il profilo dell' “artista fotografo” (i famigerati “operatori estetici”) basta ovviamente invertire di segno a tutto quanto appena detto, fino a considerare il fatto che il risultato finale non poteva certo essere una “bella immagine”, un'immagine ricca di valori formali, ma piuttosto un prodotto fondato su un intreccio di valori concettuali. Posti tali riferimenti è in qualche modo scontato che, in linea di massima, si pensi al fotografo di moda come al perfetto rappresentante della categoria dei fotografi puri, come a colui che comunque sa usare bene la tecnica, un autore dal quale ci si attende un'immagine formalmente impeccabile, tutta giocata sulla composizione, sull'uso sapiente delle luci, sull'equilibrio dei toni e così via. Questo almeno nella tradizione storica degli Steichen, degli Hoyningen Huene, degli Avedon, dei Penn. Ora non è che Newton si sia sottratto al principio della “bella immagine”, tutt'altro, nel suo lavoro però, tanto a livello di poetica esplicita, di dichiarazioni, quanto nel corpo stesso dell'opera, emerge un segnale nuovo, perfettamente in linea col clima anti-ideologico che segna la svolta degli anni Ottanta. L'idea cioè che gli steccati rigidi siano saltati, che le carte si possano mischiare, che si possa essere al tempo stesso formali e concettuali.
Un indizio in questo senso chiarissimo viene dalle sue ripetute prese di distanze nei confronti della questione tecnica: “Mi piace lavorare con questa macchinetta. La fotografia non costa niente. Ho un solo assistente, non ho luci”.24 Una demitizzazione totale degli strumenti intesi come passaggio obbligato per ottenere una buona immagine e al tempo stesso una ridefinizione del ruolo autoriale, che appunto non si potrà più misurare sulla techne, e dunque sui risultati formali che questa può assicurare, ma su altro. Parole magari non del tutto vere, quelle appena citate, rispondenti al continuo gusto per la provocazione che ha sempre caratterizzato il personaggio Newton, però certamente attendibili come espressione di poetica e confermate, su questo piano, da diversi autoritratti nei quali si presenta con in mano una macchinetta da pochi soldi, del tutto uguale a quella che potremmo utilizzare in vacanza o per riprendere una festa di compleanno. La posizione di Newton sulla tecnica e sul valore formale dell'immagine si conferma poi in maniera clamorosa in un'intervista rilasciata al collega Frank Horvat a metà anni Ottanta e poi confluita in un volume di colloqui con grandi fotografi pubblicato qualche anno più tardi. Lo scambio di battute fra i due è veramente esilarante:
Domanda – A proposito di abilità, Helmut, vorrei parlare del tuo senso grafico. Ci sono stati ultimamente alcuni fotografi che hanno cercato di imitarti: tutti hanno un po’ d’immaginazione e qualche ossessione sessuale, chi non ne ha? Ma ciò che gli manca è il tuo senso della composizione. Del resto, trovo che le tue foto che funzionano meglio sono quelle in cui la composizione è più forte.
Risposta – Non ne sono cosciente. Al contrario, spesso cerco di fare delle brutte foto.
D – Malgrado tutto il punto di forza delle tue foto migliori resta la composizione.
R – Fammi un esempio.
D – I nudi con la sella. Naturalmente sono tutti erotici, e tutti spingono a chiedersi cosa provavano le ragazze e cosa provava Helmut Newton. Ma la foto che funziona meglio, secondo me, è quella con l’ombra sul muro, in cui il gioco grafico predomina.
R – Non sono d’accordo…No, io non penso mai al gioco grafico, o se ci penso è per evitarlo.25
Horvat, da bravo “fotografo puro” (egli stesso buon fotografo di moda), insiste sulle questioni formali, le uniche che pensa degne di essere prese in considerazione, ma Newton, sfacciatamente, si sottrae, finge di non capire di cosa si stia parlando, nega, facendo intendere in modo chiarissimo il poco valore da lui attribuito a questi elementi. La verità è che in effetti Newton non ha mai trascurato l'aspetto formale delle sue immagini, al tempo stesso aveva però recepito perfettamente la lezione venuta dagli operatori estetici degli anni Settanta con la svalutazione della tecnica in favore delle componenti concettuali. Culturalmente però, nel nuovo clima anti-ideologico degli anni Ottanta, era giunto il momento di non inchiodarsi su nessuna delle due posizioni (fotografi puri vs artisti fotografi) e, soprattutto in un ambito come quello della moda, storicamente caratterizzato dal perfezionismo tecnico, era fondamentale rompere gli argini e rivendicare la libertà di muoversi trasversalmente ai due fronti, da sempre pensati come inconciliabili. In pratica Newton mette in atto nella fotografia di moda lo stesso processo che investe in quegli anni l'intera galassia delle arti visive, magari però con senso di marcia rovesciato, perché mentre nell'arte, con fenomeni come la Transavanguardia e i Nuovi-Nuovi,26 si recupera il pennello e dunque una dimensione tecnico-formale dell'opera, senza per altro annullare il patrimonio concettuale e “anti-artistico” e “filo-mediale” elaborato nel decennio precedente, Newton attiva un processo esattamente inverso, inquinando di concettualismo un ambito fino a quel momento dominato dal formalismo. Per altro, l'anti-tecnicismo non è l'unico elemento che Newton recupera dalle ricerche sviluppate dagli operatori estetici nella stagione delle neoavanguardie e dunque l'unico segnale di inversione di tendenza. Altro aspetto decisivo per la sua concezione complessiva di fotografia e per l'uso specifico che ne farà nella moda, è quello del comportamentismo fotografico, uno sviluppo di poetica chiaramente riconducibile alla teoria del medium come protesi e come mediazione tra soggetto e mondo, elaborata negli anni Sessanta da Marshall McLuhan e appunto applicata, con infinite varianti, da tanti artisti nel decennio successivo. Nella sua Autobiografia, Newton ce ne ha fornito un esempio perfetto quando ha raccontato la propria reazione a una complicata situazione di salute affrontata dalla moglie June:
Alla fine la operarono, nell'aprile del 1982, e naturalmente scattai delle foto. La macchina fotografica rappresenta una sorta di barriera tra me e la realtà e quando devo affrontare qualcosa di particolarmente spiacevole, come il mio infarto e la lenta riabilitazione in ospedale a New York nel 1971,27 scattare foto mi aiuta molto. Quando June ha dovuto subire questa complicata operazione nel 1982, mi accorsi di riuscire ad affrontare il modo in cui il suo corpo si stava trasformando con molta più prontezza e coraggio ponendo una macchina fotografica tra i miei occhi e quelli di June.28
Il comportamentismo complessivo dell'opera di Newton si identifica in particolare con la fortissima componente voyeuristica della sua fotografia, un voyeurismo che coinvolge in prima battuta il fruitore, posto continuamente nella condizione di chi «passa la vita a guardare attraverso il buco di una serratura»,29 ma che trascina nel gioco lo stesso Newton, come chiaramente appare in Autoritratto con moglie e modella del 1981, una sorta di manifesto condensato della sua poetica, immagine non per niente da lui definita «una delle mie preferite»:
Tutto quello che ci si vede fa parte della mia vita: la mia macchina fotografica, la mia modella di nudo preferita, mia moglie June che guarda la modella con un’espressione molto divertente, lo studio di “Vogue” dove sono successi molti fatti importanti per me, la Place du Palais-Bourbon, che si intravede attraverso la porta aperta, e dove ho fatto migliaia di fotografie, soprattutto nei giorni delle sfilate di alta moda. Questa è una vera foto autobiografica.30
È evidente che in questa fotografia di formalismo e di equilibrismo compositivo potenzialmente ce ne sarebbe molto (un gioco raddoppiato di specchi, il tema della finestra all'interno di un'immagine che è già finestra, lo sguardo di June che si dirige sulla modella ma incrocia anche quello dello spettatore), ancora una volta però, Newton pare non accorgersene, preferendo cogliere della fotografia la condizione relazionale, e dunque di comportamento, che il mezzo (il mediatore) riesce a sviluppare.
Il mescolamento di identità che in precedenza apparivano rigorosamente antitetiche è dunque il segnale più innovativo dell'opera di Newton, quello che meglio interpreta il nuovo clima culturale degli anni Ottanta. I temi dell'accavallamento fra formalismo e concettualismo, tanto in prospettiva operativa-autoriale quanto nell'effettivo sviluppo dell'opera, non sono però gli unici che vale la pena prendere in considerazione. Altro fenomeno decisivo nel caratterizzare il senso di quanto stava accadendo riguarda un ulteriore processo di ibridazione che finisce per ridefinire la vita stessa di immagini nate e pensate per la moda, ma ora in transito tra le pagine delle riviste e le stanze del museo. Le prime occasioni espositive per Newton, anche se solo in gallerie private, risalgono addirittura al 1975, ad Amsterdam e Parigi, ma sarà nel 1984 che avrà occasione di allestire mostre in spazi pubblici: nel Musée de Beaux Arts di Nizza, a Palazzo Fortuny a Venezia, nel Musée d'Art Moderne de la Ville de Paris, da lì un crescendo continuo di opportunità nelle più prestigiose sedi mondiali. Newton è certo stato un protagonista in prima persona di questo ulteriore fenomeno di positivo mescolamento di identità, ma è altresì chiaro che personalmente si è avvantaggiato, divenendone perfetto interprete, di qualcosa che in generale stava caratterizzando tutti gli ambiti coinvolti. In particolare, per quanto concerne l'intreccio arte/moda, occorre nuovamente ritornare ai complessivi processi di disgregazione estetica che stavano investendo su larga scala gli anni Ottanta, fenomeni che favorirono, sempre secondo Vattimo, un'ascesa della moda come esercizio estetico dotato di una continua, positiva, variabilità (Vattimo parla addirittura di “superficialità”,31 ovviamente intesa in senso positivo) e dunque non limitato da quella “radicalità che sembra necessaria all'opera d'arte”32 tradizionalmente intesa. Dal rapporto di scambio fra arte e moda bisognerebbe poi risalire, come in un gioco di scatole cinesi, ad un piano più alto, quello della relazione storica tra arte pura e industria culturale (la vecchia arte applicata), ora pensata e sviluppata in una prospettiva di intersezione sempre più marcata. Un mescolamento di piani che oltre alla moda stava coinvolgendo anche il design, esso pure in grande slancio a inizio anni Ottanta, per ragioni in qualche modo analoghe a quelle già considerate per la moda. Sulla scena italiana, una prestigiosa conferma sul campo di tutto questo fenomeno giunge, nel 1982, dalla grande mostra Conseguenze Impreviste, articolata nelle tre sezioni arte/moda/design, rispettivamente affidate alla cura di Achille Bonito Oliva, Rossana Bossaglia e Alessandro Mendini. Un mostra che voleva celebrare l'ormai ineludibile processo di ibridazione in atto fra i tre settori, evidenziando la centralità del “rapporto tra economia e creatività […] suggerendo come non esistano a priori soluzioni di continuità tra arte, arte applicata e prodotto industriale”,33 prospettiva confermata, con riferimento al ruolo autoriale nell'arte e nella moda, dalle parole di Bossaglia: “il momento attuale rende più indeterminato il confine tra la figura dell'artista e quella dello stilista”.34 Newton dunque si avvantaggia di questa situazione complessiva trasmigrando le proprie immagini dalle pagine stampate ai muri di gallerie e musei. Operazione che per altro egli conduce con grande intelligenza critica, capendo che il passaggio deve comunque prevedere uno scarto e non può avvenire in un rapporto uno a uno. Dovendo ovviamente rinunciare a quel prezioso “lavoro editoriale”,35 che Newton aveva sempre considerato fondamentale per il successo delle sue foto, la marcatura della differenza viene così affidata ad un progressivo effetto “blow up”, ad un ingigantimento del formato delle immagini che in questo modo si trovavano a slittare da un sistema di fruizione prevalentemente retinico, quale quello che si determina nei confronti delle immagini di piccolo formato stampate su rivista, ad uno più corporale, più fisico, più concettualmente tattile, considerato il rapporto di relazione e di immersione che, nello spazio espositivo, si sviluppa tra pubblico e opere di grande dimensione. È chiaro che questa scelta di un maxi formato, con conseguente modifica della logica di fruizione, attribuisce ulteriore significato al processo di ibridazione innescato tra industria culturale e arte pura, tra spazio editoriale e spazio espositivo. Non si tratta infatti di spostare semplicemente lo stesso identico oggetto da un luogo a un altro: le immagini che Newton porta in mostra risultano a tutti gli effetti altra cosa, fisicamente e concettualmente, rispetto a quelle pubblicate sulle pagine delle riviste, modificano la propria natura, così da entrare in un vortice di mobilità identitaria quanto mai accattivante.
La serie più spettacolare che inizialmente Newton espone in uno spazio museale (Palazzo Fortuny nel 1984) è quella dei Big Nudes, lavoro che già in partenza si propone come esempio di audace combinazione fra logiche differenti: quella pittorica, richiamata dall'enfasi di un titolo para-cézanniano e la modalità di realizzazione che invece va in senso diametralmente opposto, extra-artistico, con una ripresa frontale, oggettiva, schedativa, indicata dallo stesso Newton come “ispirata dalle foto segnaletiche della polizia tedesca per individuare i terroristi”.36 L'esplicita dichiarazione, che il mescolamento dell'alto col basso, del sacro col profano, non solo è ormai consentito, ma addirittura si impone come scelta chic, assolutamente di tendenza. Quelle dei Big Nudes è una grandiosa celebrazione del corpo, un corpo enfatizzato, ingigantito, monumentalizzato, levigato e impeccabile, il nuovo culto degli anni Ottanta che Newton intuisce essere la prima e più autorevole forma di abito e di comunicazione sociale, cosa che ribadirà con la serie Naked & Dressed, avviata nel 1980 e proseguita per tutto il decennio. Un progetto giocato in forma di dittico con la seconda immagine del tutto identica alla prima se non per il fatto che le modelle, riprese nelle stesse posizioni del primo scatto, risultano completamente prive di abiti: “Perché la nudità di queste donne è diventato abito […] l'ornamento definitivo del corpo. Le modelle mostrano il nuovo look di questa stagione: la pelle”.37
Per Newton, l'adesione ai nuovi modelli culturali degli anni Ottanta, si realizza ovviamente anche attraverso i temi proposti dalle sue fotografie, tutti sostanzialmente convergenti nella definizione di un nuova immagine di donna: forte, dominante, capace di imporre i propri desideri, senza per questo rinunciare a codici di seduzione femminili ampiamente stereotipati, a un erotismo spettacolare fatto di tacchi a spillo, corsetti, giarrettiere e pose provocanti. A modo suo Newton concorre a tratteggiare la nuova donna forte e vincente degli anni Ottanta, emblematizzata cinematograficamente, così come farà per la versione maschile il Julian Kay/Richard Gere di American Gigolo, da Ellen Ripley/Sigourney Weaver protagonista nel 1979 di Alien, unica sopravvissuta di un'astronave alla deriva inizialmente guidata da uomini: “Solo lei riesce a distruggere il mostro e lo fa proprio nel momento in cui entra nella capsula e si spoglia, esplicitando così la sua natura femminina”.38 Un'immagine di donna che in qualche modo Sigourney Weaver, fotografata da Newton nel 1983, replicherà e celebrerà autoironicamente, inguainata nelle famose giacche con spalline imbottite, come co-protagonista di Una donna in carriera, film commedia del 1988 diretto da Mike Nichols.
Newton, da parte sua, riconoscerà come massimo emblema del binomio sesso/potere del decennio, Margaret Thatcher, la «Lady di ferro» che resterà in carica dal 1979 al 1990: “Margaret Thatcher mi ha sempre affascinato. Era una donna forte e potente, e più aumentava il suo potere e il suo successo, più mi appariva sexy”.39 Inutile comunque nascondere che questa immagine di donna aggressiva e provocante, costruita da Newton anche grazie a una miscela di elementi decisamente scabrosi (fruste, catene, collari, corde… e ovviamente tanta nudità) rischiava di provocare reazioni contrastanti proprio da parte di coloro che dovevano essere le protagoniste di questa rivoluzione. Durissima e prolungata la polemica con Alice Schwarzer, leader storica del femminismo tedesco che sulle pagine di “Emma”,40 testata militante da lei fondata nel 1976, arrivò a definirlo razzista e fascista, salvo poi perdere la causa intentatagli contro nel 1993. Spiazzante e come sempre intrisa di ironia la posizione di Newton: “L'uomo non compare quasi mai nelle mie foto e quando c'è è fragile, marginale. Penso che le donne siano molto più forti. In fondo sono un femminista”.41
Quello che però infine va considerato, e ciò che in effetti conta, è che questa continua ironia (ed autoironia) di Newton, il suo muoversi costantemente fra le righe, il ricorso insistito agli stereotipi dell'erotismo e della trasgressione, il senso di esagerazione che emerge da ogni sua immagine, sono certo elementi caratteristici della sua personalissima poetica, ma al tempo stesso sintetizzano al meglio gli orientamenti culturali del post-modernismo e degli anni Ottanta in particolare. Nelle Postille al Nome della Rosa, Umberto Eco ha indicato con chiarezza le categorie fondanti per tutto questo clima: “Ironia, gioco metalinguistico, enunciazione al quadrato”,42 etichette perfette per interpretare il lavoro di Newton, per comprendere immagini che sono erotiche e trasgressive perché mettono in scena i codici dell'erotismo e della trasgressione, li enfatizzano, li manipolano, ne abusano in maniera plateale e sfacciata. Un gioco concettualmente esaltante ma anche rischioso, sempre a sentire Eco: “Col post-moderno è anche possibile non capire il gioco e prendere le cose sul serio. Che è poi la qualità (il rischio) dell'ironia. C'è sempre chi prende il discorso ironico come se fosse serio”.43 Un epitaffio perfetto per celebrare l'opera di Helmut Newton.
Ferdinando Scianna e l'ibridazione dei generi
All'inizio del 1987 ricevetti a casa mia a Milano una strana telefonata. Sono Domenico Dolce, mi disse il mio interlocutore. Assieme al mio amico, Stefano Gabbana, siamo dei giovani stilisti che cominciamo la carriera. Facciamo dei vestiti che si ispirano alla donna siciliana. Abbiamo visto delle fotografie sulla Sicilia che ci sono piaciute e ci hanno detto che sono sue. Vorremmo fare un catalogo di fotografie dei nostri vestiti e vorremmo che le facesse un fotografo che non è un fotografo di moda. Le interessa?44
È con queste parole che Ferdinando Scianna racconta il suo primo contatto con la coppia Dolce & Gabbana. In effetti, in quella seconda metà degli anni Ottanta, con una carriera ultraventennale alle spalle, Scianna tutto poteva essere considerato, meno che un fotografo di moda. Diciamo pure che concettualmente ne era agli antipodi, dal momento che, dopo un precocissimo esordio nel 1965 con Feste religiose in Sicilia, libro tenuto a battesimo dall'autorevole introduzione di Leonardo Sciascia, dal 1967 Scianna si era trasferito a Milano cominciando a lavorare come fotoreporter per l'Europeo: “Per l’Europeo sono stato ovunque: a Sanremo per il Festival, per le strade di Milano a seguire i cantanti popolari, in Bangladesh per l’alluvione”.45 La vocazione reportagistica fu sancita, nel 1983, dall'entrata, su invito diretto di Henri Cartier-Bresson e come primo italiano, a Magnum Photos, mitica agenzia fotogiornalistica fondata nel 1947, oltre che dallo stesso Cartier-Bresson da Robert Capa, David Seymour, George Rodger e William Vandivert. È evidente che in una visione rigorosa di etichette e di specifici, reportage e moda emblematizzano i due grandi assi sui quali si è sviluppata, in contrapposizione dialettica, l'intera vicenda della fotografia: quello della rivelazione e quello dell'illusione.46 Da un lato il mezzo concepito come occasione per svelare il reale, facendolo parlare direttamente, con grande rispetto, per come si presenta, dall'altro l'idea della messa in scena, della costruzione di una realtà parallela, di un immaginario credibile.
Rispetto alla contaminazione di queste due identità, c'è però subito da chiarire che Scianna non è stato il primo reportagista prestato alla moda. Possiamo ricordare il precedente storico di Martin Munkacsi, affermato fotografo sportivo che nel 1933 venne chiamato da Carmel Snow a lavorare per “Harper's Bazaar” con la dichiarata intenzione di esportare en plein air l'immagine della moda. E poi ancora il già citato Frank Horvat, autore lui pure legato a Cartier-Bresson nonché membro di Magnum, presente, a partire da fine Cinquanta, su “Jardin des Modes”, “Harper's”, “Glamour”, “Revue”, “Vogue Italia”, con immagini realizzate in strada, in contesti autentici e non costruiti. Negli stessi anni infine, Alexander Liberman, art director di “Vogue”, dopo essere rimasto affascinato da un suo libro reportagistico su New York pubblicato nel 1955, aveva chiamato William Klein a lavorare per le edizioni Condé Nast. Precedenti certo significativi ma troppo isolati, troppo episodici, e comunque non inseriti in un contesto complessivo, come succederà per Scianna negli anni Ottanta, favorevole ai mescolamenti, alle ibridazioni, al citazionismo spinto. Lo stesso brand Dolce & Gabbana era nato esplicitamente orientato in questo senso, tutto sbilanciato su consolidati codici della sicilianità, citazione di uno stereotipo, citazione di una citazione, intenzionalmente confermata ed enfatizzata dalla comunicazione che la diffonderà, perché bisogna ricordare che accanto alla fotografia di Scianna, nativo di Bagheria, ci saranno pure gli spot video affidati alla regia del compaesano Giuseppe Tornatore. Per altro, questo contesto di incroci e di ibridazioni, antropologiche e multidisciplinari, nel quale il lavoro nacque e si sviluppò, è stato confermato dallo stesso Scianna, quando, in un'intervista pubblicata su “Flash Art”, ha parlato di: “Una mistura di autenticità autobiografica, di misterioso incontro felice con una modella, la digestione di forme culturali, soprattutto cinematografiche e letterarie”.47 Perfino la scelta di una modella anomala come Marpessa (un nome e una storia struggente della mitologia greca: altra singolare coincidenza citazionista per il contesto siciliano), di certo componente fondamentale per il successo di quella campagna, può essere ricondotto al gioco di stereotipi reinterpretati e rivisitati che caratterizzò tutto il lavoro: “Sei stato fortunato, mi dicevano, ad aver trovato questa bellissima siciliana. Ma Marpessa è figlia di madre olandese e suo padre è del Surinam. La sua sicilianità era nel mio immaginario, in quello degli stilisti e nella sua medianica capacità di incarnarlo”.48 Un triangolo di affinità elettive in seguito confermato anche da Claude Ambroise: “Non avevano sbagliato i due giovani stilisti: tra i loro vestiti che si ispiravano ad antichi modelli siciliani e le foto di Scianna, molto probabilmente, esisteva una prestabilita armonia, a tal punto che l'immagine della stessa Marpessa stava sicilianizzandosi”.49
Se dunque tutta la collaborazione tra Ferdinando Scianna, Domenico Dolce e Stefano Gabbana, può essere considerata espressione di quell'impulso al mescolamento delle identità e degli specifici, di marca citazionista, che ha segnato culturalmente gli anni Ottanta, è in particolare sull'ibridazione di due consolidate e storiche tipologie fotografiche quali la moda e il reportage, che possiamo concentrare un'ultima riflessione, con la quale sintetizzare, emblematicamente, l'intera vicenda che si è cercato di analizzare in questo studio. I termini della questione li ha indicati lo stesso Scianna quando ha ricordato il bivio teorico che gli si parò davanti quando, da consolidato e convinto fotoreporter, decise di misurarsi con la fotografia di moda: “Avevo sempre fatto una grande distinzione tra le fotografie trovate, che erano le mie, e le fotografie fatte, un po' messe in scena, per quanto minimamente, nei ritratti per esempio, e delle quali diffidavo”.50 Una distinzione classica, se così vogliamo definirla, con una esplicita preferenza di poetica che si può far risalire al credo del grande padre del fotogiornalismo, quel Cartier-Bresson più volte riconosciuto da Scianna come suo diretto ispiratore e le cui parole a riguardo non lasciano spazio ad equivoci, su quale sia, o debba essere, la strada giusta per il reportage: “La fotografia «costruita» o messa in scena non mi interessa”,51 e ancora: “Siamo chiamati a sorprendere la realtà con quel quaderno di schizzi che è il nostro apparecchio fotografico, a tirarla fuori e a fissarla, ma non a manipolarla né durante le riprese, né tantomeno nel nostro oscuro laboratorio”.52 Parole, come è evidente, che parrebbero anche tracciare un confine etico per il lavoro del fotoreporter,53 per cui è certo comprensibile l'inquietudine denunciata da Scianna per il sentimento (per altro duplice: una sorta di piacere per la contaminazione, fino a quel momento impensabile, delle due strade, per la violazione consapevole di un codice, affiancato all'imbarazzo del tradimento…) che accompagnava quei suoi primi passi nella moda: “Un sentimento di colpa, quasi stessi violando, e con allegria per giunta, una regola, anzi, la regola, il grande tabù del mio fare fotografie fino a quel momento. Perché nella mia etica ed estetica di fotografo era legge il mio rifiuto bressoniano della messa in scena, della finzione”.54
La soluzione linguistica adotta da Scianna per risolvere questa sorta di ossimoro etico ci riporta perfettamente nel quadro teorico, ma potremmo anche dire filosofico, degli anni Ottanta, ponendosi oltretutto come differenza rispetto ai precedenti casi di accavallamento tra reportage e moda già citati. Scianna infatti non porta lo stile reportagistico dentro la moda, come magari avevano fatto Munkacsi, Horvat e Klein, non crea cioè una falsa sensazione di verità all'interno di una dimensione comunque costruita, artificiale, finta, ma affronta reportagisticamente la moda, la considera al pari di un evento da raccontare, non diverso dai tanti affrontati in carriera. Entra fotograficamente nella finzione procedendo in questo modo: individua nella realtà (gli shooting della prima campagna avvengono tra Caltagirone, Bagheria, Porticello, Ragusa, Acitrezza e Palermo) situazioni narrativamente interessanti. Sollecita Marpessa a calarsi da modella in quelle situazioni, richiedendole, per quanto possibile, di dimenticarsi della sua identità, di cercare una relazione con luoghi e persone. Si butta da reporter in quella scena ibrida, confrontandosi con un soggetto che a quel punto è contemporaneamente vero e falso: “Mi accorsi che anche questa minima messa in scena io la trattavo da reporter e che in definitiva continuavo a fare le mie fotografie”.55 Ma ancora più interessante, e se vogliamo anti-ideologica, è la riflessione che Scianna fa immediatamente seguire a questa considerazione: “Questo ha finito con l'avere una grande influenza sulla mia maniera di concepire il mio stesso mestiere di fotogiornalista”.56 In pratica egli riconosce, potremmo dire ammette, che la dimensione sperimentata con quel lavoro l'ha in seguito portato a riconsiderare l'impossibilità di contrapporre in maniera drastica e dogmatica i due livelli (verità e finzione, fotografie trovate e fotografie fatte), perché nell'ibridazione, nel mescolamento, ognuno delle due fronti cede salutarmente qualcosa di sé all'altro. Un effettivo superamento delle rispettive ideologie, del modo di pensare la relazione delle immagini col mondo, oltre il reportage e oltre la moda. In una dimensione giustamente Altrove.57
Bibliografia
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Gianni Vattimo, La fine della modernità (Milano: Garzanti, 1985), 59-72.↩
Vattimo, 61.↩
Vattimo, 62.↩
Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia (Milano: Bruno Mondadori, 1996), 3.↩
Krauss, 3.↩
Pier Aldo Rovatti, “Trasformazioni nel corso dell'esperienza”, in Il pensiero debole, a cura di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti (Milano: Feltrinelli, 1983), 29.↩
Vattimo, “Il pensiero debole”, 24.↩
Francesca Alinovi, “Off-identikit”, in Dieci anni dopo. I Nuovi-nuovi, a cura di Renato Barilli (Bologna: Galleria d'Arte Moderna, 1980), 15.↩
Rovatti, Il pensiero debole, 29.↩
Pier Vittorio Tondelli, Un weekend postmoderno (Milano: Bompiani, 1990), 194. Lo scritto originale è del 1984.↩
Achille Bonito Oliva, Il tallone di Achille (Milano: Feltrinelli, 1988), 11.↩
Achille Bonito Oliva, a cura di, Avanguardia/Transavanguardia (Milano: Electa, 1982).↩
Luigi Ghirri, Niente di antico sotto il sole (Milano: Società Editrice Internazionale, 1997), 42.↩
Roland Barthes, La chambre claire (Paris: Gallimard, 1980). Con versione italiana Torino, Einaudi, 1980.↩
Roland Barthes, “Il messaggio fotografico”, in L'ovvio e l'ottuso (Torino: Einaudi, 1985). Il saggio era uscito originariamente nel 1961 sulla rivista Communication.↩
La battuta, pronunciata dallo storico della filosofia Carlo Augusto Viano, è riportata in Marco Gervasoni, Storia d'Italia degli anni ottanta (Venezia: Marsilio, 2010), 176.↩
Claudio Marra, Che cos'è la fotografia (Roma: Carocci, 2017), 11 e ss.↩
Un art moyen era il titolo originale del volume curato nel 1965 da Pierre Bourdieu, poi banalmente tradotto in italiano come, La fotografia (Rimini: Guaraldi, 1972).↩
Francesca Alinovi e Claudio Marra, La fotografia. Illusione o rivelazione? (Bologna: Il Mulino, 1981).↩
Oliviero Toscani, “la Repubblica”, 33.↩
Stefano Di Michele, I magnifici anni del riflusso (Venezia: Marsilio, 2003).↩
Lorenzo Merlo, a cura di, Helmut Newton. New Images (Bologna: Grafis, 1989), 12.↩
Frank Horvat, a cura di, Entre vues (Paris: Nathan, 1990), 41.↩
Vedi note 10 e 14.↩
Helmut Newton, “La piccola macchina automatica che avevo con me in ospedale mi servì per dimenticare”, in Autobiografia (Roma: Contrasto, 2004), 202.↩
Newton, 208.↩
“Io sono un voyeur. Penso che qualsiasi fotografo sia un voyeur: che faccia fotografie erotiche o altro è comunque un voyeur. Si passa la vita a guardare attraverso un buco della serratura. Se un fotografo dice di non essere un voyeur è un idiota” in Merlo, Helmut Newton. New Images, 14.↩
Horvat, Entre vues, 40.↩
Gianni Vattimo, La società trasparente (Milano: Garzanti, 1989), 80.↩
Vattimo, 80.↩
Giampiero Nigro, “Introduzione”, in Conseguenze Impreviste, vol. 1 (Milano: Electa, 1982): 9.↩
Rossana Bossaglia, “Arte e moda: qualche riflessione”, in Conseguenze Impreviste, vol. 2: 12.↩
Newton, Autobiografia, 172.↩
Newton, 251.↩
Marshall Blonsky, “Che cos'è la «pornografia» di Helmut Newton”, in Helmut Newton Proprietà Privata (Milano: TEA, 1969), 10.↩
Lidia Curti, Luisa Betti e Silvana Carotenuto, “Il sublime femminile tra cinema e letteratura: corpo abietto e icona tecnologica”, in Cartografie dell'immaginario Cinema, corpo, memoria, a cura di Patrizia Calefato (Roma: Luca Sossella Editore, 2000), 61.↩
Newton, Autobiografia, 268.↩
Fondata dalla stessa Schwarzer nel 1976, derivava il nome dall' anarco-femminista Emma Goldman.↩
Riportato in Laura Laurenzi, “Helmut Newton. quei sensuali scatti di donna che hanno mutato l'eros in trasgressione”. la Repubblica, (25 gennaio 2004).↩
Umberto Eco, “Postille a «Il nome della rosa»”, alfabeta, no. 49 (giugno 1983): 22.↩
Eco, 22.↩
Ferdinando Scianna, Autoritratto di un fotografo (Milano: Bruno Mondadori, 2011), 97.↩
Dall'intervista rilasciata a Vittorio Zincone su “Sette”, Corriere della Sera, 19 marzo 2010, http://vittoriozincone.it.↩
Vedi Alinovi e Marra, La fotografia. Illusione o rivelazione?.↩
Umberta Genta, “Ferdinando Scianna una vita meravigliosa”, Flash Art, no. 305 (ottobre 2012): 65.↩
Scianna, 116.↩
Claude Ambroise, “Fotografie con modelle”, in Altrove. Reportage di moda, a cura di Ferdinando Scianna (Milano: Federico Motta Editore, 1995), 7.↩
Scianna, Altrove. Reportage di moda, 111.↩
Henri Cartier-Bresson, L'immaginario dal vero (Milano: Abscondita, 2005), 37.↩
Cartier-Bresson, 37.↩
Ferdinando Scianna, Etica e fotogiornalismo (Milano: Electa, 2010).↩
Scianna, Autoritratto di un fotografo, 110.↩
Scianna, 111.↩
Scianna, 111.↩
Altrove è il titolo della già citata monografia di Scianna che raccoglie gli esiti migliori del suo reportage di moda.↩