ZoneModa Journal. Vol.8 n.2 (2018)
ISSN 2611-0563

Sentieri non lineari per la conquista del “sentimento dell’infanzia” nel Novecento:
indizi e denunce al MoMa di New York

Mariangela ScarpiniUniversità di Bologna (Italy)

She is Primary School teacher at the “Maria Montessori” School, Chiaravalle (AN), Ph.D at the Bologna Department of Education, Alma Mater Studiorum – University of Bologna (Tutor: Prof. Mariagrazia Contini ). She carries out her research in the field of General, Social, Intercultural Pedagogy and of the Philosophy of Education. Her research interests are focused in particular on the rights of the child, on the education to critical thought with references to the Montessori method, the Philosophy for Children and the Neurosciences within the framework of Pedagogical Problematicism.

Pubblicato: 2018-12-21

Abstract

As a matter of fact, little girls and boys have always been but not childhood! Childhood, as a social and cultural construct, exists if it is recognized in the physical and personal data, as in the specific needs, competences and potentials. It is necessary to supply children with environments, times, relationships, educational and daily proposals. For too long this recognition has failed, with the risk of assimilation and homogenisation between the adult world and the children’s, which is still ignored. The twentieth century, also called the century of childhood, sees a progressive attention to the world of childhood, as shown by a growing production of toys, furniture and materials specifically designed for little girls and boys. Even the MoMa of New York, in 2012, staged the exhibition “Century of the Child: Growing by Design, 1900-2000” dedicated to objects designed for infancy in the twentieth century: the path of the conquest of childhood is told through the design and creation of objects, clothes, toys, educational features, tools and materials. The promises made by the twentieth century reached their peack in 1989, with the UN Declaration of the Rights of Child, but still most of proclamations often remain fine words. Adults must be responsible towards children and respect their rights in order to let them live a childhood free from the risks of “adultification”, love for spectacle and “showcase-fication”.

Keywords: Childhood and Convention on the Rights of the Child; Design; Century of the Child; Children as Little Adults; Sharenting.

In-fanzia: tra diritti negati e conquiste attese

L’infanzia non è solo un periodo della vita. Per lunghi secoli (e oggi?) abbiamo assistito (assistiamo?) alla presenza di bambini e bambine a cui è stata negata l’infanzia. Andando a ricercarne l’etimologia scopriremmo che la parola infanzia contiene più di una sfumatura apparentemente nascosta; dietro una parola, che rischia di essere fin troppo spesso oggetto di facili e superficiali retoriche, si ritrova il verbo fari. Interessante notare come questa stessa origine verbale produca al contempo altri esiti quali la parola fecondo, la parola favola e, contemporaneamente, la parola nefando, intesa nell’originale accezione di “colui che non deve essere nominato”. Tra le prime immagini presenti nel video-documentario, realizzato da Contini e Demozzi, dal titolo: Corpi bambini, sprechi d’infanzie1 vediamo, tra i primi frame, un interessante quadro di Brueghel in cui sono ritratti bambini e bambine. È una scena di festa: adulti che mangiano e ridono tra loro, danzano o manifestano comportamenti, anche scabrosi o volgari, che ad oggi apparirebbero inopportuni in pubblico. Contini sottolinea però che:

in mezzo a loro, non visti e non tutelati, ci sono i piccoli. […] A non comparire in quelle immagini è l’infanzia, perché quei bambini e quelle bambine non presentano nulla di diverso dagli adulti, non hanno alcuna “specificità”, se non che sono più piccoli. Esattamente come nei ritratti in cui si vedono damine, piccoli principini, piccoli contadini: l’abbigliamento identico a quello dei grandi li assimila alla condizione sociale della famiglia, li identifica nel ruolo che sono “destinati” a ricoprire in futuro, mentre nulla li connota in termini di appartenenza all’infanzia, stagione temporale ma, anche, condizione esistenziale che, per esserci, deve ottenere un riconoscimento sociale!2

L’infanzia per esserci deve essere riconosciuta dal mondo adulto che ne deve assumere la consapevolezza della specificità, i bisogni e, di conseguenza, la responsabilità. Se la pensiamo all’interno di una striscia storica dell’umanità, l’infanzia – così come oggi è considerata – fa la sua comparsa in tempi sorprendentemente recenti. Perché, per esserci, l’infanzia deve essere riconosciuta e considerata – socialmente, culturalmente – come condizione esistenziale, e non solo anagrafica: con le sue caratteristiche specifiche di fragilità e di forza, con i suoi bisogni di accudimento e di cura, con le sue possibilità che, per realizzarsi, richiedono contesti e interventi educativi.3

Riconoscere l’infanzia e riconoscere all’infanzia i suoi diritti

Ricordiamo che già nel 1951 Montessori denunciava:

il bambino come personalità a sé – diversa dall’adulto – non si era mai affacciato alla ribalta del mondo […]. Il bambino come personalità importante in sé stessa – e che ha bisogni diversi dall’adulto da soddisfare, per raggiungere le altissime finalità della vita – non fu mai considerato. Egli fu visto come un essere debole aiutato dall’adulto: non mai come una personalità umana senza diritti, oppressa dall’adulto.4

Si fa strada inoltre, tra il XIX e il XX secolo, l’idea sempre più consolidata di un’infanzia da sottomettere, da punire e da educare attraverso modalità che – lungi dal corrispondere alla latina implicazione di ex-ducere, intesa come tirare fuori – avevano tanto il sapore del forgiare e, si sa, l’oro si forgia attraverso le fiamme. Ai bambini e alle bambine, dunque, veniva corrisposto il miglior fuoco, quello che lascia più segno, che indirizza meglio, senza contare che questo segno, troppo frequentemente, ha avuto il marchio della violenza. Le tante immagini dolenti di piccoli senza infanzia, o con infanzie in cui l’asimmetria significava prevalentemente subire violenza, devono essere trattenute nei nostri pensieri nonostante le emozioni di sofferenza che essi suscitano anzi, proprio per questo: perché dobbiamo comprendere fino in fondo “da dove veniamo”, per quanto attiene al riconoscimento e al rispetto dei diritti dei soggetti più vulnerabili; conoscere la nostra storia, di umanità adulta, nei rapporti “educativi” con i bambini e le bambine; acquisire consapevolezza di quanto sia recente, non consolidato e perciò fragile e sempre a rischio di corrompersi o scomparire, il nostro “sentimento dell’infanzia”.5 Il sentimento dell’infanzia, così come introdotto ed esplicitato da Ariès,6 sta a indicare non solo il coinvolgimento affettivo nei confronti dei bambini e delle bambine che sostano nel periodo dell’infanzia ma anche, e forse primariamente, le concezioni, gli archetipi, le rappresentazioni individuali e collettive. Riconoscere l’infanzia non porta con sé necessariamente il suo rispetto. Per associare le parole bambini e bambine alla perifrasi “portatori individuali dei propri diritti” dobbiamo infatti attendere il 1989, anno in cui viene adottata la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza. La Convenzione è ritenuta il documento cardine nel percorso di riconoscimento dei diritti dei cittadini fino al compimento della maggiore età. Ma con quali scarti ancora evidenti e con quante soste lungo il cammino? Sottoposti per millenni a pratiche di natura violenta, oppressi dal peso di un mancato riconoscimento e lungamente costretti a subire le sorti che il mondo adulto predisponeva per loro, bambini e bambine si sono visti innalzare al rango di soggetti portatori di diritti propri e specifici, doverosamente degni di riconoscimento al pari dei diritti adulti, e, anzi, da tenere in maggiore cura e da difendere con massima attenzione, in quanto connessi alle peculiari caratteristiche della delicata fase evolutiva che i loro depositari attraversano.7 La Convenzione, infatti, è il primo trattato a esprimere i diritti specifici dei bambini: civili e politici, economici, sociali, culturali e anche il “primo strumento internazionale a riconoscere esplicitamente (lo ribadiamo) i bambini come attori sociali e detentori attivi dei propri diritti”.8 Gli Stati membri e alcune agenzie specializzate del sistema delle Nazioni Unite, nonché l’UNICEF, hanno preso parte attiva alla stesura e al confronto sulla bozza della Convenzione.9 Ma è con l’avvento del Novecento che si pongono le basi per tale conquista. Anno Millenovecento. Ellen Key,10 con la pubblicazione del proprio testo, interpreta ed enuncia una rappresentazione dell’infanzia che vediamo appena accennata nell’Ottocento: l’infanzia ha propri diritti e come tali vanno riconosciuti. Il mondo adulto non può sottrarsi dal corrispondervi. Tale cammino dà l’avvio a quello che viene definito il “secolo del fanciullo”.11 Con il suo testo, Key si fa primariamente portavoce di una nuova idea di infanzia così come, in maniera interdipendente, di “maternità” e di “paternità”.12 Infatti, per poter parlare in maniera nuova di infanzia è necessario ridefinire l’idea dell’adultità e viceversa, in forma ricorsiva; per poter parlare di donne e uomini e dei diritti di ciascuno, Key descrive una rinnovata concezione di identità delle bambine e dei bambini, delle necessità dell’infanzia a cui l’adulto ha il dovere di corrispondere e a cui lo Stato deve in qualche modo – in ogni modo? – farsi garante, anche attraverso la famiglia e la scuola. Key13 richiama esplicitamente la società stessa alle proprie responsabilità nei confronti dell’infanzia, affinché supporti le famiglie e con esse intervenga in termini di assistenza e tutela nei confronti dei diritti dei bambini e delle bambine.

Per l’autrice, osserva Silvia Demozzi:

i bambini avrebbero persino il diritto di “essere cattivi”: una posizione provocatoria nei confronti di quella cultura dell’istruzione punitiva che da sempre ha caratterizzato la scuola e la formazione. L’educazione dovrebbe consentire ai bambini di esprimere liberamente le proprie potenzialità, anche quando queste dovessero confliggere con i modelli e le aspettative degli adulti.14

Da un’idea di infanzia da tutelare e assistere vedremo la ridefinizione di un’infanzia rivalutata, in cui i bambini e le bambine sono portatori di diritti; tale idea, in discontinuità con le precedenti epoche storiche e per certi aspetti paradossale, è insita prepotentemente nel pensiero di Key.15 Il Novecento, come è noto, è stato definito secolo breve. Ne sentiamo addosso ancora, quasi freschi di nuovo millennio, le contraddizioni e gli elementi di tragicità che lo hanno lungamente caratterizzato. In tal senso Cambi afferma che il Novecento è stato un secolo pieno di contraddizioni, innominabile, ovvero non riducibile in un solo slogan, ma da comprendere nel suo volto polimorfo e nel suo iter carico di contrasti.16 Modernizzazione. Tecnologia. Globalizzazione. Tra i mille volti del Novecento, grande rilievo ha avuto la storia dell’Infanzia, dell’immaginario e delle rappresentazioni dell’infanzia.

Il Novecento in mostra: il sesto piano del MoMa nel 2012

In effetti, durante il Novecento, l’infanzia ha affermato le sue peculiarità e le sue distanze dal mondo adulto, almeno in gran parte dell’Occidente, almeno sulla carta.

Infatti, a memoria del seppur non compiuto traguardo sulla conquista dell’infanzia, nel 2012 il Museum of Modern Art – MoMa di New York – riprende la profetica idea di secolo dell’infanzia di Ellen Key, e allestisce l’intero sesto piano della galleria con una mostra, “Century of the Child: Growing by Design, 1900-2000”, in cui il cammino della conquista dell’infanzia viene narrato attraverso oggetti, giocattoli, elementi educativi, strumenti didattici, materiali, ….

La mostra muove dall’assunto che il Novecento ha visto la progettazione di spazi “a misura” di bambini e bambine e, con questi, la creazione di materiali di arredo, svago, apprendimento (con esplicito riferimento ai materiali e ai setting montessoriani), fino all’editoria, al cinema e all’architettura e alla progettazione di ambienti digitali. Tale accenno alla mostra, oltre alla finalità di descrivere un’importante catalogazione del processo di conquista del sentimento dell’infanzia attraverso la lente degli oggetti di design, ha delle implicazioni interessanti in merito a prospettive presenti e future. Non mancano nella mostra provocazioni in ordine al rispetto dei diritti. L’esposizione racconta l’infanzia nel Novecento attraverso oggetti, giocattoli, arredi e materiali progettati specificamente per i bambini e le bambine. L’attenzione è rivolta al design, alla progettazione e alla cura di tali oggetti pensati tenendo ben presenti i bisogni da un lato, ma anche, dall’altro, le competenze dell’infanzia. La mostra, visibile in piattaforma stabile in una sottosezione del sito,17 è suddivisa in sette sezioni:

  1. 1900s-1910s: New Century, New Child, New Art

  2. 1910s-1930s: Avant-Garde Playtime

  3. 1920s-1939s: Light, Air, Health

  4. 1920s-1940s: Children and the Body Politic

  5. 1940s-1960s: Regeneration

  6. 1960s-1990s: Power Play

  7. 1960s-2000s: Designing Better Worlds

Sette sezioni collocate nel tempo con una cronologia che torna indietro e ricomincia, con sovrapposizioni temporali e contemporaneità. L’idea è quella di far emergere le istanze – e le contraddizioni – compresenti nel medesimo periodo. Istanze e contraddizioni contemporanee. La curatrice Juliet Kinchin sottolinea infatti, come già evidenziato, che il concetto di infanzia non coincide con un concetto monolitico, fisso nel tempo e nello spazio, ma viene costantemente ridefinito anche all’interno dello stesso arco temporale. Non solo nelle rappresentazioni ma anche nelle azioni (che frequentemente si vengono a caratterizzare come prepotenze) sull’infanzia. Un esempio è il paradosso evidenziato tra gli anni ’20 e ’30 (e non solo) in cui i bambini sono considerati da un lato oggetti di consumo, dall’altro operai sfruttati come manodopera che costruiva beni rivolti agli stessi bambine e bambini, vicini o lontani.

Potremmo sottolineare che, purtroppo, nonostante il tempo del verbo indichi un’azione passata e un periodo storico concluso, le violenze, le privazioni e gli sfruttamenti nell’infanzia non sono ancora terminati.

Pur non escludendo le contraddizioni del tempo, i designer e i curatori della mostra hanno scelto di centrare il loro lavoro sull’infanzia in quanto simbolo e metafora di inesauribile rinnovamento, di possibilità declinata al futuro, di un obiettivo trascendentale per la costruzione di una città utopica, forse ideale, a misura di ognuno, dei bambini e delle bambine prima di tutti.

Tale mostra, qui richiamata a grandi linee, rappresenta un tentativo su larga scala di investigare le tante interconnessioni tra il mondo dei bambini e delle bambine con quello del design. I designer coinvolti hanno comunque voluto porre in evidenza le numerose introduzioni di modelli di pensiero che hanno l’infanzia come fulcro e centro a partire dalla progettazione artistica, includendo giochi, giocattoli, architettura scolastica, propaganda politica, mobili e arredamenti di interni per nidi, aree gioco, pianificazione urbana….

Riprendendo, un secolo più tardi, quello che è divenuto una sorta di manifesto programmatico espresso nel titolo dell’opera di Key il sesto piano del MoMa ha tentato di indagare le rappresentazioni del singolo e della collettività venutesi a manifestare attraverso gli oggetti, quelli “a misura di bambino” e quelli “a favore del bambino”.

Juliet Kinchin e Aidan O’Connor, curatorial assistants del dipartimento di architettura e design del Museo d’Arte Moderna di New York, hanno avviato la ricostruzione del secolo del bambino a partire da cinquecento oggetti di design dedicati all’infanzia. Le opere artistiche sono state raccolte coinvolgendo i diversi continenti al fine di indagare i legami tra gli oggetti di design e la rappresentazione che se ne estrapola del concetto di infanzia.

La finalità della mostra, che si coglie passeggiando tra le sale, è quella di puntare l’attenzione sulle reciproche influenze tra design e sviluppo integrato e globale del singolo. Se da un lato si tenta di esplorare come i materiali abbiano favorito la crescita indagata su diversi piani (in primis intellettivo, emotivo, relazionale e fisico), dall’altro avanza l’ipotesi di poter indagare come il pensiero sull’infanzia e le modalità di relazione con essa abbiano contribuito a proporre rinnovate traiettorie di sperimentazione ai designer e alle loro progettazioni.

Si solleva quindi un sipario sull’arte che fa da specchio a una società che a sua volta si apre all’infanzia e ai suoi diritti, alle sue specificità e ai suoi bisogni (finalmente) riconosciuti, visti.

Gli oggetti, nelle dimensioni artistiche e di design – a volte con un filo di voce a volte gridando tanto da catturare l’attenzione persino dello spettatore più distratto, del fruitore meno abituato ad ascoltarla – raccontano l’in-fanzia!

Muta. La polifonia di significati di questa parola le dona, nella mostra del MoMa, il diritto di cambiare accezione un’infanzia non muta, ma che muta, che è in cambiamento nelle rappresentazioni sociali e che, anche arrancando e nonostante i venti contrari (ciò che è impegnativo e scomodo a volte scatena tempeste), proferisce parola cambiando la prospettiva da cui parlare, cambiando punto di ascolto.

Materiali e ambienti, pensati e realizzati con uno sguardo non più adulto-centrico, raccontano l’impegno e l’intenzione di mettersi dal punto di vista del bambino e della bambina, e da lì partire alla loro “scoperta” – come sottolineò Maria Montessori18 – dichiarando il salto di discontinuità con le informazioni accademiche teorizzate fino a quel momento. Il sesto piano del MoMa dedica un’ampia sezione ai materiali montessoriani. Ai materiali e non solo: all’idea che sottostà a quei materiali. È necessario un ribaltamento di paradigma e con esso una rinnovata idea di infanzia – ancora da scoprire, sempre ancora da scoprire – che neghi la presunta superiorità dell’adulto sul bambino e della concezione di un’istruzione non più da stimolare acriticamente (che tanto richiama l’immagine di un vaso vuoto da riempire, di un meccanismo da innescare, sempre per mano di chi sa come riempire e come accendere) ma da accompagnare e da guidare, pensando l’educazione come aiuto alla vita. Ed è proprio in questi termini che l’educazione viene proposta, infatti, da Montessori: l’attenzione fondamentale dell’adulto che si occupa di educazione deve essere quella di non creare ostacoli allo sviluppo armonico, integrale di ciascun bambino e di ciascuna bambina. Si sposta il fuoco, dunque, dal sapere cosa fare al pensare a come fare, fino a gridare la necessità dell’esercizio della riflessività da parte degli adulti.

Il concetto fondamentale per l’educazione è dunque di non divenire un ostacolo allo sviluppo del bambino. Fondamentale e difficile non è il sapere che cosa dobbiamo fare, ma il comprendere di quale presunzione, di quali stolti pregiudizi dobbiamo spogliarci per renderci atti all’educazione del bambino.19 Dunque, il pensiero e il materiale montessoriano hanno accompagnato e dato un’impronta piuttosto importante tanto agli inizi del Novecento quanto all’esposizione del MoMa. Accanto a Montessori compaiono i doni dei Kindergarten di Friedrich Fröebel e le creazioni artistiche dei bambini frequentanti le scuole promosse da Rudolf Steiner.

1900s-1910s: New Century, New Child, New Art

Non solo Froebel e Montessori: nella sezione dedicata al primo decennio del Novecento sono rilevanti i contributi di Magda Mautner Von Markhof col suo Kalenderbilderbuch, i disegni di Charles Rennie Mackintosh (Glasgow) e di Laura Kriesch e Marisha Undi (Budapest), gli sgabelli dipinti da bambini di Francesco Rabdone (Roma) e, ancora, i fumetti di Lyonel Feininger (Chicago). Tali contributi sono, tra gli altri, immagini di quotidianità educative, a scuola così come a casa e in altri spazi comuni, in cui al centro è l’adattabilità non del bambino ma al bambino.

Non manca in questa sezione l’arte di Klimt con Hope II (Speranza) rappresentata da una donna in attesa, in un connubio fortunato e ben interpretato tra l’arte bizantina da un lato e le istanze portate in nuce dagli studi di Freud dall’altro.

1910s-1930s: Avant-Garde Playtime

Arriviamo agli anni Venti e incontriamo le avanguardie artistiche che fanno proprie le istanze più radicali e inattuali dell’infanzia, da un lato valorizzando l’atteggiamento “ignorante”, a tratti innocente, verso il mondo, dall’altro cercando di tornare alle forme più pure dell’esperienza umana, alle sue origini, quasi si trattasse di un elogio a una presunta innocenza atta a rimettere in subbuglio – quando non in discussione – il mondo, con modalità sovversive seppur silenziose. In tale ottica possono essere scoperti i mobili della Bauhaus nursery di Siedhoff Alma-Buscher, i burattini di Sophie Taeuber-Arp, l’idea dell’high chair – pensata per permettere ai più piccoli di mangiare “alla tavola dei grandi” –, i giocattoli disegnati da Ladislav Sutnar, arredi scolastici e camere pensati appositamente per i bambini e le bambine. Iniziano a diffondersi sempre più le camere riservate ai bambini e alle bambine, e una struttura definita su misura.

1920s-1939s: Light, Air, Health

Light, Air, Health è il titolo della sezione dedicata agli anni 1920-1930. Arriva il primo dopoguerra che porta con sé, tra le altre cose, l’attenzione alla forma fisica e alla salute. Il benessere fisico e mentale (anche durante l’infanzia) diviene a poco a poco centrale e essenziale per il rinnovamento della società tutta, a livello mondiale. Si fa pertanto strada, nei parchi pubblici e nelle scuole, l’uso di attrezzature atte all’allenamento del corpo. Ne sono esempi il race-scooter di John Rideout e Harold Van Doren, del 1933; una scrivania di vetro progettata da Giò Ponti; le sedie per bambini di Marcel Breuer, Alvar Aalto, e Kit Nicholson; le immagini quotidiane a scuola e gli esempi di pagine di quaderni scritti. Al contempo le immagini di bambini e bambine iniziano a farsi largo tra le propagande che inneggiano al valore della famiglia, che richiamano la richiesta di protezione, facendosi icone indiscusse di vita privata e di calore domestico.

1920s-1940s: Children and the Body Politic

E arriviamo agli anni Trenta, con il Graf Zeppelin Toy Dirigible. The Modernism Collection, Gift of Norwest Bank Minnesota, nella sezione dal titolo: Children and The Body Politic. Nel primo dopoguerra, infatti, al fianco della ricostruzione delle città si risponde alla necessità di ricostruire le macerie dell’infanzia; alcuni professionisti sperimentano lavori con i bambini e le bambine attraverso il gioco terapeutico, tentano la costruzione di mondi migliori in linea con il baby boom che caratterizza gli anni successivi, periodo in cui i bambini e le bambine si riappropriano di spazi pubblici urbani e ridefiniscono, con sempre meno formalismo, le aule di scuola. Ma non è tutto oro ciò che luccica infatti, accanto ai banchi sempre più ergonomici, si affacciano nelle sezioni le rappresentazioni del bambino modello, né più né meno che il balilla: il germoglio dell’uomo modello.

1940s-1960s: Regeneration

Regeneration. Si passa infatti, da un ambito considerato terreno di militarismo, nazionalismo e stereotipi razziali o di genere, a un giocattolo “buono”: ben progettato, sicuro e non violento (i mattoncini Lego e i giochi di legno di Antonio Vitali), promosso da diversi gruppi internazionali di psicologi infantili, produttori ed educatori.

1960s-1990s: Power Play

Tra il 1960 e il 1990, gli anni di Power Play, assistiamo a una nuova battuta d’arresto, in cui ancora una volta il bambino e la bambina divengono visibili – e guardati – non in quanto tali, ma in gran parte come e perché consumatori. Silvia Demozzi inserisce tra i canoni dell’Attuale (al polo diametrale della categoria dell’Inattuale proposta da Nietzsche) il “Consumo ergo sum”.20 Le pubblicità vengono plasmate attorno a un palinsesto che segue orari ben precisi, per osservarne gli effetti e, contemporaneamente, modellare desideri e bisogni di quell’infanzia consumatrice.

1960s-2000s: Designing Better Worlds

Si arriva così all’ultima sezione, dal suggestivo titolo di Designing Better Worlds, che copre la storia dagli anni Sessanta alla fine del Millennio. Quest’ultimo tratto di mostra si apre con il disarmante manifesto di Lorraine Schneider, War is Not Healthy for Children and Other Living Things, più volte utilizzato da diverse organizzazioni di pace per i loro slogan. Gli orrori della guerra pongono al centro l’impegno a favore dei diritti di tutti, nessuno escluso. Un’installazione di cerchi concentrici disegnati da centinaia di cucchiai rivolti verso un piatto vuoto è solo una delle immagini che si susseguono, immagini di forte denuncia contro la povertà, la deprivazione di cibo e beni di prima necessità. Opere a nome di Medici Senza Frontiere e di altri manifesti dell’UNICEF che veicolano messaggi di denuncia, accanto a giochi che incitano alla collaborazione e alla socializzazione. Anche i libri iniziano a prendere “pieghe” meno lineari. Si susseguono esempi di libri pop-up, di testi interattivi e non solo: fanno la loro comparsa le tecnologie e il mondo digitale. La mostra del MoMa di New York si conclude con l’ingresso nella storia dell’infanzia del mondo digitale. Dalla sfida con se stessi del Cubo di Rubik alla sfida con gli altri attivata attraverso i giochi da tavola, passando per quei giochi considerati “didattici e istruttivi”, fino ad arrivare a bicchieri con due manici facilmente impugnabili e a seggiolini per le automobili: cura e protezione si manifestano sempre di più in quest’ultima sezione della mostra per sottolineare l’ingresso prepotente, anche nel design, di attenzioni verso l’autonomia, l’affermazione e la scoperta di sé, la cura e la protezione….

Appare l’infanzia perché appare l’idea della cura, del “prendersi cura” di chi deve attraversare tempi e spazi, affrontare compiti e difficoltà per poter diventare, a sua volta, come quell’adulto di cui ora non è una copia in formato più piccolo, ma un suo interlocutore: con fragilità e insufficienze, ma anche con la forza implicita nella curiosità esploratrice e creativa e nel desiderio di apprendere.21 Contini ribadisce l’associazione tra la comparsa dell’infanzia, la presa di coscienza del valore dell’asimmetria adulti-bambini e del prendersi cura, e sottolinea l’identità dei bambini e delle bambine non come adulti in miniatura, con diritti in miniatura, ma come interlocutori, cittadini. Non solo cittadini di domani, ma cittadini di oggi, portatori individuali dei propri diritti, a partire dal diritto di vivere l’infanzia. Mi sembra incisiva la fotografia, presente nell’ultima sezione della mostra, scattata all’installazione presente presso il Louisiana Museum of Modern Art, in Danimarca, nell’estate del 1978. Lo scatto rappresenta una visione dell’esposizione che prende il titolo di Children are People. I bambini sono persone. Sembra superfluo ribadirlo oggi. Ma è davvero superfluo riaffermarlo? Evidentemente non lo era allora così come resta, tuttora, di un’attualità disarmante. Le immagini di Benetton non mancano poi di dare una visione d’insieme anche dell’infanzia altra, quella meno occidentale, quella dai tratti meno comuni per le strade del Vecchio Mondo, a denuncia dei passi che ancora si possono, si devono compiere in favore dell’infanzia, di tutta l’infanzia nelle diverse regioni del Globo. Macinai, in linea con quanto fin qui evidenziato, sottolinea che:

Molto allora resta da fare, a partire dalla presa di coscienza di quanto sia ampia la distanza tra le dichiarazioni formali e le situazioni reali, di quanto la vita di molti bambini continui ad essere contrassegnata dalla violenza, dallo sfruttamento e dalla negazione dei diritti, come se ancora vivessero nei secoli passati, in quell’incubo dal quale qualcuno ha sostenuto, come si è visto, l’umanità si è andata finalmente risvegliando.22

Bambini e bambine riconosciuti e riconosciute dunque quali soggetti autonomi. Non può, a tale proposito, mancare un richiamo al cammino dell’acquisizione dei diritti e un riferimento chiaro al 1989, anno in cui viene adottata la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, ritenuta il documento cardine nel percorso di riconoscimento dei diritti dei cittadini fino al compimento della maggiore età. Ma con quali scarti ancora evidenti e con quante soste lungo il cammino?

E oggi? I rischi per l’infanzia tra adultizzazione, spettacolarizzazione e sharenting

Il cammino che abbiamo percorso sulle tracce del sentimento dell’infanzia transita per il passaggio dalla tutela alla cura e, parallelamente, procede per l’avvio, non trascurabile, sia di un riconoscimento dell’infanzia, sia del cambiamento nella visione dei bambini e delle bambine in direzione di cittadini e cittadine. Inizialmente riconosciuti sulla base dei bisogni espressi e poi quali soggetti autonomi, i bambini vengono visti competenti e portatori individuali di propri inalienabili diritti.

Ad oggi siamo in cammino per il compimento, non ancora avvenuto, di un importante cambio di paradigma grazie al quale si arrivi a (ri)scoprire l’infanzia23 a (ri)conoscerla in termini di “inattualità”,24 di competenza, e a superarne i rischi di negazione e di adultizzazione.25 In effetti, durante il Novecento, l’infanzia ha affermato le sue peculiarità e le sue distanze dal mondo adulto, almeno in gran parte dell’Occidente. Nel corso del Novecento, infatti, i bambini e le bambine sono stati riconosciuti e riconosciute – a livello legislativo e normativo – quali soggetti autonomi e portatori individuali dei propri diritti; l’impegno educativo non può sottrarsi al confronto che nasce osservando il contesto e lo stato delle cose, così come non può evitare di predisporre e prospettare percorsi tesi al riconoscimento fattivo dei diritti e alla corrispondenza degli stessi a partire da una presa in carico in primis in termini educativi. Uno degli elementi più emergenti e visibili dell’adultizzazione è connesso alla scelta degli abiti per l’infanzia: uno degli elementi di maggiore riconoscibilità dell’infanzia è stato nel Novecento l’abbigliamento declinato per i bambini e le bambine e rispondente ai bisogni di movimenti degli stessi. Sempre più frequente è la proposta, nei giornali di moda e non solo, di medesimi vestiti per madri e figlie, per padri e figli e, dove non è identico l’abito lo è lo stile: ammiccante, sensuale… adulto in “corpi bambini”.26 Se, come sottolineato, nei secoli passati il mondo dell’infanzia era inesistente, nascosto, assimilato al mondo adulto e abbigliato con i medesimi vestiti, oggi la questione, pur ponendosi in forme proprie, sembra assumere le medesime implicazioni. Se anche non più in ritratti di famiglia settecenteschi, in cui piccoli principini esibivano il medesimo stile impeccabile di sua maestà – il padre – oggi osserviamo ancora il riproporsi di un abbigliamento simile tra “grandi e piccini”: identificando i bambini e le bambine con gli uomini e le donne che, non sono, ma saranno, sembrano svanire le caratteristiche di appartenenza all’infanzia e, con queste, l’infanzia:

adulti e bambini, infatti, finiscono per assomigliarsi, assumendo gli stessi atteggiamenti, esperendo le stesse situazioni, accedendo agli stessi contenuti. Il risultato è un livellamento dei ruoli, una caduta – per dirla con un’espressione più tecnica – dell’a-simmetria tra il mondo dei grandi – che fa e sa delle cose ancora inaccessibili – e il mondo infantile – che deve ancora apprendere i linguaggi e i costumi dell’adultità.27

L’incuria nei confronti dell’infanzia e il rischio di assimilazione al mondo adulto sembrano perpetrarsi in diverse forme, spesso così comuni e tanto condivise nell’orizzonte contemporaneo da passare inosservate ed essere pertanto accettate incondizionatamente. Osserviamo che anche nel complesso mondo della moda – quello manifesto e quello sotterraneo – c’è il rischio dell’adultizzazione: non solo nei prodotti che propongono abbagliamenti per mamme, nonne e bambine vestite con lo stesso stile e con gli stessi abiti, ma anche su un piano più meramente di mercato: la moda fa sfilare i bambini e bambine. Tra le forme di negazione dei diritti all’infanzia anche recenti variabili di sfruttamento dei corpi: non più utilizzati in miniere e sfruttati in quanto piccoli corpi in grado di destreggiarsi nei cunicoli di miniere o di camini, ma corpi che possono essere esibiti e ostentati.

Accanto all’adultizzazione non possiamo non fare riferimento anche, e oggi in particolare, alla spettacolarizzazione – cioè alla presentazione in forme di spettacolo con, annessa, l’ambizione dello spettacolo – riservata all’infanzia. Quale infanzia? Quella esposta, sotto i riflettori e lì sfruttata al fine di accrescere il mondo dello spettacolo nelle sue molteplici forme: dalla pubblicità ai concorsi di bellezza. La spettacolarizzazione ha origini recenti, in particolare con il dilagare di una pervasiva dimensione dell’immagine, e assume forme sottili e non immediatamente riconoscibili quando non eclatanti e, se gli esempi d’oltreoceano ci sembrano episodi sporadici e lontani dal nostro contesto culturale, possiamo trovare interessanti esempi nel volume scritto da Flavia Piccinni, la quale ha deciso di mettere sotto i riflettori i riflettori stessi, quelli puntati sui bambini e sulle bambine: in costume da bagno o in abito elegante, con tacchi e lucidalabbra, per un giro di affari della moda bambini che tocca i 2,7 miliardi di euro.28

Ero lì per accompagnare un’amica. La sua nipotina – una bella bimba bionda dai lunghi capelli e dall’intelligenza vivida, che aveva otto anni e da grande sognava di diventare avvocato divorzista – era stata iscritta dalla baby-sitter a una competizione/sfilata indetta da un negozio di abbigliamento locale, e dunque serviva la claque per sostenerla. Improvvisamente, mi ero trovata catapultata in un mondo che non avevo mai immaginato essere così presente, e così codificato. Un mondo fatto di piastre per capelli, piccoli tacchi, vestiti luminosi, rossetti. Un mondo dove la bellezza si configurava come il primo, e il più importante, surrogato per la popolarità. […] È stato proprio davanti a quella sfilata dalla dimensione così casalinga che ho cominciato a chiedermi quando l’aspetto fisico dei bambini avesse smesso di essere un premio domestico, di cui vantarsi con i parenti a Natale e con la propria ristretta cerchia di amici, per diventare uno strumento di affermazione e di promozione sociale.29

Nel documentario Divine30 Chiara Brambilla accompagna Emily, Lucrezia e Rebecca dietro le quinte di una certa parte del mondo della moda che trasforma bambine, alte al massimo un metro e quaranta, in modelle dalle fattezze adulte e capaci di sfilare su passerelle: tra il gioco e la realizzazione di ambizioni – proprie? Dei propri genitori? Tra gli altri, Pitti sembra mantenere il podio per quanto riguarda l’appuntamento moda junior. Intorno allo show de Il Gufo, i bambini e le bambine sono inseriti in un ambiente adulto abitato da stilisti, fotografi, registi, pubblicitari, scenografi, casting director, stylist, parrucchieri e truccatori che lavorano con i bambini e le bambine: professionisti tutti, sia i bambini, sia gli adulti.

A volte mi sorprendo per questi bambini robot bravissimi, che non si lamentano, eseguono quello che viene detto loro, che sono super concentrati. Sul set a volte capita che i bimbi si stanchino, che si lamentino, ma a Pitti non ci si possono permettere distrazioni.31

Già, perché le sfilate al mondo Pitti non prevedono pause e si richiede ai bambini e alle bambine di bere poco durante la preparazione delle sfilate per non dover aver bisogno di un bagno. La sfilata risulta essere l’ultimo gradino di una performance che prevede una preparazione non indifferente

“Perché è una gara, alla fine.”
“Una gara?”
“Sì, mio marito mi dice sempre: ti sei ingarellata. All’inizio io non capivo, ma aveva ragione. Entri in un mood per cui esiste solo questo, il lavoro. Quando avevamo incominciato e c’era un casting mi svegliavo all’alba, le lavavo i capelli, le sistemavo le unghie, le pettinavo le sopracciglia… cose che non ho mai fatto neanche per me. […] Portavo la bimba a fare tre, quattro casting a settimana. Con la pioggia, con il sole, in macchina, in metro e perfino in bicicletta.”32

I bambini – ma soprattutto le bambine – non vengono scelti per gli occhi azzurri o i capelli biondi, non solo per la bellezza, ma per un insieme di componenti che vanno dal saper essere silenziosi e accondiscendenti, non oppositivi e non provocatori, almeno sul piano del rispetto degli ordini impartiti: ubbidienti e passivi.33

La tutela dell’infanzia e dei diritti dell’infanzia viene richiamata con evidente urgenza; in risposta, tra gli altri, anche alcune forze politiche si sono espresse sulla tutela di bambini e adolescenti coinvolti nel mondo dello spettacolo anche proponendo disegni di legge34 tesi a contrastare la strumentalizzazione del corpo delle bambine e il rischio della conseguente visione stereotipata dei generi e a evitare di esporre i minori a ritmi, attività e atteggiamenti non adatti alla loro età, ma siamo solo agli inizi e molto ancora c’è da fare.

La spettacolarizzazione è parallelamente accompagnata da un altro fenomeno sempre più comune e pervasivo: il cosiddetto sharenting. In un contesto in cui i social network, le chat e la rete fanno viaggiare alti numeri di immagine (solo Instagram accoglie 3.600 foto al secondo)35 ad altissime velocità, il fenomeno della spettacolarizzazione assume anche le sembianze dello sharenting. La parola deriva dalla fusione di parenting e sharing, a indicare la diffusa tendenza di condivisione (o ipercondivisione) di foto, frasi, racconti che riguardano i figli su web e piattaforme social da parte dei genitori, andando ad alimentare la sovraesposizione di corpi dei bambini e delle bambine. L’associazione anglosassone Parent Zone36 offre dei numeri in merito all’esposizione online: in un anno sono circa, in media, 195 le foto pubblicate dai propri genitori fino ad arrivare alle 1.000 fotografie circa intorno ai primi 5 anni di vita.

La questione è impegnativa sia sul piano del rispetto della privacy, per i rischi connessi alla diffusione di immagini (che più o meno facilmente entrano in circuiti di pedopornografia) così come per la diffusione di metadati con informazioni relative alla localizzazione. Tali rischi sono stati denunciati a livello internazionale in recenti dossier.37 Lo sharenting è sì inteso come condivisione online di immagini dei propri figli ma anche come rappresentazione della propria genitorialità. Davide Cino, riferendosi ai bambini e alle bambine adultizzati nei contesti occidentali attuali, utilizza la definizione di puer optionis, soggetto a una “tirannia delle possibilità espositive” inteso come esposizione su plurime vetrine: sia da palcoscenico, sia virtuali.38 Lo sharenting39 risulta divenire un fenomeno pervasivo che richiama ancora la difficoltà del mondo adulto di corrispondere in termini di tutela e rispetto ai diritti dell’infanzia, compreso il diritto a vivere l’infanzia. Con Montessori, ammettiamo che egli (il bambino) è sempre stato, e forse è ancora, “il cittadino dimenticato”.40 A fronte di tale consapevolezza è richiesto che sia preminente l’investimento in termini di proposte educative, nella misura in cui l’educazione tende a “fare spazio al possibile per tutti, nessuno escluso”, richiamandone la deontologia più sostanziale.

Bibliografia

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Pironi, Tiziana. “Da Ellen Key a Maria Montessori: la progettazione di nuovi spazi educativi per l’infanzia”, Ricerche di Pedagogia e Didattica, 5.1 (2010).


  1. Il video è disponibile alla visione sul blog “Corpi Bambini” alla pagina http://www.corpibambini.wordpress.com. Accanto al blog è stata creata una pagina Facebook gestita dalle autrici del video che raccoglie notizie e approfondimenti in tema di diritti dell’infanzia: “Corpi Bambini/Sprechi di Infanzie”.

  2. Mariagrazia Contini, Silvia Demozzi, a cura di, Corpi bambini. Sprechi di infanzie (Milano: Franco Angeli, 2016), 2.

  3. Contini e Demozzi, 15.

  4. Maria Montessori, Il bambino in famiglia (Milano: Garzanti, 2000), 12.

  5. Contini e Demozzi, Corpi bambini, 25.

  6. Philippe Ariès, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna (Roma-Bari: Laterza, 1999).

  7. Emiliano Macinai, L’infanzia e i suoi diritti. Sentieri storici, scenari globali e emergenze educative (Pisa: ETS, 2008), 13; Emiliano Macinai, Pedagogia e diritti dei bambini. Uno sguardo storico (Roma: Carocci, 2013).

  8. UNICEF, La condizione dell’infanzia nel mondo. Edizione speciale (Roma: Edizioni Interculturali Uno, 2013), 2.

  9. L’alto numero di partecipanti alla riflessione intorno a tale tavolo di lavoro ha contribuito alla necessità di armonizzare differenti esperienze culturali e giuridiche, e proprio per questo la Convenzione ha un primato interessante: è rapidamente divenuta il trattato in materia di diritti umani con il maggior numero di ratifiche da parte degli Stati. Si tratta, appunto, di un testo frutto di ampia negoziazione e ricco dal punto di vista della protezione dei diritti dell’infanzia. Leggi inerenti sono presenti anche in altre carte internazionali sui diritti umani, ma la CRC è l’unica che ne garantisce la specificità riferita all’infanzia; cfr. Paolo De Stefani, “Dalla tutela alla promozione. Educazione e diritti dei bambini negli strumenti internazionali sui diritti dell’infanzia,” in Paolo De Stefani, a cura di, A scuola con i diritti dei bambini. Esperienze di educazione ai diritti umani promosse dal Pubblico Tutore dei minori del Veneto (Padova: Cleup, 2004), 85.

  10. Ellen Karolina Sofia Key (1849-1926), insegnante svedese, scrive all’alba del 1900 The Century of the Child, a sottolineare e, per alcuni aspetti, a sollecitare una ridefinizione e una rinnovata considerazione dell’infanzia. Cfr. Ellen Key, Il secolo dei fanciulli (Torino: Bocca, 1906). Nel 1951 Roberto Mazzetti scrive a proposito di questo testo: “La cosa importante è che la scrittrice svedese Ellen Key seppe esprimere anche nel titolo di un libro un certo sentore del diritto della gioventù e una diffusa speranza del suo tempo: la speranza appunto nel Secolo del fanciullo”. Cfr. Roberto Mazzetti, Il fanciullo come padre dell’uomo. Il problema della gioventù nell’educazione e nel diritto (Roma: Industria Grafica Moderna, 1951), 80.

  11. Fanciullo è un termine utilizzato, in particolare nella prima metà del Novecento, per indicare persone tra i sei e i dodici anni.

  12. Tiziana Pironi, “Il problema della maternità nel rapporto epistolare tra Ellen Key e Sibilla Aleramo”, Ricerche di Pedagogia e Didattica 6.1 (2011), https://doi.org/10.6092/issn.1970-2221/2240.

  13. Tiziana Pironi, “Da Ellen Key a Maria Montessori: la progettazione di nuovi spazi educativi per l’infanzia”, Ricerche di Pedagogia e Didattica 5.1 (2010): 81-89.

  14. Silvia Demozzi, L’infanzia “inattuale”. Perché le bambine e i bambini hanno diritto al rispetto (Parma: Junior, 2016), 63.

  15. Emiliano Macinai, “The Century of the Rights of Children. Ellen Key’s Legacy towards a New Childhood Culture”, Ricerche di Pedagogia e Didattica, Vol. 11, no. 2 (2016): 67-81.

  16. Franco Cambi, Le pedagogie del Novecento (Roma-Bari: Laterza, 2005), 3.

  17. “Century of the Child. Growing by Design 1900-2000”, MoMA, ultima consultazione 2 settembre, 2018, https://www.moma.org/calendar/exhibitions/1222.

  18. Montessori ha contribuito in maniera sostanziale alla diffusione della cultura dell’infanzia nel Novecento, si è battuta sul fronte dei diritti alle donne e, aspetto maggiormente conosciuto, ha sperimentato un metodo che prende il suo nome.

  19. Cfr. Montessori, Il bambino in famiglia, 50.

  20. Cfr. Demozzi, L’infanzia “inattuale”.

  21. Contini e Demozzi, Corpi bambini, 22.

  22. Cfr. Macinai, L’infanzia e i suoi diritti, 59.

  23. Maria Montessori, La scoperta del bambino (Milano: Garzanti, 2007).

  24. Giovanni Maria Bertin, Educazione alla ragione (Roma: Armando Editore, 1968); Giovanni Maria Bertin, Nietzsche: l’inattuale, l’idea pedagogica (Firenze: La Nuova Italia, 1977); cfr. Demozzi, L’infanzia “inattuale”.

  25. Contini e Demozzi, Corpi Bambini.

  26. Contini e Demozzi, Corpi Bambini.

  27. Contini e Demozzi, Corpi Bambini, 54.

  28. “La moda junior nel 2017-2018”, Sistema Moda Italia (SMI), ultima consultazione x mese (anno), https://www.sistemamodaitalia.com/it/area-associati/centro-studi/item/10740-la-moda-junior-nel-2017-2018. Il documento, a opera del Centro Studi SMI prende in considerazione l’abbigliamento junior da 0 a 14 anni, comprendente intimo e accessori. Sottolineo la particolare crescita nei settori neonati e bambine.

  29. Flavia Piccinni, Bellissime. Baby miss, giovani modelli e aspiranti lolite (Roma: Fandango, 2017), 11-12, 14.

  30. Il documentario è prodotto dalla Mir in collaborazione con il Triennio di Media Design e Arti Multimediali e il Biennio Specialistico di Film & New Media del NABA di Milano.

  31. Piccinni, Bellissime, 98.

  32. Piccinni, Bellissime, 133-4.

  33. Cfr. Piccinni, Bellissime.

  34. Un disegno di legge è stato presentato in data 5 ottobre 2017; annunciato nella seduta ant. n. 893 del 10 ottobre 2017. Atto del Senato n. 2936.

  35. Un’infografica di GO-Gulf Web Design Company è fruibile online: “60 Seconds - Things That Happen On Internet Every Sixty Seconds”, GO-Globe, ultima consultazione 1 settembre (2018), https://www.go-globe.com/blog/things-that-happen-every-60-seconds/.

  36. ParentZone, ultima consultazione 10 ottobre (2018), https://parentzone.org.uk.

  37. Stacey B. Steinberg, “Sharenting: Children’s Privacy in the Age of Social Media”, UF Levine College of Law, ultima consultazione 10 ottobre, 2018, https://scholarship.law.ufl.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1796&context=facultypub.

  38. “Finds himself/herself exposed in a double way: passively, every time he/she is in touch with individuals, objects, images that become a role model due to their being in a showcase (e.g. cartoon characters, actors, web celebrities that communicate with children); actively, when he/she”performs" walking on the street or down the school hallway, singing and dancing on a stage, or posting pictures and videos of himself/herself available to a broad audience who can provide feedback on his/her performance. It is also important to remember that the latter form of exposition can be defined as “active” because the child is actually led to show face, body, and emotions (sometimes accurately masked), but always under the direction of someone else: narcissistic parents, judges, or, informally speaking, influenced by the desire for visibility and fame that, as stated before, is an important index of our Zeitgeist“; cfr. Davide Cino,”The ‘Puer Optionis:’ Contemporary Childhood Adultization, Spectacularization, and Sexualization," Ricerche di Pedagogia e Didattica, 12, no. 2 (2017): 269-91.

  39. Davide Cino, Silvia Demozzi, “Figli ‘in vetrina’. Il fenomeno dello Sharenting in un’indagine esplorativa”, Rivista Italiana di Educazione Familiare, https://doi.org/10.13128/RIEF-22398.

  40. Maria Montessori, “Il cittadino dimenticato”, in Vita dell’infanzia 3-6, no. 1, 1952.