L’ecosistema mediatico contemporaneo, caratterizzato da flussi di contenuto decentralizzati e generati dagli utenti (User-Generated Content), ha imposto una profonda riconfigurazione della moda, trasformandone non solo la natura, ma anche le pratiche di consumo, analisi e storicizzazione. All’interno di questo spazio, il canone estetico tradizionale, fondato su un’ideologia eurocentrica e abilista, non è più un dato assoluto, ma un paradigma contestato.1 La crescente frammentazione delle narrazioni egemoniche ha trasformato la moda in un’arena di rinegoziazione del potere simbolico, in cui le politiche identitarie sfidano gli standard estetici e culturali consolidati. In questo contesto, l’intersezione con la disabilità ha generato una fondamentale divergenza di approcci. Da un lato, l’industria mainstream tende a promuovere una moda adattiva che persegue l’inclusione attraverso un’estetica della normalizzazione, mirando ad assimilare il corpo disabile agli standard dominanti. In radicale antitesi, emerge il paradigma crip, che rifiuta l’assimilazione come condizione di legittimità. Questo movimento rivendica l’autonomia culturale della disabilità, affermandola come un locus di conoscenza specifica e un punto di partenza per una critica radicale delle strutture abiliste, capace di generare codici visivi e significati inediti. Per articolare il potenziale sovversivo di un’estetica crip, è necessario costruire un quadro analitico che si colloca all’intersezione tra gli studi sulla disabilità, la teoria critica della razza e gli studi culturali. L’integrazione di prospettive come quelle elaborate da Tobin Siebers, Rosemarie Garland-Thomson, Robert McRuer e Stuart Hall offre la grammatica critica indispensabile per mappare le geografie del potere che collegano corpo, rappresentazione e valore nel sistema della moda, rendendo espliciti i suoi assunti normativi non dichiarati.
Il punto di partenza per una tale ridefinizione risiede nel lavoro di Tobin Siebers che nel suo Disability Aesthetics riorienta il pensiero estetico, spingendolo ad abbandonare le sue derive idealizzanti per tornare a confrontarsi con la concretezza ineludibile del corpo.2 Siebers nel sovvertire il postulato che lega la disabilità a una presunta assenza di valore estetico o a una mancanza a cui porre rimedio, argomenta che la disabilità è una presenza fantasmatica ma strutturante nella storia dell’arte, capace di generare un surplus di significato e di complessità estetica.3 La tesi centrale di Siebers, secondo cui l’arte di valore integra la disabilità, si pone in conflitto diretto con i canoni di perfezione, unità e proporzione che hanno storicamente governato non solo l’arte classica, ma anche l’industria della moda. La Venere di Milo funge da archetipo di questa teoria: la sua celebrità non deriva da una perfezione ideale, ma proprio dalla sua condizione frammentata.4 La sua menomazione non ne diminuisce il potere ma diventa la prova tangibile della sua storicità, la “disabilità” la rinnova, ne aumenta la forza espressiva, invita a un’esperienza estetica più complessa e moderna, arricchendo in tal modo il repertorio della sensibilità umana. Applicare questa lente analitica al sistema della moda è un gesto che ne ridefinisce le fondamenta critiche attraverso l’abbandono di un approccio correttivo, normalizzante o protesico che tratta il corpo non conforme come un deficit da compensare attraverso il design. In questa nuova prospettiva, la peculiarità del corpo disabile cessa di essere un problema progettuale trasformandosi in un catalizzatore per l’invenzione di nuove grammatiche formali. Un’estetica crip non si esaurisce quindi in un compromesso tra ergonomia e stile, ma si afferma come un movimento autonomo d’avanguardia. Il suo scopo è quello di decostruire i pilastri ideologici della moda — ideali di perfezione e canoni normativi — proponendosi come un imperativo epistemologico per il rinnovamento e la rilevanza futura della moda stessa anziché come semplice istanza di inclusione.
L’affermazione di un’estetica della disabilità come imperativo per la vitalità moda stessa e come ampliamento di possibilità in un’arena dominata dalla standardizzazione abilista e produttiva, sposta l’asse del discorso dall’inclusione, all’attivismo, secondo una prospettiva che trova il suo fondamento teorico nella politica dello sguardo analizzata da Rosemarie Garland-Thomson.5 La sua indagine si concentra sulla dinamica visiva del fissare, staring, inteso come il momento dello scambio di sguardi tra corpi normativi e non, un evento che produce significato. Garland-Thomson distingue tra una modalità di visione oggettivante, che trasforma il soggetto in spettacolo baroque staring, e un potenziale incontro generativo.6 L’orizzonte etico verso cui tendere è il superamento di questa dinamica per approdare al beholding.7 Una forma di riconoscimento reciproco che, a differenza dello sguardo dominante e reificante gaze, è capace di accogliere la singolarità dell’altro all’interno di una comune vulnerabilità umana.8 In questo contesto, la moda crip funziona come un dispositivo di attivismo visivo. Designer e modelli cessano di essere oggetti passivi dello sguardo altrui per diventare soggetti attivi che orchestrano la dinamica dello sguardo che li riguarda. Attraverso scelte estetiche che enfatizzano il corpo non-standard anziché mascherarlo, essi guidano la narrazione visiva, sfidando l’osservatore a trascendere l’iniziale sguardo reificante per giungere a una contemplazione critica e consapevole. Il design diventa così uno strumento pedagogico, un’opportunità per trasformare la visione in riconoscimento della soggettività umana e l’incontro in connessione. Se l’analisi estetica si sofferma sul piano della rappresentazione, la Crip Theory di Robert McRuer attinge dal dialogo tra studi queer e sulla disabilità per articolare un quadro politico che identifica una radice comune nei loro sistemi di oppressione, le cui logiche di marginalizzazione sono considerate strutturalmente interdipendenti.9 Il concetto cardine di McRuer è quello di abilismo obbligatorio compulsory able-bodiedness, un regime socio-culturale che naturalizza e impone la normatività fisica e cognitiva come prerequisito per il pieno riconoscimento sociale.10 All’interno di questo paradigma, la disabilità non può che essere intesa come una condizione di devianza, incompletezza o fallimento rispetto a uno standard imposto come prediletto e universale. Il sistema della moda agisce come un potente dispositivo di riproduzione ideologica di tale impianto. Attraverso la standardizzazione dei corpi, l’idealizzazione della giovinezza e della produttività esso naturalizza l’imperativo dell’abilità funzionale, presentando il corpo normativo come il solo desiderabile. L’ipotesi di crippare il sistema moda non equivale dunque a una richiesta di maggiore inclusione, ma a un’operazione di smantellamento delle sue fondamenta pratiche e ideologiche tradizionali introducendo una dissonanza radicale nei suoi codici di coerenza ed efficienza che come nota McRuer, rispecchiano quelli del capitalismo neoliberale. Qui si evidenzia la critica principale secondo cui il sistema capitalista ha sviluppato una sofisticata capacità di cooptazione, dove ogni forma di critica viene assorbita, mercificata, svuotata di ogni efficacia. Il potenziale sovversivo delle identità marginalizzate viene assorbito dal mercato e riconfigurato come una specifica nicchia di consumo, la resistenza politica viene ridotta a scelta di acquisto e l’attivismo diventa strumento di marketing. Comprendere questa logica di appropriazione e riconfigurazione è cruciale per decifrare la traiettoria di molte iniziative di inclusione mainstream e per analizzare criticamente fenomeni come il purple washing.11
A conclusione di questo quadro teorico è utile ricordare il lavoro sulla rappresentazione di Stuart Hall, che tratta la moda quale potente apparato di significazione.12 Secondo Hall, la rappresentazione non è un riflesso passivo della realtà, ma un intervento che la produce attivamente attraverso la codifica di messaggi culturali. Il sistema moda, con la sua pervasività visiva, opera come un circuito semiotico in cui le istanze di codifica egemoniche — marchi, media, pubblicità — hanno storicamente imposto un codice preferenziale. Questo codice ha veicolato un orizzonte di significato normativo, spesso attraverso l’uso di stereotipi per gestire e neutralizzare la differenza. Nel caso della disabilità, tale processo ha ridotto la complessità dell’esperienza soggettiva a un repertorio di tropi fissi, come la figura della vittima asessuata o al suo opposto, dell’eroe la cui funzione è ispirare il pubblico non disabile attraverso il superamento della propria condizione. Il modello di encoding/decoding di Hall si rivela euristico per interpretare le risposte a questo sistema rappresentativo.13 Hall identifica tre possibili posizioni di decodifica: dominante (allineamento al codice egemonico), negoziata (un compromesso parziale) e oppositiva (un rifiuto attivo e una contro-codifica). In questo schema, la moda adattiva mainstream può essere letta come una posizione negoziata: essa accetta il paradigma estetico dominante, limitandosi a integrare soluzioni tecniche per minimizzare la visibilità della disabilità. L’estetica crip, al contrario, incarna una pratica di decodifica oppositiva. Essa rifiuta il codice normativo e opera una deliberata ri-significazione: la disabilità, anziché essere un elemento da occultare, viene esibita come significante politico, un’affermazione di identità e uno strumento di critica culturale. Da questo punto di vista l’analisi slitta da un piano etico, relativo all’atto di giudicare una rappresentazione come buona o cattiva, a un’indagine politica sulle dinamiche di potere: chi ha l’autorità di rappresentare? Quali ideologie si materializzano negli abiti? E attraverso quali strategie estetiche e narrative è possibile smantellare tali codici?
Moda mainstream e disabilità: fra esclusione, adattamento e cooptazione
Nonostante una pervasiva retorica dell’inclusione, l’industria della moda contemporanea opera come un’arena di tensioni ideologiche, dove le pratiche mainstream tendono a perpetuare, anziché sfidare, la normatività abilista. Per comprendere le radici di questo fenomeno, è necessario tentare di tracciare una genealogia dell’esclusione, riconoscendola come una conseguenza strutturale dei processi di industrializzazione. Il paradigma sartoriale pre-moderno era infatti intrinsecamente inclusivo e flessibile, la pratica del “su misura” implicava un rapporto diretto con la fisicità di ogni singolo corpo, trattato come unico e peculiare, va de sé che la diversità fisica fosse parte integrante del processo. Come testimoniato da fonti settecentesche quali The London Tradesman, la competenza del sarto includeva la capacità di conferire una “buona forma” anche a corpi non idealizzati.14 La rivoluzione industriale ha gradualmente prodotto una frattura epistemologica, l’avvento della produzione di massa e delle conseguenti taglie standardizzate ha sostituito il corpo reale con un prototipo astratto, codificando un ideale omogeneo e funzionale alla produzione seriale. Questo nuovo regime in molti casi ha trasformato l’abbigliamento da strumento di espressione a barriera materiale, marginalizzando ogni corpo non conforme allo standard della meccanizzazione.
L’esclusione prodotta dal sistema industriale è stata rafforzata e legittimata da un più ampio apparato socio-giuridico che mirava alla sistematica epurazione della differenza corporea dallo spazio civico. Normative discriminatorie, come le cosiddette Ugly Laws negli Stati Uniti,15 e le pratiche di istituzionalizzazione forzata hanno contribuito a rendere la disabilità culturalmente invisibile, consolidando pregiudizi e stigmatizzazione. L’attuale dibattito sull’inclusività nella moda non può quindi prescindere dalla decostruzione di questa eredità storica, riconoscendo che la standardizzazione è stata una scelta economica e politica con profonde conseguenze sull’esclusione sociale.
Da questa prospettiva storica, l’emergere del segmento della moda adattiva appare come una risposta progressista ed evoluta. Uno sguardo più attento rivela però come questo approccio in diversi casi operi ancora prevalentemente all’interno del paradigma epistemologico del modello medico della disabilità.16 Tale modello interpreta la condizione di disabilità come una patologia individuale da gestire, compensare o emendare affinché il soggetto possa integrarsi pienamente in una società strutturata per corpi normodotati. Questo concetto applicato al design riduce l’abbigliamento a una soluzione tecnica per un problema funzionale, in cui l’enfasi è posta sulla correzione, sulla mimetizzazione e sulla compensazione, spesso a discapito dell’espressione estetica e dell’identità personale, con il fine ultimo di neutralizzare la differenza visiva. La moda adattiva così concepita rischia di cristallizzare l’idea della disabilità come deficit da nascondere, anziché riconoscerla come una dimensione valida e autonoma dell’esperienza umana.
L’ingresso dei grandi marchi nel settore della moda adattiva può essere letto come una riarticolazione del modello riabilitativo della disabilità all’interno di una logica di mercato. Nonostante il merito di aver aumentato l’offerta di prodotti funzionali, l’integrazione della moda adattiva nel mercato di massa è concettualizzata dalla prospettiva crip come un processo di sussunzione neoliberale, che concede un’inclusione basata sul consumo a scapito della valenza politica della disabilità.17 In questo processo, la differenza corporea verrebbe convertita in capitale simbolico e commerciale attraverso strategie tokenistiche e superficiali che sfruttano la rappresentazione della disabilità per proiettare un’immagine di responsabilità sociale, senza disturbare lo status quo e senza incidere sulle strutture abiliste esistenti.18 Secondo quest’ottica la maggior disponibilità di capi di abbigliamento avviene al prezzo di una neutralizzazione dell’identità politica e culturale della disabilità. L’identità crip viene sottoposta a un processo di normalizzazione visiva, epurata dei suoi elementi di disturbo per essere resa appetibile al mercato di massa. Come evidenziato dallo studioso Ben Barry tale meccanismo equivale a una cancellazione ed è di natura prevalentemente estetica.19 In molti casi la moda adattiva mainstream opera postulando il corpo non disabile come il dato normativo, al quale il design deve adattarsi in modo quasi invisibile. Ne consegue un’estetica assimilazionista, la cui logica si fonda sull’occultamento dei dispositivi di accessibilità. L’atto di progettare per l’accesso fisico diventa così funzionale all’obiettivo più grande di mimetizzare la disabilità. In questo modo, pur offrendo una soluzione pratica, l’approccio assimilazionista finisce per spogliare la disabilità della sua dimensione politica e identitaria, riconducendola a una questione puramente tecnica da risolvere con discrezione.
L’approccio di alcuni importanti marchi internazionali alla moda adattiva offre ulteriori spunti di riflessione su un paradigma progettuale in cui il corpo abile funge da modello di riferimento. In tale prospettiva, la disabilità rischia di non essere considerata una fonte primaria di ispirazione creativa, quanto piuttosto una variabile da integrare a posteriori, applicando modifiche a un modello preesistente. Un caso di studio interessante, come osservato dall’attivista Liz Jackson, è quello di Tommy Hilfiger Adaptive.20 Il processo di design, che integra soluzioni funzionali celate nello “stile classico americano”, è stato interpretato come indicazione che il modello di riferimento resti la norma abile. In questa prospettiva, si afferma un’uguaglianza fondata sull’omologazione estetica e sulla minimizzazione dei segni visibili della disabilità, più che sul riconoscimento delle differenze. Un ulteriore elemento di analisi è rappresentato dal caso Nike FlyEase, che mostra le dinamiche complesse che si attivano quando un’innovazione di design adattivo entra nel mercato di massa. La tecnologia nasce dalla richiesta di autonomia e inclusione di Matthew Walzer, adolescente con paralisi cerebrale, radicata nell’esperienza crip in un contesto segnato da norme abiliste. Con la commercializzazione, la narrazione del prodotto si è progressivamente trasformata. Adottando strategicamente il linguaggio del Design Universale, il marchio ha ampliato il focus comunicativo da una soluzione mirata per la disabilità a un vantaggio di convenienza per un pubblico più vasto, una scelta di mercato che ha garantito al prodotto una notevole diffusione.21
Questa transizione solleva diversi interrogativi. Da una prospettiva critica, si osserva come l’originaria rivendicazione per l’accesso e la partecipazione sociale tenda a essere percepita principalmente come un life-hack, ovvero un vantaggio funzionale per il consumatore generico. In questa evoluzione narrativa, la disabilità, pur rimanendo il catalizzatore dell’innovazione, rischia di passare in secondo piano rispetto all’obiettivo di massimizzare l’attrattiva commerciale del prodotto. Tale strategia, inoltre, può essere letta all’interno di una più ampia tendenza storica del design per la disabilità, già analizzata da Elizabeth Guffey (2018) e tesa a privilegiare l’invisibilità dell’adattamento per mitigare lo stigma sociale.22 Il risultato è un fenomeno ambivalente: da un lato, l’innovazione raggiunge una diffusione capillare; dall’altro, la sua carica politica originaria si attenua, presentando al mercato una soluzione tecnica la cui storia e il cui contesto vengono diluiti nella narrazione.
L’analisi delle dinamiche di inclusione nella moda mainstream può estendersi dal design del prodotto, alle sue strategie di rappresentazione. La crescente visibilità di corpi storicamente esclusi dalle passerelle e dagli editoriali rappresenta una sostanziale evoluzione rispetto al passato. Tale fenomeno ha generato un acceso dibattito. L’interrogativo centrale è se questa maggiore rappresentazione si traduca in un’autentica inclusione strutturale o se, in alcuni contesti, rischi di risolversi in una presenza simbolica. L’inclusione di corpi non conformi nella moda solleva un’importante questione: anziché contribuire a una ridefinizione delle norme estetiche, tale presenza rischia di essere isolata come un’eccezione. Secondo questa lettura, la sua natura tokenistica potrebbe non scalfire le convenzioni dominanti, ma paradossalmente rafforzarle, evidenziandone la distanza dalla norma percepita.
Dietro la promessa di progresso, si profila così il rischio di una diversità meramente ornamentale, cooptata dal sistema per proiettare un’immagine virtuosa senza tuttavia intaccare i suoi paradigmi fondanti. In quest’ottica, l’inserimento sporadico di corpi con disabilità in sfilate o campagne pubblicitarie non si configurerebbe come un impegno sistemico, ma piuttosto come il soddisfacimento di un requisito all’interno di una tassonomia della diversità, lasciando inalterate le strutture escludenti del settore.23 Questa logica produce un regime rappresentativo paternalistico, che sottrae i modelli disabili ai codici semiotici di potere e desiderio tipici della moda, per inserirli in una narrazione edificante di ispirazione o vulnerabilità inscrivibile nel concetto di inspiration porn.24 Tale approccio ha una duplice funzione, se da un lato rafforza stereotipi che oggettivano la persona disabile, dall’altro, offre una rappresentazione addomesticata della differenza, neutralizzando reazioni forti fra chi, normodotato, osserva, lasciando in tal modo inalterato lo status quo.
Una rappresentazione più autentica richiede piuttosto una maggiore integrazione delle competenze e prospettive delle persone disabili lungo la filiera produttiva, dai ruoli decisionali a quelli creativi. In assenza di tale integrazione, la visibilità corre il rischio di ridursi a un’operazione puramente semiotica, un’azione di facciata che permette ai brand di capitalizzare sul valore simbolico della diversità senza cedere potere né smantellare le barriere culturali esistenti. La sfida cruciale non consiste dunque nell’aumentare la presenza fisica di corpi disabili ma in una redistribuzione del potere di significazione. Si tratta di spostare il controllo dell’apparato rappresentativo passando da un modello in cui la disabilità è rappresentata da altri a uno in cui la comunità disabile ha l’autorità di rappresentare sé stessa.
Moda crip: pratiche, designer e manifesti
L’analisi delle iniziative di moda mainstream nel discorso sulla disabilità necessita di strumenti teorici capaci di interrogare la ricorrenza di una retorica benevola. Le lenti offerte dalle teorie postulate da studiosi come Robert McRuer, Garland-Thomson e Tobin Siebers sono utili per svelare l’infrastruttura ideologica talvolta soggiacente, ovvero il paradigma normativo dell’abilità obbligatoria, compulsory able-bodiedness, e le strategie neoliberali di contenimento della differenza.25 Questa prospettiva chiarisce come l’enfasi sull’invisibilità estetica non sia una scelta progettuale neutra, ma un’operazione politica che naturalizza e rafforza l’egemone norma abilista. In opposizione a questo modello votato all’occultamento e all’assimilazione, si è sviluppato un contro-discorso radicale. Un paradigma antagonista che rifiuta di nascondere o normalizzare la disabilità, per riposizionarla invece al cuore del processo creativo, rivendicandola come epicentro di produzione identitaria, estetica e politica, fondata su una critica intransigente delle norme sociali che governano la desiderabilità dei corpi. Questo contro-discorso si manifesta attraverso nuove modalità operative, tra cui la Crip Couture e il Crip Fashion Hacking. La Crip Couture, teorizzata da Sandie Yi, si pone in antitesi sia all’esclusività classista dell’alta moda sia al funzionalismo del design adattivo.26 Rivolgendosi unicamente alla comunità disabile, essa rifiuta i sistemi di produzione capitalista e opera secondo una temporalità non-produttivista, il Crip Time, un ritmo dettato dalla cura e dalla relazione che trasforma l’atto creativo in una pratica di intimità e fiducia, access intimacy.27 In modo complementare, il Crip Fashion Hacking traduce i principi della Disability Justice in una metodologia progettuale.28 Andando oltre la nozione semplicistica del fai-da-te, questa pratica sovverte le logiche di mercato attraverso la rielaborazione collaborativa di capi preesistenti. Questo processo, fondato sull’interdipendenza, incarna il principio del knowing-making, dove la conoscenza incarnata della persona disabile è validata come l’archivio primario da cui scaturisce l’innovazione.
Le pratiche di moda crip avviano un processo di decolonizzazione che sovverte la tradizionale gerarchia autoriale. Si supera così il modello di design per la comunità disabile, che la considera un oggetto passivo, in favore di un paradigma che progetta con e dalla comunità stessa, trasformando l’esperienza vissuta della disabilità nella fonte primaria dell’innovazione. L’applicazione di questa logica si manifesta nel cripping, ovvero un atto di riappropriazione e di sovversione dei simboli e dei significati che trasforma l’abbigliamento in un enunciato politico.29 A partire dalla Crip Theory, il cripping interviene sulla realtà materiale per re-immaginarla attraverso una lente specifica che sfida le norme abiliste celebrando la differenza esibita, secondo un approccio fondato sulla Crip Technoscience, un concetto che valida la conoscenza e la tecnologia prodotte dalle persone disabili come strumenti di cambiamento e intervento attivo sul mondo.30
Un’esempio rappresentativo di questo contro-modello è offerto dal lavoro di Sky Cubacub e del marchio Rebirth Garments.31 Da una prospettiva intersezionale (non-binaria, queer, disabile), Cubacub articola un’estetica dell’iper-visibilità che rifiuta categoricamente il passing (il tentativo di conformarsi alla norma). Le loro creazioni palesano una precisa strategia semiotica attraverso l’uso di colori al neon, motivi geometrici non binari come il triangolo e tessuti trasparenti, che mira a esporre e celebrare il corpo non conforme nella sua unicità. In questo quadro, gli ausili tecnici e le tecnologie assistive, come protesi, esoscheletri robotici, tasche per dispositivi medici, zip ad apertura facilitata, anziché occultati sono esibiti, integrati nel design o nell’ornamento come parte integrante del progetto creativo. Questa radicalità visiva si estende al processo e alla messa in scena, le sfilate sono concepite come eventi performativi che fondono moda e rituale comunitario, generando uno spazio di cura collettiva. Qui, lo stimming viene riletto come danza e gli ausili tecnici come accessori fashion, offrendo così una prefigurazione utopica di un mondo in cui l’esistenza crip e queer è vissuta spontaneamente. Se pratiche come il crip fashion hacking o la Radical Visibility di Cubacub operano principalmente come forme di resistenza ai margini del sistema, l’attivismo di Sinéad Burke incarna una diversa prassi crip: l’infiltrazione critica dall’interno delle istituzioni della moda. Nata con acondroplasia, Burke ha trasformato la sua esperienza diretta in un mondo strutturalmente inaccessibile nel motore del suo attivismo. Da una critica iniziale sull’esclusività della moda tradizionale, il suo percorso si è evoluto in una sfida sistemica rivolta alle logiche dell’intero settore. La sua visione postula il design come una pratica investita di responsabilità etica e l’accessibilità come un processo olistico volto a generare autonomia e dignità. Il suo lavoro, centrato sul principio Nothing about us Without Us, promuove il co-design come metodo imprescindibile per un cambiamento reale a livello sistemico. Questa filosofia costituisce il fondamento operativo di Tilting the Lens, la società di consulenza fondata da Burke nel 2020.32 Attraverso questa organizzazione Burke e il suo team collaborano con marchi del calibro di Gucci, Ralph Lauren, Netflix e Starbucks, con l’obiettivo di tradurre l’intento inclusivo in protocolli aziendali concreti. Il loro approccio è olistico, fondato sull’interconnessione di tre pilastri: istruzione, patrocinio e design. La missione non è promuovere interventi superficiali, ma radicare l’accessibilità come principio organizzativo trasversale, incorporandola nell’infrastruttura stessa del business: dalla cultura interna e le politiche di assunzione, fino alla progettazione di prodotti e all’architettura degli spazi di lavoro e commerciali. Sviluppato in collaborazione con il designer attivista Ben Barry, il Parsons Disabled Fashion Student Program ne è un esempio concreto.33 Partendo dal concetto di abilismo quale principio fondamentale del sistema della moda, l’iniziativa si configura come un’operazione di ingegneria istituzionale. Attraverso percorsi formativi dedicati a talenti con disabilità, essa contrasta la sistematica svalutazione del fashion hacking vernacolare: un corpus di saperi autonomi, nati dalla necessità, a cui il sistema nega sia legittimità simbolica sia accesso al capitale. L’obiettivo trascende il singolo progetto, mirando a rimodellare l’intero ecosistema formativo per radicare la prospettiva della disabilità come forza creativa essenziale nelle future leadership del settore. Quella di Burke si configura così come una prassi crip fondata sull’impegno critico: un’azione che opera dall’interno delle strutture di potere esistenti per innescare un cambiamento sistemico, obbligando l’industria a riconsiderare il valore attraverso la lente della disabilità.
Dibattiti aperti e traiettorie future
Nonostante il suo crescente impatto culturale, l’estetica crip si confronta con le dinamiche tipiche dei movimenti contro-culturali che acquisiscono visibilità. La sua popolarità la espone infatti a un potenziale interesse da parte di sistemi di mercato più ampi, la cui interazione con le idee emergenti può portare a processi di trasformazione e adattamento. In tale contesto, la sfida principale per la cultura della disabilità diventa esplorare le condizioni attraverso cui le sue espressioni artistiche, fondate sul rifiuto delle norme, possano raggiungere un vasto pubblico senza che la loro istanza di cambiamento venga eccessivamente diluita. L’interrogativo non è tanto se l’integrità politica sia intrinsecamente legata a una scala di produzione ridotta, che certamente facilita pratiche come il Crip Time e la co-creazione. Piuttosto, la questione aperta per designer e artisti crip è se sia possibile immaginare modelli di crescita e diffusione che riescano a preservare i principi ideologici fondanti del movimento, navigando le complesse logiche della commercializzazione senza subirne passivamente la neutralizzazione. In parallelo alle sfide poste dal mercato, l’estetica crip richiede una riconsiderazione dei paradigmi di conoscenza in ambito accademico.34 Lo studio di queste pratiche si lega all’adozione di epistemologie crip (cripistemologies) ovvero cornici teoriche che validano l’esperienza pratica delle vite disabili, contro l’abilismo intrinseco di molte istituzioni accademiche.35 A questo imperativo metodologico si affianca un’urgenza di decolonizzazione epistemica.36 Come evidenziato da recenti analisi, la ricerca sul tema mostra un’impronta geopolitica marcatamente euro-americana, portatrice di una visione parziale che universalizza l’esperienza della disabilità.37 Decolonizzare la ricerca significa quindi dare centralità alle pratiche e alle teorizzazioni emergenti dal Sud Globale e analizzare criticamente le intersezioni tra abilismo, razzismo, eredità coloniale, rifiutando l’imposizione di modelli di inclusione occidentali.38 In questo orizzonte complesso emerge una convergenza con il discorso sulla sostenibilità. Mentre la moda adattiva mainstream rimane il più delle volte legata a cicli di produzione di massa, le pratiche crip — la personalizzazione, il riadattamento di materiali e le temporalità non-produttiviste del Crip Time — sono intrinsecamente allineate a una visione di moda slow, intesa come lenta e durevole. Questa sinergia suggerisce che l’estetica crip non sia una semplice contro-cultura, ma un potenziale modello per una riconfigurazione etica ed ecologica dell’intera industria. La soluzione al dilemma della scalabilità potrebbe quindi non risiedere nel rendere mainstream i prodotti crip, ma nell’utilizzare le metodologie crip per sovvertire i modelli di produzione e di valore dell’industria globale. La transizione non è più solo dalla rappresentazione all’incarnazione, ma da un’industria inclusiva a una radicalmente trasformata.39
In conclusione, dall’analisi del rapporto tra moda e disabilità emerge la necessità di passare da una logica della rappresentazione a una politica dell’embodiment. Il primo approccio, analizzato da Stuart Hall, concepisce la rappresentazione come un processo di produzione di significato mai neutrale, in cui il potere cerca di fissare un “codice preferenziale”.40 Nella moda mainstream, tale logica può talvolta tradursi in un’inclusione più apparente che sostanziale, in cui la disabilità è rappresentata come immagine o nicchia di mercato e, come osserva Robert McRuer, privata della sua valenza sovversiva e riconfigurata per il consumo di massa. All’opposto, l’estetica crip si fonda su una politica dell’embodiment che sovverte il paradigma della rappresentazione. A partire dalle cripistemologies, questa logica trasforma la conoscenza incarnata da oggetto di rappresentazione a motore del processo creativo, elevando di conseguenza il co-design (come nelle pratiche di crip fashion hacking o nella Radical Visibility di Cubacub), da opzione a necessità strutturale per la costruzione di comunità resilienti.
Dalla rappresentazione all’incarnazione: crippare la storiografia della moda nell’era digitale
Questa transizione è stata radicalmente accelerata dalla “piattaformizzazione” della cultura, un fenomeno che ha trasformato le piattaforme digitali come Instagram e TikTok nei principali luoghi di produzione e negoziazione del significato dei prodotti culturali.41 La proliferazione di narrazioni visive decentralizzate ha innescato una crisi epistemologica per la storiografia della moda, svelando l’inadeguatezza dei suoi tradizionali modelli eurocentrici e abilisti. Diventa quindi imperativo per la disciplina interrogarsi su come le logiche algoritmiche influenzino la memoria culturale; quali soggettività vengano amplificate/silenziate, e come le metodologie di ricerca debbano evolversi per analizzare criticamente questi nuovi ecosistemi mediali.
La risposta a questa crisi richiede un approccio metodologico interdisciplinare secondo un’ipotesi che integri la digital ethnography e i platform studies con una solida base di teoria critica. Le lenti postcoloniali e della Critical Race Theory, ad esempio, sono essenziali per analizzare come le piattaforme digitali, pur nelle loro ambiguità, abbiano facilitato l’emergere di archivi vernacolari di resistenza sartoriale da parte di comunità storicamente marginalizzate.42 In parallelo, gli studi sulla disabilità, come evidenziato da Kate Annett-Hitchcock (2024), chiariscono come gli spazi digitali siano cruciali per la diffusione di narrazioni autentiche che sfidano gli stereotipi, funzionando come luoghi di incarnazione e validazione per la conoscenza crip. Un’analisi intersezionale rimane indispensabile per comprendere la complessa interdipendenza tra le diverse assi di potere nella costruzione dell’identità vestimentaria contemporanea.
Per evolvere, la storiografia della moda deve superare un approccio additivo, che si limiti a includere la disabilità come nuovo oggetto d’indagine. La congiuntura digitale e la critica crip offrono invece l’opportunità per una profonda riconfigurazione epistemologica, invitando la disciplina a lasciarsi trasformare internamente dai saperi, dalle temporalità e dalle prassi politiche radicate nell’esperienza della disabilità. Tale assunto implica una riconsiderazione dei concetti di standardizzazione e produttività e soprattutto, una redistribuzione del potere di enunciazione. Il passaggio non è da una storia esclusiva a una inclusiva, ma da una storia basata sulla rappresentazione a una che si fonda sull’incarnazione. L’orizzonte non è una storiografia sulla disabilità, ma una pratica storiografica che sia stata essa stessa, decostruita e riassemblata attraverso una lente crip.
Dall’archivio assente alla governance algoritmica
La storiografia della moda, nella sua formulazione tradizionale, è stata eretta su un paradosso fondamentale: pur celebrando la trasformazione del corpo, ha operato attraverso una logica di esclusione strutturale, fondata su una figura egemonica che Rosemary Garland-Thomson, ha definito il normate.43 Questo paradigma normativo, abile, efficiente e desiderabile, ha agito come principio ordinatore dell’archivio, relegando ogni corporeità deviante, quella disabile inclusa, a una condizione di invisibilità. Secondo l’analisi di Lennard J. Davis, la sostituzione della dicotomia pre-moderna ideale/grottesco con l’attuale binomio norma/anomalia, affonda le sue radici in un processo storico specifico, l’affermarsi del pensiero statistico nel corso del XIX secolo.44 L’obiettivo culturale nella società contemporanea si è così spostato dall’aspirazione verso un ideale irraggiungibile, all’appiattimento su una media statistica, trasformando la disabilità in una devianza da correggere. In questo quadro, la moda opera come uno strumento potente di imposizione della normalità, enforcing normalcy, un apparato culturale, funzionale alle esigenze del capitalismo industriale e ancorato alla logica selettiva del perfezionamento. Attraverso la costante celebrazione del corpo normale, la moda ha perpetuato una cancellazione simbolica, un’esclusione estetica. Lo sguardo statistico che ha prodotto l’archivio assente, silent archive, si è oggi evoluto nello sguardo algoritmico, un regime digitale che automatizza e moltiplica il pregiudizio abilista su scala globale. In riferimento all’analisi di Safiya Umoja Noble, è possibile identificare un abilismo algoritmico, algoritmic oppression, sistemico in cui piattaforme digitali, tutt’altro che neutrali, ereditano e codificano i pregiudizi inscritti nei dati che li addestrano.45 Ciò si manifesta in una triplice forma di ingiustizia digitale: l’errata classificazione della moda crip come contenuto medico o sensibile; l’oscuramento e lo shadowbanning di creatori che sfidano le narrazioni abiliste; e l’amplificazione di hate speech, mentre, paradossalmente si censurano le vittime. Questo sistema non si limita a riflettere annosi pregiudizi ma svaluta la produzione culturale disabile dietro la facciata della neutralità tecnologica.
La narrativa abilista si fonda su un’infrastruttura di potere intrinsecamente estrattiva. Come evidenziato da Kate Crawford, l’intelligenza artificiale opera attraverso l’estrazione e la decontestualizzazione di dati, creando profili che rafforzano le logiche di classificazione e le dinamiche di potere esistenti.46 Operazioni in linea con l’imperativo della compulsory able-bodiedness di Robert McRuer. Le piattaforme digitali sono imprese capitalistiche che esigono produzione e interazione costanti, performance efficienti e sempre disponibili, un presupposto in aperto conflitto con la temporalità flessibile e non lineare del crip time descritto da Alison Kafer, secondo una logica volta a escludere corpi ed esistenze di chi non si conformano.47 Lo sguardo algoritmico, quindi, non impone solo una norma visiva, ma una disciplina comportamentale, economica e temporale.
Dalla presa di coscienza di questa duplice soppressione, storica e algoritmica, emerge la necessità di una svolta epistemologica nella pratica della ricerca. Le metodologie tradizionali si rivelano complici del problema, la ricerca d’archivio indaga un corpus strutturalmente escludente, mentre le analisi quantitative come il data scraping replicano lo stesso sguardo estrattivo e decontestualizzante degli algoritmi. L’alternativa risiede in un approccio metodologico ed etico integrato. Come prassi di ricerca primaria si propone l’integrazione dell’etnografia digitale, nota anche come etnografia virtuale o netnografia, sulla scia di Christine Hine e Robert Kozinets.48 Il suo carattere immersivo, relazionale e contestuale la configura come un atto anti-estrattivo in grado di onorare la complessità delle culture crip online invece di ridurle in freddi dati.49
Il metodo da solo risulta tuttavia parziale e necessita di essere orientato da un impegno che assuma la Cripistemologia come possibile lente teorica di riferimento. La cripistemologia riconosce il sapere che emerge dall’esperienza vissuta della disabilità non come un semplice dato da analizzare, ma come una fonte di conoscenza critica e torica a sé stante. Questo riorientamento trasforma la ricerca da uno studio sulle persone disabili a una ricerca con e per le loro comunità, fondata su principi di giustizia e responsabilità. Solo attraverso questa duplice mossa — metodologica ed epistemologica — sarà possibile scrivere una storiografia della moda che non si limiti ad aggiungere corpi disabili a una narrazione dominante, ma che ne decostruisca le fondamenta abiliste. In conclusione si tratta di passare dalla cronaca di un’assenza, alla scrittura di una storia crip della moda, critica e incarnata.
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Il termine eurocentrico è qui inteso nel senso di soft power euro-atlantico, come teorizzato da Joseph Samuel Nye Jr. che sottolinea la capacità di attrazione e persuasione non coercitiva veicolata da prodotti culturali. Cfr. Joseph Samuel Nye Jr., “Soft Power,” Foreign Policy, Vol. 80 (Fall 1990): 153–71.↩︎
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Siebers, 2–3.↩︎
Siebers, 5.↩︎
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Garland-Thomson, 50.↩︎
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Garland-Thomson, Staring: How We Look, 9. Garland-Thomson definisce lo “gaze” come “the oppressive act of disciplinary looking that subordinates its victim.”↩︎
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Cfr. Chun-Shan Sandie Yi, “Crip Couture as Radical Care: Fashion, Art Therapy, and Disability Art” (PhD diss., University of Illinois at Chicago, 2022).↩︎
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Richard Delgado e Jean Stefancic, Critical Race Theory: An Introduction (New York: NYU Press, 2023).↩︎
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Lennard J. Davis, Enforcing Normalcy: Disability, Deafness, and the Body (Londra: Verso, 1995), 23.↩︎
Safiya Umoja Noble, Algorithms of Oppression: How Search Engines Reinforce Racism (New York: NYU Press, 2018), 166.↩︎
Kate Crawford, Atlas of AI: Power, Politics, and the Planetary Costs of Artificial Intelligence (New Haven: Yale University Press, 2021), 15.↩︎
Alison Kafer, “After Crip, Crip Afters,” South Atlantic Quarterly, Vol. 120, no. 2 (2021): 415–34.↩︎
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