ZoneModa Journal. Vol.15 n.1 (2025), 201–206
ISSN 2611-0563

Elio Fiorucci. Mostra a cura di Judith Clark. Triennale Milano, Milano, 6 novembre 2024 – 16 marzo 2025

Elena FavaUniversità Iuav di Venezia (Italy)

Pubblicato: 2025-07-15

Elio Fiorucci
A cura di Judith Clark
Progetto di allestimento di Fabio Cherstich
Triennale di Milano, 6 novembre 2024-16 marzo 2025
Catalogo Electa 2024

Dal 6 novembre scorso (fino al 16 marzo 2025) gli spazi del primo piano di Triennale Milano risuonano della voce calma e misurata di Elio Fiorucci (1935–2015) che con quella inconfondibile erre pizzicata, sentita in tante interviste, accoglie il visitatore sulla soglia della mostra a lui dedicata e lo accompagna per tutto il percorso. Quest’ultimo è unificato dalla storia personale e professionale del protagonista, intrecciata a quelle dei suoi numerosi collaboratori, di artisti e designer che negli anni hanno incrociato la sua strada e nutrito un pensiero sul consumo culturale di moda sviluppato dall’ormai mitico primo negozio a Milano (1967) fino al progetto Love Therapy (2003), anticipando modalità che oggi possono essere ascritte alle industrie creative.

Nel saggio introduttivo del catalogo Judith Clark, la curatrice, scrive infatti che la mostra è concepita con un taglio biografico, ma aperto alle interrelazioni. E sono proprio le interrelazioni che restituiscono pienamente la forza aggregante di persone ed esperienze esercitata da Elio Fiorucci.

Aperta sulla mostra è anche la finestra che nell’allestimento di impianto volutamente teatrale ideato da Fabio Cherstich ci introduce al mondo visionario di Fiorucci. La prima installazione che si incontra è l’ambiente in cui si immagina Elio bambino svolgere il tema dal titolo Come desidero e come immagino il mio avvenire (esposto in mostra), un’aula scolastica dove una finestra sostituisce la lavagna e si spalanca sulla storia dell’uomo e dell’imprenditore.

La scelta della curatrice di partire dagli inizi biografici riflette la scelta, e probabilmente la necessità, di organizzare cronologicamente l’imponente mole di documenti che il team di ricerca della mostra ha raccolto in oltre due anni, provenienti da archivi, collezioni pubbliche e soprattutto private.

Il percorso espositivo è scandito in otto sezioni tematiche, in cui convivono almeno tre diversi registri che nel percorso si intrecciano e amplificano a vicenda. Uno è quello informale del racconto in prima persona che, come si diceva all’inizio, permette di ascoltare Fiorucci mentre ripercorre episodi e accadimenti con l’amica giornalista Alessandra Albarello (le registrazioni sono del 2015, quando Fiorucci aveva 80 anni). Se ne individua un secondo, ovvero quello dell’itinerario documentale che si snoda su banchi museali dove sono ordinati i materiali più disparati, dalle polaroid di famiglia ai dépliant alle lettere dei fans, fino alla confezione rosa di furry cuffs-loved by Elio Fiorucci, frammenti di un fashion system complesso e aperto alle contaminazioni tra alto e basso. Infine, un terzo registro è quello scenografico delle installazioni che materializzano situazioni immaginate, come appunto l’aula scolastica, ricreano angoli dei negozi e allestimenti delle vetrine Fiorucci e addirittura l’atmosfera del suo studio, governato da un allegro caos di colori e forme in cui spicca, per contrasto, un “classico” loden verde — capo che Elio Fiorucci era solito indossare — a ricordarci che la libertà di vestire promossa dallo stesso Fiorucci andava ben oltre le proposte provocatorie con cui tutti lo ricordano, o rimaneva ben al di qua di queste. Era innanzitutto libertà di scelta. In fondo Fiorucci è passato pressoché indenne attraverso tutte le contestazioni a lui contemporanee perché capace di rivelare la forza comunicativa e liberatoria che può avere l’abbigliamento, oltre qualunque connotazione politica gli si voglia attribuire.

Tornando al percorso della mostra, la sezione Gli inizi ripercorre i primi anni di vita di Elio Fiorucci a Piona, sul lago di Como, e la sua formazione nel negozio di calzature di famiglia in corso Buenos Aires a Milano, che è per lui anche l’occasione per immaginare forme di consumo e comunicazione allineate ai nuovi stili di vita giovanili che si profilano negli anni Sessanta.

L’influenza della cultura londinese e il desiderio di reinterpretare l’esperienza dello shopping sono il perno attorno a cui è costruito il tavolo Nuovi mondi. Qui spicca il modello architettonico del notissimo negozio Fiorucci in Galleria Passarella, inaugurato nel 1967 su progetto della scultrice Amalia Del Ponte, primo di una fortunata serie di concept store aperti in seguito anche in altre città italiane e del mondo. Come è noto, la boutique Biba, simbolo della Swinging London, era il mondo a cui guardava Fiorucci per importare a Milano abiti, accessori e idee. Il racconto di Cristina Rossi di quella fase iniziale — i viaggi nella capitale inglese con le valigie al ritorno traboccanti di “cose” per rifornire settimanalmente il negozio di merce sempre nuova — restituisce la vitalità onnivora che contraddistinse Fiorucci fin dagli esordi e la sua capacità di sintonizzarsi con i cambiamenti in atto nelle capitali culturalmente più avanzate. A ben guardare, come peraltro ricorda Marco Sammicheli nel catalogo della mostra, nel radar della ricerca di Fiorucci erano finite anche le esperienze tutte milanesi delle boutique Cose e Gulp! — aperte rispettivamente nel 1963 e nel 1965, la seconda progettata dalla stessa Amalia Del Ponte — che avevano già manifestato una precoce sensibilità nel captare le tendenze provenienti dall’estero e la capacità di rielaborarle e riproporle in Italia. Questa osservazione non sminuisce la rivoluzione di Fiorucci, semmai la qualifica come espressione di una Milano tutt’altro che grigia e meno borghese di quanto si racconti, una città che, ben prima di essere celebrata come efficiente capitale del prêt-à-porter e dello stilismo, si era dimostrata aperta ad accogliere le proposte sperimentali di antimoda e disponibile a sostenerne gli sviluppi.

Sempre a Milano, nella centralissima via Torino, nel 1974 viene aperto il secondo punto vendita, che accompagna gli sviluppi della produzione originale, avviata qualche anno prima, e la nascita di Fiorucci spa (detenuta al 50% da Montedison), a cui segue l’espansione in Italia e nel mondo, come è ben documentato nel percorso espositivo (La crescita). Colpisce la quantità di materiali — manifesti, locandine, carta da lettera, fatture, menù, logo — progettati dallo studio grafico interno all’azienda per il ristorante aperto al primo piano del negozio. Se, come nel caso delle grafiche, le fonti ispirazionali dello scenografico store in via Torino (progetto degli interni di Franco Marabelli e Studio Intec) erano ancora una volta all’estero — in questo caso gli shopping center americani — non passa inosservata la serie di porcellane esposte in mostra, fatte realizzare per il ristorante dalla manifattura toscana Richard Ginori ed espressione di un gusto e di uno stile di vita italiano che coesisteva con la suggestione per l’altrove. Come è spesso ribadito anche nel catalogo, Fiorucci non era sarto né tantomeno stilista, ma aveva fiuto per i collaboratori così come per le situazioni, e senz’altro era consapevole della capacità inventiva e produttiva del nostro Paese. Ancora oggi Fiorucci è considerato l’inventore del fashion jeans. Affidandosi all’esperienza di modellisti e tagliatori italiani, aveva modificato la vestibilità di un tipico indumento da lavoro americano trasformandolo in un capo morbido e sexy, richiestissimo dalle ragazze e reso celebre dagli scatti di Oliviero Toscani.

L’idea dell’altrove è un filo conduttore che si ritrova in tutta la mostra ed è strettamente legata al viaggio, parte integrante del sistema Fiorucci. Nella sezione dedicata a questo tema si concentrano le bellissime agende di viaggio di Mirella Clemencigh — insieme a Tito Pastore una dei buyer di Fiorucci —, la serie di cartoline a collage inviate dal personale dell’Ufficio grafico Fiorucci ai colleghi, illustrazioni di eliche, aerei, distributori di benzina disegnate da Maurizio Turchet e Augusto Vignali e riprodotte su etichette, borse, astucci. Un flusso di immagini, suggestioni e segni (alcuni ricorrenti, come le pin-up a cui è dedicata l’omonima sezione della mostra) che nutriva la vitalità creativa di una modalità di lavoro a tal punto condiviso che oggi di alcuni progetti non è più possibile identificare l’autore, se non affidandosi ai racconti di chi c’era.

Emblema del viaggio nell’universo Fiorucci è poi l’Alfa Romeo Giulietta by Fiorucci (1978), prototipo elaborato da Andrea Branzi ed Ettore Sottsass e realizzato presso gli stabilimenti Zagato: verniciatura della carrozzeria a buccia d’arancia, interni colorati e gomme blu. Una proposta stilistica “destinata a verificare l’immagine di una nuova automobile con l’attuale cultura della moda” (così è scritto nell’invito alla presentazione presso il Museo Storico Alfa Romeo).

Fiorucci non investiva in pubblicità, al contrario incorporava la comunicazione nel design dei prodotti sostenendo la comunicazione diretta e destinando così maggiori risorse all’aggiornamento delle competenze dei suoi collaboratori. Da queste scelte nacque Dxing, osservatorio delle tendenze e dei consumi culturali, attivo dal 1976 al 1981, che aveva lo scopo di produrre ricerca di base da riversare nell’attività creativa degli uffici interni Fiorucci. Al mondo Dxing è dedicato il saggio in catalogo di Giannino Malossi, che ne fu il direttore, e una corposa sezione della mostra (Il sistema della moda), in cui sono illustrati i temi di ricerca, suggeriti dall’industria culturale del tempo, i progetti espositivi ed editoriali effettivamente realizzati e quelli rimasti sulla carta, come il magazine Sweet Paper.

Nella sezione Arte e design si concentrano oggetti e materiali d’archivio che testimoniano i numerosi rapporti con artisti e designer, soprattutto a Milano e New York, che pure sono disseminati lungo tutto il percorso e costituiscono un punto di forza della mostra: trasmettono chiaramente la capacità di Fiorucci di creare connessioni tra persone, ambiti disciplinari e luoghi. La quantità di persone che a vario titolo, e in modi diversi, hanno avuto a che fare con lui è sorprendente e comprende alcuni dei nomi più noti del design, dell’architettura, della grafica e dell’arte di quei decenni: Studio Alchimia, Andrea Branzi, Aldo Cibic, Michele De Lucchi, Keith Haring, Terry Jones, Sauro Mainardi, Alessandro Mendini, Klaus Nomi, Ettore Sottsass, Andy Warhol, solo per citarne alcuni.

Chiude la mostra il tavolo Tutti dappertutto, che ripercorre le ultime vicende del marchio, la cessione nel 1990 alla multinazionale giapponese Edwin International e la creazione di Love Therapy nel 2003, che fa riemergere la sensibilità animalista di Elio Fiorucci, già manifesta all’inizio degli anni Settanta, e materializza il concetto semplice ma potente di terapia dell’amore nell’immagine “da favola” dei nanetti sorridenti, rielaborata da Yoshiko Kubota.

La mostra con cui Triennale Milano celebra Elio Fiorucci riapre, sebbene indirettamente, antiche questioni ancora stringenti, come l’opportunità di dotare la città di un’istituzione preposta alla valorizzazione del patrimonio culturale della moda. Esigenza tra l’altro già espressa quasi cinquant’anni fa in occasione della mostra Il senso della moda, ospitata nel 1979 nell’ambito della XVI Triennale di Milano, a cui Fiorucci-Dxing aveva offerto una significativa esperienza per raccontare la moda in ambito museale.

Figure 1: Elio Fiorucci, installation view, Foto Delfino Sisto Legnani - DSL Studio © Triennale Milano
Figure 2: Elio Fiorucci, installation view, Foto Delfino Sisto Legnani - DSL Studio © Triennale Milano
Figure 3: Elio Fiorucci, installation view, Foto Delfino Sisto Legnani - DSL Studio © Triennale Milano
Figure 4: Elio Fiorucci, installation view, Foto Delfino Sisto Legnani - DSL Studio © Triennale Milano
Figure 5: Elio Fiorucci, installation view, Foto Delfino Sisto Legnani - DSL Studio © Triennale Milano