Nel volume Moda e immaginari sociali in età contemporanea, edito per la Bruno Mondadori nella Collana Scientifica “Cultura, moda e società”, Daniela Calanca si occupa di un periodo storico cruciale per la nascita della moda italiana. Tra Otto e Novecento infatti si fanno sempre più fitti i dibattiti sulla necessità di una moda nazionale che, dapprima circoscritti a poche e colte riviste di settore, coinvolgono ben presto un pubblico più vasto grazie a conferenze tenute da donne e rivolte prevalentemente a platee femminili che si vogliono spronare al fine di abbandonare il servilismo nei confronti delle mode estere, quella parigina innanzitutto, per valorizzare l’industria e l’arte italiana.
I temi del dibattito sulla necessità di una moda italiana sono tutti presenti già all’inizio del Novecento secondo l’autrice, quando vengono presentati al primo Congresso nazionale delle donne italiane tenutosi a Roma nel 1908 entrando nella sfera politica. Così si deduce dal programma promosso da donne italiane che rappresentano le correnti dell’emancipazionismo e del suffragismo che partecipano a questo evento di grande visibilità. La moda è uno degli argomenti che, con molta passione e convinzione, diventa uno dei cardini su cui poggiare l’emancipazione economica e sociale delle donne. Con questa finalità intende promuovere la moda italiana Rosa Genoni, attivista politica, sarta e prima storica del costume e della moda in Italia, a cui Daniela Calanca dedica alcune pagine del suo libro, in quanto mente tra le più lucide dell’epoca nel trovare le leve più convincenti per incentivare la nascita della moda italiana. Genoni punta sul ruolo avuto dall’Italia nel passato, quando tra Medioevo e primo Rinascimento la nostra nazione era stata faro della moda internazionale europea, sul saper fare degli artigiani e dei creativi italiani, sulla necessità di aprire scuole professionali per formare sarte non soltanto mere esecutrici ma «intellettuali artefici e con mani creatrici» che sappiano prendere spunto dal passato per elaborare forme modellate sul pensiero moderno.
La promozione della moda nazionale fondata attraverso le imposizioni del protezionismo e dell’autarchia economica del regime fascista se, da un lato, incentivarono la produzione di nuove materie prime nel settore tessile, dall’altro non sortirono gli effetti sperati nemmeno con l’istituzione del cosiddetto Ente nazionale della moda. Non fu facile infatti coordinare gli artigiani e le industrie, far nascere e crescere un dialogo tra questi due ambiti al fine di far convergere tutti gli interessi in gioco verso un unico fine ovvero la crescita economica delle singole aziende e conseguentemente l’indipendenza economica nazionale. La moda, individuata come fattore di progresso e di indipendenza dalle altre nazioni, non si prestò a rappresentare, almeno nell’immediato, le caratteristiche di una singola nazione come avrebbe voluto il regime fascista perché la moda è fatta di contaminazioni, acquisite e diffuse sempre più velocemente non solo attraverso le riviste ma anche dai nuovi mezzi di comunicazione come la radio e il cinema. Attraverso la moda l’autrice mette a nudo le contraddizioni della politica fascista tra il desiderio di autonomia e la necessità di dare una dimensione internazionale al commercio dei prodotti italiani, stringendo per esempio accordi con partner industriali esteri, come quelli stipulati agli inizi degli anni ’40 con la Germania illustrati nel libro.
Agli albori della seconda guerra mondiale le basi per la nascita della moda italiana erano state poste. Nelle sartorie, nelle calzolerie, nei laboratori di modiste e ricamatrici, che da alcuni decenni avevano rispolverato antichi libri con modelli di ricami vincendo premi internazionali, si stava lentamente delineando la fisionomia della moda di una nazione dove, come sosteneva Rosa Genoni agli inizi del secolo, la creatività e il saper fare avevano caratteristiche ben riconoscibili perché frutto di una tradizione artigianale e artistica secolare cresciuta nella «patria dell’arte e della bellezza».