Charlotte Huguet, giornalista e stylist, lavora da molti anni per Elle France, occupandosi in particolare di articoli e servizi di moda bambino. Sul sito della rivista viene definita “Journalist Déco”. Vive a Barbizon, dove lei e il marito Emiliano Schmidt Fiori, wood worker e designer, hanno progettato una casa di legno al limitare della foresta di Fontainebleau, dove vivono con i figli e Leonardo e Solal: il maggiore è un baby modello molto richiesto da brand come Zara Kids e Nike.
Domanda – Cara Charlotte, puoi raccontarci esattamente qual è il tuo lavoro, in particolare in relazione all'incrocio fra moda e infanzia?
Risposta – Il mio lavoro è quello della stylist. In che cosa consiste? Mi vengono mandati una serie di capi d’abbigliamento e/o accessori, principalmente di marchi che acquistano spazi pubblicitari sul giornale per cui lavoro (Elle France), e il mio ruolo è quello di mettere in scena questi vestiti e oggetti vari, creando un universo di facile lettura per un pubblico di lettori e soprattutto valorizzando i prodotti degli inserzionisti più importanti. Nel caso invece di una pubblicità per un catalogo, su carta o sul web, il mio lavoro è decisamente più creativo e libero, nel senso che sono io a scegliere e costruire il contesto iconografico in cui inserisco gli abiti o gli oggetti da mettere in scena. In questo caso, in collaborazione con la fotografa o il fotografo, scelgo anche i giovani protagonisti: modelle e modelli bambini che meglio si prestano all’universo che cerchiamo di creare e comunicare.
D – Raccontare la moda per l'infanzia, fra immagini e testi, significa riprendere e insieme creare un immaginario: qual è il tuo immaginario di infanzia?
R – Mi ispiro molto alla mia infanzia, gli anni ’80, quindi il cinema di quegli anni, i colori delle fotografie (ricordi cromatici), le atmosfere che mi tornano in mente. Nel mio immaginario sono anni positivi, carichi di una sorta di spensieratezza. Ovviamente è la percezione di me bambina in quegli anni, non un’analisi approfondita di quel periodo rispetto ad un altro o a oggi.
D – Le linee redazionali della rivista ELLE come interpretano la condizione reale dei bambini, la loro vita quotidiana o il cambiamento delle culture a loro dedicate anche in relazione alla contemporaneità?
R – Purtroppo non credo che ci sia ora una reale linea redazionale in questo senso. Penso che, tenuto conto anche delle contingenze critiche che sta attraversando la stampa, il giornale mette in primo piano in maniera sbrigativa il prodotto del miglior offerente, il bambino in quanto tale è un puro figurante. Del resto, non sono i bambini stessi i destinatari finali ma i loro genitori che dal dentista sfogliano la rivista. Forse non è neanche una questione di scelte ma di obblighi nei confronti degli sponsor.
D – Per un tuo servizio di moda bambini quali sono i riferimenti visivi e narrativi più spesso presenti? La letteratura per l'infanzia? Il cinema? La scienza? Lo sport?
R – Il cinema, sicuramente. Ma anche lo sport, l’arte. Dal disegno alla scultura, l’equitazione o l’arrampicata, per esempio. Spesso la mia ispirazione è fondata sulle immagini, Instagram, Pinterest, il linguaggio dell’illustrazione. Forse, ma in misura minore, anche la letteratura. Il riferimento letterario è più difficile, meno immediato. Poi il tempo a nostra disposizione non ci permette un lavoro troppo articolato. Bisogna andare veloce. E la velocità non va d’accordo con la riflessione.
D – Quale idea di infanzia secondo te viene trasmessa oggi dal mondo della moda bimbo?
R – Dipende dal Paese. In Spagna trovo che per esempio esista una moda creativa che prende ispirazione dall’universo infantile e pone il bambino al centro del suo interesse. In Francia si cerca di rispondere a un reale bisogno del bambino, con un approccio forse più razionale. C’è ovviamente un’idea un po’ preoccupante che pone il bambino nelle vesti dell’adulto, un piccolo adulto deve stupire in quanto piccolo prodigio, col rischio di farlo diventare un fenomeno da baraccone. Si cerca anche di far passare l’idea che l’immagine sia un aspetto fondamentale per il bambino, il che per me non è vero.
D – Sei anche mamma di un baby modello, anzi due (Leonardo, a volte con il fratellino Solal) e quindi ti trovi a frequentare set e manifestazioni dedicate al mondo della moda bambino: vuoi condividere con noi la tua lettura di queste esperienze?
R – Nel mio lavoro di stilista si cerca di rispettare il bambino, la sua capacità di reagire agli impulsi che gli vengono dati, la durata e la qualità della sua attenzione. Rassicurare e soprattutto divertirlo. A Pitti, dov’ero in qualità di madre accompagnatrice, ho trovato un clima duro e sbrigativo, un trattamento non adeguato. Ho assistito ad un vero e proprio sfruttamento, un atteggiamento insofferente e non curante dei tempi del bambino. Ho visto bambini trattati come oggetti. E poi anche un’ansia eccessiva da parte di alcuni genitori che ripongono sui bambini forse anche molte delle loro frustrazioni, e sperano di farne delle mini star per rispondere ad un proprio desiderio di riscatto.
D – Credi che esista il rischio di una eccessiva mercificazione o adultizzazione dei bambini nel mondo della moda?
R Assolutamente. Credo si debba sempre tenere presente l’ambito infantile e non pretendere di voler fare dei bambini dei professionisti adulti.
D – Quali sono per te i migliori esempi di una tendenza invece positiva e di ricerca, nella pubblicità o nella moda infantile?
R – Sicuramente marchi minori. Attualmente, spesso spagnoli come The animal observatory, o Bobochoses o Tiny Cotton che basano le loro collezioni sull’universo del bambino e che comunicano attraverso piccole campagne orientate sempre verso l’infanzia. Non imitano per intenderci le atmosfere create per i grandi.
D – Chi produce narrazioni d'infanzia ha sempre una grande responsabilità: come definiresti il ruolo degli stylist, dei giornalisti e delle altre figure impegnate nel mondo moda bimbo?
R – È un ruolo importante perché sono stata testimone di ottimi esempi di stylist che fanno molta attenzione ai bambini ma anche di scene pessime, di professionisti insensibili, quasi scocciati dal dover lavorare con dei mocciosi, al punto che non riescono a creare una comunicazione e che pretendono cose che non hanno un significato per un bambino.