Il libro di Kate-Annett Hitchcok, The Intersection of Fashion and Disability: A Historical Analysis,1 ha il merito di inserire la relazione tra moda e disabilità all’interno della storia della moda e di creare collegamenti tra aree disciplinari differenti (medicina, diritto, design, politiche pubbliche, innovazione tecnologica). L’autrice evidenzia come soltanto dal 2010, anno spartiacque per il riconoscimento dell’intersezionalità della moda, l’abbigliamento per disabili sia diventato oggetto di studi accademici dedicati alla moda e non soltanto alla riabilitazione e all’economia domestica.
La ricerca si focalizza sulle soluzioni adottate nel tempo per affrontare la disabilità fisica e motoria, escludendo volontariamente la disabilità cognitiva e l’obesità, evidenziando i punti di contatto che storicamente legano disabilità, infanzia e anzianità nella progettazione dei capi.
Il percorso, incentrato prevalentemente sullo sviluppo del tema in America, e in maniera meno approfondita in Inghilterra, parte dall’assunto che nella moda come nella storia dell’arte quello che è stato collezionato è il corpo ideale. La tesi dominante è che in tutte le culture il desiderio di autoespressione si è manifestato anche attraverso gli abiti i cui adattamenti hanno sempre fatto parte della storia della moda.
La ricerca mette al centro i diritti civili dei consumatori con disabilità, che sono sempre esistiti, e il diritto di partecipare al mondo della moda come creatori, consumatori e attivisti, recuperando le sperimentazioni e i prodromi della moda adattiva e le storie delle persone rimaste a lungo nell’anonimato. Attraverso otto capitoli, l’autrice presenta una storia silente, occultata dalla moda occidentale dominante, ricostruendo con esattezza l’incrocio tra moda e disabilità, dal Rinascimento sino ad oggi, attingendo a fonti primarie e secondarie (storia dell’arte, illustrazione) per ricostruirne le tracce. Un lavoro pionieristico in cui occupano un posto centrale il recupero degli esempi di moda adattiva presenti nelle collezioni museali dell’Ottocento, i percorsi di riabilitazione tra le due guerre, le innovazioni prodotte in ambito militare e gli effetti dei diritti civili a cavallo tra gli anni Settanta e Novanta sulle politiche e sull’avanzamento della ricerca tecnologica in America.
Il volume culmina con un’analisi dell’attuale crescita dell’inclusività nella moda su scala globale, e dedica il capitolo finale a stilisti e autori disabili rimasti a lungo nell’anonimato, fornendo una serie di raccomandazioni per attualizzare il passato. Una ricca bibliografia accompagna la pubblicazione i cui punti salienti del rapporto moda e disabilità sono raccolti nella linea del tempo alla fine del volume. Nel testo vengono ricostruiti sia il modello medico che il modello sociale focalizzando l’attenzione sull’ambiente che abilita o disabilità le persone, ripercorrendo le evoluzioni sia nel sistema americano che in quello inglese sino alla classificazione del The World Health Organization’s (WHO) del 2001, che riconosce alla moda il ruolo di strumento di indipendenza e di espressione in cui il vestirsi e fare shopping in autonomia sono considerate forme di self care.
Da questa prospettiva gli abiti sono considerati il primo strato protettivo dell’Human Constructed Environment, e la moda il primo ambiente portatile in grado di rappresentarci e di facilitare le relazioni sociali. Ugualmente vengono analizzati l’impatto del Rehabilitation Act del 1973, l’emergere del concetto di “Universal Design” negli USA e il ruolo dell’ADA, Americans with Disabilities Act nel 1990 che, oltre a combattere ogni forma di discriminazione, ha contribuito al superamento di stereotipi estetici accelerando la ricerca tecnologica (tessuti intelligenti, chiusure magnetiche, stampa 3D). Un processo aiutato dalla riflessione portata avanti negli stessi anni da Jane Lamb e Mary Jo Kallas, autori della teoria FEA-Functional, Expressive and Aesthetic Consumer Need Model che prevedendo l’inclusione dei tre livelli nel processo di progettazione per la disabilità, ha annullato la storica dicotomia tra funzione ed estetica che ha caratterizzato la moda adattiva.
Il volume ha il merito di leggere l’evoluzione delle tendenze, sfatando anche molti luoghi comuni. Secondo l’autrice, la creatività nell’adattare i capi e nel creare dispositivi per assistere le persone con disabilità era presente e ben sviluppata ben prima che l’industrializzazione occidentale prendesse il controllo del settore. Molti di questi adattamenti si nascondono nelle collezioni di abiti reali o appartenenti alle classi agiate, ma si trovano anche nelle soluzioni con moduli geometrici adottate dai popoli indigeni nel Nord America. Il gilet con maniche adattato di William III, dei primi del Settecento, rivela come l’inserimento del braccio attraverso aperture e cuciture utilizza gli stessi principi della moda adattiva. Le differenze tra gli adattamenti storici e l’innovazione contemporanea risiedono principalmente nello sviluppo dei materiali. In assenza di tessuti elasticizzati, i sarti di William III si affidavano a lacci e fiocchi per preservare l’estetica del capo, introducendo del tessuto arricciato per garantirne la vestibilità. Già nel Seicento si trovano scarpe tagliate a pantofola per favorirne l’entrata anche senza mani (vedi il brevetto FlyEasy di Nike), diventate di moda perché indossate da persone influenti come il re inglese Henry VIII.
In particolare, l’autrice collega la perdita di competenze e la maggiore disattenzione ai bisogni delle persone, alla nascita del Ready to Wear e alla standardizzazione delle misure nella metà dell’Ottocento. Secondo questa prospettiva, le persone comuni dalla metà dell’Ottocento in poi hanno perso la possibilità di acquistare capi progettati per le loro specifiche caratteristiche fisiche. Dalla sua ricostruzione emerge per esempio come la storia della moda prima degli anni Venti risulti più tollerante nei confronti della disabilità rispetto all’attualità. Lo dimostra il famoso testo The London Tradesman scritto da Campbell in 1747 in cui il sarto afferma che vestire tutti i corpi è una abilità-responsabilità che appartiene al mestiere, un’abilità trasmessa anche nei successivi manuali dell’Ottocento, del tutto scomparsa nei libri di testo delle scuole di moda del Novecento.
Come se nella fase di medicalizazzione ci fosse ancora uno spazio di accettazione che rendeva possibile che figure legate alla disabilità diventassero vere e proprie icone. A conferma di questa teoria, Hitchcok dedica un approfondimento a Lavinia Warren, una piccola persona diventata famosa a metà dell’Ottocento insieme al marito, il generale Tom Thumb, che oltre ad essere un’attrazione all’interno del Barnum Circo era contemporaneamente un riferimento per la moda del tempo. Vestita dai grandi couturier dell’epoca, come il francese Charles Frederick Worth, e la stilista Madame Demorest, era considerata “The Queen of beauty”. Per vestirla erano stati creati degli appositi manichini e una macchina da cucire era stata adattata per le sue specificità fisiche affinché lei stessa potesse intervenire sui suoi capi. Una storia che a distanza di tempo sembra ricollegarsi all’attivista e piccola persona Sinéad Burke il cui manichino è diventato punto di riferimento all’interno dei display museali di oggi.
Di particolare interesse è anche la ricostruzione del rapporto, a tratti ambiguo, tra moda e disabilità che emerge con chiarezza sia nella storia del corsetto, strumento usato per “mettere in forma il corpo” o per “deformarlo” per rispondere ai dettami della moda, che nella storia delle protesi.
Quest’ultima ben racconta il passaggio dalla funzionalità riabilitativa all’accettazione sino all’orgoglio della propria disabilità attraverso la personalizzazione degli arti artificiali (dall’artista Frida Kahlo all’atleta paraolimpica Aimee Mullins). Un passaggio che ha generato una serie di nuove imprese specializzate, tra cui il noto marchio canadese Alleles (https://alleles.ca/about-us/). Come ricorda l’autrice, è interessante notare che si deve al chirurgo militare francese Ambroise Paré, sia l’invenzione del primo corsetto di ferro nella metà del Cinquecento che l’introduzione delle prime protesi altamente funzionali introdotte in ambito bellico.
Dal punto di vista storico l’idea dell’abito come strumento di riabilitazione acquista rilevanza negli anni Venti del Novecento in risposta all’aumento dei veterani e dei bambini resi disabili dalla polio, in cui il vestirsi e svestirsi in autonomia rientrava tra le pratiche di rinserimento sociale.
Merito dell’autrice è l’aver recuperato casi dimenticati che colmano vuoti significativi nella storia della moda. Tra gli esempi citati meritano attenzione le esperienze condotte in Inghilterra durante la prima guerra mondiale dalla designer disabile Annie Bindon Carter, fondatrice di Painted Fabric INC, attiva tra gli anni Venti e Trenta e di Ernest Thesiger fondatore di Disabled Soldiers Embroidery Industry, entrambi casi di successo nati da laboratori terapeutici destinati ai veterani.
Il caso più famoso americano nasce invece dall’incontro nei primi anni Cinquanta tra il medico Howard A. Rusk, direttore del Dipartimento di Rehabilitation and Physical Medicin della New York University, la designer disabile Helena Cookman, e la responsabile del laboratorio terapeutico Muriel E. Zimmerman. All’interno del Centro di Riabilitazione si sviluppa il famoso marchio Functional Fashion Line, attivo tra gli anni Cinquanta e Settanta, che ha coinvolto nella progettazione dei capi le principali designer americane (Bonny Cashin, Vera Maxwell).
I casi più recenti citati nel libro, Izzy Camilleri, Lucy Jones, Tommy Hilfiger, FOORA si ricollegano idealmente a questa esperienza pionieristica, e alla ricerca portata avanti tra gli anni Settanta e Ottanta da Delores Quinn con il progetto Design without Limit trasformato in un vero e proprio manuale per progettare per le persone con bisogni speciali. L’autrice segnala inoltre storiche debolezze del settore, tra cui la scarsa distribuzione della moda adattativa che la caratterizza sin dalle origini, incoraggiando il recupero di una maggiore collaborazione tra università e imprese e sottolineando il ruolo fondamentale della formazione nei processi di cambiamento.
Se uscire dalla medicalizzazione per produrre prodotti non solo funzionali ma anche belli era stata la sfida novecentesca, dall’intervista condotta dalla Kitchcoc con la designer Grace Jun dell’Open Style Lab di New York, emerge che la tendenza attuale dovrebbe essere quella di tornare a progettare cose belle proprio per gli ospedali e per tutti quei luoghi marginali che hanno bisogno di cura e di soluzioni estetiche e funzionali. Come ricorda l’autrice alla fine del libro There is no Disabled Fashion, there is Only Fashion.
Kate-Annett Hitchcok, The Intersection of Fashion and Disability: A Historical Analysis (London: Bloomsbury Visual Arts, 2024).↩︎