Confrontarsi con il gigante cinese, con quel vero e proprio cosmo o universo rappresentato dalla Cina (e ospitante al suo interno, per così dire, una miriade di microcosmi diversi in relazione sia fra di loro, sia con il resto del mondo), è diventato ormai un compito ineludibile e imprescindibile per tutti in Occidente, a qualsiasi livello. Vale a dire, sia che ci si confronti con la Cina a un livello economico o sociopolitico, sia che ci si confronti con essa a un livello culturale. Livello culturale che poi, a sua volta, può riguardare ovviamente campi diversi fra loro, come quelli, ad esempio, dell’etica, dell’estetica, della religione, delle tradizioni, delle varie arti e pratiche (letteratura, pittura, musica), ecc. Rientra in ciò, chiaramente, anche un campo come quello della moda, riguardo al quale appare parimenti necessario confrontarsi seriamente con tutto ciò che, nel bene e nel male, in grande e in piccolo, rappresenta oggi la Cina. Risponde precisamente a questo compito ed a questa sfida, per così dire, il volume recentemente pubblicato dall’editore I. B. Tauris & Co. nella collana “Dress Cultures” con l’intrigante titolo Fashion in Multiple Chinas: Chinese Styles in the Transglobal Landscape, a cura di Wessie Ling e Simona Segre Reinach, rispettivamente reader in “Fashion Studies” presso la Northumbria University (UK) e professoressa associata presso i corsi di laurea in “Culture e tecniche della moda” e “Fashion culture and management” all’Università di Bologna.
Fashion in Multiple Chinas: Chinese Styles in the Transglobal Landscape è un libro ampio, complesso e articolato, con una suddivisione in tre sezioni molto chiara e netta (e spiegata nei dettagli nel primo capitolo, “Fashion-Making in the Transglobal Landscape”: di fatto un’Introduzione scritta dalle due curatrici); sezioni a loro volta suddivise in nove parti, o più precisamente in nove capitoli a opera di autori diversi. Come viene chiarito all’inizio del terzo paragrafo della succitata Introduzione, “la pluralità della moda cinese che si prolunga nella nozione delle Cine multiple” (le multiple Chinas che compaiono già nel titolo del libro) “pervade tutto il volume. Ciò è esemplificato dai nove capitoli, i quali rientrano ordinatamente in tre aree”: primo, “l’industria della moda della PRC (Repubblica Popolare Cinese)”; secondo, “la moda nelle altre Cine” (ovvero, come viene spiegato qualche pagina dopo, in aree diverse della Cina rispetto alla mainland della PRC, come Hong Kong, Taiwan, Macau e Singapore); terzo, “la moda cinese e l’Occidente” (p. 6). A loro volta, poi, le tre aree o sezioni in cui risulta articolato e strutturato il libro sono strettamente collegate a quelli che le curatrici, sempre nell’Introduzione, definiscono “i tre concetti, fra loro intrecciati, che sono intrinseci alla nostra comprensione della moda cinese” (ibidem), ovvero i “tre concetti interconnessi di (1) credenza comune; (2) tempo; e (3) spazio” (p. 2). Sintetizzando, quindi, possiamo dire che l’unità del volume scaturisce da un tale intreccio fra aspetti o coordinate squisitamente tematico-concettuali, da un lato, e geografico-spaziali-temporali, dall’altro, di modo che la molteplicità dei contributi di vari autori (di cui, come si diceva, di fatto vive il libro) non produce una sensazione di movimento disordinato secondo linee diverse o direzioni divergenti ma, al contrario, restituisce al lettore un senso di unitarietà che è chiaramente il frutto di un’attenta pianificazione. Seguendo l’ordine stesso della scansione in capitoli del libro, possiamo allora ricordare che esso, per la Parte I (dal titolo “People’s Republic of China’s Fashion Industry”), si compone dei contributi di Antonia Finnane e Peidong Sun (“Textiles and Apparel in the Mao Years: Uniformity, Variety and the Limits of Autarchy”), di Jianhau Zhao (“Local Productions, Global Connections: Making Fashion in China”), di Juanjuan Wu, Yue Hu, Lei Xu e Marilyn R. Delong (“Designed in China: Multiple Approaches to Fashion and Retail”) e di Xin Gu (“Creative Economy in China: A Case Study of Shanghai’s Fashion Industries”). Laddove la Parte II, intitolata “Fashion in Other Chinas”, si compone dei seguenti saggi: “Beneath the Co-created Chinese Fashion: Translocal and Transcultural Exchange Between China and Hong Kong”, di Wessie Ling; “Multiple Faces of Cosplay: Raiding the Dressing-Up Box across the China Region”, di Anne Pierson-Smith; e “Hybrid Fashion: A Study of Singapore’s Cosmopolitan Identity from the 1950s to the Present”, di May Khuen Chung. Mentre la Parte III, infine, intitolata “Chinese Fashion and the West”, comprende i due capitoli finali di Hazel Clark (“Chinese Fashion Designers: Becoming International”) e di Simona Segre Reinach (“Romeo Gigli Reborn in China?”).
Informazioni e chiarimenti essenziali, ancora una volta, ci vengono forniti dalle due curatrici nel capitolo iniziale “Fashion-Making in the Transglobal Landscape”. Qui, infatti, si spiega fin da subito che, sebbene si sia già scritto e pubblicato molto riguardo alla transizione della Cina da mero luogo di produzione di abiti a società caratterizzata da un elevato e rapido consumo di moda, ciononostante diverse questioni importanti sembrano essere rimaste inevase, non adeguatamente affrontate. Derivano da qui, allora, alcune domande-guida, apparentemente semplici ma in realtà vaste e complesse, che le curatrici del libro pongono subito all’attenzione del lettore: “Che cos’è la moda cinese? E di quali cinesi? Perché interessa così tanto – e a chi?” (p. 1). Affrontare tali questioni, ci viene allora spiegato, comporta necessariamente, fra le altre cose, (a) un confronto con la “costante negoziazione” e le “dinamiche di potere fra la Cina e il resto del mondo” che, accanto a ogni altro ambito (come si diceva in apertura di questa recensione), non possono non avere un effetto anche sul campo della moda; e poi (b) una messa in discussione di approcci scientifici all’argomento ormai consolidati ma forse non del tutto adeguati per rendere giustizia all’intera serie di intrecci che un confronto critico con la moda nelle “Cine multiple” immediatamente dischiude. Ad esempio, l’intreccio (o, se si vuole, la compresenza) di un’“estetica delle superfici” e di un’influenza del “contesto culturale e [della] logica della politica” (p. 2) nell’attività dei fashion designer; oppure l’intreccio – più che la semplice opposizione, come si sarebbe portati a pensare, invece, secondo certi schemi binari ben abituali per noi occidentali ma poco proficui nel confrontarsi con una siffatta “alterità” – di abbigliamento/costume e moda, di tradizione e modernità, di “produzione materiale” e “produzione simbolica” (p. 3), di funzione di consolidamento dell’identità e trasformazione incessante in un “paesaggio transglobale” come quello della contemporaneità. A questo proposito, cioè a proposito della necessità di soffermarsi anche su questioni di metodo là dove il contatto con determinati fenomeni e contenuti metta in evidenza eventuali lacune negli approcci fin qui usati, alla fine dell’Introduzione ci viene detto che “la necessità di spingersi oltre la teoria post-coloniale, verso un approccio più variegatamente interdisciplinare nello studio della moda contemporanea, è evidente nel caso della Cina”. Così, il tentativo del libro appare essere quello di delineare un framework concettuale in grado di “svelare le dinamiche intrecciate di tipo economico, politico, geografico e socioculturale” (p. 10) che sono sottostanti e soggiacenti allo sviluppo di un “progetto transculturale e transglobale” come la moda in Cina – e oggi, forse, della moda in generale.
All’interno di uno schema di questo tipo alcune tesi particolarmente intriganti e ambiziose sembrano emergere, di notevole interesse anche per altri filoni di studio sulla moda, come per esempio (con riferimento specifico, com’è normale che sia, agli interessi scientifici di chi scrive) un’estetica filosofica della moda. Fra queste tesi, a mero titolo di esempio e senza alcuna pretesa di esaustività, ci limitiamo a citare in questa sede quella della natura intrinsecamente creativa del fenomeno-moda in generale (“la creatività è la vera essenza della moda”, si legge a p. 3); oppure quella della rilevanza del “padroneggiare la conoscenza estetica (master aesthetic knowledge)” e dello sviluppo dell’“economia creativa” anche per una nazione come la Cina (al contempo comunista e pienamente aperta all’economia di mercato), anche come possibile “forma di soft power” (ibidem); oppure quella della natura costitutivamente relazionale, aperta e “scambievole”, e dunque mai chiusa o “isolazionista”, della moda in quanto tale (“nessun sistema di moda si sviluppa in isolamento”, leggiamo a p. 6), e della moda cinese in particolare. Infine, mi sembra importante ribadire come il libro, di fronte a un’immagine forse troppo unitaria o monolitica che molti di noi, per via della lontananza geografica e culturale, possono avere della Cina, ponga costantemente l’accento sulla molteplicità e sulla pluralità, insomma sull’esistenza delle Cine, di una serie di multiple Chinas che, a loro volta, si caratterizzano per le loro multiple fashions. Oltre che un aspetto importante nel campo ampio ma comunque delimitato dello studio della moda, si tratta di un insegnamento di portata generale, se non addirittura universale. Un insegnamento che, ritornando per l’ultima volta su quanto accennato programmaticamente all’inizio del nostro testo, vale quindi per il nostro confronto con la Cina sul piano della moda così come su un piano economico o sociopolitico o culturale in genere. Anche per il fatto di aprire gli occhi su questa realtà di fatto, dunque, bisogna in qualche modo essere grati agli autori dei saggi raccolti nel libro e alle curatrici di questo volume importante e di sicuro impatto.