ZoneModa Journal. Vol.8 n.2 (2018)
ISSN 2611-0563

L’infanzia in gioco.
Una lettura sociologica della moda bambino

Caterina SattaUniversità di Bologna (Italy)

She holds a PhD in Sociology and is a Research fellow at the Department of Education Studies (University of Bologna). She works in the field of the sociology of childhood, family and everyday life. Her research interests are: play, sport and fashion. Her publications include: Bambini e adulti la nuova sociologia dell’infanzia (Carocci, 2012) and Per sport e per amore. Bambini, genitori e agonismo (Il Mulino, 2016). She is currently Principal Investigator of the AlmaIdea Junior Grant 2017 Project Disegnare e vestire le bambine di seconda generazione on second generation girls’ aesthetic cultures through clothing-fashion codes.

Pubblicato: 2018-12-21

Abstract

Currently, the public and scientific discourse on childrenswear focuses on its potentially harmful aspects, the production of stereotypical models and the risks that these models may have on the behaviours of children; however, further research is required regarding the representations of childhood and the sources of inspiration of fashion designers, on the one hand, and the meanings attributed to clothing and fashion by children and their parents, on the other. This contribution is based on narrative interviews with a vast range of professionals working in the fashion system for children (fashion designers, stylists, photographers, brands, bloggers, journalists, fashion directors, child models and their parents etc.) and on preliminary fieldwork observations of international childrenswear exhibitions in Florence, The study aims to analyse the social construction of childhood in the fashion system for children. In particular, the essay reveals the heuristic specificity of the children’s clothing industry for the historical relevance of the sector in the construction of contemporary understanding of childhood. It highlights its links with the world of play and fantasy and also shows the perspective of adults involved, that of children and their capacity to interpret the “adult” world, to relate to it and sometimes to re-design it. Therefore the children’s clothing industry appears to be an experimental field in which to analyse the cultural changes of childhood and adulthood.

Keywords: Childhood; Fashion; Play; Imaginary; Adulthood.

“Non sono mai i bambini a dover entrare nel tuo mondo. Ma tu a dover entrare nel loro”. È con queste parole che un fotografo di moda per l’infanzia ha dato avvio a un’intervista sul ruolo dei bambini nella moda per una ricerca sociologica che sto conducendo intervistando e osservando una pluralità di attori (aziende, stilisti, fotografi, stylist, agenzie di casting, fashion blogger, giornalisti, bambini, bambine e i loro genitori) che da varie prospettive e con differenti ruoli “creano” la moda bambino.1 Eravamo solo all’inizio ma la nostra conversazione si sarebbe potuta concludere già lì, data la chiarezza con cui aveva delineato un mondo, anzi due, quello dei bambini e quello degli adulti e, ancor di più, per la lucidità con cui indicava la via affinché questi due mondi potessero comunicare. Stavamo parlando di moda, eppure in quella affermazione era racchiusa la chiave per costruire relazioni inter-generazionali tra adulti e bambini su nuove basi, meno adultocentriche.2 In un ribaltamento di ruoli, inusuale per altri contesti tradizionalmente rivolti all’infanzia, il mio interlocutore proponeva un’immagine in cui erano i bambini a guidare l’adulto ed era l’adulto a dover abbassare la testa per poter essere incluso nel loro “cerchio magico” fatto di gioco e fantasia.3

Appare chiaro sin da queste prime righe che parlare di moda per l’infanzia significa anche parlare di gioco e di immaginari d’infanzia veicolati dalla letteratura. Così come nelle fiabe c’è sempre una soglia da varcare, un ponte, uno specchio o una parete da attraversare per entrare in un altro mondo – spesso capovolto rispetto a quello ordinario e, non a caso, considerato “delle meraviglie” –, ugualmente nell’ambito della moda è richiesta questa capacità di modificare il proprio tradizionale posizionamento all’interno dell’ordine generazionale per poter stabilire un dialogo con loro.4 Contrariamente però a quanto siamo abituati a pensare, la meraviglia non è nel bambino, bensì nell’adulto5 che ritorna fanciullo per un breve lasso di tempo e (ri)scopre così il mondo dell’infanzia.

Sarà pertanto il gioco uno degli strumenti concettuali utilizzati in questo articolo per sviluppare una comprensione del rapporto tra moda e infanzia, approfondire quali relazioni tra adulti e bambini si sviluppino al suo interno e giungere, nell’ultimo paragrafo, ad un focus ravvicinato sui bambini presentando alcuni primi risultati della ricerca Creando bambini. Discorsi, esperienze e rappresentazioni dell’infanzia nella moda bimbo. La prospettiva di ricerca adottata è quella della nuova sociologia dell’infanzia che, sostenendo una visione del bambino come attore sociale in relazione e non semplice ricettore passivo di processi di socializzazione adulta,6 indaga e approfondisce la posizione dei bambini nella società e nella famiglia valorizzandone la soggettività e l’agency attraverso ricerche su differenti aspetti della loro vita quotidiana.7

Pur nella specificità della declinazione del tema rispetto all’infanzia, l’articolo muove da premesse comuni alla sociologia della moda8 – la quale ha analizzato sin dai primi del Novecento il ruolo e il significato sociale della moda per spiegare i meccanismi della società moderna9 – e ne condivide l’interpretazione che la considera un codice comunicativo e relazionale caratterizzato da una struttura duale,10 quella sistemico-normativa, da un lato, e quella individuale relativa agli usi e alle interpretazioni soggettive dell’abbigliamento, dall’altro, in una dialettica non priva di tensioni.

L’infanzia e la moda. Le premesse teoriche di un campo di ricerca

La vita quotidiana dei bambini e delle bambine è immersa in una cultura commerciale espressamente destinata all’infanzia. I bambini nascono, vivono e crescono circondati da una materialità e da immaginari creati per loro, e ciò consente di considerarli a pieno titolo parte del mercato.11 Se, da un lato, la maggior parte degli oggetti che accompagnano la loro vita sono oggetti di consumo,12 dall’altro la stessa immagine del bambino, frammentata in una pluralità di rappresentazioni, risulta sempre più una presenza costante nel panorama visivo pubblicitario, informativo o divulgativo della sfera pubblica.13 A fronte, secondo alcuni, della loro progressiva scomparsa dallo spazio urbano,14 i bambini sono anche i protagonisti di un processo di ipervisibilizzazione iconica – nei giornali, nelle riviste generaliste di gossip o specializzate, nelle pubblicità, nelle confezioni di prodotti alimentari, per la casa o di abbigliamento, nei volantini promozionali di servizi pubblici e privati, nelle campagne elettorali e in quelle informative –, a suo modo fortemente rivelatore delle concezioni di infanzia dominanti in un determinato periodo storico.

Le forme discorsive e iconiche che tali concezioni assumono in una società influenzano sia il modo in cui si agisce con i bambini e le bambine sia l’esperienza stessa dell’essere bambini e bambine.15 Esse influenzano altresì le loro capacità e possibilità di essere visti come soggetti, o oggetti, di attenzione delle policies e del diritto;16 pertanto le rappresentazioni dell’infanzia che circolano nella sfera pubblica e accompagnano l’agire degli adulti, oltre che le loro stesse pratiche educative, assumono un’importanza centrale nello studio dei rapporti tra le generazioni.

Partendo dall’assunto che mercato e infanzia non sono due sfere tra loro scollegate, i cui valori e significati si formano separatamente,17 l’articolo ridiscute un immaginario dominato da una visione manichea dei bambini come attori sociali “puri”, quando considerati all’interno delle relazioni familiari o, viceversa, “contaminati”, quando analizzati in relazione al loro rapporto con il sistema commerciale e pubblicitario.18 Una tale visione impedisce infatti di vedere come i soggetti conferiscono significato sociale ai (e attraverso i) beni commerciali e come questi ultimi contribuiscono a costituire l’identità dei soggetti, sia fuori, sia all’interno della sfera affettiva.19

L’analisi del rapporto tra bambini e consumi è stata sviluppata recentemente in ambito internazionale all’interno della sociologia dell’infanzia e dei consumi20 sia per il cambiamento della struttura familiare e del ruolo dei bambini al suo interno,21 sia perché essi sono progressivamente diventati il target specifico di un nuovo settore di mercato, quello “per l’infanzia” a cui le aziende rivolgono direttamente le loro campagne.22

Il presente articolo, concorrendo al dibattito scientifico sul tema delle rappresentazioni dell’infanzia nella società dei consumi con un contributo saldamente radicato nella realtà empirica, mira a esplorare gli immaginari, i discorsi e le esperienze all’interno di un settore oggetto di molte discussioni nel dibattito pubblico, ma poco indagato in Italia, quale quello della moda bambino.23 L’abbigliamento, con gli ideali del femminile e del maschile che veicola, con le sue caratteristiche materiali, con l’iconografia e i testi che accompagnano la sua promozione, influenza la quotidianità dei bambini, intervenendo, da una parte, nel loro rapporto con la propria immagine, con la loro progettualità corporea, con le relazioni con i pari e il loro benessere psico-fisico e, dall’altra, nel loro rapporto con gli adulti (i genitori e gli educatori in particolare), regolato e normato a vari livelli relazionali e istituzionali.24

L’importanza di questo campo è data dalla storica rilevanza del settore nella definizione di immagini di infanzia. La moda, dal lato della sua produzione, può a buon diritto essere studiata come un campo, indagando gli attori in gioco, le asimmetrie di potere, i vettori di azione, i discorsi e repertori mobilitati dagli stessi.25 L’abbigliamento, inoltre, è uno dei campi materiali e simbolici in cui è in gioco anche la definizione di categorie sociali e stereotipie, rispetto a genere, età e religiosità,26 e in cui si costruiscono molti significati dell'infanzia contemporanea. Inoltre, storicamente esso è stato il primo settore merceologico a strutturare un comparto di produzione e vendita specifico per i bambini che ha successivamente ispirato il mercato di altri beni commerciali.27 L’industria dell’abbigliamento è stata infatti la prima a riconoscere al/alla bambino/a un’identità distinta da quella dell’adulto, a rivolgersi a lui/lei, non solo alle madri (mai comunque ai padri), quale destinatario/a dei propri messaggi promozionali, a progettare abiti pensando ai suoi bisogni e desideri (o supposti tali), a strutturare i negozi e gli scaffali a “misura di bambini”, popolandoli di personaggi o figure familiari al mondo dell’infanzia. Gli abiti fungono quindi da primi marcatori di differenza dei bambini rispetto agli adulti che, anche secondo la nota ricostruzione iconografica dell’infanzia nell’Europa medievale e moderna compiuta da Ariès, almeno sino al XII secolo non venivano rappresentati se non con le sembianze di adulti in miniatura, cioè con gli stessi abiti degli adulti riprodotti su scala minore.28 Infine, la moda bambino, dal lato del suo consumo, rappresenta un campo ricco di informazioni circa le politiche del corpo bambino vigenti nella società attuale (dall’uso del velo, al jeans dalla vita troppo bassa, alla minigonna, all’uso del grembiule), il cui ruolo cruciale si ritrova anche nell’intervento del sociale e delle policies intorno al corpo dei bambini, specie in setting istituzionali, come l’ambito scolastico. Tutti aspetti significativi per esplorare immaginari, discorsi ed esperienze rispetto al significato del corpo infantile: la linea del pudore e della rispettabilità (ciò che si può e non si può vedere el suo corpo), la sessualizzazione, la sua maggiore o minore docilità (in termini foucaultiani), e le differenze rispetto a questi temi in relazione a genere, classe sociale, origine etnica. D’altronde, nelle società occidentali sin dal sedicesimo secolo la definizione dell’identità dei bambini come “altra” da quella degli adulti è stata fondamentalmente costruita attraverso i loro corpi e i differenti significati ad essi attribuiti.29 Rispetto al corpo dell’adulto, quello del/della bambino/a è, invero, oggetto di un marcato investimento politico e di più strette sanzioni formali ed informali.30

Attualmente il discorso pubblico e quello scientifico sulla moda bambino sottolineano soprattutto lo “sfruttamento” dei bambini, la produzione di modelli stereotipati e i rischi che tali modelli possono avere sui comportamenti dei più piccoli (tra i vari esempi, le modelle troppo magre e gli effetti di tali corpi sull’immagine corporea dei giovani, l’incentivazione di condotte a rischio e la diffusione dei disturbi alimentari, la sessualizzazione dell’infanzia, eccetera); tuttavia, come tali modelli vengano creati, quali siano le fonti di ispirazione dei designer della moda, con quali soggetti o saperi esperti (psicologi, pedagogisti, pediatri, artisti per l’infanzia o semplici persone comuni) essi collaborino, quali rappresentazioni di bambini e bambine abbiano essi stessi per primi è un campo che rimane tuttora inesplorato negli studi dell’infanzia.

Osservare l’infanzia attraverso la lente dei consumi promossi dal mercato rappresenta pertanto una prospettiva sempre più rilevante in letteratura,31 dati i modi in cui il mercato sta trasformando i significati di infanzia, cura ed educazione e per il ruolo preponderante che sta assumendo nelle vite delle persone costruendo contemporaneamente un nuovo ambiente culturale, con nuove aspettative su come i bambini dovrebbero “essere”, su ciò che i genitori dovrebbero fornire e i bambini avere, e su cosa “avere”, o “non avere”, significa nella loro vita quotidiana.32 In particolare, osservarla con una prospettiva di genere, di classe ed etnica, permette di comprendere le interconnessioni presenti tra mercato, famiglia e infanzia nella riproduzione delle disuguaglianze di genere o, al contrario, nella costruzione di nuovi spazi di agency del femminile e del maschile per bambini e bambine.33

La moda come un gioco

Associare il tema della moda a quello del gioco non è un’operazione insolita poiché entrambi ruotano attorno a una dimensione creativa, hanno cioè sempre a che fare con la creazione di nuovi significati, ruoli e funzioni. Eppure, quando ad essi si aggiunge la parola infanzia, ecco che l’argomento del gioco si sovrappone a quello della moda diventando un tutt’uno con il soggetto infantile. Si assiste cioè a un’essenzializzazione del bambino attraverso il tema ludico basata su una visione acritica e univoca del gioco, come positivo o in quanto panacea di molti mali sociali, che finisce per riprodurre una concezione del bambino come “colui che gioca” e per sostenerne una normativa: egli per esprimersi, e per essere considerato tale, deve giocare.34 Anche nel gioco si può però cogliere la tensione tra una dimensione normativa, di “addomesticamento”, e una soggettiva, quella del bambino che si riappropria di un fenomeno dandogli un proprio significato.

Come ben risulta dalle riflessioni di Anna Bondioli:

l’abbinamento gioco-infanzia nella nostra società si colloca […] dentro un quadro di separazione, protezione, normalizzazione e commercializzazione dell’infanzia, ma si colloca anche in un quadro di tendenziale riduzione dell’attività ludica nella quotidianità infantile. Già più di trent’anni fa Bruno Bettelheim segnalava che “l’importanza del gioco nell’educazione e nella socializzazione dei bambini è stata contemporaneamente riconosciuta in teoria e negata nella pratica”. […] Bettelheim osservava con preoccupazione un fenomeno emergente nella società americana che appare ampiamente diffuso oggi nel nostro paese: la tendenza da parte degli adulti a finalizzare e a dirigere le attività ludiche in vista di una preconizzazione degli apprendimenti. Si propongono attività sportive anziché attività di movimento libere; addestramento all’uso di strumenti musicali anziché libera esplorazione di suoni e ritmi; esperimenti scientifici anziché sperimentazioni di materiali non strutturati, cosicché “le esperienze di gioco libero concesse ai bambini appaiono sempre più ridotte”.35

La sociologia dell’infanzia considera la condivisione ritualizzata di un qualsiasi tema ludico espressione di una “cultura dei bambini”.36 La peculiarità di tale approccio consiste nel ritenere la cultura dei bambini non come il riflesso o la palestra preparatoria di una cultura adulta in cui il bambino si appresta a entrare, bensì come insieme di pratiche, di valori, di routine, di interessi a cui esso partecipa attivamente negoziandone e rinegoziandone i significati. In altri termini, questa visione, affermando che il bambino è già membro e attore competente del suo mondo sociale,37 ribalta una rappresentazione adultocentrica dell’infanzia come incompleta e una del gioco come momento di “riproduzione sociale e di preparazione dei bambini ai ruoli sociali adulti”.38 Questo è stato, e tuttora rimane, il discorso dominante sul gioco dei bambini che limita la possibilità di darne anche un’altra interpretazione. Il gioco, come sostiene Gregory Bateson,39 va giocato accettando l’incertezza di valicare i confini della realtà per muoversi dentro un altro terreno governato da altre regole, e presuppone la condivisione da parte dei partecipanti della verità di quell’illusione che si può dimostrare solo partecipandovi. Esso predispone una cornice per il comportamento e a ogni cornice corrisponde un certo stile di comportamento.40

Fritz Redl analizzando i modi in cui un gioco “si può guastare”41 afferma che “un’attività può perdere il suo carattere di gioco sia per un’eccessiva vicinanza al reale sia per un’eccessiva lontananza”.42 Il gioco muovendosi su una “terza dimensione dell’esperienza” può ribaltare l’ordine generazionale gerarchico adulto-bambino, creando disordine al suo interno e facendo diventare buffone il re e il buffone re o regina.43 “Stare al gioco” in fondo significa accettare di perdere la certezza della propria maschera, con il riconoscimento e lo status ad esso connesso, mentre se ne indossa una nuova del tutto sconosciuta.

I bambini sono molto capaci di riconoscere la cornice ludica, di entrarvi e uscirvi creando e ricombinando nuovi significati.44 Ugualmente, gli adulti in grado di vedere quella sottile membrana che separa il mondo adulto da quello dei bambini e di attraversarla, più per giocare ad un gioco fine a sé stesso che per guidarlo, possono introdurre un potenziale trasformativo all’interno dell’ordine generazionale e nuove basi per una comunicazione più paritaria.

Sembra essere questa la lente interpretativa, che diventa poi pratica di lavoro, utilizzata da molti operatori all’interno del mondo della moda quando si relazionano con i più piccoli. “Io creo un contenitore – una carrozza, un murales, una macchina anni ’30 – poi loro lì sono liberi di fare quello che vogliono” (Estratto intervista Stylist). È in quella parentesi di novità rispetto a un mondo familiare ordinario, scolastico o ricreativo-sportivo, gestito convenzionalmente dagli adulti con una precisa finalità educativa, che i bambini, pur all’interno di uno scenario costruito da altri, sembrano per qualche ora diventare attori e protagonisti insieme ai loro pari. In quello spazio-tempo di libertà “concessa”, anche solo strumentalmente, la moda diventa capace di parlare ai bambini non tanto un linguaggio infantile bensì uno improntato all’espressione della loro personalità e all’incoraggiamento a tirarla fuori. Espressività che si traduce nella possibilità di giocare un proprio gioco e di interpretare il ruolo desiderato dentro la narrazione di un brand, o di decidere, in alcuni casi, di andare dietro alla macchina fotografica per discutere le inquadrature o gli scatti migliori quasi a costruire un linguaggio condiviso con gli adulti.

Gli effetti positivi di questa relazione più paritaria si possono riscontrare nelle biografie dei babymodelli che proseguono con entusiasmo la loro partecipazione per almeno quattro o cinque anni o nelle esperienze di alcune bambine che, come raccontato da un’agente di casting di modelle, avevano così tanto piacere a partecipare ai servizi fotografici che, pur di non rinunciarvi, vista l’importanza prioritaria data dai genitori al rendimento scolastico, erano addirittura migliorate a scuola o avevano cominciato ad appassionarsi alla fotografia e al design dell’abbigliamento. Questi resoconti non devono però stupire, convivono con altre rappresentazioni della moda per l’infanzia come “puro business” apparentement a discapito dei modelli e delle modelle bambini usati come marionette nelle mani di soggetti con altri interessi (quelli ambiziosi dei genitori o quelli commerciali di un sistema economico). D’altronde come sottolineato da Maria Luisa Frisa:

è la libertà d’azione che caratterizza la moda, cioè la leggerezza che garantisce insieme precisione e provvisorietà nei mezzi e negli esiti, il centro da cui si amplificano gli impulsi e si innescano i processi di innovazione […]. La moda raccoglie tutti gli stimoli e li rimette in gioco, è terreno di traduzione e interpretazione, è – nel XXI secolo – lo spazio di una cultura condivisa.45

Un altro sguardo. Primi risultati di una ricerca etnografica sulla moda bambino

Cosa rivela dunque dell’infanzia il mondo della moda bambino? E cosa del mondo adulto? Schiacciati dal discorso mediatico, l’abbigliamento e la moda finiscono troppo spesso per essere risucchiati in una narrazione dai toni contrapposti; se da un lato l’abbigliamento è considerato una “cosa frivola” e secondaria, dall’altro si trova spesso al centro di visioni allarmistiche. Caricandone oltremodo l’importanza, queste ultime enfatizzano i rischi che l’industria della moda può produrre nel pubblico promuovendo modelli di genere diseguali e lesivi o incentivando comportamenti scorretti, in particolare rispetto al corpo. Queste immagini sono ulteriormente amplificate quando si parla della moda rivolta all’infanzia, il cui target specifico è considerato per antonomasia un “minore”, un soggetto cioè dalle “minori capacità” anche di difendersi dal mondo adulto.

Eppure sono molti di più gli aspetti e le implicazioni della moda bambino, il ruolo sociale e culturale che l’abbigliamento storicamente ha svolto e svolge nella società e nella vita stessa dei bambini e dei genitori, gli immaginari che muovono gli stilisti e i comunicatori che a vari livelli costruiscono un discorso contemporaneo sulla moda per l’infanzia.46 E molte di più, e assai più articolate, possono essere le lenti attraverso cui guardare i bambini e le bambine, non come “minori”, ma come soggetti che a partire da un diverso posizionamento nella scala anagrafica scoprono il mondo, ne parlano e lo modificano sotto i nostri occhi. È quindi più una questione di sguardi, di posizionamenti da cui guardiamo l’infanzia che una questione ontologica e statica relativa “all’essenza del bambino”. Un conto è guardare i bambini prevalentemente come soggetti deboli, target passivi di messaggi pubblicitari e di volontà adulte, un altro come soggetti attivi, capaci di interpretare il mondo, di relazionarsi con esso e, talvolta, di trasformarlo. I bambini e le bambine non sono però solo vulnerabili o solo capaci, ma si muovono nella vita come dei bricoleur alternando continuamente paura e timidezza a eccessi di spensieratezza e spavalderia.47

La moda bambino ugualmente non rappresenta tutto il mondo infantile ma allo stesso tempo offre, seppure condensato in brevi parentesi dalla loro vita ordinaria, uno spaccato dell’infanzia e della cultura degli adulti, siano essi genitori o operatori della moda.

Facendo ricerca etnografica in questo ambito, partecipando come spettatrice alle sfilate e ai backstage, seguendo gli shooting fotografici, le passeggiate libere dei bambini durante il salone internazionale della moda bimbo, le pause pranzo insieme ai loro genitori e ai loro “compagni di moda” ho osservato pianti ma anche risate. Ho visto i bambini passare da posture scomposte durante il gioco libero pochi minuti prima della sfilata a degli allineamenti del corpo e del suo movimento al ritmo della passerella. I bambini e le bambine però non camminano tutti e tutte alla stessa maniera. C’è chi corre, chi va lentissimo, chi sorride con gli occhi e con la bocca e si diverte, chi ha lo sguardo fisso e serio, chi si ferma, chi inciampa e chi, non assecondando il volere del regista, cambia ritmo e cammina “male”, fuori tempo. Anche qui, attraverso uno sguardo attento alle molteplicità di sfumature che i soggetti possono esprimere, si può cogliere l’agency del bambino: la capacità di esprimersi a modo proprio dentro, e oltre, un ordine predisposto da altri. Sono le sbavature del sistema, le stesse che possiamo osservare a scuola quando i bambini tardano a rientrare in classe dopo la ricreazione o si passano i messaggini di carta sotto il banco quando l’insegnante volta la testa. In questi casi può sì succedere che la regista inviti il bambino a camminare a tempo o più velocemente, o che un genitore a fine sfilata lo riprenda, ma questo non impedirà al bambino di replicare quel comportamento un’altra volta, magari con maggiori capacità mimetiche per non farsi scoprire. In un mondo incentrato sulla visibilità, sull’apparire e sul prestare il proprio volto alla campagna pubblicitaria di un marchio importante, i bambini e le bambine modelli/e iniziano a padroneggiare con capacità diversi registri di visibilità capendo quando stare sopra e sotto la soglia dell’esibizione. In molti riferiscono infatti di non raccontare a scuola le loro esperienze nell’ambito della moda, ma al di fuori sanno stare davanti a una macchina fotografica e relazionarsi con altri adulti senza la mediazione dei genitori. Ad alcuni, come mi ha detto una bambina durante un’intervista, “piace essere fotografati”, mentre altri hanno già sviluppato una propria immagine di sé e iniziano a dire “no” a certi abiti perché “non se li vedono addosso”.

Abbassando lo sguardo “ad altezza dei bambini” e intervistandoli si scopre che sfilare è un impegno, ma è anche un gioco, un’opportunità per promuoversi, ma anche un’occasione di incontro con vecchi e nuovi amici conosciuti sui set e nei backstage, momento di visibilità, ma anche ritaglio di intimità familiare tra un genitore (spesso la madre) e una figlia che, come nel caso del salone internazionale di Pitti, passano alcuni giorni insieme fuori dalle routine familiari.

“Il Pitti”, come dicono i bambini, diventa negli intervalli tra una sfilata e uno scatto fotografico, una fiera dei gadgets da accaparrarsi con ingordigia per correre poi al set successivo dai propri amici per fare la conta o il confronto di quanto si è accumulato. Vita reale e finzione si intrecciano più fluidamente nelle loro pratiche e nei loro racconti di quanto non passi dal discorso mediatico che sottolinea solo “l’effetto circo” lesivo dell’innocenza infantile. Certamente i fondali, i copioni, gli abiti di scena sono decisi dagli adulti, eppure lo scenario fantastico in cui si muovono non è poi così distante da quello che creano nei loro quotidiani giochi “da bambini” e a cui li socializziamo sin da piccoli attraverso le fiabe e la letteratura per l’infanzia. Essere principi e principesse, esploratrici ed esploratori in contesti urbani o esotici, astronauti sulla luna e pirati in mare, raccoglitori di foglie autunnali e artefici di pozioni magiche dai super poteri. Il mondo della moda bambino è ampio e variegato quanto i confini della fantasia.

D’altra parte, emerge dalle osservazioni e dalle interviste agli adulti una profonda attenzione verso le dinamiche di crescita e le tappe di sviluppo dei bambini, un’estrema riflessività degli operatori della moda (spesso genitori essi stessi) nel non creare facili illusioni di percorsi dal successo effimero e nel creare contesti di divertimento e piacere, oltre che di crescita. È parte di un lavoro produttivo ed efficiente per il creatore di moda saper assumere il punto di vista del bambino, ricordare i propri desideri nell’infanzia e capire quali sono i bisogni di chi il capo di abbigliamento lo dovrà scegliere.

Ugualmente, dal lato genitoriale, sono in tanti a sostenere attivamente la partecipazione dei figli: le madri curando tutti gli aspetti organizzativi e gestionali e i padri principalmente godendo del risultato finale, la foto nella rivista da mostrare agli amici. Alcune madri ne parlano proprio come di un “lavoro”, anche se iniziato “per gioco” e per “fare un’esperienza”. Con il tempo riconoscono che “dà dipendenza” e vivono con dispiacere il progressivo calo di visibilità delle figlie e di telefonate da parte delle agenzie, quasi inevitabile con la crescita e lo sviluppo del corpo. Si nasconde qualcosa in questo bisogno di esibirsi, di “vedere i propri figli in copertina” e di mostrarli agli amici. Forse “è solo vanità”, come mi è stato detto durante un’intervista da una madre spiazzandomi per la sincerità con cui motivava il senso di fondo della partecipazione della figlia a degli eventi di moda.

In una società pervasa dal modello dei talent show e che lega il valore morale di un genitore al successo dei propri figli, cambiano le aspettative su di loro e sul ruolo genitoriale.48 La foto del proprio bambino su un cartellone pubblicitario è un piacere ma diventa una forma di riconoscimento sociale. La moda per l’infanzia si inserisce in questo caleidoscopio di visioni e rifrazioni di immagini del passato, del presente e del futuro e nel suo muoversi tra dimensioni ordinarie e straordinarie non fa altro che essere un altro contesto in cui i bambini e le bambine sperimentano la vita giocando a fare i grandi e i grandi propongono modi di sperimentarla giocando, spesso, a tornare bambini.

Il gioco potrà certamente durare all’infinito a patto che lo spazio di protagonismo della passerella diventi solo l’inizio di un cammino di autonomia dei bambini e delle bambine nel mondo reale.

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  1. Il progetto di ricerca Creando bambini. Discorsi, esperienze e rappresentazioni dell’infanzia nella moda bimbo, avviato nel marzo 2017 e ancora in corso, è sostenuto dall’Università degli Studi di Bologna (Dipartimento di Scienze dell’Educazione G.M. Bertin), dalla Regione Emilia-Romagna, dall’Università di Parma e da Pitti Immagine Bimbo. Sviluppato attraverso la prospettiva e gli strumenti innovativi di ricerca della nuova sociologia dell’infanzia, attenta a riconoscere capacità e protagonismo ai bambini nella loro vita, mira ad approfondire e conoscere empiricamente, con metodologia di ricerca qualitativa, le prospettive che animano gli attori coinvolti nella produzione della moda bimbo: dalle aziende, ai comunicatori sino ai bambini modelli con i loro genitori. Una serie di interrogativi su come i capi d’abbigliamento vengano creati, quali siano le rappresentazioni sull’infanzia e le fonti di ispirazione dei designer della moda, da un lato, quali i significati attributi ai capi di abbigliamento dai bambini e quali i loro immaginari, dall’altro, rappresenta un campo ancora da sviluppare nella produzione sociologica italiana, ma che viene attraverso questa ricerca attentamente osservato per restituire agli attori coinvolti (dal lato della produzione e da quello del consumo) un’immagine pubblica precisa del mondo della moda bimbo, a partire da dati raccolti con rigore metodologico e strumenti propri della ricerca sociologica.

  2. Leena Alanen and Berry Mayall, Conceptualizing Child-Adult Relations (London: Routledge-Falmer, 2001); Berry Mayall, Towards a sociology for childhood. Thinking from children’s lives (Buckingham: Open University Press, 2002).

  3. Anna Bondioli, a cura di, Il buffone e il re. Il gioco dei bambini e il sapere dell’adulto (Scandicci: La Nuova Italia, 1989).

  4. Il termine “ordine generazionale” sviluppato da Berry Mayall (Cfr. Mayall, Towards a sociology, 10) indica “i modelli generazionali, dominanti in una determinata società, che regolano i rapporti tra le generazioni e condizionano le interazioni tra adulti e bambini stabilendo modalità accettate e modalità non legittimate di relazione. Le strutture generazionali vincolano gli attori sociali nelle loro pratiche ma non sono indipendenti dalla loro azione poiché [gli attori] possono contribuire sia alla loro riproduzione che al loro cambiamento. L’ordine generazionale definisce anche lo status dei bambini all’interno della società. Essendo una costruzione sociale […] non sono universali ma possono variare storicamente e geograficamente, nel tempo e nello spazio”, Cfr. Caterina Satta, Bambini e adulti: la nuova sociologia dell’infanzia (Roma: Carocci, 2012), 36.

  5. Adulto qui considerato sia nel ruolo dell’operatore che deve lavorare con i bambini, sia in quello del pubblico, destinatario finale e “target” delle immagini create attorno ai marchi e ai capi d’abbigliamento per l’infanzia.

  6. Claudio Baraldi, Bambini e società (Roma: Carocci, 2008); William A. Corsaro, Le culture dei bambini (Bologna: Il Mulino, 2003); Allison James, Chris Jenks and Alan Prout, Teorizzare l’infanzia. Per una nuova sociologia dei bambini (Roma: Donzelli, 2002); cfr. Satta, Bambini e adulti.

  7. Allison James, “Agency”, in The Palgrave Handbook of Childhood Studies, eds. Jens Qvortrup, William A. Corsaro and Michael-Sebastian Honig (Basingstoke: Palgrave, 2009), 34-45.

  8. Laura Bovone, a cura di, Mode (Milano: Franco Angeli, 1997); Diana Crane, Questioni di moda: classe, genere e identità nell’abbigliamento (Milano: Franco Angeli, 2004); Frédéric Monneyron, Sociologia della moda (Roma-Bari: Laterza, 2008); Emanuela Mora, Fare moda. Esperienze di produzione e consumo (Milano: Bruno Mondadori, 2009); Simona Maria Segre Reinach, La moda. Un’introduzione, (Bari-Roma: Laterza, 2005).

  9. Georg Simmel, La moda (Milano: Mondadori,1998).

  10. Roland Barthes, “Storia e sociologia del vestito”, in Scritti. Società, testo, comunicazione, a cura di Roland Barthes (Torino: Einaudi, 1998).

  11. Daniel Thomas Cook, The Commodification of Childhood. The children’s clothing industry and the rise of the child consumer (Durham-London: Duke University Press, 2004).

  12. James McNeal, On Becoming a Consumer: Development of Consumer Behavior Patterns in Childhood (Oxford: Elsevier, 2007); David Buckingham, The material child. Growing up in consumer culture (Cambridge: Polity Press, 2011).

  13. Patricia Holland, Picturing Childhood. The myth of the child in popular imagery (London-New York: I.B. Tauris, 2006).

  14. Neil Postman, La scomparsa dell’infanzia. Ecologia delle età della vita, (Roma: Armando, 1984); Elisabetta Forni, La città di Batman. Bambini, conflitti, sicurezza urbana (Torino: Bollati Boringhieri, 2002).

  15. Allison James and Adrian James, Constructing childhood. Theory, policy and social practice (London: Palgrave, 2004).

  16. Valerio Belotti e Roberta Ruggiero, Vent’anni di infanzia. Retorica e diritti dei bambini dopo la convenzione dell’89 (Milano: Guerini, 2008); Arnlaug Leira and Chiara Saraceno, eds., Childhood: Changing Contexts (Bingley: JAI Press, 2008).

  17. Viviana A. Zelizer, Vite economiche. Valore di mercato e valore della persona (Bologna: Il Mulino, 2009).

  18. Cfr. ad esempio Arlie Hochschild, Per amore o per denaro. La commercializzazione della vita intima (Bologna: Il Mulino, 2006).

  19. Mary Douglas e Baron Isherwood, Il mondo delle cose. Oggetti, valori, consumo (Bologna: Il Mulino, 1984); Roberta Sassatelli, Consumo, cultura e società (Bologna: Il Mulino, 2004).

  20. Ellen Seiter, Sold separately: parents and children in consumer culture (New Brunswick-New Jersey: Rutgers University Press, 1993); Viviana A. Zelizer, “Kids and commerce”, Childhood 9, no. 3, (2002): 375-96; Lydia Martens, Dale Southerton and Sue Scott, “Bringing Children (and Parents) into the Sociology of Consumption”, Journal of Consumer Culture 4, no. 2, (2004): 155-82; David Buckingham and Vebjørg Tingstad, eds., Childhood and Consumer Culture (Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2010).

  21. Viviana A. Zelizer, Pricing the priceless child. The changing social value of children (New York: Basic Books, 1985).

  22. Daniel Thomas Cook, “The dichotomous child in and of commercial culture”, Childhood 12, no. 2 (2005): 155-59; Julie Evans and Joan Chandler, “To Buy or not to Buy: Family Dynamics and Children’s Consumption”, Sociological Research Online 11, no. 2 (2006): http://www.socresonline.org.uk/11/2/evans/evans.pdf.

  23. Simona Ironico, “Le dinamiche del lusso nella moda infantile”, in Moda oggi. Fra lusso e low cost, a cura di Vanni Codeluppi, Mauro Ferraresi e Ampelio Bucci (Milano: Arcipelago, 2008), 141-52; Simona Ironico, Come i bambini diventano consumatori (Roma-Bari: Laterza, 2010). Ashley Mears, Pricing beauty. The making of a Fashion model (Oakland: University of California Press, 2011); Joanne Entwistle, The Aesthetic Economy of Fashion: Markets and Value in Clothing and Modelling (Oxford: Berg, 2009); Jane Pilcher, “Small, but Very Determined: A Novel Theorization of Children’s Consumption of Clothing”, Cultural Sociology 7, no. 1 (2013): 86-100; Christopher Pole, “Researching Children and fashion. An embodied ethnography”, Childhood 14, no. 1 (2007): 67-84.

  24. Si pensi alla body politics nei contesti scolastici e alle norme che regolano l’abbigliamento degli adolescenti (cfr. Rebecca Raby, “Polite, Well-dressed and on Time: Secondary School Conduct Codes and the Production of Docile Citizens”, Canadian Review of Sociology 42, no. 1 (2005): 71-91).

  25. Pierre Bourdieu, Risposte. Per un’antropologia riflessiva (Torino: Bollati Boringhieri, 1992).

  26. Cfr. Crane, Questioni di moda; Dick Hebdige, Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale (Genova: Costa & Nolan, 1983); Efrat Tseelon, The Masque of Femmininity: The Presentation of Woman in Everyday Life (London: Sage, 1995).

  27. Cfr. Cook, The Commodification of Childhood.

  28. Philippe Ariès, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna (Bari: Laterza, 2006).

  29. Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (Torino: Einaudi, 1975); Norbert Elias, Il processo di civilizzazione (Bologna: Il Mulino, 1988); Henry Hendrick, Child welfare. Historical dimension, contemporary debate (Bristol: The policy Press, 2003); Alan Prout, The Body, Childhood and Society (Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2000); Kathrin Hörschelmann and Rachel Colls, a cura di, Contested Bodies Of Childhood And Youth (Basingstoke and New York: Palgrave Macmillan, 2010); Gill Valentine, “Children’s Bodies: An Absent Presence”, in Contested Bodies Of Childhood And Youth (Basingstoke and New York: Palgrave Macmillan, 2010), 22-37.

  30. Kirsi Pauliina Kallio, “The Body as a Battlefield: Approaching Children's Politics”, Geografiska Annaler. Series B, Human Geography 90, no. 3 (2008): 285-97; Kirsi Pauliina Kallio and Jouni Häkli, “Children and Young People's Politics in Everyday Life,” Space and Policy 17, no. 1 (2013): 1-144.

  31. Daniel Thomas Cook, “The missing child in consumption theory”, Journal of consumer culture 8, no. 2 (2008): 219-43.

  32. Allison Pugh, Longing and belonging. Parents, children and consumer culture (Berkeley: University of California Press, 2009); Guido Maggioni, Paola Ronfani, Carmen Belloni e Valerio Belotti, a cura di, Bambini e genitori. Norme, pratiche e rappresentazioni della responsabilità (Roma: Donzelli, 2013); Caterina Satta, “La faccia in gioco. Quando i desideri diventano bisogni e le bugie necessità”, in Negoziare i consumi. Voci, esperienze e rappresentazioni di bambini e genitori, a cura di Valerio Belotti (Padova: Cleup, 2013): 47-70.

  33. Anthony Rotundo, “Boy Culture”, in The Children’s Culture Reader, a cura di Henry Jenkins (New York-London: New York University Press, 1998); Claudia Mitchell and Jacqueline Reid-Walsh, “And I want to thank you, Barbie: Barbie as a site for cultural interrogation,” in Education and cultural studies: Toward a performative practice, eds. Henry Giroux and Patrick Shannon (London: Routledge, 1997), 103-16; Claudia Mitchell, “Researching Things, Objects and Gendered Consumption,” in Childhood and Consumer Culture, eds. David Buckingham and Vebjørg Tingstad (Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2010), 94-109.

  34. Daniel Thomas Cook, “Disrupting play: A cautionary note,” Childhood 23, no. 1 (2016): 3-6.

  35. Anna Bondioli, “Il gioco, lo specchio, la cornice: oltre i confini,” Aut Aut 337, (Gennaio-Marzo 2008): 23.

  36. Cfr. Corsaro, Le culture dei bambini.

  37. Helga Kelle, “I bambini costruiscono l’infanzia. Approcci etnografico-costruttivisti alle culture dei pari”, in Per una sociologia dell’infanzia, a cura di Heinz Hengst e Helga Zeiher (Milano, Franco Angeli, 2004), 76-98.

  38. Cfr. Bondioli, “Il gioco, lo specchio”, 27.

  39. Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente (Milano: Adelphi, 1972).

  40. Gregory Bateson, “Questo è un gioco” (Milano: Raffaello Cortina, 1996).

  41. Fritz Redl è lo psichiatra invitato a partecipare nel 1957, insieme a un gruppo di scienziati di varie discipline tra cui Gregory Bateson, a un incontro dialettico sul significato da attribuire alla parola “gioco”. Il libro “Questo è un gioco!” riporta la trascrizione dei dialoghi e delle riflessioni sviluppate in quell’occasione.

  42. Cfr. Bateson, "Questo è un gioco, 143.

  43. Cfr. Bondioli, Il buffone e il re.

  44. Caterina Satta, “A Proper Place for a Proper Childhood? Children’s Spatiality in a Play Centre”, in Children’s Spatialities. Embodiment, Emotion and Agency, a cura di Abigail Hackett, Lisa Procter e Julie Seymour (Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2015): 178-97.

  45. Maria Luisa Frisa, Le forme della moda (Bologna: Il Mulino, 2015): 8.

  46. Sharon Boden, “Dedicated followers of fashion? The influence of popular culture on children’s social identities”, Media, Culture & Society 28, no. 2 (2006): 289-98; Agnes Nairn, “Children and Brands”, in Understanding Children as Consumers, a cura di David Marshall (London: Sage, 2010), 96-114; Maria Piacentini, “Children and Fashion,” in Understanding Children as Consumers, a cura di David Marshall (London: Sage, 2010), 202-17; cfr. Pole, “Researching Children”.

  47. John Fiske, Understanding Popular Culture (London-New York: Routledge, 1989); Caterina Satta, Per sport e per amore. Bambini, genitori e agonismo (Bologna: Il Mulino, 2016).

  48. Cfr. Satta, Per sport e per amore.