Introduzione
Il presente articolo si propone di riflettere sulla relazione poliedrica che esiste nell’epoca contemporanea tra natura e design. Il design, infatti, guarda alla natura in vari modi: in alcuni casi come fonte di ispirazione estetica, in altri come motivazione etica e produttiva, in altri ancora come espediente di marketing. In questo senso il design rispecchia una tendenza della cultura contemporanea che, come sottolinea Gianfranco Marrone,1 ha un’attenzione variamente declinata verso un’idea di natura non ben definita che genera atteggiamenti diversi e contraddittori. Dopo una breve riepilogo storico della relazione intercorsa tra design e natura a partire dalle prime esposizioni universali fino al contemporaneo “supernaturalismo” di Ross Lovegrove, l’attenzione si rivolge ad una nuova modalità attraverso la quale il design si sta misurando con la natura nel tentativo di ricrearla artificialmente. Il metodo di analisi è quello degli studi culturali, un approccio interdisciplinare che integra sociologia, antropologia, studi letterari e teoria critica, il cui scopo è appunto quello di analizzare i processi di significazione, ovvero il modo in cui i significati vengono prodotti, negoziati e riprodotti all’interno della cultura. Lo scopo ultimo è quello di intravedere una modalità in cui il design non sia più solo traduzione della natura, ma nuova relazione virtuosa tra l’uomo e il suo habitat contemporaneo.
La natura ambigua della Natura
“Il soffitto è la parte più negletta all’interno delle nostre architetture”2 scrive Marco Belpoliti. È la parte più asettica, spoglia e impersonale di una qualunque stanza, in un qualunque appartamento cittadino. Eppure, anche un soffitto può trasformarsi in un giardino grazie ad una sospensione disegnata per Flos a cui non manca né il rigore formale tipico degli oggetti di design, né l’opulenza della natura. Skygarden ricostruisce in ogni luogo un “giardino celeste” grazie a un diffusore a sospensione, decorato all’interno con fiori, bacche e foglie in una composizione che ricorda gli antichi soffitti in stucco. Una cupola in gesso colato, lavorata meccanicamente e verniciata di bianco all’interno, con finiture colorate all’esterno. Una lampada iconica che mescola approccio industriale e vocazione artistica, minimalismo e decorazione, artificio ispirazione naturale. Il designer olandese Marcel Wanders racconta così le origini di uno dei suoi progetti più riusciti.
Nella mia vecchia casa avevo un favoloso soffitto d’epoca in gesso decorato: da qui nasce l’ispirazione per Skygarden. Era bellissimo anche senza che io, con il mio pollice nero, dovessi occuparmene. Non aveva bisogno di acqua o sole, ma esclusivamente dei caldi raggi della luce elettrica che lo illuminava. Lo amavo così tanto che quando mi sono trasferito non riuscivo a lasciarlo. Dovevo trovare un modo per portarlo con me nella nuova casa. Ho preso gli attrezzi e l’ho rubato dal soffitto. Questo favoloso pezzo di storia ora è nascosto in una sfera architettonica dalla struttura minimalista nel cuore della mia nuova casa, dove posso ammirarlo insieme agli amici.3
La lampada Skygarden, in tutta la sua opulenta quanto contraddittoria bellezza, può essere considerata un simbolo, un emblema narrativo dell’interesse che il design, anche il più tecnico e minimale, sta mostrando nei confronti della natura. Un interesse che però si declina in diversi modi.
Da un lato la natura ispira una tendenza propriamente decorativa attraverso oggetti fitomorfi o comunque abbelliti con motivi a tema floreale e vegetale. Il Salone del Mobile 20244 ha offerto ai visitatori un ampio repertorio di oggetti a ispirazione naturale: dalla riedizione in nuovi colori dell’iconico attaccapanni Cactus di Gufram, ai divani I sassi di Calia Italia dalle forme organiche e sinuose che ricordano quelle delle pietre in calcarenite modellate dalla pioggia e dal vento; dal divano modulare Rhor di Lixo in verde sgargiante con tanto di cuscini a stampa vegetale, alla poltrona Quiltana di Etro Home Interiors completamente rivestita in gobeline a fiori, fino ad arrivare allo sgabello AX di Zilio A & C che simula nella struttura un ceppo di legno appena spaccato da un’accetta. Dall’altro lato, invece, l’interesse per la natura si declina in termini di attenzione all’ambiente e sostenibilità attraverso l’uso di materiali ecocompatibili o addirittura di nuovi materiali creati mediante il riuso di scarti biologici utilizzati poi per fabbricare oggetti d’arredo di diverso tipo. Le esposizioni, le fiere, i premi sul tema non si contano. Ogni anno, ad esempio, il Chicago Athenaeum — Museum of Architecture and Design e il The European Center for Architecture Art Design and Urban Studies assegnano il Green Good Design Award a quei prodotti che promuovono un design sempre più sostenibile.5 L’edizione 2024 ha premiato oggetti di diverso tipo, dall’idea di un superyacht alimentato a idrogeno di Oznur Pinar Cer e Danilo Petta, alle sedie Kelp di Alexander Westerlund realizzate con la stampa 3D in un materiale ricavato da reti da pesca riciclate, scarti di attrezzi marittimi e fibre di legno; dall’ E-gap, l’innovativa stazione di ricarica elettrica progettata in Italia da Pininfarina, ai Conscious Confetti di Ida van Esch, coriandoli realizzati in carta commestibile di amido di patate che non lasciano alcuna traccia nell’ambiente proprio perché, dopo un acquazzone, semplicemente si sciolgono. Il discorso dell’ecodesign o design sostenibile, però, non si esaurisce solo nella progettazione di nuovi prodotti o oggetti innovativi e più attenti all’impatto della produzione industriale sul pianeta. Questa nuova tendenza progettuale ha comportato anche una sorta di “revisionismo” storico, se così lo si può definire. Per cui è accaduto che, dopo aver resistito al tempo e al cambiamento di tendenze diventando delle icone, gli status symbol, i più famosi oggetti di design imprescindibili nelle riviste d’arredo di qualunque tipo, negli ultimi anni sono stati ripensati in linea con questa precisa tendenza etica e teorica. Anche questi hanno avuto il loro tocco verde, con richiami floreali o vegetali. La poltrona Gomma, disegnata per Zanotta da De Pas, D’Urbino e Lomazzi nel 1970, quando cioè la plastica stava rivoluzionato la storia del design italiano, da qualche anno viene prodotta con un’imbottitura in poliuretano schiumato a base vegetale, applicata senza collanti e con un rivestimento in tessuto sfoderabile. La nuova versione è stata ovviamente presentata in un verde proprio delle foreste più fitte e incontaminate. Lo stesso è avvenuto per la poltrona Sacco. In una più recente versione6 le palline di polistirolo espanso ad alta resistenza del progetto originario sono state sostituite con microsfere in BioFoam, una bioplastica ottenuta dalla canna da zucchero, mentre lo storico pvc del rivestimento è stato convertito in Econyl un filato di nylon rigenerato ricavato dalle reti da pesca raccolte dai fondali marini, da scarti di tessuto o di plastica industriale. Il riferimento questa volta è il mare. È accaduto così per tantissimi imbottiti, rieditati con materiali eco-friendly e tessuti riciclati o comunque ecosostenibili. È successo nel 2018 al Maralunga di Vico Magistretti, nel 2019 alla Up di Gaetano Pesce con il suo innovativo rivestimento in sughero, nel 2021 al divano Bocca di Gufram e nel 2022 a Le bambole di Mario Bellini. Si tratta di oggetti storici del design italiano in cui la plastica, come scriveva Roland Barthes,7 più che un materiale era l’idea stessa della sua infinita trasformazione e proprio a partire dalle possibilità offerte da questo materiale si sviluppò poi una maniera nuova di pensare e produrre gli oggetti, di commercializzarli e renderli in qualche modo democratici, possibili per tutti. Come ricorda Aldo Colonetti: “il rivoluzionario polipropilene isotattico […] applicato ad oggetti quotidiani, contribuì a cambiare lo stile di vita degli italiani.”8 Nonostante i buoni propositi, soprattutto nel caso delle riedizioni di classici del design, queste scelte green inevitabilmente destano qualche perplessità se è vero che, come molta sociologia ritiene, gli oggetti, lungi dall’essere semplici cose, sono dotati di capacità di agire socialmente modificando le interazioni in cui vengono collocati. Gli oggetti sono cioè soggetti di una pratica sociale che mettono in atto con gli altri soggetti che li usano e li interpretano.9 Cambiarne una parte vuol dire dunque modificare un sistema di relazioni e significati e di tali cambiamenti perciò occorre avere consapevolezza. Sembra quasi che queste icone vengano riproposte cercando di stare al passo con i tempi prestando attenzione alle istanze ecologiste e alla sempre più sentita sensibilità verso temi come l’utilizzo di energia e materie prime rinnovabili, la circolarità dei prodotti, lo sfruttamento etico delle risorse. Il risultato, però, il più delle volte, si concretizza in edizioni limitate, dai costi molto spesso proibitivi ai più, delle singolari eccezioni piuttosto che la norma della produzione industriale. E a questa ricercata esclusività si deve la loro desiderabilità. In Addio alla Natura Gianfranco Marrone descrive gli atteggiamenti “naturalistici” contemporanei più comuni richiamando due miti antichi: quello di Orfeo e quello di Prometeo, rispettivamente personificazione degli artisti e degli scienziati, dei poeti e dei tecnocrati. “Orfeo, eroe al contempo naturale e culturale, figura promotrice delle arti ha un rapporto simpatetico con il cosmo, nonché di intima comprensione dei movimenti e dei ritmi della natura.”10 Con il suo canto magico vivifica piante e animali, è portatore di bellezza e armonia. “Prometeo, eroe e vittima della tecnica e con essa della meccanica, della magia naturale e della scienza sperimentale”11 è colui che invece ruba il segreto del fuoco agli dèi per donarlo agli uomini, piegando di fatto la natura al potere dell’intelletto. I due eroi sono agli antipodi: tanto l’approccio orfico è contemplativo e imitativo, tanto quello prometeico è meccanicistico e utilitaristico. Tuttavia, nella pratica contemporanea del design, sia che si imiti Orfeo e si guardi alla natura in temini decorativi, sia che si imiti Prometeo prediligendo la prospettiva biologica e tecnica, l’esito è inevitabilmente soprattutto estetico, poiché come giustamente sottolinea Marrone: “C’è un’estetica implicita nell’ecologismo, spesso denegata a parole ma non per questo meno presente nei fatti e nei comportamenti dei suoi esponenti.”12
Era il 2011, quando il semiologo Gianfranco Marrone rifletteva in maniera critica e a tratti ironica sul fenomeno imperante e dalle manifestazioni complesse che possiamo genericamente denominare come “svolta green”.
Tra le stranezze di quest’epoca bizzarra, ce n’è una che proprio non si capisce (o forse si capisce troppo bene): è l’entusiasmo per la Natura. Natura da proteggere e vezzeggiare, descrivere e ripensare […]. Natura da indagare nei dettagli, conoscere in ogni meandro, scavare nel profondo […]. Natura in tanti, troppo umani modi, ma sempre e in ogni caso al singolare, e con la lettera rigorosamente maiuscola. Un entusiasmo determinato negli intenti ma vago nei contenuti.13
Al di là della questione specifica del design, vi è nella cultura contemporanea un’ossessione pervicace e continua verso un oggetto non ben definito, a cui appunto si dà il nome proprio di Natura, e che conduce a ideologie e a conseguenti atteggiamenti diversi, spesso anche contraddittori, in un discorso polifonico e ambiguo, il più delle volte difficile da decifrare. Dire Natura vuol dire pronunciare una “parola magica della contemporaneità, ricchissima, prima ancora che di significati concreti, di un alone al tempo stesso sacrale e sbarazzino, serioso e svagato, accigliato e trendy.”14 Ad ognuno spetta la propria idea specifica di Natura: c’è chi la configura come un insieme di ambienti incontaminati e di paesaggi verdeggianti, un mondo quasi perduto che si contrappone ad un habitat violentemente antropizzato. C’è invece chi la guarda come una macchina perfetta e complessa da indagare scientificamente per poterla comprendere e addomesticare. E poi c’è chi pensa alla natura in termini di genuinità, spontaneità, immediatezza, l’esatto opposto di quello che appare come artificiale, prodotto dall’uomo. “La natura allora diviene uno schermo facile e perentorio dietro cui si nascondono interessi diversi, incapacità varie, poteri da consolidare.”15 Ed è a questo insieme composito di idee e valori che poi la moda e il design di volta in volta si richiamano con intenti sempre rinegoziati e con esiti da valutare singolarmente. Non a caso l’antropologo Marino Niola inserisce il concetto di natura tra i “mitoidi” contemporanei. Quasi in prosecuzione al famoso libro di Roland Barthes, Miti d’oggi, Niola ha raccolto in unico volume le sue riflessioni sulle mitologie contemporanee, su quei comportamenti e usi sociali che, “più che miti sono Mitoidi, frammenti mitici a tempo determinato, stelle provvisorie che si staccano dal nucleo incandescente dell’immaginario.”16 Tra questi vi è la Natura che “il nostro immaginario ha parcellizzato […] in tante specializzazioni. Clima, pianeta, meteo, ambiente, atmosfera.”17 Un tema di cultura generale, dunque, quale la salvaguardia dell’ambiente che ovviamente richiede un approccio olistico e complesso, si è parcellizzato in una moltitudine di cause specifiche, trasformandosi in ambientalismo della più varia specie. Gruppi eterogenei, individui, organizzazioni sociali e politiche sono motivate da una diversità di idee; tuttavia, si riconoscono in un unico stile, fatto di specifiche cromie e materiali. Ed ecco che una questione sociale, politica, etica, scientifica si svuota di contenuti per declinarsi in termini puramente estetici. È dunque all’interno del più generale processo di “estetizzazione globalizzante”, di cui parla Gillo Dorfles18 che investe capillarmente la società odierna, che dobbiamo leggere il fenomeno dell’estetica green e di conseguenza provare a comprendere in esso il ruolo del design. Nella modernità, infatti, ci ricorda il filosofo Mario Perniola: “la dimensione estetica ha acquisito un rilievo di primissimo piano annettendo campi tradizionalmente occupati da altre forme culturali e focalizzando su di essa interessi precedentemente orientati verso l’etica e la politica.”19 Per questo motivo il discorso sulla natura parla la lingua del marketing a cui prevalentemente spetta il compito di tradurre in termini di comunicazione su larga scala l’idea di sostenibilità ambientale. Sempre Gianfranco Marrone ci ricorda infatti che:
non può non esserci un nesso molto stretto tra l’attuale pensiero sulla natura e il settore del marketing, ormai variegato e ricchissimo che s’usa definire biologico, naturale o, all’americana, organic. È come se ci fosse un continuo flusso di pensieri e di segni, qualcosa come una traduzione, fra la millenaria idea occidentale di natura, il pensiero ecologico dei nostri giorni e l’ampio settore del consumo.20
E allora la domanda diventa ovvia. È davvero sufficiente sostituire un rivestimento o un’imbottitura per ottenere un oggetto realmente sostenibile nel senso più complesso del termine? Basta l’uso dei colori naturali o di materiali come il legno e la pietra per ricostruire una relazione autentica tra uomo e natura? Evidentemente no, se, come chiarisce l’antropologo Andrea Staid: “risolvere la questione solo attraverso soluzioni tecnocratiche non va alla radice del problema. Serve un ripensamento globale del sistema legandolo alla storia coloniale come forma strutturata di distruzione degli ecosistemi.”21 Per questo è lecito sospettare che questa svolta green potrebbe essere essa stessa “una moda destinata, come tutte le mode a passar di moda.”22 E il design in tutto questo che ruolo può avere? Essere Orfeo e limitarsi a imitare la natura, essere Prometeo e studiarla tecnicamente e scientificamente, o in quanto produttore di artefatti, provare ad immaginare di essere altro?
La natura ambigua del Design
Il design nasce con una denominazione specifica. Quasi un nome e cognome. Sin dalle origini, se pur non chiaramente definite, il nome design è associato all’aggettivo “industriale”. Convenzionalmente si comincia a parlare di design solo a partire dalla prima rivoluzione industriale, iniziata nell’Inghilterra del XVIII secolo e poi diffusasi in tutto il mondo occidentale. La produzione su larga scala, con nuovi metodi di lavoro, rende necessaria la figura del progettista orientato alle logiche industriali. Nella primigenia essenza del design c’è dunque l’idea di una disciplina funzionale a progettare in maniera logica e razionale oggetti da produrre in serie nelle “magnifiche e progressive sorti” dell’industria. Vale a dire, dunque, che per industrial design si intende quel particolare disegno appositamente pensato per oggetti da produrre con metodi industrializzati e che al dato tecnico unisce uno studio estetico. E sarà proprio questa perenne coesistenza tra tecnica e arte, tra lavorazione artigianale e produzione industriale, tra artificiale e naturale allo stesso tempo, il motivo di ambiguità insito nel design. Ambiguità accresciuta nel tempo poi dalle logiche di mercato in cui il design si trova inevitabilmente ad essere coinvolto, poiché gli oggetti che esso produce sono fatti essenzialmente per essere venduti. Anzi, secondo il critico d’arte americano Hal Foster23 la fusione avvenuta tra la cultura generale e il marketing è principalmente responsabilità del design che appunto traduce le grandi questioni umane in uno stile da attribuire agli oggetti in modo da renderli quanto più desiderabili dal mercato. L’estetica green ovviamente fa parte della questione. Eppure, la relazione tra design e natura ha una lunga storia fatta di momenti topici, di fusioni e allontanamenti, ma sempre nell’orizzonte di una prospettiva critica e decisamente non banale. La storia del design è complessa, ricca di diramazioni e specificità proprie di ogni contesto nazionale e culturale, ma in questo articolato processo possiamo individuare determinati avvenimenti storici che ne segnano gli sviluppi e i progressi sostanziali. Uno di questi è sicuramente la Great Exhibition. Alla Prima Esposizione Universale, che nel 1851 richiamò a Londra sei milioni di visitatori, i circa 100.000 oggetti di espositori provenienti da tutto il mondo mostrarono le inevitabili incertezze di questa difficile integrazione tra arte, tradizione e industria.24 Comparvero oggetti d’uso comune decorati come se fossero opere d’arte e al contempo macchinari, oggetti mai visti prima, senza alcuna pretesa di ricerca formale, essenziali e funzionali. In entrambi i casi i critici contemporanei rimasero sconcertati da questi oggetti che, sia in un modo, sia nell’altro riaprivano antichi dilemmi, prima di tutto quello della contrapposizione tra naturale e artificiale e poi quello tra artistico e industriale.
È noto che l’entusiasmo del pubblico (oltre che degli imprenditori), non era condiviso da intellettuali artisti e in generale degli spiriti più avvertiti […] la qualità estetica dei prodotti realizzati industrialmente fu così ripugnante, da provocare un movimento polemico che cominciò ad affrontare la questione del rapporto tra produzione industriale, cultura e società; problematiche ancora oggi alla base del moderno industrial design.25
L’ esposizione di Londra in realtà fu l’esito di un lungo dibattito politico ed economico sviluppatosi all’interno della Camera dei Comuni inglese in cui ci si chiedeva perché i prodotti della Gran Bretagna, il paese più all’avanguardia dal punto di vista tecnico e industriale, avessero meno successo rispetto a quelli di altri paesi. Una Commissione d’Inchiesta appositamente istituita rispose al quesito sostenendo che il problema era proprio nel design degli oggetti e sollecitando l’istituzione di scuole di formazione funzionali allo scopo. Sono gli anni del cosiddetto “empirismo inglese” e di figure quali il filosofo ed economista John Stuart Mill, il quale sosteneva che la natura doveva essere conosciuta attraverso l’esperienza diretta, con il fine ultimo di identificare quegli aspetti che in essa si ripetevano con regolarità. In questo contesto culturale e filosofico, dunque, paradossalmente, fu proprio la natura il punto di partenza, la prima materia di studio per elaborare una nuova estetica che superasse il gusto storicistico dominante e qualificasse i nuovi prodotti di matrice industriale. Henry Cole, fondatore de The Journal of Design and Manufactures e Owen Jones, architetto e teorico del colore e della decorazione, derivarono i loro principi di lavoro proprio dall’approccio empirista. Owen Jones è autore di un libro intitolato The Grammar of Ornament26 in cui si analizzano le decorazioni proprie dei diversi paesi in tutte le epoche. L’ultimo capitolo Leaves and Flower, però, è dedicato alla natura “ma non alla contemplazione, bensì all’analisi dei suoi processi di sviluppo.”27 È come se l’andamento naturale di foglie e fiori comportasse degli elementi comuni e costanti da cui ricavare dei pattern da porre a fondamento di una nuova estetica. Una delle tavole, disegnata da Christopher Dresser, riproduce un fiore graficamente sezionato per mostrarne la costruzione geometrica interna. Il disegno bidimensionale, con l’uso di colori pieni, distingue le singole componenti rendendole modulari. La natura quindi, stilizzata attraverso uno sguardo analitico, diviene il punto di riferimento per un nuovo tipo di disegno e di stile che lo stesso Dresser, ad esempio, riproporrà poi in numerose carte da parati, tappeti e tessuti. Dallo studio della natura, dunque, si desume il gusto razionale basato sulla geometria e sul colore che sarà poi la base di movimenti come il De Stijl e il successivo Bauhaus. Negli stessi anni, la Commissione Parlamentare d’Inchiesta incarica Henry Cole di riorganizzare e riordinare le Government School di design. Cole lo farà attraverso il principio di “coniugare scienza e arte” e nella sua riforma didattica prevederà l’introduzione dell’Art Botany, ossia la botanica artistica insegnata prima dallo stesso Jones e successivamente da Dresser. L’approccio tecnico e geometrico, tuttavia, non è l’unico che si richiama alla natura. La rivoluzione industriale introdusse drammatici cambiamenti sociali e snaturò il tradizionale mondo del lavoro, confinando l’artigianato in un contesto marginale. Per questo a fine Ottocento nacquero le Arts and Crafts. Come scrive Domitilla Dardi: “si tratta di un filone critico-progettuale pienamente appartenente alla cultura romantica, che si pone in opposizione alla società industriale accusata di anteporre le macchine agli uomini e il profitto all’etica.”28 Il suo animatore principale, William Morris era un poeta, scrittore, decoratore, designer e attivista politico profondamente influenzato dai principi marxisti. Morris aborriva la produzione industriale a cui contrapponeva invece il lavoro manuale e artigianale come unico realmente capace “di trasformare ogni oggetto in arte e ogni lavoratore in artista.”29 Morris fonda anche un’azienda che realizza un catalogo di oggetti e arredi, alcuni dei quali destinati ad un duraturo successo come le carte da parati floreali. Anche in questo caso la natura è fonte di ispirazione stilistica, ma in questo caso l’approccio è quello dell’imitazione descrittiva. La natura è fonte di osservazione e meraviglia nelle sue linee sinuose, nei suoi colori opulenti e vari. La percezione non è analitica, ma immersiva e romantica. Proprio questo sguardo verso la natura e le sue forme segna la rivoluzione estetica di fine Ottocento definita con nomi diversi a seconda dei contesti: stile Liberty in Francia o stile Floreale in Italia, modern style in Inghilterra o Jugendstil in Germania. I nuovi oggetti assimilabili a questo gusto hanno “semplici figure che sembrano prendere vita ed evolversi naturalmente in forme simili a piante o fiori.”30 La natura diventa fonte inesauribile di ispirazione e i suoi elementi sono resi attraverso linee dinamiche e ondulate come il celebre tratto a frusta. Forme organiche, linee curve e ornamenti di tipo vegetale e floreale diventano i tratti distintivi. Gli artisti dell’Art Nouveau stilizzano gli elementi formali della natura aggiungendo però piccoli elementi decorativi come alghe, fili d’erba, minuscoli insetti. Gli esiti sono vari così come i campi d’applicazione: architettura, design d’interni, gioielleria, design di mobili e tessuti, utensili, oggettistica e illuminazione. Come sottolinea Andrea Branzi, però, la particolarità di questo nuovo movimento estetico fu la sostanziale predisposizione all’uso dei macchinari nonostante i risultati propriamente artistici dei prodotti. Gli artisti liberty, diversamente dagli adepti alle Arts and Craft, riuscirono ad usare e ad integrare l’industrializzazione nella creazione di vere e proprie opere d’arte applicata. Sono loro, dunque, i primi a unire, con esiti straordinari, due mondi: quello dell’arte e della natura a quello dell’artificio e dell’industria. Ma forse sono anche gli ultimi. La scuola di design Bauhaus, fondata nel 1919 in Germania, rivoluziona il modo di concepire il design, introducendo una visione e uno stile moderno e funzionale. Il Bauhaus, a suo modo, cerca un legame con la natura, sperimentando forme organiche e materiali naturali, ma l’estetica che ne deriva, essenzialmente minimalista, apre la strada a quella che sarà definita dal teorico dell’avanguardia artistica De Stijl, Theo van Doesburg, l’estetica meccanica, “resa possibile dall’impiego della macchina” e che “propone uno stile elementare con mezzi elementari.”31 Ne è emblema la famosa sedia Rosso-Blu di Gerrit Rietveld, prodotta nel 1923 e inclusa in una mostra del Bauhaus di Weimar quello stesso anno.32 La seduta è da molti considerata una vera e propria trasposizione nel design dei principi pittorici dell’astrattismo di Mondrian, pittore aderente al De Stijl, secondo cui: “c’è bisogno del colore anche per togliere alla natura il suo aspetto naturale: il colore primario puro, piano, ben determinato.”33 Le linee, i colori, la luce, materiali innovativi come il tubolare d’acciaio, le forme sempre più minimali e razionali e la meccanica, da allora in poi sembrano allontanare il design dall’immaginario della natura, a favore invece di un’estetica sempre più tecnica e artificiale. Spetterà alla successiva scuola di Ulm, nata nel 1946 con l’intento almeno iniziale di riprendere il progetto del Bauhaus chiuso da Hitler nel 1933, “definire stabilmente l’immagine dell’oggetto industriale: volume grigioperla, finitura matt, piedini regolabili, riduzione semantica delle forme e dei comandi.”34 I teorici di Ulm, tra cui Max Bill e Thomas Maldonado, s’interrogano prevalentemente sui temi dei mercati di massa e della produzione in serie, sullo sviluppo di una società civile industrialmente evoluta. Spostano perciò la loro attenzione dall’ambito architettonico a quello degli oggetti industriali, degli strumenti di lavoro, dei mezzi di trasporto e di comunicazione a cui attribuiscono un “codice formale di grande purezza e correttezza ergonomica […] valorizzandone il valore strumentale all’interno di una rassicurante e astratta perfezione concettuale.”35 Tra i più famosi oggetti progettati ad Ulm, Adrea Branzi ricorda il Rasoio Elettrico Sintax 31, progettato nel 1962 per Braun da Hans Gugelot e Gerd Alfred Muller:
Il modello Braun Sintax ha fatto del rasoio una sorta di opera d’arte: quasi scolpito nell’acciaio inox, ha un aspetto vagamente ‘chirurgico’. Quest’oggetto ha ispirato un’importantissima nuova operazione di marketing pubblicitario. I movimenti e i dettagli venivano paragonati a quelli di una Porsche nera, modello 911. Lo stile ‘negato’ del designer divenne una sorta di modalità di riferimento per la scelta e l’uso dei prodotti destinati a un’ampia fascia di pubblico. Un pubblico che, a poco a poco e paradossalmente, cominciò a valutare gli oggetti più per l’immagine di forza a cui venivano abbinati che per le loro reali caratteristiche.36
L’ estetica che s’impone è di natura tecnologica, mentre il design è sempre più un linguaggio, un linguaggio “mitico”, come Roland Barthes insegna, funzionale a inscrivere negli oggetti significati e simboli e a interpretare così le leggi del mercato, della concorrenza e le richieste di una società altamente complessa e contraddittoria. Della natura in questo processo perciò resta ben poco. L’artificiale supera di molto il naturale con tutte le derive del caso. Eppure, esattamente un anno dopo, nel 1963, Bruno Munari, “padre di tutti gli autori transdisciplinari moderni, il grande maestro del Novecento italiano,”37 scrive un libro di poche pagine e di piccolo formato con un’arancia sulla copertina. In Good design38 Munari, attraverso disegni in bianco e nero, rilegge alcuni elementi della natura, tra cui appunto un’arancia, come dei veri e propri prodotti di design estremamente riusciti. Il suo intento è dimostrare che il design non è un problema di stili e mode, quanto piuttosto una questione di rigore metodologico a cui la natura ha molto da insegnare. A livello teorico la stessa questione della relazione natura-design è ripresa più o meno negli stessi anni da Tomas Maldonado nell’ormai famoso saggio, La speranza progettuale,39 in cui immagina un design estraneo alle logiche della società dei consumi, un progetto industriale che sia prima di tutto uno strumento etico, capace di reintrodurre funzionalità, razionalità e un’estetica svincolata dalle regole del marketing: di nuovo, dunque, dall’artificiale al naturale. Di certo, però, ad oggi, la direzione verso cui andare non è data una volta per tutte e il design resta sempre un’operazione umana in perenne oscillazione tra origini e futuro, tra natura e tecnologia, nonostante non manchino tentativi di originale fusione tra due ambiti da sempre visti come opposti tra loro. L’operazione più interessante da questo punto di vista è quello di Ross Lovegrove, la cui filosofia progettuale è raccolta nella monografia autobiografica Supernatural.40 Il lavoro del designer britannico include prodotti diversi che vanno da oggetti minimalisti a dispositivi ipertecnologici, ma sempre il suo intento è quello di creare “forme organiche” attraverso moderne tecnologie e materiali innovativi. È questo quello che lui stesso definisce organic essentialism, un design che si ispira a forme provenienti dal mondo naturale per tradurle in strutture futuristiche. Il “supernaturalismo” di cui Lovegrove parla prevede appunto complesse ricerche sui materiali e le loro applicazioni, sui metodi di produzione, ma anche lo studio di forme archetipiche da ripensare attraverso l’uso della tecnologia. Ne nascono così oggetti ispirati alla logica e alla bellezza della natura a cui si aggiunge la scienza dei materiali e la tecnologia più avanzata.
In senso generale il temine ‘organico’ può significare ‘naturale’. Secondo me c’è una bellezza assoluta nelle forme organiche che trasmettono stimoli profondi al subconscio dell’uomo. Resto colpito dalla nitidezza e dalla ricchezza di queste forme, che celebrano l’effetto tridimensionale del vivere in armonia con lo spazio. La mia opera è una risposta alla possibilità di creare linee estremamente raffinate tramite l’osservazione della natura, l’intuizione e l’aiuto della moderna tecnologia dei materiali, nell’intento di solidificare idee e forme che un tempo erano fluide.41
Ed ecco allora che il soffitto più asettico può trasformarsi nel greto di un fiume avveniristico grazie alla lampada Mercury di Ross Lovegrove prodotta da Artemide. Una sospensione a led composta da una serie di grandi ciottoli fluttuanti, in alluminio pressofuso, che scendono tramite sottili fili di nylon da un disco di alluminio semplice e moderno. La luce, nascosta nelle sfere metalliche grazie ad una complessa tecnologia, sembra quasi rimbalzare tra le lisce e specchiate superfici biomorfiche. Durante il giorno l’oggetto è una scultura che riflette la luce naturale e il movimento delle persone attorno a sé, mentre di notte la luce artificiale crea un effetto suggestivo e magico. Molto diverso da quello creato dal fascino naturale della luna, ma di certo dotato dal mistero nuovo della “supernatura”.
Il design come seconda Natura
Ma tra arte e tecnica, tra imitazione e scienza, però, c’è una terza tendenza che caratterizza in particolare il moderno interesse del design per la natura e cioè quello di riprodurla artificialmente. L’obiettivo del design, da sempre, è stato quello di creare “artefatti” ossia oggetti progettati strategicamente al fine di rispondere ad esigenze che la natura impone all’essere umano. Scrive Alberto Bassi: “la parola artefatto significa ‘fatto con arte, fatto ad arte’ dove arte significa ‘attività umana regolata da accorgimenti tecnici e fondata sullo studio e sull’esperienza’.”42 Negli ultimi anni, tuttavia, il design sembra essersi dato un compito diverso e sempre più si sforza di creare una “seconda natura” attraverso oggetti che fondono in maniera del tutto nuova naturalità e artificialità. Un caso emblematico in questo senso è il lichene naturale stabilizzato, brevettato dall’azienda Verdeprofilo e poi riprodotto da molte altre realtà industriali, che può interamente ricoprire le pareti di casa, proprio perché non necessita né di acqua, né di luce, né di alcuna manutenzione. Teme l’acqua e se bagnato si rovina, va semplicemente spolverato come un qualsiasi altro oggetto ed è ignifugo a dispetto di tanti arbusti da sempre utilizzati per accendere il fuoco. È l’esatto contrario di una pianta pur essendo a tutti gli effetti una pianta che vive rigorosamente dentro e non fuori casa: un artificio più naturale della natura stessa. Oggetti come questi sono molto più che delle semplici provocazioni estetiche e impongono necessariamente una nuova riflessione critica sulla contemporanea relazione tra naturale e artificiale, tra etica ed estetica green e soprattutto sul senso culturale e sociale che l’idea di natura oggi può avere. Come scrive il filosofo Emanuele Coccia in Filosofia della casa:
La combinazione di attività umane ha trasformato la superficie geologica tanto da renderla incompatibile con il passato. Siamo su un pianeta diverso da quello che i nostri antenati hanno conosciuto, descritto, dipinto, fotografato. È come se tutti noi — persone, piante, animali, funghi, batteri, archeologia — fossimo atterrati su un altro pianeta. Nessuno lo ha visto prima di noi. Nessuno ha visto le sue forme. Nessuno ha misurato la sua forza. Siamo pionieri: nuove Eve e nuovi Adami, costretti a esplorare il mondo, a dare i nomi alle cose.43
E come esempio estremo di questa nuova relazione tra uomini e natura, il filosofo propone il caso delle due torri del Bosco Verticale, inaugurate a Milano nel 2015, progettate da Stefano Boeri a partire dalle teorie di Friedensreich Hundertwasser ed Emilio Ambasz. Diventate presto un’icona globale, queste originalissime costruzioni ribaltano il concetto stesso di città intesa come “forma di monocultura umana” come “progetto di desertificazione”44 che spinge la natura ai suoi margini. Coccia trascorre un breve periodo all’interno di uno degli appartamenti dei due avveniristici grattacieli e racconta:
In quell’appartamento l’opposizione che ha caratterizzato la cultura architettonica e urbanistica moderna diventa impensabile. Gli alberi non erano più fuori città: erano dentro casa. O meglio, sembravano la casa stessa. […] Trasformare la foresta in fatto domestico significava anche modificare l’esperienza della casa da un altro punto di vista. A causa della presenza massiccia di alberi, il balcone era popolato da una fauna d’insetti e uccelli che non avevo mai visto prima a Milano. Era come se l’apertura della casa a specie diverse dalla nostra avesse fatto esplodere l’idea stessa di spazio abitativo o di ecosistema.45
Il design del Bosco Verticale non si limita a fare della natura un elemento decorativo, non ragiona sulla natura in termini tecnici e biochimici, ne fa semplicemente parte in modo nuovo e contemporaneo. Non come Orfeo, non come Prometeo, ma come un nuovo Adamo. Ed ecco allora che l’estetica non è più linguaggio formale, ma rappresentazione di un “inconscio politico”,46 di un nuovo possibile modo di “essere natura”. Perché, come ci ricorda l’antropologo Tim Ingold,47 gli esseri umani costruiscono il mondo in un certo modo in virtù delle proprie concezioni, delle possibilità che immaginano. Vale a dire che gli uomini costruiscono culturalmente e socialmente il proprio contesto. Il problema ecologico e del design che ne consegue va dunque letto in una prospettiva più ampia a partire dalla relazione stessa che l’uomo oggi è in grado di immaginare con la natura. Rivestire le nostre case di carte da parati floreali, tornare ad oggetti dalle forme fitomorfe, scegliere materiali più rispettosi dell’ambiente può essere non solo una moda, un’adesione all’ultima e più riuscita trovata di marketing, ma un modo per sentirsi nuovamente parte di un habitat di cui l’uomo non è dominatore, ma parte integrante in un legame complesso fatto di animali, fiori, terra e piante. E certo, è difficile crederlo quando, distesi, si contempla la vacuità del soffitto della propria stanza. Ma ogni soffitto, appunto, può diventare un giardino. Forse, però, la soluzione più credibile è lo Sky Planter di Patrick Morris, un vaso speciale appeso al soffitto che permette alle piante di crescere a testa in giù. Per vivere con la testa non solo tra le nuvole, ma anche tra foglie e radici.
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Le parole di Marcel Wanders sono riportate sul sito ufficiale di Flos https://professional.flos.com/it/global/stories/skygarden-is-hidden-in-a-minimalist-shape/.↩︎
Il Salone Internazionale del Mobile è la più importante fiera e punto d’incontro, a livello mondiale, per gli operatori del settore casa-arredamento. La sua prima edizione risale al 1961 a Milano. La 62ª edizione si è tenuta nel capoluogo lombardo dal 16 al 21 aprile 2024 con la partecipazione di oltre 1950 espositori provenienti da 35 paesi. La manifestazione ha registrato un’affluenza di circa 370.824 presenze complessive.↩︎
Il Green Good Design Awards è stato istituito nel 2008 come edizione Green del Good Design Award, premio istituito invece a Chicago nel 1950 da un’idea di Edgar Kaufmann Jr, curatore e fondatore del Museum of Modern Art di Chicago, in collaborazione con gli architetti e designer Ray Eames, Russel Wright, George Nelson ed Eero Saariner. ↩︎
La poltrona Sacco è stata disegnata nel 1968 per Zanotta da Piero Gatti, Cesare Paolini e Franco Teodoro ed è entrata in produzione l’anno seguente. La sua versione ecosostenibile è una versione celebrativa prodotta per i cinquant’anni della famosissima seduta.↩︎
Roland Barthes, Mythologies (Paris: Éditions Du Seuil, 1957).↩︎
Aldo Colonetti (a cura di), Design italiano del XX secolo (Firenze: Giunti, 2008), 13.↩︎
Il concetto di agency degli oggetti è stato introdotto negli anni Ottanta dal sociologo Anthony Giddens come parte della sua teoria della strutturazione. In questo contesto, Giddens considera gli oggetti come elementi capaci di influenzare le pratiche sociali, ponendo l’accento sulla relazione dinamica tra struttura e azione (The Constitution of Society, 1984). A questa prospettiva si sono aggiunti studiosi come Raymond Williams, che ha esplorato l’interazione tra cultura materiale e potere sociale, e Arjun Appadurai, il quale nel suo testo The Social Life of Things (1986) ha proposto di considerare gli oggetti come attori sociali, capaci di assumere significati mutevoli nel tempo e nello spazio. Infine, l’antropologo Alfred Gell ha sviluppato una teoria specifica sull’agency degli oggetti nel campo dell’arte con Art and Agency (1998), descrivendo come gli oggetti possano agire come “agenti secondari”, influenzando profondamente le relazioni sociali e simboliche.↩︎
Marrone, Addio alla Natura, 62.↩︎
Marrone, 61.↩︎
Marrone, 22.↩︎
Marrone, 4.↩︎
Marrone, 4.↩︎
Marrone, 5.↩︎
Marino Niola, Miti d’oggi (Milano: Bompiani, 2012), 11 e 13.↩︎
Niola, 95.↩︎
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Branzi, Capire il design, 163.↩︎
Branzi, 160.↩︎
Branzi, 161.↩︎
Beppe Finessi, Progetto cibo. La forma del gusto (Milano: Electa, 2013), 12.↩︎
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Tomas Maldonado, La speranza progettuale (Torino: Einaudi, 1970).↩︎
Ross Lovegrove, Supernatural (London: Phaidon, 2007).↩︎
Intervista a Ross Lovegrove di Rosario Spagnolello su “Elle Decor.com” del 18/02/2021. L’intervista integrale è consultabile all’indirizzo: https://www.elledecor.com/it/design/a35546676/sedia-supernatural-moroso/.↩︎
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Coccia, 104.↩︎
Coccia, 105–106.↩︎
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