Introduzione
Nel corso dei primi anni Duemila, l’emittente americana Disney Channel inaugura un nuovo modo di concepire il divismo adolescenziale, vicino nei gusti e nelle idee al proprio pubblico di riferimento. In contrapposizione ai finti teenagers di Dawson’s Creek e di The O.C.,1 la grande industria creata da Walt Disney assolda attori e attrici tra i dodici e i diciotto anni, chiamati a rispecchiare il target tween e teen2 dei telespettatori. Più dei colleghi, le interpreti femminili catalizzano l’attenzione dei coetanei, diventando dive del piccolo schermo: volti freschi ed ingenui come quelli di Hilary Duff e di Raven-Symoné raggiungono in breve tempo un impensato successo grazie a sitcom quali Lizzie McGuire e Raven,3 conquistando il cuore di milioni di fan in tutto il mondo. Intraprendendo poi una fortunata carriera musicale e cinematografica, le giovani artiste guadagnano il titolo di vere e proprie teen idols, riuscendo anche ad inaugurare o influenzare mode e tendenze del periodo.
Alla luce del riscontro economico, la Disney ripropone l’operazione a ridosso degli anni Dieci, attingendo però a schemi fissi maggiormente definiti e regolamentati. Esordendo in serie televisive ma aprendosi al mercato discografico e cinematografico, innumerevoli attrici adolescenti sono infatti chiamate ad incarnare ordinary girls innocenti e determinate che, nelle loro avventure, affrontano problemi comuni e nel contempo straordinari. La positiva, seppur stereotipata, caratterizzazione della «can-do girl»4 non resta tuttavia circoscritta alle logiche narrative, ma influenza l’immagine divistica delle stesse interpreti, le quali vengono innalzate a nuovi modelli di comportamento e di moralità. Se innumerevoli sono le giovani stars appartenenti a questa seconda ondata, Miley Cyrus, Selena Gomez e Demi Lovato appaiono come gli esempi più emblematici, in quanto legano la propria individualità ai personaggi interpretati rispettivamente in Hannah Montana, I Maghi di Waverly e Sonny tra le stelle.5
In questa capillare logica del controllo operata dalla Disney,6 la moda assume un ruolo fondamentale e doppiamente decisivo: se da un lato caldeggia l’immagine edulcorata e pura tipica dell’azienda, dall’altro permette alle singole attrici di restituire almeno parzialmente una parvenza di specificità, gettando le basi di un’evoluzione che sfocerà nella meno vincolante industria dell’entertainment generalizzato. Prendendo in analisi le carriere delle suddette teen idols, è dunque possibile individuare il loro legame inscindibile con il micro-cosmo del fashion, incaricato sia di promuovere comuni precetti pedagogici sia di far trasparire singole coscienze divistiche.
L’intervento mira pertanto ad investigare come le tre starlet disneyane, scelte per merito della rilevanza culturale e del successo ottenuto nel corso dell’ultimo decennio, si trasformino in esempi emblematici di un’evoluzione divistica ricorrente per molteplici stars under 18, la quale coinvolge la sfera della moda e della costruzione del sé tramite essa. Il mondo del fashion, prima controllato da regolamentazioni aziendali e poi apparentemente libero, guadagna infatti uno spazio predominante nella cultura della celebrità,7 diventando un terreno fertile per lo studio delle modalità rappresentative dello stardom adolescenziale. Allineandosi con il portato teorico del terzo femminismo e con le ricche riflessioni incentrate sul concetto di celebrità, l’analisi qui proposta si muove di conseguenza tra differenti materie di studio che, coniugate tra loro, restituiscono l’omogeneità e la susseguente peculiarità del rapporto tra moda e divismo giovanile: circoscrivendo il periodo al significativo decennio che va dal 2006 al 2016,8 si vuole quindi promuovere un’indagine incrociata delle produzioni cinematografiche o televisive, delle singole carriere musicali con le relative performances live, delle apparizioni pubbliche in eventi mondani o in cerimonie di premiazione, degli shooting per riviste di settore e nell’auto-rappresentazione sulle piattaforme social, con particolare interesse per Instagram.
«For an ordinary girl, like you and me»
Focalizzandosi anzitutto sui prodotti televisivi realizzati da Disney Channel tra il 2006 e il 2011, è interessante notare come la scelta dei look sia canonizzata, estranea a qualsivoglia singolarità espressiva delle interpreti. Distaccandosi dall’idea di adolescente in costante divenire,9 la teenager Disney adotta infatti stili spesso immutati e immutabili, differenti nei dettagli ma uguali nelle linee generali: promuovendo una bonaria iper-femminilità di stampo tardo-femminista,10 la nuova ragazza della porta accanto gioca sistematicamente con il suo essere anagraficamente in-between, intrecciando abiti virginali a dettagli sessualizzati.
Miley Cyrus è la idol più celebre e discussa di Disney Channel: interpretando il ruolo di Miley Stewart e del suo doppio Hannah Montana nell’omonima serie televisiva, il suo personaggio diventa l’esempio più riuscito di ordinary girl, capace con una parrucca bionda e con un look ricercato di trasformarsi in una cantante pop di fama internazionale. Concretizzando narrativamente la dicotomia purezza-sessualità intrinseca all’adolescente Disney, la figura incarnata dalla Cyrus propone quindi mise casual nella vita normale, apparendo però eroticizzata quando veste i panni del proprio alter-ego. Nonostante i suoi look non siano consoni ad una persona adulta, la figura di Hannah Montana ricorre spesso a tacchi alti, minigonne e trucco marcato, atti a restituire un accenno di sessualità in un outfit che, grazie agli accostamenti improbabili e ai colori sgargianti, ricolloca il personaggio nel contesto infantile di partenza. Studiando le fotografie pubblicitarie che anticipano le singole stagioni, diverse volte si palesa questa commistione dialettica. Se le prime puntate incentivano uno stile country pop di forte stampo tween, nella seconda stagione vertiginose decolleté rosse e dorate vengono castigate da jeans a sigaretta, mentre le striminzite gonne del terzo ciclo sono indossate con giovanili Dr. Martins giallo fluo.
Un’operazione simile ma meno esplicita è stata posta in essere nella caratterizzazione di Alex Russo, giovane apprendista strega interpretata da Selena Gomez ne I maghi di Waverly. Proponendo un’ulteriore variazione sul tema dell’ordinary girl dalla vita straordinaria, il personaggio di Alex adotta nelle prime due stagioni un vestiario casual, composto da jeans, t-shirt e scarpe da ginnastica. Rispetto a quanto accade ad Hannah Montana, la Disney delinea pienamente lo stile della Gomez solo a partire dal terzo ciclo, quando il personaggio riesce a ritagliarsi uno spazio prioritario a discapito dei co-protagonisti David Henrie e Jake T. Austin: da quel momento, la figura subisce un graduale processo di eroticizzazione, consentendo all’attrice di acquisire un’immagine più matura e sofisticata. L’impronta classica che distinguerà l’evoluzione post-disneyana della Gomez traspare in questi ultimi archi narrativi de I maghi di Waverly, trovando anche nelle produzioni cinematografiche coeve un luogo di definizione. Scegliendo di interpretare pellicole come Another Cinderella Story (Santostefano, 2008), Programma protezione principesse (Liddi, 2009) e Monte Carlo (Bezucha, 2011), l’attrice sembra infatti prediligere ruoli che le permettano di incentivare una visione elegante di sé, affine ai precetti imposti dalla Disney e coerente con la concezione divistica a cui sembra ambire: abiti lunghi e preziosi gioielli divengono la cifra stilistica costante di questi lungometraggi, che mirano a trasformare l’attrice in una moderna Cenerentola.11
L’ultima in ordine di tempo ad approdare a Disney Channel è Demi Lovato, apparsa nel lungometraggio televisivo Camp Rock (Diamond, 2008) e scelta successivamente per il ruolo da protagonista in Sonny tra le stelle. Presentando per l’ennesima volta la storia di una ragazza comune with a chance,12 le produzioni che vedono la Lovato reginetta indiscussa si focalizzano quasi esclusivamente sulla sua figura, nonostante si affianchi a controparti maschili del calibro di Joe Jonas e Sterling Knight. Adottando nuovamente uno stile casual, i personaggi da lei interpretati lasciano trasparire una parvenza di femminilità, che risultata tuttavia normata dalla Disney. Confrontata con la Cyrus e la Gomez, la Lovato sembra dunque disinteressata a qualsiasi presa di coscienza personale attraverso la moda, omologandosi pedissequamente ai dettami imposti.
Un più marcato confronto dialettico tra canone e individualità è rintracciabile nella promozione discografica. Lanciate come stars a tuttotondo, le teen idols invadono rapidamente il mercato musicale, firmando un contratto con la Hollywood Records, l’etichetta ufficiale dei Walt Disney Studios. Tralasciando in questo caso la morigerata e più anonima Demi Lovato, Miley Cyrus e Selena Gomez tentano di modellare una definizione peculiare della propria forma artistica, seguendo però due strade opposte.
Aderendo al «new sexual contract»13 imperante nell’immaginario statunitense, l’interprete di Hannah Montana propone una sessualità implicitamente lecita, enfatizzata dall’uso di alcuni indumenti tipici dell’adolescente media. La divisa scolastica – generalmente composta da una gonna a quadri accostata a scarpe da ginnastica e a calze sportive al ginocchio – diventa il look principale della promozione di Meet Miley Cyrus, primo album della novella cantante. Come è stato per Britney Spears e Avril Lavigne, questi particolari indumenti si connotano di una valenza quasi feticistica, specifica dell’iconografia americana ma attenta alla rielaborazione visiva giapponese. Con l’uscita dei successivi Breakout e The Time Of Our Lives, la Cyrus sembra tuttavia volersi distaccare dall’universo pop della scolaretta, eroticizzando in modo quasi esplicito la propria figura: sneakers e gonnelline lasciano spazio a hot pants fascianti di jeans o di pelle, abbinati a canottiere con reggiseno in vista e a stivali sopra la caviglia dichiaratamente country. Tra i diversi singoli estratti, è Party In The U.S.A. e la relativa performance ai Teen Choice Awards del 10 agosto 2009 a definire completamente questa nuova essenza da giovane Lolita che, alla luce del testo filo-patriottico della canzone, sembra voler sancire un legame tra sessualità adolescenziale e cultura a stelle e strisce: soprattutto nella seconda parte del videoclip, l’outfit porn-country della diva viene avvicinato ad un’enorme bandiera statunitense, su cui troneggia la luminosa scritta «U.S.A». Proseguendo nell’evoluzione musicale della Cyrus, l’ultimo album prodotto dalla Hollywood Records, intitolato Can’t Be Tamed, vota la sua immagine ad un erotismo non più sublimato: sia nei video musicali sia nel conseguente tour latino Corazon Gitano, la diva abbina gli ormai inguinali hot pants a skympy tops, calze autoreggenti e reggiseni di paillettes. Anticipando le dinamiche rappresentative del periodo post-disney, Miley Cyrus utilizza la moda, più della stessa musica, per emanciparsi dall’industria che l’ha resa famosa: abbracciando i precetti del terzo femminismo,14 i vestiti e l’assenza di essi diventano l’emblema della propria presa di coscienza personale, in quanto donna, artista e figura mediatica.
Orientata verso i medesimi stilemi principeschi dei suoi personaggi cinematografici, Selena Gomez tenta di promuovere un’immagine discografica dagli influssi tradizionalmente hollywoodiani, in netta antitesi con le sonorità EDM e synth pop dei propri album. Non tenendo in considerazione la breve parentesi casual rock del LP d’esordio, sono soprattutto gli stili adottati per gli album When the Sun Goes Down e Stars Dance a giocare con un’idea intramontabile di femminilità, molto vicina a quella delle grandi dive della Golden Age americana. Negli scatti pubblicitari contenuti nel booklet del primo disco citato, la Gomez reinterpreta ad esempio modelli divistici archetipici, come Rita Hayworth nel celeberrimo manifesto di Gilda (Vidor, 1945) o Sandra Dee negli scatti balneari in promozione a I cavalloni (Wendkos, 1959). Anche le raffigurazioni pubblicitarie dell’album successivo sono influenzate dal cinema classico: così come la Mata Hari dell’omonimo film (Fitzmaurice, 1931) con Greta Garbo, la Gomez introduce nel proprio look gioielli e piccole borchie, dipingendo un ritratto all’apparenza orientale ma frutto di un immaginario occidentalizzato. Il photoshoot completo si dissemina pertanto di differenti variazioni del medesimo tema, ispirandosi a stili (e pose15) di grandi attrici quali Theda Bara, Ava Gardner, Marlene Dietrich e Carmen Miranda. Analogamente a Miley Cyrus, Selena Gomez tenta quindi di ritagliarsi un proprio spazio all’interno del soffocante sistema disneyano ricorrendo alla moda: non votandosi all’eccesso ma corteggiando il passato, la teen idol inaugura un percorso che esploderà nuovamente con il passaggio all’entertainment generalizzato.
Se i prodotti televisivi segnano un momento di assoluto controllo della Disney e la promozione discografica permette un confronto altalenante, le apparizioni pubbliche e i red carpet concedono alle celebrità adolescenti di distaccarsi parzialmente dalle imposizioni superiori, ampliando un’individualità ancora in nuce.
Parallelamente all’erotismo in divenire della sua immagine musicale, Miley Cyrus ricorre ai tappeti rossi per distaccarsi il più possibile dall’idea infantile di idolo dei teenagers. Benché tra il 2006 e il 2008 gli abiti e gli accostamenti appaiano ancora ingenui ed incerti, a partire dall’anno successivo il suo rapporto con la moda si evolve, portandola a compiere scelte più ponderate e diversificate a seconda degli eventi: mentre ai Kids’ Choice Awards del 2009 decide di indossare una giovanile veste bianca a balze, soirée di alto livello come la cerimonia degli Oscar o i Grammy Awards lasciano spazio ad abiti lunghi ed eleganti, vicini ad un prototipo di femminilità più adulta. In netta controtendenza, il 2010 segna una deviazione verso indumenti succinti che vogliono evidenziare una rottura con Hannah Montana. Lo stile classicheggiante dell’anno precedente scompare a favore di outfits moderni, sperimentali sia nelle forme sia nei tessuti: dal tubino bianco a linee irregolari degli American Music Awards di Los Angeles all’abito lungo con inserti androgini degli European Music Awards di Madrid, la Cyrus sembra essere sempre più propensa a far collimare tendenze opposte, pur mantenendo intatta un’idea tradizionale di donna. Giocando con la moda e con la propria femminilità, Miley Cyrus tenta dunque di rovesciare l’edulcorata impostazione Disney, enfatizzando tuttavia l’erotismo intrinseco ad essa: se i costumi di scena hanno infatti caricato di sessualità non dichiarata il personaggio da lei interpretato, tale caratteristica è stata volutamente introiettata nelle politiche stilistiche dell’attrice, che ha pertanto provato a prendere il controllo della propria carriera e a costruire una vera «maschera postfemminista».16
L’immagine pubblica di Selena Gomez si allinea con quella musicale, votata all’omaggio e alla rielaborazione della memoria hollywoodiana. Indossando abiti semplici e spesso di un unico colore, la protagonista de I maghi di Waverly ripropone un’eleganza convenzionale, puntellata da dettagli moderni che ne accentuano la sensualità: se ad esempio ai Billboard Awards del 2009 si presenta con un abito nero tagliato ai lati della vita, ai Video Music Awards del 2013 indossa un lungo vestito blu sapientemente decostruito. Non mancano però occasioni in cui la gonna corta sdrammatizza uno stile forse a tratti eccessivamente maturo: in occasione di cerimonie a target infantile come i Kids’ Choice Awards o i Disney Music Awards, la Gomez indossa infatti completi più casual, composti spesso da due pezzi. Non volendosi dilungare sulle molteplici e variegate apparizioni pubbliche della giovane attrice, una piccola parentesi deve essere aperta a proposito di due red carpet del 2011, anno della sua relazione con l’altro teen idol Justin Bieber. Rifacendosi alla Golden Age cinematografica, la piccola diva coinvolge il cantante canadese – notoriamente poco avvezzo a look sobri – in una rappresentazione del sé e della coppia abituale per lei ma insolita per lui: agli American Music Awards e al party per gli Oscar di Vanity Fair, i due si presentano con abiti classicheggianti e tradizionali. Gli outfits insoliti di Bieber, più che quelli pressoché ordinari della compagna, divengono prova della forza intrinseca alla moda, la quale, riprendendo un termine caro a Judith Butler,17 permette di «performare» un’immagine attraverso costruzioni stabilizzatesi nel tempo. Ponendosi in continuità con le idee di Annette Kuhn,18 di Joanne Finkelstein19 e della già citata Angela McRobbie,20 la moda assume dunque le fattezze di una maschera che permette di veicolare un’identità vicina o lontana al proprio essere: mentre la Gomez trova quindi nell’eco del passato un modo per emanciparsi, Bieber si limita a riproporre un prototipo che gli è estraneo, rigettandolo nel momento stesso della rottura con l’ormai ex compagna.
Maggiormente incline a seguire le politiche di Disney Channel, Demi Lovato è anche in questo frangente la meno innovativa, risultando tuttavia non priva di peculiarità: il suo rispetto nei confronti delle sovrastrutture e la sua fedeltà al marchio la distinguono infatti dalle colleghe, diversificandola proprio grazie all’omologazione (quasi) totale che sembra perseguire. I suoi red carpet da teen idol, concentrati nel triennio 2008-2010, ripropongono lo stile dei personaggi interpretati in Sonny tra le stelle e Camp Rock, intrecciandosi ad alcuni elementi pop-rock desunti dai suoi videoclip. In occasione di eventi come i Teen Choice Awards e i Disney Games del 2008 o della première di Hannah Montana: The Movie a Los Angeles nel 2009, la Lovato indossa abiti consoni all’immagine presentata sul piccolo schermo. Nonostante sia spesso meno considerata delle colleghe, l’importanza della Lovato all’interno delle dinamiche aziendali è comprovata anche da uno dei pochi approfondimenti accademici dedicati esclusivamente alle celebrità adolescenti21: interessandosi al marketing di Disney Channel, Morgan Genevieve Blue ha infatti studiato la Sonny Monroe Collection, linea di moda firmata D-Signed che per un determinato periodo ha rielaborato i look dell’attrice e del suo personaggio.22
Promuovendo precetti moralisti e pedagogici ma veicolando un’idea scissa tra virginale innocenza e tacito erotismo, le giovani dive si sono dunque omologate alla normatività Disney, spesso difficilmente conciliabile con le loro singole personalità. Alla conclusione dei contratti con l’azienda di Topolino, la situazione sembra pronta a mutare, permettendo a Miley Cyrus, a Selena Gomez e a Demi Lovato di intraprendere strade differenti ma focalizzate verso un unico obiettivo: prendere il controllo di una nuova e meno limitante immagine divistica.
«More than just survival, this is my revival»
Liberatesi dallo sguardo della Disney, le ormai ventenni ex stars dell’emittente trovano nella moda un terreno fertile per esprimersi, concretizzando ed estremizzando i caratteri che in precedenza tentavano faticosamente di trasparire.23 Dal 2012 al 2016, questa iniziale fase di emancipazione segna un parziale allontanamento delle tre dive dal piccolo e dal grande schermo, a favore di un maggiore impegno in ambito musicale e in progetti paralleli.
L’immagine musicale, paradossalmente più della musica stessa, diventa il nucleo centrale di questa evoluzione: tagli di capelli, vestiti ed accessori conquistano un ruolo chiave nella promozione di un’auto-rappresentazione adulta e anti-disneyana.
Pur rinnovando il proprio contratto con la Hollywood Records, la prima ad allontanarsi dal patinato mondo di Walt Disney è la sua principale seguace: Demi Lovato. Dopo un periodo di ricovero in clinica a causa della dipendenza dalle droghe, la idol viene infatti estromessa da qualsiasi produzione di Disney Channel, continuando a collaborare esclusivamente con l’etichetta discografica. Ponendosi in continuità con il proprio passato, la cantante incarna il prototipo di ordinary girl with a chance, non adottando uno stile definito ma rendendo tale assenza di uniformità la propria marca distintiva. Prendendo ad esempio alcuni look proposti in varie performances live del brano Skyscraper, è possibile notare come outfits da ragazza comune (The Ellen DeGeneres Show del 19 settembre 2011) vengano alternati a mise con inserti rock’n’roll (America’s Got Talent del 24 agosto 2011) o a lunghi abiti di stampo tradizionalmente hollywoodiano (American Latino Media Arts Awards dello stesso anno). Molteplici sono le motivazioni che possono aver provocato questa instabilità espressiva, come ad esempio l’immediato rilancio della carriera musicale dopo la rehab, la scarsa autostima dell’interprete nei confronti del proprio corpo o la scarsa propensione della Hollywood Records a curare le immagini adulte dei propri artisti.
Capace di offrire una rappresentazione di sé coerente e pianificata, Miley Cyrus si evolve invece verso altre direzioni, parzialmente già esplorate ma portate da lei ad un sorprendente apice. Estremizzando la sessualità intrinseca al modello di adolescente e donna on screen, la Cyrus attinge infatti dall’iconografia eroticizzata del panorama musicale pop,24 sovvertendone ingegnosamente i connotati: l’ex teen idol tenta di rinnegare la tradizionale concezione di femminilità, restituendone un’irriverente visione, volutamente volgare e paradossalmente infantilizzata. A tale scopo, elementi pop, punk, hip hop, grunge, hippie e country si uniscono in una commistione indistinta, trasformando la cantante in un modello di quel «pick’n’mix» teorizzato da Ted Polhemus in risposta allo street style.25 Poggiando su un’impensata ricercatezza stilistica che andrà sedimentandosi grazie al contributo delle subculture, la cantante saccheggia quindi differenti micro-cosmi espressivi, trasformando la moda in un «supermarket dello stile»26 dai connotati soft-porn. Sebbene questo incontro/scontro sia rintracciabile in ogni evento promozionale legato all’album Bangerz, è segnatamente l’annesso tour mondiale a offrire un vasto campionario di esemplari costumi di scena: ad aderentissimi body dai motivi anni Novanta o a striminziti due pezzi in lycra, l’interprete abbina difatti pantaloni dal taglio hip hop, capelli e stivali da cowgirl, gioielli urban e black, corpetti burlesque, gonne lunghe classiche o gitane ed accessori Chanel.
Altrettanto abile ad offrire una coerenza disciplinata su più fronti ma posta in netta antinomia con quella della Cyrus, Selena Gomez sembra voler riproporre una femminilità d’altri tempi, votata all’omaggio e alla rielaborazione di un’eleganza classica e minimalista. La promozione di Revival, primo album inciso per la Interscope Records, poggia infatti su una raffigurazione di sé estremamente semplice: le mise indossate nel corso delle esibizioni live, nei videoclip e nel tour sono composte da lunghi abiti di un unico colore, preferibilmente giocato sulle tonalità del bianco o del nero. L’immagine da lei presentata per Same Old Love, secondo singolo estratto dal LP, rappresenta forse al meglio questa tendenza. Il videoclip, diretto dal regista di commercials pubblicitari Michael Haussman, mostra la Gomez in tubino nero che, muovendosi nelle sale del Palace Theater di Los Angeles, ricorda una diva in un teatro di posa. Questo look viene riproposto nelle varie performances televisive: la semplice eleganza dell’onnipresente nero e la ricercatezza delle forme ritornano anche nel top e pantalone indossati al The Today Show (12 ottobre 2015), nel medesimo top con gonna del Saturday Night Live (23 gennaio 2016), nell’abito decostruito del The Tonight Show (14 ottobre 2015) e nella tuta intessuta di brillanti degli American Music Awards (22 novembre 2015). Non meno classicheggiante è inoltre il doppio outfit indossato al The Ellen DeGeneres Show (9 ottobre 2015): se per l’intervista sfoggia un crop top nero abbinato a culottes lunghe dello stesso colore, durante l’esibizione il bianco diventa predominante, per merito di uno smoking maschile compensato da un reggiseno a vista.
In forte continuità con l’immagine musicale, i servizi fotografici su riviste specializzate e magazines sono fondamentali per l’emancipazione estetica delle tre giovani cantanti: se infatti la musica è il moto che ufficialmente muove il ripensamento delle loro figure, attraverso l’analisi dell’editoria è ancora più chiaro come sia la rappresentazione del sé a sancire la definitiva svolta.
Più attenta nella scelta delle riviste sulle quali apparire, Selena Gomez utilizza la stampa per avvicinarsi al mondo della moda, al fine di imporsi non solo come cantante ma anche come fashion icon e influencer.27 In questi ambiti, la diva appare più propensa alla sperimentazione, pur non rinunciando ad omaggiare la semplicità della tradizione. Nel corso del 2016, due servizi fotografici sembrano sottolineare l’importanza della Gomez per il fashion. Il primo, pubblicato nel numero di marzo di W Magazine e curato dal noto artista Steven Klein, mostra la cantante su una spiaggia, intenta a far dialogare lo stile beach con elementi country, vintage, burlesque e teen. Il secondo, nato quasi per sancire questo nuovo ruolo, permette alla diva di fare il proprio debutto su una delle riviste più conosciute del settore: Vogue USA. Dopo incursioni in edizioni straniere o nel giovanile Teen Vogue, lo shooting firmato da Mert Alas e Marcus Piggott consacra definitivamente l’ex idolo adolescenziale ad icona di stile.
I servizi pubblicitari di Miley Cyrus mostrano un personaggio eclettico, multiforme e poliedrico. Mai uguale a se stessa, la Cyrus propone stili opposti e antitetici a seconda della rivista di riferimento, promuovendo un’immagine che non solo fonde vari elementi, ma li diversifica: la Miley dal look street-punk immortalata da Mario Testino per V Magazine nel 2013 si accosta a quella sporty-chic apparsa sulle medesime pagine l’anno seguente grazie a Karl Lagerfeld, mentre la versione elegante e sobria vista su Cosmopolitan e Elle lascia spazio a quella trasgressiva e proto-artistica raffigurata su W Magazine o su LOVE. Rovesciando i canoni prestabiliti di bellezza e di stile, la Cyrus vuole rompere con le regole imposte dal mondo della moda e dall’editoria ad esso affine, arrivando a denudarsi nel tentativo di distanziarsene completamente. Il 2016, anno di forte sperimentazione musicale, segna un momento di marcata presa di posizione, che porta l’interprete a farsi ritrarre senza vestiti da Paolo Kudacki (Paper) e da Vijat Mohindra (Plastik): nonostante già con Terry Richardson e Mert Alas e Marcus Piggott la Cyrus avesse giocato con il proprio corpo, questi due shooting definiscono un vero e proprio apice ideologico per l’ex teen idol che, nella rappresentazione e trasmissione di sé, sembra rigettare totalmente i costrutti su cui poggia il divismo ampiamente inteso. Non volendo assecondare il semplicistico binomio nudità/contestazione o la finta trasgressività di queste giovani cantanti pop, è comunque innegabile che il modello stilistico sovversivo di Miley Cyrus nasca in concomitanza ad un temporaneo distacco dall’idea di celebrità hollywoodiana propriamente detta.
Incapace di accettare il proprio corpo da donna curvy, Demi Lovato sembra andare nella direzione opposta rispetto all’ex Hannah Montana, adottando stili castigati o mascolinizzati. Esemplari sono anzitutto i servizi fotografici del 2013 per Fashion o per Company, dove l’artista si mostra in mise che cercano di celare le sue forme e rotondità: soprattutto nel primo caso, outfits come il lungo cappotto bianco o l’abito nero con motivo floreale nascondono qualsiasi lembo di pelle dal collo fino al ginocchio. Analoghe osservazioni possono essere formulate in relazione ai photoshoot dell’anno successivo che, non differenziandosi l’uno dall’altro, presentano la Lovato in un’inedita veste hip-hop, poco confacente alla sua immagine musicale generalmente scissa tra rock e pop: riviste come Seventeen o YOU mostrano l’artista con psichedeliche extension flou abbinate a salopette di jeans, giacche di finta-pelle rosa, camice animalier e accessori sportivi e street. Prediligendo abiti e vestiti coprenti, la cantante si allinea pertanto ad una concezione di moda quale forma di protezione, che viene tuttavia abbandonata nel corso del 2015. Dopo anni di timore e paura di mostrarsi, l’idol ritrova infatti a metà degli anni Dieci una forma fisica maggiormente definita, accettando le proprie forme e decidendo di mostrarsi per ciò che è: sebbene anche in questo caso l’approccio alla moda sia confuso e poco pianificato, una linea comune può essere trovata negli indumenti più succinti scelti per gli shooting di Allure, Complex e Cosmopolitan.
Il terzo micro-cosmo espressivo appare fin da subito più significativo dei precedenti, a causa del compito sommativo che involontariamente sembra perseguire: i diversi social network, curati dalle stesse dive e dal loro staff, diventano centri focali della definizione del sé, immediati e facilmente connessi con il pubblico.28 Tra le varie piattaforme disponibili, è sicuramente Instagram e la sua impostazione quasi esclusivamente visiva a favorire la restituzione di una qualsivoglia individualità, ugualmente pilotata ma comunque più vicina alla realtà.
Miley Cyrus si avvicina a Instagram nel maggio 2013, in concomitanza con l’uscita del suo album di svolta, il già citato Bangerz. In un primo momento, la giovane cantante utilizza il profilo con fini esclusivamente pubblicitari, postando scatti tratti da servizi fotografici, da video musicali o dai backstages delle molteplici esibizioni televisive. Con il parziale allontanamento dalle scene e soprattutto con la successiva pubblicazione dell’album indipendente Miley Cyrus and her dead petz, l’artista sembra tuttavia ripensare il suo rapporto con i social, abbandonando gli intenti più esplicitamente promozionali a favore di una cronaca capillare e irriverente delle sue giornate. La Cyrus dimostra per l’ennesima volta il suo disinteresse nei confronti dell’idea tradizionale di gusto e sobrietà, ritraendosi spesso semi-nuda e in possesso di accessori di ogni forma e dimensione: le borsette di Chanel e i boa piumati lasciano spazio a cappelli bizzarri, maschere di animali, falli enormi, piccoli peluches, bracciali fosforescenti e parrucche volutamente scadenti. Abbracciata una concezione della moda ancora più ampia e disinibita, l’ex teen idol si affaccia dunque ad un universo stilistico non esclusivamente occidentalizzato, ricercando nuove fonti di ispirazione nel panorama giapponese. Analizzando soltanto una manciata di outfits, è palese come il connubio irregolare di iconografie venga ulteriormente estremizzato, intrecciando il precedente «pick’n’mix» all’eclettismo trash-pop di alcune sub-culture nipponiche, come quelle Cybergoth e Fairy Kei. Sancendo e concludendo un percorso di emancipazione, la Cyrus sembra rintracciare nel fashion fail il modo più esplicito e risoluto per discostarsi dalle regole che le sono state imposte fin dalla pre-adolescenza. Reputarla unicamente un modello di anti-celebrità risulterebbe tuttavia erroneo oltre che semplicistico: nonostante l’innegabile rifiuto per il buon gusto classicamente inteso, l’attrice sembra infatti intrattenere un rapporto molto più complesso con la moda, tentando di proporre un patchwork stilistico d’avanguardia che ha incontrato anche il favore di un fashion designer del calibro di Jeremy Scott. Come puntualmente riportato sui suoi profili social, la Cyrus ha presenziato alla sfilata di Scott alla MADE Fashion Week nella primavera del 2015, indossando una tuta dal motivo rainbow psichedelico accostata ad accessori Fairy Kei e a stivali con il tacco dal disegno sportivo.
Iscrittasi a Instagram nello stesso periodo, Selena Gomez utilizza il celebre social network in modi opposti rispetto alla collega, lasciando le prassi emancipatorie all’immagine musicale e piegando il proprio profilo a logiche pubblicitarie. Se in un primo momento utilizza la piattaforma per promuovere i propri lavori discografici, a partire dal 2015 la Gomez comprende la prospettiva di un ulteriore guadagno, possibile attraverso la sponsorizzazione di numerosi brand. Prestando il volto a campagne pubblicitarie vere e proprie o sponsorizzando solo singoli prodotti nel circoscritto spazio di una fotografia, l’artista diventa rapidamente l’emblema della celebrità-influencer,29 abile a legare la propria figura divistica a marchi di vario genere.30 In tal senso, Adidas, Coach e Victoria’s Secret sono le tre firme che maggiormente compaiono sul profilo della idol, la quale vi si approccia però seguendo modalità differenti. Le prime due, ad esempio, non riducono la giovane star a semplice testimonial ma la eleggono – almeno a livello propagandistico – ideatrice di collezioni peculiari: la linea sportiva Neo Adidas Selena Gomez Collection e gli accessori firmati Selena Gomez for Coach rappresentano infatti due esperienze a cui la cantante presta il volto, il nome e naturalmente i propri portali on-line. Meno dichiarato appare invece il rapporto con Victoria’s Secret, noto brand di intimo femminile. Non promuovendo singoli capi e non apparendo in nessuna campagna pubblicitaria, la Gomez si lega solo indirettamente al marchio, partecipando alla celebre sfilata annuale tenutasi a New York City il 10 novembre 2015 e pubblicando svariate fotografie dell’evento su Instagram.
Conformemente al divismo poco chiaro e non sempre pianificato di Demi Lovato, le piattaforme social ne restituiscono in un primo momento un’immagine naturale e quotidiana, indirizzandosi successivamente verso uno stile più sessualizzato e controllato. Se inizialmente la Lovato sembra infatti promuovere un’idea di ordinary girl 2.0 non eccessivamente disneyana ma nemmeno emancipata, con l’uscita dei photoshoot del 2015 e con la successiva pubblicazione dell’album Confident si indirizza verso un’auto-rappresentazione aggressiva ed artificiosa. Nel tentativo di gettare un ponte tra i look eroticizzati della Cyrus e la sofisticata eleganza senza tempo della Gomez, la terza ex principessina Disney dimostra nuovamente di non aver ben chiara la direzione da intraprendere, limitandosi a riproporre soluzioni canoniche e non ritagliando alcun principio di individualità.
Conclusione
Il percorso stilistico delle tre giovani starlet americane nel loro passaggio dalla Disney ad uno show business più adulto permette di rintracciare alcuni assunti ricorrenti che sono propri del fenomeno del divismo adolescenziale. Nate dal medesimo contesto televisivo, Miley Cyrus, Selena Gomez e Demi Lovato si confrontano infatti più volte con il mondo della moda, intraprendendo percorsi indipendenti ma coerenti nelle linee generali.
Come si è visto, nel periodo di ascesa e di primo successo, le idols aderiscono alle regole imposte dall’azienda madre, tentando solo timidamente di promuovere una propria idea di stile: se da un lato i prodotti seriali e cinematografici non permettono alcun tipo di presa di coscienza, dall’altro le performances musicali poggiano su registri più liberi, che permettono loro di proporre outfits e comportamenti più audaci ed arditi. Analogamente, i red carpet e le partecipazioni ad eventi mondani saggiano ulteriormente il desiderio delle ragazze di giocare con il proprio corpo, attraverso l’alternanza di abiti eleganti e mise giovanili ma sessualizzate.
Con il concludersi dei contratti con l’emittente di Topolino, la moda conquista uno spazio ancora più ampio e significativo nella vita di queste giovani stars, che ricorrono ad essa per emanciparsi dal costrittivo stigma di celebrità adolescenti. Sebbene sia ingenuo credere che nel periodo post-disneyano le tre ragazze siano riuscite ad ottenere una totale libertà, non è possibile esimersi dall’osservare che il loro margine di manovra si sia fatto più ampio e variegato, favorendo la costruzione di una cosciente rappresentazione del proprio sé, non davvero realistica ma più vicina alla loro essenza. Il mondo del fashion, varcando i confini della musica e del cinema, ha dunque assunto il compito di definire la personalità delle interpreti: l’eroticizzazione estrema della Cyrus, l’omaggio alla tradizione della Gomez e il rispetto delle regole della Lovato divengono pertanto vere e proprie cifre stilistiche, non solo nell’ambito delle produzioni discografiche o filmiche, ma altresì con riguardo al look.
Le personali vicende delle ex principessine Disney rappresentano l’esempio più fortunato e pervasivo di un’evoluzione che accomuna però folte schiere di adolescenti dello star system hollywoodiano. Superando i confini dei singoli casi di studi, le esperienze qui trattate vogliono infatti ergersi a modelli di un fenomeno regolare e frequente, che coinvolge tutte le giovani interpreti che si sono trovate ad esordire in reti televisive a target infantile. Oltre alle teen stars Disney di seconda generazione, si possono infatti ricordare numerose attrici e cantanti under 18 che hanno tentato e tentano tutt’oggi di forgiare la propria personalità mediante una scelta oculata di vestiti ed accessori. Se per le controparti maschili il discorso si complica,31 per le idols femminili tale prassi sembra quasi obbligatoria: celebrità di Nickeloden quali Ariana Grande e Victoria Justice o della terza ondata Disney come Bella Thorne, Zendaya e Sabrina Carpenter si apprestano a raccogliere il testimone, riproponendo con le dovute accortezze le medesime evoluzioni di chi le ha precedute. Più dei prodotti mediali, i look e gli outfit post-disneyani definiscono una personale immagine divistica che, distante dalla morale comune originariamente veicolata, permette alle nuove teen stars di proiettarsi verso differenti rappresentazioni di pseudo-maturità.
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I prodotti a target adolescenziale delle reti concorrenti sono generalmente interpretati da attori tra i venti e i trent’anni: nei casi citati, il ventunenne James Van Der Beek veste i panni del quindicenne protagonista di Dawson’s Creek (1998-2003) mentre il ventisettenne Benjamin McKenzie incarna il problematico diciassettenne Ryan in The O.C (2003-2007).↩
In accordo con molti studi accademici statunitensi sull’adolescenza come Blue, 2013a, con il termine tween si vuole identificare una fascia di pubblico compresa tra gli 8 e i 14 anni, mentre con il vocabolo teen si desiderano raggruppare i soggetti fino ai 19 anni.↩
Lizzie McGuire e Raven hanno rappresentato per la Disney i primi successi seriali in live action. Lizzie McGuire è una sitcom creata da Terry Minsky ed è stata trasmessa dal 2001 al 2004, arrivando anche al cinema grazie al lungometraggio Lizzie McGuire – Da liceale a popstar (Fall, 2003). Raven, nata dall’idea originale di Michael Poryes e Susan Sherman, è invece andata in onda tra il 2003 e il 2007.↩
Harris, 2004, p. 16.↩
Le tre serie televisive citate sono state in momenti diversi le sitcom di punta del palinsesto di Disney Channel. Hannah Montana, creata da Michael Poyers, Richard Correll e Barry O’Brien, e I maghi di Waverly, ideata invece da Todd J. Greenwald, hanno avuto una produzione più lunga, durata rispettivamente dal 2006 al 2011 e dal 2007 al 2012; la prima contempla inoltre un film-concerto (Hannah Montana & Miley Cyrus: The Best of the Both Worlds Concert, Hendricks, 2008) e un lungometraggio di finzione per il grande schermo (Hannah Montana: The Movie, Chelsom, 2009), mentre per la seconda sono stati realizzati due special televisivi (I maghi di Waverly: The Movie, Spiro, 2009 e il reboot Il ritorno dei maghi: Alex vs. Alex, Gonzales, 2013). Più breve e meno articolata è stata invece la produzione di Sonny tra le stelle, serie ideata da Steve Marmel e trasmessa dal 2009 al 2011.↩
Cfr. Smoodin, 1994 e Giroux, Pollock, 2010.↩
In accordo con Turner, 2010, con cultura della celebrità si definisce il concetto esteso e intermediale di stardom, in questo caso hollywoodiano e adolescenziale. Sterminata è naturalmente la bibliografia scientifica sull’argomento, che si articola ad esempio in alcuni testi chiave ad ampio spettro quali Rojek 2001; Turner, 2004; Holmes, Redmond, 2006; Redmond, Holmes, 2007.↩
Tale periodizzazione è stata scelta perché il suddetto decennio rappresenta al meglio la dicotomia disneyana e post-disneyana: nel primo quinquennio, le tre teen idols sono infatti soggette alla stretta regolamentazione dell’azienda di Topolino mentre, dal 2012, si confrontano con lo show business vero e proprio.↩
Driscoll, 2002, p. 47.↩
Contrariamente alle ondate novecentesche, il terzo femminismo dei primi anni Duemila rilegge positivamente la moda, la pornografia e la bellezza tradizionalmente intesa, non giudicandole come esclusivo appannaggio del controllo maschile. Per interessanti sunti a riguardo, si vedano Baumgardner, Richards, 2000, Heywood, 2006 e Snyder, 2008.↩
Il discorso è chiaramente più complesso e travalica la semplice rappresentazione divistica di Selena Gomez: le pellicole a tema principesco sono infatti estremamente remunerative per il mercato indirizzato a tween e teen, soprattutto per l’home video. Tuttavia, è interessante notare come la Gomez, più di colleghe quali Julia Stiles o Hilary Duff, si sia interessata a questo particolare micro-genere.↩
Il gioco di parole si rifà al titolo originale dello show che interpreta, chiamato appunto Sonny with a chance.↩
Cfr, McRobbie, 2007. L’idea avanzata da McRobbie è chiaramente un aggiornamento della concezione di contratto sessuale proposta in Paterman, 1988.↩
Cfr. Izundo, 2013.↩
L’intervento vuole naturalmente concentrarsi sul rapporto con la moda, a discapito delle politiche del corpo ampiamente intese. Ciò nonostante, è palese che le pose adottate da Selena Gomez nei servizi fotografici siano anch’esse debitrici dell’immaginario divistico del classicismo hollywoodiano.↩
Cfr. McRobbie, 2009.↩
Cfr. Butler, 1990. La studiosa tornerà più volte sul concetto di performatività e sul suo significato: tra gli innumerevoli saggi che potrebbero essere citati si veda anche l’interessante Butler, 1997.↩
Cfr. Kuhn, 1985.↩
Cfr. Finkelstein 1991.↩
Cfr. McRobbie, 2009.↩
Un altro pioneristico studio sull’argomento è Banet-Weiser, 2007, nel quale si analizza la serie televisiva Clarissa, prodotta da Nickelodeon tra il 1991 e il 1994, e interpretata dall’allora quattordicenne Melissa Joan Hart.↩
Cfr. Blue, 2013a. Le ricerche della studiosa sono poi confluite anche in Blue, 2013b e soprattutto nel recente volume Blue, 2017.↩
Il case study proposto si inserisce naturalmente in un discorso teorico più ampio, che tenta di delineare le connessioni tra cultura della celebrità (soprattutto cinematografica) e mondo della moda. In tale ottica, molto interessanti sono risultati alcuni volumi come ad esempio Desser, Jowett, 2000; Jeffers McDonald, 2010 e Church Gibson, 2012.↩
Cfr. Arcagni, 2011.↩
Cfr. Polhemus, 1994.↩
Ibidem.↩
Con il termine influencer si vuole identificare una particolare categoria di utenti che, grazie all’utilizzo di blogs e social networks, condizionano tendenze in fatto di moda e costume. L’estrema attualità di tale definizione, delineata con precisione in Katz, Lazarsfeld (2009) e sintetizzata in modo conciso e funzionale in Freberg, Graham, McGaughey, Freberg (2011), p. 90, porta naturalmente alla diffusione di studi sempre nuovi. Tra i saggi più interessanti votati ad investigare il rapporto con il mondo del cinema, si possono ricordare Wiedmann, Hennigs, Langner, 2010; Marwick, 2013; Marwick, 2014; Carah, Shaul, 2016 e i variegati scritti di Abidin, 2015a; Abidin, 2015b; Abidin, 2016 e Abidin, 2017, circoscritti geograficamente al caso di Singapore ma ricchi di spunti generali sull’argomento.↩
Cfr. Marshall, 2010.↩
Con il termine celebrità-influencer si vuole qui intendere una personalità del mondo dello spettacolo che, famosa per altri motivi, si impone in un successivo momento come fashion icon grazie ai social network. A riguardo, molto interessante è l’articolo Marwick, Boyd, 2011, focalizzato sul rapporto tra divismo e Twitter.↩
In un recente studio condotto dal sito Hopper, Selena Gomez è stata infatti definita la celebrità più influente di Instagram. Parallelamente, anche la rivista Time l’ha riconosciuta come una delle donne che, in quanto tastemaker, sta cambiando il mondo.↩
Raramente l’emittente Disney è riuscita a portare al successo attori e cantanti di sesso maschile: solo i Jonas Brother hanno ottenuto un discreto riscontro di pubblico a cavallo degli anni Dieci, scomparendo tuttavia dopo la loro breve avventura televisiva. Anche i già sterili studi accademici sull’argomento ignorano la possibilità di un divismo adolescenziale maschile, focalizzandosi quasi esclusivamente sulle interpreti femminili.↩