Consumi di massa e cultura tecnologica
Secondo Lino Miccichè, per gli anni Ottanta “si potrebbe parafrasare la definizione del Novecento come ‘secolo breve’ rovesciandola in ‘decennio lungo’”.1 Già i contemporanei erano consapevoli di vivere in un periodo di radicali mutazioni politiche, sociali e culturali. E oggi a distanza di oltre trent’anni appare evidente che gli anni Ottanta sono un decennio caratterizzato da un’identità forte, dinamiche disorientanti, attitudini sempre meno convenzionali che hanno sgretolato le grandi narrazioni, causando una perdita di punti di riferimento, condizione tipica dell’attuale società postmoderna.
In Italia gli anni Ottanta sono segnati sin dall’inizio dalla gravità di alcuni eventi che si susseguono per tutto il decennio. Solo per citarne alcuni, nel 1981 esplodono un aereo nel cielo di Ustica e dopo qualche mese una bomba alla stazione di Bologna. Inoltre nello stesso anno scoppia lo scandalo della loggia massonica di Licio Gelli. Due anni dopo Papa Giovanni Paolo II viene gravemente ferito in piazza San Pietro e il decennio si conclude con la morte di Sandro Pertini.
Eppure nell’immaginario collettivo gli anni Ottanta sono un periodo variopinto, superficiale ed eccessivo, dominato dalla cultura dell’immagine e dell’apparenza, dal consumismo e dal mito del piacere e della ricchezza. È il decennio degli happy hour e della “Milano da bere”, dei giovani rampanti e del craxismo. Ma sono anche gli anni della tecnologia, nasce internet e al cinema arrivano gli effetti speciali. Inoltre si affermano le televisioni commerciali e il cinepanettone. Secondo Marco Gervasoni, gli anni Ottanta sono stati gli anni dell’ultima modernità, quelli in cui, se è certo che oggi siamo postmoderni, siamo stati addirittura modernissimi.2
Tuttavia, nonostante siano spesso nostalgicamente imitati, rivisitati e anche bistrattati, appare evidente che non esiste ancora una coscienza critica su questo periodo che nel bene e nel male ha posto le basi della società contemporanea. Il romanzo italiano, a parte i cenni che ne danno Tondelli, Busi e De Carlo, parlò poco di questi anni. Il cinema forse è riuscito meglio ad elaborare l’identità di quel periodo con i film di Fellini, Moretti e, soprattutto, dei fratelli Vanzina. Umberto Eco è stato uno dei primi a riabilitare questi anni definendoli “grandiosi” trattandosi, secondo il filosofo, di un decennio cruciale, quello in cui “forse veramente siamo passati dal XX al XXI secolo”.3
In Italia, dove il pensiero cattolico e comunista avevano alimentato l’idea che il guadagno e il piacere fossero peccati da espiare, il rinnovamento si afferma con più forza che altrove. È proprio negli anni Ottanta che gli italiani passano da una condizione preindustriale ad una propriamente postmoderna, travolti da una spinta modernizzante ambivalente e destabilizzante che, come sottolinea Giovanni Ciofalo, è sfuggita al controllo sia della classe dirigente, che della società che doveva interpretarla.4 In questo decennio si assiste ad una metamorfosi del panorama sociale e culturale che rivela tanti aspetti critici, a partire dal sistema politico che innesca un processo di autodistruzione alla base della profonda crisi che caratterizza lo scenario attuale.
Eppure l’immagine, prevalentemente nostalgica, che continua a prevale di quegli anni è quella mediata dalla televisione, dal cinema, dalla fotografia, dalla musica e dalla moda. Un’Italia che rapidamente si adegua al sistema culturale e produttivo degli altri paesi industrializzati, caratterizzata da una cultura del consumo mai verificatasi prima. Secondo Marco Gervasoni, infatti, l’aspetto più rilevante dell’Italia degli anni Ottanta è proprio l’ingresso nell’era del consumo di massa, favorito innanzitutto dalle televisioni private con le loro pubblicità ricche di “contenuti simbolici” e “implicazioni cognitive”.5 La televisione, quindi, ha favorito la diversificazione e la diffusione di prodotti e brand ad un pubblico di consumatori molto più vasto rispetto al passato. Inoltre, “Marshall McLuhan ci ha spiegato che il ‘medium è il messaggio’, e abbiamo capito che la potenza della televisione sta, innanzitutto, nella sua capacità di inserirsi nella nostra comune esperienza per modificarla”.6 Pertanto, grazie alla televisione e al suo continuo ibridarsi con gli altri media, l’immaginazione, ma forse sarebbe meglio dire l’immaginario, viaggia liberamente.
È nel decennio in questione, quindi, che l’idea del consumo si lega indissolubilmente a quello di cultura. La cultura di massa sviluppa un’inedita coscienza sociale che non condanna più il consumo e la ricerca di un piacere sensoriale sempre più individualistico. Al contrario, dopo il disincanto politico e la frantumazione dei grandi ideali collettivi, l’uomo nuovo è orgoglioso di essere un prodotto dell’edonismo di massa e di partecipare ad uno stile di vita consumistico, segnato dal culto dell’apparenza e da una più ampia concezione estetizzante della vita. La sensazione è che le persone in questi anni siano ossessionate dalla paura di ricadere nell’ombra e nella pesantezza degli “anni di piombo”, per questo motivo nonostante i tanti aspetti oscuri degli anni Ottanta, ciò che domina nell’immaginario collettivo è lo sfavillio, la ricerca individuale del piacere, il narcisismo, il divertimento, insomma un’improvvisa leggerezza, che ha contribuito a marchiare questi anni come superficiali ed estremamente stravaganti. E certamente lo sono stati, ma appare riduttivo etichettare un momento storico così cruciale, senza tentare di comprenderne le dinamiche intrinseche che lo hanno caratterizzato e restituito alla nostra recente storia con la dimensione mitica che oggi si inizia a riconoscergli.
L’Italia degli anni Ottanta è attraversata da profondi cambiamenti, “una metamorfosi del panorama sociale […] (che) si traduce in una complessificazione dell’esperienza del quotidiano”,7 che vede nel consumo “il nuovo minimo comun denominatore dell’agire sociale”.8 In un momento di profonde incertezze l’unica identità forte in cui gli italiani riescono a riconoscersi è quella di consumatori, che vedono nella marca, il cui potere è amplificato dai media, lo strumento che meglio si presta alla costruzione della propria identità. Questo atteggiamento culturale è stato ben rappresentato dal “pensiero debole” di Rovatti e Vattimo, che in questa espressione condensano i punti chiave di un decennio caratterizzato dalla rinuncia alla Verità, dalla consapevolezza della complessità del mondo e della pluralità dei percorsi soggettivi e sociali. Nel 1985 Gianni Vattimo pubblicò La fine della modernità, libro che rappresenta il manifesto del pensiero debole. In esso, infatti, l’autore sottolinea che l’ingresso nella postmodernità implica una rinuncia alla Storia “come processo unitario”9 e la consapevolezza che la vita quotidiana è fortemente condizionata dal potere delle tecnologie e dei media, che ne estetizzano la dimensione. Tutto ciò comporta un radicale cambiamento della percezione del tempo e dello spazio che produce, appunto un pensiero debole, perché nomade, errante e contaminato che “si colloca al livello di una verità debole”.10 Ecco perché l’uomo nuovo degli anni Ottanta appare pronto ad accogliere questo inedito scenario in cui la realtà è “alleggerita perché meno nettamente scissa tra il vero e la finzione, l’informazione, l’immagine: il mondo della mediatizzazione totale della nostra esperienza”.11
Appare evidente la dimensione iconofila della tecnologia, avendo quest’ultima favorito la presentazione del mondo attraverso le immagini. E la mitologia che ruota intorno agli anni Ottanta dimostra chiaramente che se la condizione postmoderna, di cui parla Jean Francois Lyotard, ha causato una frantumazione del Mito, “al suo posto abbiamo tanti tentativi di spiegazioni irriducibili. In questo senso si può dire che la nostra società ha bisogno di miti perché ha sconvolto la nozione stessa di mito”.12 E i miti contemporanei continuano a diventare tali proprio grazie ai mezzi di comunicazione di massa che li supportano e li “impongono” con la forza di una riproducibilità apparentemente infinita. Infatti, la riproducibilità di massa delle immagini, al contrario di quanto preconizzava Walter Benjamin parlando della caduta dell’aura, sembra aver aumentato il “magnetismo sacro” delle mitologie postmoderne. Inoltre, come sostiene Gillo Dorfles, nella profonda compenetrazione tra arte e società sono proprio i mass media – radio, televisione, cinema, fotografia, internet – a tenere uniti gli individui e a rendere rapida ed efficace la comunicazione, oramai sempre più investita da una componente estetica, essendo l’arte uno dei primi strumenti capaci di informarci sulle questioni sociali.
Se è ormai comunemente accettato che è soprattutto “sulla modalità estetica che si stabilisce il rapporto di consumo immaginario”,13 proprio durante gli anni Ottanta si consolida il legame tra estetica e società, iniziato con le azioni provocatorie delle avanguardie artistiche, che hanno trasformato radicalmente la percezione estetica dell’uomo postmoderno. L’espressione industria culturale di Horkheimer e Adorno, nata con un’accezione profondamente negativa, oggi indica il territorio di produzioni ibride che costituiscono la cultura di massa, e quindi un insieme articolato e complesso di realtà comunicative ed estetiche. Per questo, studiare l’industria culturale significa risvegliare le mitologie che circolano nel consumo culturale e che affondano le proprie radici nei miti antichi, perché espressione degli aspetti più profondi dell’esperienza umana, che siano essi sogni, desideri o paure. L’arte e tutti i dispositivi massmediali rappresentano “apparati produttori e diffusori di consumi ad elevata qualità mitologica”.14 Proprio per questo consumare è un atto dotato di una logica simbolica attraverso cui comunichiamo al mondo la nostra identità costruendo relazioni sociali.
La nuova cultura del consumo si fonda, innanzitutto, su un ampliamento dell’offerta di prodotti e servizi più disparati, proposti ai singoli individui attraverso la pubblicità che li rende visibili ed estremamente desiderabili. È evidente che “l’accostamento dei termini consumo e cultura produce una loro reciproca e profonda risemantizzazione: il consumo non è più solo quello materiale, finalizzato ad una serie limitata di gratificazioni […]. Allo stesso tempo, la concezione di cultura non coincide più esclusivamente con le dinamiche […] tese all’accumulazione del sapere”.15 Questo processo di risematizzazione dell’esperienze dell’individuo è potenziato dalla tecnologia, primo vero bene di consumo nella nostra società. A questo proposito, Alberto Abruzzese individua un passaggio epocale dall’industria culturale alla tecnologia culturale o cultura tecnologica, per sottolineare il fatto che la tecnologia e le immagini digitali hanno modificato il nostro modo di comunicare e visualizzare il mondo. I media sono quei luoghi in cui la nostra sensazione dello spazio e del tempo è in continua ridefinizione. Per comprendere l’esperienza della percezione in epoca contemporanea non si può prescindere dal considerare il ruolo predominante della tecnologia nello strutturare l’immaginazione individuale e collettiva. Se ci limitiamo a considerare gli effetti prodotti dal cinema e dalla fotografia, è evidente che essi sono i media simbolici delle trasformazioni dell’ambiente culturale e della fusione tra il reale e l’immaginario nella vita quotidiana. La tecnologia, quindi, è innanzitutto una tecnologia della visione, avendo sancito la predominanza dell’esperienza visuale nella vita di ogni giorno. Inoltre, fenomeni come la moda, che privilegiano i valori visivi della superficie e dell’apparenza, non sarebbero neppure concepibili senza tecnologie come la fotografia, “che estraggono le immagini dalle cose, la forma dalla materia. […] La moda è precisamente una forma di virtualizzazione e di estetizzazione della vita, il segno più tangibile che ‘nella realtà v’è un assurdo desiderio di irrealtà’”.16
Questo profondo rinnovamento certamente non inizia negli anni Ottanta, ma si palesa ed esplode in questo momento storico attraverso una molteplicità di immagini, interpretazioni, colori, soggettività, atteggiamenti culturali che rendono evidente la nuova condizione del soggetto postmoderno che, “se guarda dentro di sé alla ricerca di una certezza prima, non trova la sicurezza del cogito cartesiano, ma le intermittenze del cuore proustiane, i racconti dei media, le mitologie evidenziate dalla psicoanalisi”.17
Come ha compiutamente dimostrato Jean Jeacques Wunenburger,18 la mitologia è una delle forme più elaborate dell’immaginario, espressione che ha acquistato credito solo nel ventesimo secolo ed è entrato nell’uso comune, sostituendo progressivamente il termine immaginazione. “La caratteristica proteiforme dell’immaginario, lo ha sostanziato nella grande creatività della nostra civiltà ma anche, terribilmente, nell’isteria collettiva delle grandi ideologie del XX secolo”.19
La cultura delle immagini che caratterizza la nostra esperienza quotidiana necessita, quindi, di una profonda riflessione sulla natura dell’immaginario. Quest’ultimo, infatti, è strettamente collegato alla conoscenza del mondo e delle dinamiche che muovono le azioni umane, perché costituisce il fondamento delle percezioni, dei concetti e delle visioni che riguardano la realtà sociale. Come sostiene Edgar Morin, è proprio “nella cultura di massa che l’osmosi tra l’immaginario e il reale e più stretta che nei miti religiosi o magici”,20 perché attraverso le immagini la cultura di massa propone “miti di autorealizzazione”,21 che i mass media contribuiscono a rendere credibili e possibili. Il filosofo Castoriadis sottolinea il ruolo primario svolto dall’immaginario nella costituzione dell’identità, dei bisogni e dei desideri di una società.22 Le immagini che i media diffondono quotidianamente costituiscono il repertorio sempre aggiornabile di personaggi, luoghi o eventi, di quelle forme archetipiche costanti o mutevoli, che strutturano l’identità sociale canalizzando la sensibilità e i gusti di ognuno di noi e allo stesso tempo danno forma alla storia e alla cultura. Se quindi l’immaginario è sempre stato considerato opposto alla realtà, oggi appare piuttosto evidente che
L’immaginario è una cosa molto concreta. Come l’inconscio, è là fuori, nella città, per le strade. Basta guardare: il nostro sguardo ne è preda, vi si ammala. Il nostro sguardo è come l’uomo della folla di Poe, che non vive se non abbagliato e confuso nel vortice della moltitudine. E Dazed and Confused […] è non solo il titolo di un celebre pezzo dei Led Zeppelin, ma anche quello di una delle attuali riviste di “tendenza” che segnalano al popolo dei malati di immaginario gli ultimi sviluppi del cool.23
Nella condizione postmoderna caratterizzata dalla perdita di punti di riferimento e di un sistema di regole sociali, l’immaginario è proprio ciò che rende possibile l’esibizione di ogni singolarità. E in piena civiltà dell’immagine, gli anni Ottanta hanno prodotto un immaginario in cui l’estetica dell’apparenza sembra essere il valore assoluto di una generazione che attraverso il guadagno, le diete, le palestre, la chirurgia plastica e i trattamenti estetici cerca di scacciare la propria ossessione più grande: cadere nell’anonimato di un quotidiano banale dove ognuno è uguale a chiunque altro e la realtà è meno leggera di quanto si può immaginare.
Charles H. Traub: icone di leggerezza
Proprio in questo momento storico, in cui l’uomo cerca le risposte alle proprie domande esistenziali al di fuori di sé, nel consumo sfrenato e in ogni forma di eccesso, c’è chi proprio attraverso le immagini sceglie di immortalare il quotidiano, quell’immenso e variopinto paesaggio che l’iconografia tradizionale e le riviste più o meno patinate hanno generalmente rimosso o ignorato. Il fotografo americano Charles H. Traub ha iniziato la sua carriera a New York nel 1967, in piena epoca hippie. Oltre dieci anni dopo, approfittando dei lunghi periodi di vacanza trascorsi nel nostro Paese, ha scattato una serie di fotografie alle persone che incontrava per le strade delle principali città italiane, immortalando l’immagine di un modo di vivere che evidentemente non esiste più. Traub, invece di soffermarsi sulle splendide mete turistiche italiane, ha fotografato le città attraverso i suoi abitanti, i loro usi e costumi. E così è riuscito a congelare lo spirito e l’essenza di quegli anni così importanti per comprendere l’Italia di oggi. Non la superficialità o la stravaganza fine a se stessa, ma l’ironia, una sana dose di “cattivo gusto” e, soprattutto, la leggerezza, quel modo lieve e soave di vivere la vita, che oggi sembra un lontano ricordo (Figg. 1 e 2).
Come lo stesso Traub ha dichiarato, l’Italia era per lui una fonte di ispirazione ed energia che gli permetteva di sfuggire alla routine. E questo perché le città e i paesaggi non avevano ancora subito gli effetti della globalizzazione e la cultura era ancora uniforme, di massa appunto. Dopo aver presentato le immagini negli anni Ottanta, il fotografo le ha conservate e recuperate solo di recente raccogliendole in un libro che nel titolo omaggia la Dolce vita raccontata da Federico Fellini negli anni Sessanta. Dolce via: Italy in the 1980s, pubblicato nel 2014, non è solo un documento o una raccolta di immagini dell’Italia degli anni Ottanta, ma un racconto pittoresco e sensuale di un Paese in cui ogni cosa – il design, la moda, la ricchezza gastronomica, il paesaggio naturale, l’arte e l’influenza di un passato glorioso – contribuivano a creare il contesto ideale per vivere una “dolce vita” (Fig. 3).
Charles H. Traub non fotografa l’Italia da turista o da giornalista, ma da “passeggiatore” come ama definirsi. Quando gli si chiede se Dolce via può essere considerato un tentativo di street photography, Traub risponde in questo modo:
In realtà non ho mai capito questo termine. Lo trovo inopportuno. Sono sempre stato e sarò sempre qualcuno che cerca di riportare ciò che vede, ciò che ha visto. Sarebbe più corretto parlare di un fotografo passeggiatore, più che di un fotografo di strada […]. Le immagini che produco si focalizzano principalmente sul tempo che passa, sullo spazio e sugli eventi che accadono.24
E così ogni immagine diventa “icona”, simbolo di una dolce vita che esiste solo negli interstizi tra la realtà e l’immaginazione. Agli occhi di Charles H. Traub, l’Italia si presenta come un paese dalla cultura complessa e vitale, dove c’è sempre qualcuno o qualcosa da fotografare. Le roventi estati napoletane, gli scugnizzi di Mergellina, le signore milanesi che passeggiano con le pellicce, i ponti di Firenze, le rocce di Capri e la bellezza senza tempo di Roma sono paesaggi che, attraverso l’obiettivo senza filtri di Traub, prendono vita, si colorano e si popolano di persone che nella quotidianità del loro vivere cercano di sfuggire alla durezza del presente, ritagliandosi uno spazio in cui mostrarsi e quindi esistere al di là della monotonia di ogni giorno. Lo stesso Traub ha dichiarato:
La sensualità delle mie foto deriva dal fatto che sono state scattate in un paese decadente, che stava cercando di nascondere le difficoltà economiche, il suo declino, e che viveva nella nostalgia della gloria passata. Durante la pausa pranzo o mentre si cammina, a Roma o a Napoli, lo si fa per mostrarsi, per sfuggire alla routine. Tutti vogliono essere visti. Pochissime persone si opponevano alla mia richiesta di scattare una foto.25
Nel fotografare il nostro Paese, quindi, c’è qualcosa che distoglie lo sguardo del fotografo dalla bellezza dei monumenti, delle chiese e dei meravigliosi paesaggi naturali, evidentemente subordinati alla presenza di giovani e flessuosi corpi in abiti estivi o nudi, agli scugnizzi che giocano spensierati tra i vicoli di Napoli, alle signore milanesi vestite di tutto punto, alle bellezze in spiaggia o a distratti e rilassati turisti. Si tratta, per stessa ammissione di Traub, non di tipi universali, ma di persone comuni e allo stesso tempo caratteristici di un momento in cui molti si comportavano come se stessero vivendo in un paradiso terrestre. Questo atteggiamento distopico, che apparentemente ignorava i problemi che attanagliavano il nostro Paese in quegli anni, è proprio l’aspetto più interessante e significativo del lavoro del fotografo americano, perché aiuta a comprendere meglio perché gli anni Ottanta ancora oggi sono ricordati come anni di plastica, dell’effimero e del piacere. In realtà le persone, terrorizzate dalla paura di ricadere nel buio del decennio precedente, reagiscono con una sana dose di irrazionalità scegliendo la strada della leggerezza perché, secondo Traub
gli italiani hanno un gran numero di espressioni per condannare le circostanze in cui vivono, […] senza fare nulla per modificarle. […] Tuttavia, c’è una differenza tra questa sorta di fatalismo e l’inerzia totale. Ed è questo che io ho cercato di catturare, questa frenetica e rassicurante allucinazione.26
Pertanto, Traub ha cercato di cogliere l’inspiegabile in situazioni che ad uno sguardo più superficiale apparirebbero del tutto normali. E lo fa con una naturalezza disarmante, senza mai “alzare i toni” poiché, in quegli stessi anni in cui percorreva il suo dolce cammino all’interno di un’epoca ricordata per la sua unicità, era già consapevole del profondo cambiamento sociale che si stava consumando davanti ai suoi occhi. E per questo Dolce via è come la voce di un discorso che estrae un gran numero di significati al di fuori delle circostanze in cui sono inseriti. Nel riguardare le sue fotografie a distanza di tempo, lo stesso Traub si è trovato nella difficoltà di trovare un criterio per sistemare le immagini all’interno del libro, poiché da una parte le immagini sono scattate come se fossero dei
fotogrammi, come blocchi dell’edificio di un discorso che produce senso ‘in movimento’, senza mai cristallizzarsi in un irremovibile piramide di credenze. E l’urgenza, dall’altro lato, di decodificare il non scritto, il messaggio misteriosamente esplicito che io ho visto, criptato nella vita che congela […] prima di tutto la mia macchina fotografica.27
Non esiste quindi un criterio per organizzare le immagini di un momento storico in cui gioia ed entusiasmo di vivere, ostentazione e semplicità, colori vibranti e sensualità rappresentavano quella superficie in cui, parafrasando Oscar Wilde, tutto deve essere letto. La complessità della cultura italiana si mostrava davanti agli occhi di un fotografo passeggiatore che oggi, a distanza di tempo, si trova a constatare che le sue sono “immagini vintage di un mondo che non c’è più: (poiché) ‘oggi i teatri, le persone e i vicoli delle strade hanno perso i colori di una volta’”.28
Questa rivalutazione del quotidiano, “per dirla con Gilles Deleuze […] quella palude in cui sembra sprofondare il pensiero”,29 è il risultato di un modo di utilizzare il mezzo fotografico più consapevole, che si interroga sul valore concettuale delle immagini, ribaltando l’impostazione pittorica ottocentesca. Infatti, l’immagine dell’Italia fino a quel momento era stata quella di un luogo che contiene l’arte. Un paese ricco di storia e monumenti, imprigionata nel suo nobile passato che non lasciava spazio alla presenza umana e ai paesaggi del quotidiano. Un tipo di fotografia slegata dai luoghi “reali” e dalla consapevolezza del mezzo. Ad interrompere questa visione contribuì non poco Viaggio in Italia, curato da Luigi Ghirri, collega ma soprattutto amico di Charles H. Traub di cui fu guida durante i suoi numerosi soggiorni in Italia (Fig. 4).
Nel piccolo volume pubblicato nel 1984, Ghirri e i suoi colleghi Basilico, Chiaromonti e Tinelli, solo per citarne alcuni, mostravano luoghi periferici, città deserte, spiagge abbandonate, stabilimenti industriali e strade provinciali. Un’Italia completamente diversa da un’iconografia pittorica che l’ha consacrata come il regno dell’arte, da quell’immagine gloriosa e consolidata così difficile da modificare. Viaggio in Italia, non è un documentario su una nuova Italia, ma il frutto della presa di coscienza che l’Italia di quel decennio era diversa. Si tratta di mostrare quei luoghi che quotidianamente fanno da scenario alle nostre vite e che tutti vedono, turisti compresi. È un viaggio nell’immaginario visivo del nostro Paese che, come tutti i luoghi, ha un passato da ammirare e conservare, ma non può non tenere conto del rapporto con il presente, con il cambiamento. “È come se quei capannoni abbandonati, quegli edifici solitari, quelle periferie sconciate […] fossero ora l’immagine interiore del Paese, della sua desolazione, del suo abbandono. Quello che prima era incanto, ora è invece degrado”.30 Queste immagini si sovrappongono all’immaginario visivo novecentesco che, attraverso le fotografie degli Alinari, i sussidiari, le cartoline, i libri del Touring Club, ha costruito il “luogo comune”. A queste immagini se ne affiancano, da questo momento in poi, altre che spostano l’attenzione su paesaggi che hanno determinato cambiamenti storici impossibili da ignorare perché, come sostiene Belpoliti, non sono l’antisteretipo, sono immagini necessarie. Infatti,
La grande informazione, e quella visiva soprattutto, crede di portare il mondo in casa, mentre in effetti aumenta la distanza che ci separa dall’esistente. Lavora sullo spettacolo […] è un’anestesia dello sguardo. […] Occorre che il vedere attraversi campi molto vasti, come quello dell’immaginario soggettivo e quello collettivo, […] che attivi in definitiva nuove strategie di rappresentazione, che tengono conto del mondo esterno e dei mondi interni, del fotografo e dell’osservatore.31
Da questo momento in poi, quindi, acquista senso la dimensione esperienziale dell’atto stesso del fotografare, soprattutto in relazione al paesaggio per misurare il proprio rapporto con il mondo esterno, con se stessi e con l’altro. Come lo stesso Charles Traub ha dichiarato, le fotografie di Ghirri non riguardano cose specifiche, ma trasferiscono nel loro contenuto il processo grazie al quale sono realizzate. Dell’amico-collega, il fotografo americano afferma: “Ghirri rappresenta nella sua persona e nella sua eccezionale, ma breve vita tutto ciò che di splendido c’è nella cultura italiana. […] Egli non crede nelle verità fotografiche, ma nell’atto del fotografare come fenomeno sociale, come un mezzo per decostruire il paesaggio e reinventare uno spazio realistico iperattivo”.32 Allo stesso tempo, secondo Luigi Ghirri che commentò le immagini di Traub, quest’ultimo, attraverso la sensibilità del suo sguardo, “vede le nostre debolezze, ci spoglia e ci denuda, fa l’amore attraverso la telecamera e infine ci venera.”33 Infatti, all’immagine di questa Italia inedita che Ghirri e i suoi colleghi affiancano alle immagini di un’Italia gloriosa e monumentale, Charles H. Traub aggiunge le persone, chiunque, sempre e ovunque, nella convinzione che le nostre vite siano già tanti racconti, molto più interessanti di tutto ciò che può essere costruito".34 Traub viaggia per fotografare ciò che vede, senza pretendere di dimostrare alcuna verità al di fuori della sua. C’è sempre qualcosa o qualcuno da fotografare perché tutti vogliono essere visti. Ragazzi con i calzoncini corti mentre si divertono per le strade prima che i videogiochi diventassero i migliori compagni di giochi dei nostri figli, bei ragazzi in posa davanti a statue monumentali, anziane signore ben vestite e truccate, simpatici vecchietti sereni nel loro dolce far niente e turisti rilassati sulle spiagge o in città dove ogni momento è buono per prendere un po’ di sole (Figg. 5, 6, 7 e 8).
In queste fotografie ritroviamo le nostre madri, le nostre sorelle, i nostri figli e i nostri nonni, perché l’Italia che Traub ha fotografato è popolare e popolata, ironica, colorata, sensuale, un po’ triste e malinconica, ma molto leggera. La sensazione forte che pervade chi sfoglia le pagine di Dolce Via è quella di percorrere un viaggio visivo nei propri album di famiglia perché sono immagini che rompono gli schemi, escono dalle convenzioni e non mascherano la complessità e la contraddittorietà di quegli anni dopo i quali nulla è stato più come prima.
Questa “‘passione per il mondo così com’è’ per dirla con Celati”,35 ricorda molto il lavoro del fotografo Martin Parr che, da sempre interessato agli aspetti pop della provincia inglese, ha sviluppato nei suoi scatti un profondo senso dell’ironia e un sarcasmo mai violento o banale. Sempre delicata la sua fotografia ci fa sorridere, ma subito dopo ci esorta a riflettere sugli aspetti contraddittori, provinciali e apparentemente banali della vita contemporanea. Parr e Traub guardano i fenomeni sociali in modo completamente nuovo, stimolando la partecipazione attiva dello spettatore, al quale si richiede di combinare l’analisi degli evidenti segni della globalizzazione con l’inusuale esperienza visuale delle loro immagini. Proprio a metà degli anni Ottanta, in piena epoca Thatcher, Parr realizzò il suo primo lavoro di successo, The Last Resort, concettualmente e visivamente molto vicino alle fotografie di Traub. Si tratta di un diario delle vacanze della working class a New Brighton, caratterizzato da colori accesi e brillanti, gente comune ritratta nelle infinite ritualità del nostro tempo. Uno sguardo dolce su tutto ciò che appare kitsch, su quel mondo cheap ed estremamente familiare, in cui ognuno può ritrovare un po’ di se stesso. Anche Parr, come Traub, nel ripensare a quegli anni non può far altro che constatare quanto sia tutto molto cambiato affermando: “Non tornerei più a New Brighton perché […] oggi è più povera, molte attività hanno chiuso, l’energia e il fermento degli anni Ottanta sono scomparsi”.36
Negli stessi anni Martin Parr scatta una serie di fotografie nel nostro Paese immortalando distratti e colorati turisti di fronte ai monumenti delle città d’arte, in pose grottesche e comportamenti strani. La società che traspare in lavori come questi è perennemente contraddittoria e ridicola, ma lo sguardo del fotografo non vuole risolvere tali contraddizioni o giudicarle, al contrario ci chiede di partecipare attivamente per decifrare il significato nascosto in superficie (Figg. 9 e 10).
L’Italia, dunque, era cambiata, ma erano diversi anche gli occhi di questi artisti che affermano una nuova forma di realismo, che aveva attraversato le avanguardie e le neoavanguardie. I nuovi media mettono in atto svariate modalità di testualizzazione della realtà per esplorare le dinamiche storico-culturali e l’elaborazione dell’identità di un’epoca. Per questo motivo le fotografie, ma anche i film e le immagini televisive e pubblicitarie, non solo interpretano il mondo, ma diventano essi stessi “agenti di storia”, restituendo la complessità di un periodo storico caratterizzato da un orizzonte mediale sempre più plurale e proteiforme.
Se è vero che gli anni Ottanta sono un decennio che in parte ancora attende di essere studiato, soprattutto in Italia dove prevalgono visioni contrastanti e stereotipate, ciò che appare ormai evidente è che proprio perché “dotato di uno spirito, il decennio segna il definitivo trionfo di un ethos, fatto di immaginario e di valori, prodotti allora più che mai da un singolare intreccio fra strutture materiali e dimensione simbolica”.37 Già nel 1989 il cantautore Raffaele Riefoli, in arte Raf, si domandava Cosa resterà degli anni ’80 e anticipava di qualche mese la chiusura del decennio che convenzionalmente si fa coincidere con la caduta del muro di Berlino, “scattando una fotografia di quelli che le stesse parole del testo descrivono come ‘anni allegri e depressi di follia e lucidità’”.38 E oggi che si moltiplicano le rivisitazioni nostalgiche di un decennio così cruciale, ricco di vitalità e allo stesso tempo di disincanto, dai colori vibranti e sensuali, magnifici nella loro malinconia, caratterizzato da atteggiamenti grotteschi e da un’atmosfera decadente, le immagini del fotografo americano risvegliano le nostre coscienze con un tempismo perfetto.
Le fotografie di Traub, come quelle di Ghirri o Parr, non sono certamente belle nel senso comune del termine, perché esse non vogliono parlare di bellezza come valore astratto e separato dal mondo reale. Valutare una fotografia in termini esclusivamente estetici e non per ciò che essa racconta è un grave errore che oscura il suo messaggio e non tiene conto del fatto che molte foto sono belle e basta. L’approccio estetico è certamente uno dei tanti possibili, ma anche il più semplicistico che si possa utilizzare, perché misura un valore soggettivo, essendo la bellezza una delle caratteristiche più evanescenti delle cose. Come le avanguardie artistiche ci hanno insegnato, il significato degli oggetti d’arte, siano essi quadri, sculture o fotografie, è più profondo e difficile da cogliere di quella polvere depositata in superficie. Nel fotografare ciò che ha visto, Traub non ha ceduto al fascino dell’estetica, ma ha osservato la realtà con gli occhi impertinenti di un bambino, senza filtri, senza mediazioni intellettuali. E in un momento storico in cui gli adulti, probabilmente troppo distratti dallo schermo di un cellulare, la realtà non la vedono più, immagini come quelle del fotografo americano costringono ad osservare con attenzione la superficie, sollecitano l’intelligenza a scoprire il segreto che si cela dietro l’ordinario, il banale, il quotidiano. Per questo il fotografo non può concepire la realtà senza la presenza umana, perché in fondo viviamo in questo mondo interagendo con esso e interpretandolo secondo il nostro punto di vista. Nelle sue foto si potrebbe scorgere una certa miseria umana, trattandosi solo di persone che fanno cose assolutamente normali e un po’ grottesche, dietro cui si cela la vera natura umana, che di naturale in realtà ha ben poco. Il nostro essere al mondo, infatti, è una costruzione dell’individuo all’interno della società, è tutto ciò che quotidianamente facciamo per comunicare una precisa immagine di noi stessi. E negli anni Ottanta le persone facevano di tutto per lasciarsi alle spalle la pesantezza del decennio precedente, ostentando uno stile di vita che ha le sue radici in una mutazione antropologica senza precedenti. Durante gli anni Ottanta, la società di massa diventa davvero per la prima volta la “società dello spettacolo”. Eppure se guardiamo oltre la “normalità” di queste immagini, scorgiamo sempre qualcosa di vagamente fuori posto, una crepa che invita a guardare dentro per scoprire la realtà che si nasconde dietro quell’immaginario visivo che, da Fellini a Sorrentino, il mondo sembra ancora vedere. Eppure quell’Italia libera, tranquilla, colorata e multiforme non esiste più. La globalizzazione, la crisi politica ed economica, la realtà virtuale e il proliferare di modelli di riferimento sterili ed omologanti hanno completamente trasformato quello scenario variopinto e seducente che Traub ha immortalato. “La gente ha perso ciò che la rendeva così speciale, così diversa dagli altri. L’Italia era una macedonia di frutta esotica. Oggi, purtroppo, è diventata una sorta di frullato”.39
Dolce via racconta senza filtri un decennio alla base dell’attuale condizione postmoderna, un momento in cui le persone erano ancora in grado di ritagliarsi uno spazio, anche se minimo, in cui vivere con una leggerezza che oggi è diventata superficialità e apparenza pura, dietro la quale risulta difficile scorgere un senso. Osservando questo lavoro ci scopriamo incastrati nel tentativo di risolvere un indovinello o di trovare il significato di un ritratto di noi stessi che ci fa sorridere, ci rattrista e ci rappresenta perché ambiguo come la fotografia dovrebbe essere. E se ancora non riusciamo a cogliere l’enigma di questi mitici anni Ottanta è perché non siamo in grado di calarci pienamente oltre gli strati del visibile come la macchina fotografica sa fare. In superficie c’è quello che tutti vedono, oltre c’è una versione surreale della realtà, ma più in profondità c’è la vera natura dell’umanità, quella più difficile da cogliere intellettualmente. E in questo viaggio nell’immaginario visivo del nostro Paese, tra memoria e interpretazione, tra superficie e profondità, tra entusiasmo e nostalgia, laddove i colori appaiono sbiaditi e la leggerezza evaporata, “la fotografia è il viaggio più appagante”.40
Bibliografia
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Lino Miccichè, a cura di, Schermi opachi. Il cinema italiano degli anni ’80 (Venezia: Marsilio, 1998), 3.↩
Cfr. Marco Gervasoni, Storia d’Italia degli anni Ottanta. Quando eravamo moderni (Venezia: Marsilio, 2010).↩
Umberto Eco, “Gli anni Ottanta sono stati grandiosi,” in La bustina di Minerva, a cura di Umberto Eco (Milano: Bompiani, 2000), 90–1.↩
Cfr. Giovanni Ciofalo, Infiniti anni Ottanta. Tv, cultura e società alle origini del nostro presente (Milano: Mondadori, 2010), 184.↩
Cfr. Marco Gervasoni, Storia d’Italia degli anni ottanta (Venezia: Marsilio, 2010), 12.↩
Massimo Scaglioni e Anna Sfardini, Multitv. L’esperienza televisiva nell’età della convergenza (Roma: Carocci, 2008), 9.↩
Cfr. Ciofalo, Infiniti anni Ottanta, 16.↩
Cfr. Ciofalo, 17.↩
Gianni Vattimo, La fine della modernità (Milano: Garzanti, 1985), 13.↩
Cfr. Gervasoni, Storia d’Italia degli anni Ottanta, 176.↩
Cfr. Vattimo, La fine della modernità, 187–9.↩
Guido Aristarco, Il mito dell’attore, come l’industria della star produce il sex symbol (Bari: Dedalo, 1983), 15.↩
Edgar Morin, Lo spirito del tempo (Roma: Meltemi, 2002), 91.↩
Alberto Abruzzese e Davide Borrelli, L’industria culturale. Tracce e immagini di un privilegio (Roma: Carocci, 2000), 26.↩
Cfr. Giovanni Ciofalo, Infiniti anni Ottanta. Tv, cultura e società alle origini del nostro presente (Milano: Mondadori, 2010), 19.↩
Cfr. Abruzzese e Borrelli, L’industria culturale, 187–8.↩
Gianni Vattimo, La società trasparente (Milano: Garzanti, 1989), 62.↩
Cfr. Jean Jeacques Wunenburger, L’immaginario (Genova: Il melangolo, 2008).↩
Valentina Grassi, “Immaginario e vita quotidiana: il ruolo del simbolico nella costruzione sociale della realtà”, Im@go, no. 6 (dicembre 2015): 202–15.↩
Cfr. Morin, Lo spirito del tempo, 208.↩
Morin, 106.↩
Cfr. Cornelius Castoriadis, L’istituzione immaginaria della società (Torino: Bollati Boringhieri, 1995).↩
Fulvio Carmagnola, Abbagliati e confusi. Una discussione sull’etica delle immagini (Milano: Marinotti, 2010), 7.↩
Julien Morel, “Charles H. Traub ha fotografato l’Italia che non c’è più”, Vice, 28 luglio 2014, https://www.vice.com/it/article/bnwbpa/dolce-via-intervista-charles-h-traub-foto-italia-380.↩
Morel.↩
Charles Traub, Dolce Via. Italy in the 1980s (Bologna: Damiani, 2014) s.p., (trad. dell’autrice).↩
Traub, s.p.↩
F. B., “La Dolce Via di Charles Traub perde colore:”Non riconosco più la mia Italia", La voce di New York, 19 aprile 2014, https://www.lavocedinewyork.com/arts/arte-e-design/2014/04/19/la-dolce-via-di-charles-traub-perde-colore-non-riconosco-piu-la-mia-italia/.↩
Marco Belpoliti, “Viaggio in Italia”, Doppiozero, 13 luglio 2012, https://www.doppiozero.com/materiali/clic/viaggio-italia.↩
Belpoliti.↩
Marco Belpoliti, Conversazione con Luigi Ghirri: fotografare l’Italia, https://www.doppiozero.com/materiali/conversazione-con-luigi-ghirri-fotografare-litalia, 14 febbraio 2018.↩
“Viaggio in Italia”, Charles Traub, 28 luglio 2011, http://www.charlestraub.com/new-blog/2016/3/31/viaggio-in-italia.↩
Cfr. F. B., La Dolce Via di Charles Traub perde colore: “Non riconosco più la mia Italia”.↩
Cfr. Morel, Charles H. Traub ha fotografato l’Italia che non c’è più.↩
Cfr. Gianni Celati, Finzioni in cui credere (Bologna: Clueb 2011).↩
Emaluele Coen, “Martin Parr:”Nel kitsch l’Italia non è seconda a nessuno," L’Espresso, 12 maggio 2017, http://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2017/05/09/news/martin-parr-nel-kitsch-l-italia-non-e-seconda-a-nessuno-1.301137.↩
Paolo Mattera e Christian Uva, “Realtà, immagini e immaginario di un decennio da ri-vedere,” Il lavoro culturale, 10 novembre 2012, http://www.lavoroculturale.org/cinema-e-storia-anni-ottanta-quando-tutto-comincio/.↩
Cfr. Ciofalo, Infiniti anni Ottanta, 13.↩
Cfr. Morel, Charles H. Traub ha fotografato l’Italia che non c’è più.↩
Cfr. F. B., La Dolce Via di Charles Traub perde colore: “Non riconosco più la mia Italia”.↩