La moda, intesa come istituzione, linguaggio simbolico e pratica sociale, ha storicamente contribuito a definire i confini della normalità, rafforzando modelli estetici e culturali che hanno avuto la funzione di normalizzare e gerarchizzare i corpi. Essa ha imposto un canone estetico che non si è limitato a stabilire ciò che è “bello”, ma ha operato come criterio di esclusione, relegando nella marginalità o nell’invisibilità chi non corrispondeva ai parametri dominanti. Il volume Oltre il canone. Manifesto della moda inclusiva curato da Elisa Fulco, Teresa Maranzano e Roberta Paltrinieri mette in luce come il recente costrutto di moda inclusiva si configuri come una reazione critica ai sistemi di nominazione e definizione della realtà. Queste nuove modalità di classificazione non si limitano a introdurre eccezioni al modello dominante, ma propongono strategie per smascherare il “dato per scontato” nel sistema della moda, ovvero quell’insieme di presupposti impliciti che operano come norme invisibili, difficili da contestare perché naturalizzate. Rileggendo la portata del volume da non specialista di moda ma da sociologo giuridico e della “devianza”, Oltre il canone assume una valenza più generale perché permette di analizzare in che modo il fascino della normalizzazione operi attraverso una distinzione dicotomica tra ciò che è “non marcato” e ciò che è “marcato”. La categoria “non marcata” rappresenta il gruppo dominante o lo standard presunto (ad esempio, il corpo normodotato, la cisessualità, la bianchezza), il cui privilegio consiste nel rimanere invisibile e auto-evidente. Questo presupposto non richiede alcuna giustificazione e agisce come lo sfondo implicito su cui viene definita in termini contrastivi ogni altra differenza. Le categorie “marcate”, al contrario, sono rese visibili e richiedono una specificazione.
Una persona con disabilità, una taglia non standard o un’identità non conforme sono costantemente percepite come “diverse” o “eccezionali”. Questo processo è un meccanismo di controllo sociale che perpetua l’asimmetria di potere, rendendo le disuguaglianze strutturali invisibili. A partire dalla loro riconoscibilità potenziale. L’instaurazione di un regime dell’ovvietà contribuisce a naturalizzare degli standard che hanno carattere arbitrario (l’idea stessa di “sfondo”), attribuendo loro carattere generale, universale, atemporale, contribuendo a un processo di normalizzazione che porta a percepire condizioni, identità, pratiche o eventi come la norma – come forme autoevidenti – ed altri, invece, pur resi ipervisibili o enfatizzati, vengono privati di intellegibilità, “anormalizzati”, resi impensabili.
Quando poniamo l’accento su condizioni come l’essere donna, nero, omosessuale, disabile, transgender stiamo al contempo non soltanto evidenziando delle condizioni specifiche, ma consolidando aspettative di normalità rispetto all’essere uomo, bianco, eterosessuale e abile. Il non marcato assume il carattere del “superfluo” nella misura in cui contiene tutto ciò che è pensabile, esso rimane indistinto, inarticolato, non ha bisogno di un nome o di “dichiararsi”, ha valore predefinito e funziona come default cognitivo. L’eterosessualità non è “pensata” come uno degli orientamenti sessuali possibili, così come la bianchezza non viene “avvertita” come una delle potenziali forme di razzializzazione, allo stesso modo le persone abili vengono “viste” come capaci di interagire tout court con l’ambiente che le circonda e in qualunque condizione, la maschilità non riesce neanche a “pensare se stessa” perché è dappertutto, le soggettività eterocisnormative sono le “prospettive” che coincidono con la principale valuta economico-simbolica delle nostre interazioni e del nostro immaginario estetico ed erotico.
Questi presupposti taciti ci portano a pensare che solo i gay hanno un orientamento sessuale perché l’eterosessualità è l’unico orientamento sessuale pensabile, che i bianchi non si pensano neanche “bianchi” perché la bianchezza non è uno dei colori ma “il” colore, che l’integrismo fisico rispecchierebbe una condizione funzionale universale, ovverosia che le modalità inavvertite, non marcate o date per scontate non vengono neanche esperite come condizioni specifiche.
In questo contesto, il sistema della moda “mainstream” ha funzionato come un’estensione di questa logica del “dato per scontato”. Essa ha imposto canoni estetici omogenei, privilegiando corpi che si conformano a standard specifici e rendendo “eccezioni” tutti gli altri. Moda inclusiva e adattiva rappresentano una chiara rottura epistemologica con questo modello. Se la moda inclusiva parte dal principio che non sia il corpo a doversi adattare a standard prestabiliti, bensì siano gli abiti a dover essere progettati in modo da vestire la pluralità delle morfologie e delle esigenze, la moda adattiva, invece, ha un focus più circoscritto, essa si rivolge a persone con mobilità ridotta, protesi o altre necessità funzionali, fornendo soluzioni pratiche che consentano autonomia e accessibilità. La differenza principale risiede dunque nell’orizzonte: laddove la moda adattiva è risposta a un bisogno concreto, la moda inclusiva si configura come progetto culturale e politico, in grado di ridefinire i criteri stessi di appartenenza e visibilità.
Da una parte, infatti, la moda inclusiva non si limita ad “aggiungere” le differenze ma tenta di rappresentarle non come un problema da risolvere, ma come opportunità di innovazione, ridefinendo l’intero processo di design e produzione; dall’altra, la moda adattiva, attraverso una serie di accorgimenti tecnici e del riconoscimento di bisogni a lungo ignorati dalla moda mainstream, tenta di superare ogni “funzionalismo”, criticando direttamente l’abilismo implicito nel sistema della moda, celebrando l’estetica e la poesia dirompente della dis-funzione.
Nonostante questo potenziale trasformativo, il saggio avverte che la moda inclusiva non è immune da rischi, specialmente nell’attuale contesto neoliberista. La logica neoliberista del profitto tende infatti a trasformare ogni differenza in merce, riproponendo la standardizzazione persino laddove si proclama l’apertura alla pluralità. Le forme di oppressione si intrecciano e rischiano di essere appiattite in operazioni di rappresentazione superficiale: includere un corpo nero o disabile o transgender in una campagna pubblicitaria senza mettere in discussione le condizioni di sfruttamento della manodopera o le strutture di genere e classe e quelle eterocisnormative significa perpetuare le disuguaglianze sotto una nuova veste. Si pensi alla fast fashion e alla logica di abbattimento dei costi e sfruttamento della manodopera che ha caratterizzato la globalizzazione della produzione e che potrebbe rischiare di ripresentarsi nella moda inclusiva se essa fosse assorbita senza critica nelle dinamiche di mercato.
Il rischio di valorizzazione capitalistica delle differenze trasforma il “marcato” in una nuova nicchia di mercato da sfruttare, rischiando di perpetuare le stesse logiche di standardizzazione e diseguaglianza. La riflessione sulla moda inclusiva porta con sé, come avvertono l3 autor3, una doppia tensione: da un lato la promessa di emancipazione, dall’altro il rischio di appropriazione da parte del capitalismo. Il tema centrale ruota attorno alla minaccia che l’inclusività venga assorbita dalle logiche di mercato, diventando un’operazione di facciata più che un reale strumento di trasformazione sociale. Un altro limite riguarda la rappresentazione: se da un lato cresce la presenza di corpi diversi nelle campagne pubblicitarie, dall’altro permane un approccio parziale. Alcuni segmenti, come le persone con disabilità, gli anziani o le identità di genere non conformi, rimangono ai margini. La rappresentazione, se isolata, rischia di ridursi a strumento di legittimazione per i brand, senza generare un cambiamento reale nei processi creativi e produttivi. Il cambiamento sistemico, lo ammetto, appare problematico. Rimane il valore intrinseco della moda inclusiva relativo ai benefici prodotti e all’affermazione del “diritto allo stile” e alla sua dimensione comunitaria, alla creazione di spazi di appartenenza e di (auto)-riconoscimento. La dimensione che rimane immediatamente apprezzabile per l3 studios3 di “normalità” e “devianza” è la critica serrata al dato per scontato, la capacità di smascherare le premesse invisibili che regolano la percezione della normalità, mostrando come ciò che appare naturale sia in realtà il frutto di costruzioni sociali e politiche. Pur con i limiti indicati rispetto a un reale scardinamento strutturale, la moda inclusiva non può essere ridotta a mero fenomeno estetico o commerciale. Essa è un buon esercizio di emancipazione, un laboratorio applicato di giustizia estetica, o come più volte ribadito nel testo, uno spazio di cittadinanza simbolica. La sfida è duplice: resistere alla normalizzazione e valorizzare le potenzialità emancipative.
Resta tutto il valore di un’opera e pratiche collettive che mostrano come ribaltare il canone sia un esercizio di decolonizzazione cognitiva, di giustizia cognitiva. Oltre il canone denaturalizza l’ovvio, problematizza ciò che appariva neutro, costringe a riconoscere la contingenza storica di ciò che si riteneva naturale, ci mostra che il modo in cui conosciamo la realtà non è né logicamente né naturalmente inevitabile.