Premessa
Maglieria tra Industria 4.0 e 5.0
Il lavoro a maglia è una tecnica antica che si è sviluppata e diffusa
contemporaneamente in diverse aree del mondo insieme alle prime tecniche
di tessitura che hanno accompagnato lo sviluppo della cultura umana.1 Quando si parla di maglieria, è però
fondamentale operare una netta distinzione tra tale tecnica, che è
rimasta fondamentalmente invariata fino ad oggi, e il settore
industriale della maglieria, che ha invece una storia più recente ed è
uno dei punti di forza del Made in Italy, dove distretti industriali
specializzati come il carpigiano rappresentano un’eccellenza a livello
mondiale sin dalla nascita di tale modello. Questo settore industriale,
ben diverso da una diffusa concezione della maglieria come hobbistica,
sta attraversando una forte crescita economica2 ed
ha vissuto negli ultimi decenni una forte fase di sviluppo tecnologico,
conseguente alla cresciuta capacità di automatizzare i processi e le
tecniche che già esistevano nella maglieria manuale. A livello
industriale, la maglieria rimane fortemente legata alla tradizione e al
trasferimento di tecniche e processi tecnologici precisi, ma nel
panorama contemporaneo l’innovazione in questo campo è trainata
principalmente dai grandi produttori di macchine da maglieria,3 tra cui Santoni, Shima Seiki, Stoll
e Karl Mayer. Tali aziende si sono affermate grazie alla capacità di
sviluppare una grande quantità di tecnologie e, investendo nella
ricerca, sono arrivate ad essere estremamente competitive sul mercato
sia dal punto di vista economico che delle risorse umane coinvolte. Una
chiave di lettura per comprendere lo stato dell’arte della maglieria a
livello industriale è inserirla nel panorama dell’Industria 4.0,
caratterizzata da una convergenza di innovazioni diverse ma
complementari4 e che in questo settore provengono
da ambiti come la meccanica, l’elettronica e il digitale. Tale
convergenza ha consentito una crescente automatizzazione dei processi
produttivi e il proliferare di innovazioni di diverso tipo, ancora oggi
in continua evoluzione e che possiamo riassumere in due traiettorie
principali.
La prima è quella che riguarda le nuove tecnologie di lavorazione e le
possibilità tecniche introdotte dallo sviluppo di nuovi macchinari, così
come dall’integrazione di nuovi sistemi meccanici in essi e dallo
sviluppo dei software per la loro programmazione. Se, infatti, la
tecnica del lavoro a maglia rimane sostanzialmente invariata e si basa
sul principio di lavorare una boccola a diritto o a rovescio, la ricerca
ha portato ad innovazioni che la spingono al di fuori delle sue
applicazioni più canoniche, che invece la vedono ancora concepita come
una tecnica per generare capi pesanti e invernali. Macchine con finezze
sempre maggiori consentono infatti di lavorare filati sempre più sottili
e ottenere maglie estremamente leggere per le applicazioni più
disparate. Macchine con apposite implementazioni meccaniche consentono
poi di ibridare la maglia con altre tecniche, come la tessitura a trama
e ordito per ottenere tramature e imbottiture su maglia. Oppure ancora,
sfruttando la logica del tubolare, si può ottenere maglieria 3D, oggi
vista come il corrispettivo tessile dell’additive
manufacturing, e quindi capi completi e senza cuciture, sagomati
direttamente in macchina in un solo processo e riducendo al minimo lo
spreco di filato.
La seconda traiettoria riguarda invece l’integrazione e
l’implementazione delle innovazioni provenienti dal digitale, che
consentono oggi di simulare virtualmente capi e accessori in maglia
attraverso dei gemelli digitali.5 Questa tecnologia,
utilizzata inizialmente in altri tipi di industria, ha iniziato a
prendere piede anche all’interno della moda grazie alla creazione di
software specifici per virtualizzare i suoi prodotti. Secondo il Boston
Consulting Group, la trasformazione digitale può ridurre i tempi della
catena creativo-produttiva del 40%.6 In particolare, la
simulazione 3D dei prodotti tessili può abbreviare il tempo del ciclo di
progettazione e prototipazione semplificando notevolmente il processo,
che solitamente si basa invece su campioni fisici. I software
disponibili per la modellazione digitale dei capi d’abbigliamento sono
però spesso progettati pensando ai tessuti, trascurando le sfide uniche
presentate dalle peculiarità della maglieria. La tridimensionalità e le
texture della maglia, nonché l’elasticità e le proprietà fisiche che
variano a seconda del punto impiegato, richiedono un approccio più
sofisticato, che la maggior parte degli strumenti attuali non consente.
A questa lacuna conseguono risultati spesso insoddisfacenti quando si
tenta di virtualizzare capi in maglia attraverso i software 3D più
popolari e diffusi.7 Sul mercato esistono in realtà
software altamente specializzati, ma questi sono ancora poco
accessibili, soprattutto in quanto sviluppati dai produttori di macchine
da maglieria con il fine principale di rispondere ad esigenze
produttive. Ne è un chiaro esempio il programma Design all’interno del
pacchetto Apex di Shima Seiki,8 il quale opera
principalmente in relazione con altri programmi dello stesso pacchetto
e, basandosi sulla programmazione dei punti per le macchine da maglieria
dell’azienda, viene acquistato principalmente con esse. Questo modus
operandi è riscontrabile nel lavoro di gran parte dei produttori, poiché
essi tendono a rispondere principalmente all’obiettivo, perfettamente
coincidente con quelli dell’Industria 4.0, di ottimizzare la produzione
puntando a una sempre maggiore automazione dei processi, che riduce le
fasi di campionatura fisica e il consumo di tempo e materiale tramite
una produzione altamente interconnessa e digitalizzata. Tuttavia, la
limitazione maggiore che ne consegue riguarda soprattutto le altre
figure professionali del settore, in particolar modo i designer di
maglieria che non operano strettamente all’interno dei maglifici, e la
loro difficoltà nell’accedere a queste nuove tecnologie e integrarle
nelle loro pratiche progettuali, nonché nell’immaginarne nuovi utilizzi.
L’acquisto di macchine da maglieria avanzate e dei software relativi
comporta infatti anche costi molto elevati, non paragonabili ai software
3D più comunemente impiegati. Ne consegue anche un forte divario tra
piccole e grandi aziende, dove le prime possono faticare a vedere i
possibili benefici della loro integrazione nei processi progettuali e
produttivi e tantopiù nell’esplorazione di altri possibili
utilizzi.
I concetti della più recente industria 5.0 propongono però un approccio
più umano-centrico, alla cui base vi è un’idea di completa simbiosi tra
uomo e macchina,9 dove le nuove tecnologie possono
essere sì utilizzate per ottimizzare la produzione di beni, ma non sono
ad essa circoscritte. In questo contesto, la dimensione virtuale può
essere indagata anche per superare le limitazioni poste dalla
materialità dei prodotti dell’industria della moda in un’ottica, ad
esempio, di condivisione, potenziamento e democratizzazione della
conoscenza.10 La maglieria si può dunque
collocare in una fase di transizione tra Industria 4.0 e 5.0, due
concetti che non sono però fasi storiche perfettamente distinguibili e
consequenziali l’una all’altra. Se in quanto alle innovazioni che
rientrano nella prima traiettoria descritta e maggiormente riconducibili
alla quarta rivoluzione industriale la maglieria ha dimostrato di essere
un settore all’avanguardia, le tecnologie di rappresentazione digitale e
il 3D sono invece per la maggior parte un terreno alquanto inesplorato
in questo campo, seppur fertile e con un grande potenziale per future
sperimentazioni.
Società 5.0: l’archivio come strumento per il design
Nella prospettiva della transizione verso l’Industria 5.0, un aspetto fondamentale è la concezione per cui l’innovazione non debba essere fine a sé stessa e al solo incremento della produttività economica, ma debba avere l’obiettivo di migliorare la vita dell’uomo,11 rifiutando una concezione di progresso di stampo tecnocratico. La combinazione di tecnologie avanzate si concentra sull’essere umano, piuttosto che sull’automatizzazione dei processi,12 poiché l’innovazione implica sì questioni di carattere economico e produttivo, ma anche di carattere sociale. La transizione tecnologica impatta fortemente sulle risorse umane della filiera. Da un lato mette in discussione la necessità di manodopera specializzata per lavorazioni finora fortemente artigianali, dall’altro si pone come soluzione al difficile cambio generazionale di tali ruoli. Inoltre, la necessità di figure specializzate nell’utilizzo delle tecnologie richiede grande sforzo nella ridefinizione e nell’aggiornamento delle competenze già presenti, insieme all’impegno nella formazione delle nuove figure per il loro inserimento in tutti i punti della filiera. Per operare una transizione verso il paradigma 5.0, è necessario un approccio multidisciplinare e collettivo in cui il design funga da guida per le innovazioni tecnologiche, affinché rispondano alle esigenze della società. La prospettiva umano-centrica della quinta rivoluzione industriale mira a utilizzare l’innovazione per ridurre le disuguaglianze, da quelle sociali a quelle tecniche e pratiche, e facilitare il flusso libero della conoscenza.13 Se il focus è la ricerca dell’armonia tra uomo e macchina, si può parlare dunque di una vera società 5.0. In questo panorama, la figura del designer è di fondamentale importanza, in quanto può proporsi come guida di questa transizione non assumendo un ruolo meramente descrittivo e di fruitore passivo delle innovazioni tecnologiche, ma indirizzandole attraverso il sapere e le pratiche progettuali,14 siano essi appresi con l’esperienza o ereditati dalla storia. Una consapevolezza profonda delle dinamiche industriali del passato e la capacità di metterle a confronto con le potenzialità fornite dalle innovazioni contemporanee è cruciale, oggi più che mai, anche in un’ottica di evoluzione verso un futuro dell’industria più sostenibile. Nel contesto più specifico del design della moda e della sua progettualità, inoltre, l’idea di futuro è intrinsecamente connessa alla rielaborazione del passato e alla reiterazione dei saperi legati ai processi tecnologici. Il designer di moda assume un ruolo di vero e proprio mediatore culturale,15 che nel progettare il nuovo non può che, anche inconsapevolmente, confrontarsi con gli archetipi del passato. Questo aspetto è ancora più centrale in un settore come quello della maglieria, fortemente legato alla tradizione, alla trasmissione delle tecniche da essa derivate e alla loro continua ricontestualizzazione. La cultura aziendale che ha caratterizzato il modello industriale della moda Made in Italy è stata poi particolarmente virtuosa nel porre grande attenzione al tema dell’heritage e nell’utilizzarlo per costruire la propria identità, consapevole anche del suo ritorno economico e di immagine.16 Ciò è testimoniato dalla grande quantità di archivi aziendali presenti nel nostro territorio, che documentano le pratiche di specifici autori, marchi o settori industriali in quanto generatori di cultura e innovazione tecnologica in relazione a specifici momenti storici. La consapevolezza delle case di moda del valore della materialità del patrimonio culturale da esse generato17 e dell’insieme di saperi e competenze legati ad esso è cresciuta fortemente a partire dall’inizio del nuovo millennio. Lo stesso sistema produttivo ha potuto comprendere attraverso gli archivi la valenza culturale della propria produzione.18 Proprio per via dell’interconnessione tra passato e futuro che, nella moda, si attua nel presente attraverso il design, gli archivi aziendali che popolano questa industria non hanno però soltanto un valore testimoniale, ma si prestano anche ad essere risorse attive da integrare nei processi progettuali.19 Se essere contemporanei significa “tornare ad un presente in cui non siamo mai stati”,20 per il progettista che ha il compito di indirizzare l’innovazione, l’archivio è uno strumento che si ri-conferma fondamentale e strategico. Esso può essere concepito come spazio dove esplorare le nuove traiettorie di innovazione tecnologica e come strumento per indirizzarle attraverso una prospettiva socio-culturale precisa, che si basa sull’idea che “la parte di non-vissuto in ogni vissuto […] è la vita del contemporaneo”21 e che l’heritage possa dunque essere un punto di partenza per generare innovazione. L’atto stesso di archiviare possiede una vaghezza intrinseca per la quale, quando si lavora su un archivio, è più facile definire “dove comincia il fuori”,22 piuttosto che stabilire confini precisi su cosa debba entrare a farne parte e cosa debba avvenire al suo interno. In questo senso, l’archivio può assumere molte forme ed è inevitabilmente uno strumento aperto a molteplici interpretazioni dello stesso e del suo contenuto. È inoltre peculiarità dell’archivio evolvere il proprio registro di trasmissione nel tempo, riflettendo i cambiamenti nella trasmissione e conservazione della conoscenza dovuti al susseguirsi delle diverse interfacce culturali che hanno caratterizzato le rivoluzioni industriali.23 Per questo motivo, nella cultura contemporanea dei software e dei database, l’archivio si presta non solo a reinterpretazioni di quanto conservato al suo interno per generare innovazione, ma anche alla possibilità di sperimentare nuove maniere di fruizione dello stesso e dunque nuovi approcci alla trasmissione del sapere. In questa prospettiva, esso non è più visto come un mero contenitore di conoscenza, ma anche e soprattutto come uno strumento che dà al design la possibilità di svolgere quel suo ruolo di mediatore culturale di cui sopra, guidando l’innovazione tecnologica attraverso una rilettura del passato per indirizzarla verso una vera e propria società 5.0.
Obiettivi e metodo
Collocare la maglieria all’interno della transizione dal paradigma di industria 4.0 a quello di industria 5.0 aiuta a comprendere lo stato dell’arte di questo settore proprio perché questi paradigmi vanno intesi non tanto come una trasposizione puntuale di ciò che il settore sta vivendo ma più che altro come una lente attraverso cui interpretare il presente ed individuare le criticità che lo caratterizzano. Il forte legame con la tradizione che ancora caratterizza il settore industriale della maglieria lo rende un campo particolarmente adatto per riflettere sul ruolo del design all’interno di questa transizione e sulle potenzialità presentate dalla possibilità di attingere al passato, rappresentato dall’archivio, come punto di partenza per fare innovazione. Sulla base di tali premesse e di fronte alla necessità individuata di indirizzare l’innovazione tecnologica attraverso una prospettiva socioculturale precisa, si vuole recuperare proprio questa idea di attingere al passato come risorsa per indirizzare il futuro, rifiutando una concezione tecnocratica del progresso. Questo contributo restituisce dunque un lavoro svolto all’interno del Centro di Ricerca Gianfranco Ferré del Politecnico di Milano, il quale è stato terreno di riflessione sul ruolo dell’archivio come strumento progettuale per esplorare le nuove tecnologie che caratterizzano il settore della maglieria. Questa realtà è nata nel 2021 a seguito della donazione da parte della famiglia di Ferré della Fondazione Gianfranco Ferré al Politecnico di Milano, ateneo dove il designer stesso si laureò in architettura. Il suo obiettivo è quello di recuperare il valore dell’approccio progettuale e della cultura tecnico-scientifica del designer per fare ricerca. In quest’ottica, il progetto esplora la concezione dell’archivio applicato,24 secondo la quale esso diviene risorsa attiva per codificare le radici culturali di un determinato heritage e tradurre i valori intangibili alla sua base in nuovi prodotti e processi, dando luogo a possibili sperimentazioni di linguaggio e alla generazione di nuovi significati. Il Centro di Ricerca è infatti un luogo particolarmente adatto per operare all’interno delle riflessioni precedenti, sia per l’alto livello di innovazione e sperimentazione che ha caratterizzato il lavoro di Gianfranco Ferré, sia per l’inquadramento che esso ha assunto all’interno del Politecnico di Milano come luogo di ricerca e anticipazione del futuro a partire dal passato. Sulla base delle due traiettorie di innovazione tecnologica precedentemente individuate, sono state sviluppate due strade complementari, indagate su due capi selezionati all’interno dell’archivio del Centro di Ricerca. Entrambe sono partite da un processo di reverse engineering, definito come “il processo di analisi di un sistema soggetto per identificare le componenti […] e le loro interrelazioni e per creare rappresentazioni del sistema in un’altra forma o a livello più elevato di astrazione”.25 Il Reverse Engineering (RE) è una metodologia che fu originariamente sviluppata nell’industria e che è stata adattata alla moda per lo studio e la rielaborazione di manufatti d’archivio.26 In tale contesto, il sistema soggetto non è altro che l’abito, inteso come insieme di tutte le sue componenti materiali e immateriali, dal tessuto alle tecniche impiegate per realizzarlo. Scomporlo in tutte le sue parti è necessario per comprenderne il valore in relazione sia al lavoro del suo autore che al contesto storico in cui è stato realizzato. In questo senso, il RE è il primo step fondamentale per affrontare qualsiasi lavoro su un archivio di moda, dove la materialità di ciò che si considera patrimonio culturale è un aspetto fondamentale per la conservazione e trasmissione dello stesso.27 Si è poi proceduto alla differenziazione dei due processi di sperimentazione: il primo è focalizzato sulle possibilità date dalla rappresentazione digitale della maglieria, il secondo sulle potenzialità di innovazione offerte dalle nuove tecnologie di lavorazione. Entrambi i processi hanno seguito un metodo trial-and-error, provando differenti soluzioni fino ad arrivare a quelle maggiormente congeniali al raggiungimento di obiettivi di alta qualità.
L’heritage di Gianfranco Ferré: memoria per il futuro
Gianfranco Ferré è stato negli anni Ottanta uno dei protagonisti di quella fase di affermazione della moda italiana nel mondo capitanata dalla figura dello stilista. Malgrado la sua scomparsa, rimane uno dei designer più attuali soprattutto per l’eredità della sua metodologia progettuale. Essa riflette un approccio riconoscibilmente italiano alla progettazione, per via del legame intrinseco tra creatività e industria che ha spinto la crescita sociale ed economica del paese negli anni dei suoi esordi,28 di cui non è stato fruitore passivo ma protagonista, insieme ad altri come Armani e Versace. L’approccio metodologico di Ferré riflette inoltre la concezione di modernità che ha caratterizzato il contesto della sua formazione in architettura e che si basava sul riconoscere un valore cruciale alla storia, rinnegando attraverso la sua riscoperta la rimozione del passato effettuata dal movimento moderno. In un primo momento Ferré ha lavorato infatti su una ricerca della modernità con un approccio costruttivo, esplorando con i suoi capi la dimensione del volume e dello spazio.29 In questa ricerca rientra il lavoro sulla camicia bianca e sulle sue numerose reinterpretazioni, elemento più riconoscibile del lavoro del designer. Dalla seconda metà degli anni Ottanta, Ferré ha esplorato un immaginario femminile affine all’haute couture,30 unendo elementi etnici con la ricerca dello stupore attraverso la sperimentazione materica. Il lavoro sulla materia, intesa anche e soprattutto come sperimentazione tecnologica, è divenuta per il designer una vera e propria ricerca formale.31 È qui che la simbiosi con l’industria ha trovato terreno fertile, dando occasione sia a lui che alle aziende con cui collaborava di esprimere il meglio di sé e di raggiungere territori mai esplorati prima. Ne sono una dimostrazione le sperimentazioni con le spalmature, utilizzate per trasformare materiali spesso “poveri” in “preziosi”, ad esempio ricreando l’aspetto dell’oro e dell’argento o quello della pelle.32 Questa centralità della materia come strumento primario di costruzione del capo ha portato l’architetto persino a delinearne una categorizzazione nella lezione “Progettare con la materia”, da lui tenuta presso la Central Saint Martin’s di Londra nel 1998 .33 Essa è stata il punto di partenza per la scelta dei due capi d’archivio da analizzare e sui quali effettuare le sperimentazioni di seguito raccontate, poiché essi riflettono un’idea precisa di uso della materia o della sua trasformazione. Ciò è stato fatto con la convinzione che il lavoro di Gianfranco Ferré sia infatti estremamente contemporaneo in termini di approccio progettuale. Nella sua concezione, tecnica e tecnologia non sovrastano la creatività, ma la coadiuvano e la spingono a ideare prodotti innovativi. Questa è stata una chiave di lettura utile a anche a comprendere come la tecnologia possa essere indirizzata attraverso il progetto: il recupero del passato come chiave per progettare nel presente attraverso un’idea precisa di futuro è il fil rouge che può unire la concezione di modernità rivendicata da Ferré e dalla scuola di architettura milanese con la concezione di contemporaneità suggerita da Agamben.34 Già nel 1998 Ferré affermava: “La moda di oggi guarda necessariamente al futuro […], si nutre degli avanzamenti della tecnologia, dopo aver esplorato, riproposto e assimilato tutte le esperienze di stile e di gusto già consolidate nel passato.”35
Rimaterializzazione di un capo d’archivio
Il primo dei processi di sperimentazione si è focalizzato sull’esplorazione delle potenzialità offerte dalla virtualizzazione di oggetti di moda. La scelta di rimaterializzare capi d’archivio attraverso la modellazione digitale si inquadra all’interno degli obiettivi del Centro di Ricerca Gianfranco Ferré, in quanto esso rilegge gli archivi di moda non solo come repository di oggetti tangibili, ma come fonti di conoscenze stratificate, che possono essere attivate attraverso pratiche innovative come la rimaterializzazione digitale. Per effettuare ciò è stata effettuata prima una desk research riguardante i principali software di virtualizzazione nella moda, ovvero Shima Seiki APEX, Clo3D, Marvelous Designer e Optitex, secondo i parametri della tabella riportata in figura (Fig.1). Tale analisi ha fatto emergere maggiormente i software Shima Seiki Apex e Clo3D. La scelta tra questi due software ha portato a preferire Clo3D, nonostante il software di Shima Seiki fosse più adatto alla maglieria. Infatti, Clo3D è stato scelto per la sua facilità d’uso ed accessibilità economica, caratteristiche fondamentali per incentivare l’uso di modelli 3D negli archivi della moda. Si è resa però necessaria l’integrazione di Adobe 3D Substance Sampler per creare texture realistiche grazie all’uso di tecnologie AI basato su immagini, in quanto Clo3D non era di per sé sufficiente. Una volta individuato il software di sperimentazione, si è proceduto alla scelta del capo su cui effettuare la sperimentazione. Il capo selezionato appartiene alla collezione A/I 1985 e rimanda alla reinterpretazione dell’archetipo del cardigan (Fig. 2). La ricerca è cominciata con un reverse engineering, effettuando una scomposizione del capo in tutti i suoi elementi costitutivi.36 Il reverse engineering in questo caso è stato applicato concependo la ricostruzione digitale del capo in 3D come una vera e propria implementazione dei metodi di analisi tradizionalmente usati nell’archivio, quali l’analisi tematica del capo, la mappatura fotografica e l’analisi tecnica del cartamodello. L’analisi tematica ha evidenziato come la collezione A/I 1985 combini colori come grigi e neri con toni più vivaci e saturi, creando un equilibrio tra sobrietà ed eccentricità. L’approccio architettonico e volumetrico di Ferré emerge distintamente nella maglieria, dove i capi sono concepiti a 360°. I tradizionali bordi a coste della maglieria diventano elementi iconici e strutturali che si estendono in modo sproporzionato, creando continuità tra i vari pezzi della collezione. Il capo selezionato (Fig. 2) è il perfetto testimone dei concetti racchiusi all’interno della collezione. La sua costruzione è un chiaro riferimento al tema del ribaltamento: la parte posteriore del capo presenta un’apertura che un cardigan presenterebbe sul davanti, e viceversa. L’uso invertito di fronte e retro, ma anche la reinterpretazione della lavorazione a coste in sbieco, collocano il capo pienamente all’interno del concetto di Ferré di “materia reinterpretata” descritto nella sua lezione “Progettare con la materia”,37 poiché queste scelte di design giocano sulla ricodifica di regole consolidate nell’uso di materiali e tecniche. La mappatura fotografica del capo d’archivio (Fig. 3) ha permesso di effettuare un’analisi tecnica, da cui emerge come la maglia sia trattata come un tessuto, piazzando il cartamodello in sbieco per creare il motivo a spina di pesce con le coste 2/1. La forma del maglione è molto ampia, grazie anche alle maniche a kimono. Presenta un’apertura sul retro, costituita solo da una piccola parte del retro delle maniche, a cui sono stati applicati due alti bordi a coste 2/1 tramite macchina taglia-cuci, che sono stati ripiegati su sé stessi e applicati anche lungo tutto il bordo inferiore del maglione. Uno dei due prosegue in maniera asimmetrica, slegandosi dal capo e diventando una sciarpa. Una volta terminata l’analisi tecnica del capo si è proceduto alla rimaterializzazione attraverso il software di modellazione scelto. Per prima cosa si è proceduto alla modellazione dei capi scelti attraverso Clo3D in maniera canonica, senza attingere a soluzioni specifiche per la maglieria. Sono stati quindi utilizzati i materiali di default, senza modificare texture e proprietà fisiche e senza prestare particolare attenzione alle differenze di volumi e tensioni tra le parti del capo. Il risultato è scadente e di bassa attinenza al reale. In particolare, la caduta dei capi risulta totalmente differente da quello reale, non essendoci alcuna differenza visibile tra bordi e corpo principale ed essendo le texture totalmente piatte e più simili a stampe che a punti maglia (Fig. 4). Per ovviare a questo problema si è proceduto con l’attuazione di strategie alternative, volte a sopperire alla mancanza di funzionalità specifiche per la maglieria all’interno del software. Per prima cosa è stato realizzato il cartamodello direttamente all’interno di Clo3D, ovviando a possibili problemi derivanti da importazioni esterne e semplificando le forme quando possibile, senza compromettere il risultato. Nel piazzamento del cartamodello sull’avatar di Clo3D sono stati poi adottati accorgimenti come quello di alzare le braccia dell’avatar e posizionare i pezzi manualmente intorno al corpo per facilitare la simulazione. Si è poi proceduto con la cucitura del capo, donando elasticità alle cuciture dei bordi per ottenere l’effetto “bombato” tipico nei capi in maglia. Infine, ci si è focalizzati sulle texture, realizzate attraverso Adobe 3D Substance Sampler, sulla caduta realistica del capo, ottenuta cambiando le proprietà fisiche del materiale su Clo3D, e sui dettagli come l’effetto cardato del filato in lambswool, ottenuto attraverso l’aggiunta dell’effetto “pelliccia” sul materiale importato in Clo3D. Il risultato della virtualizzazione che segue queste accortezze è evidentemente migliore di quello effettuato senza averle adoperate (Fig. 4) (Fig.5). Il processo di sperimentazione descritto ha evidenziato l’importanza di un approccio dettagliato e specifico nella virtualizzazione dei capi di maglieria. La scelta di Clo3D come software principale si è rivelata efficace per la sua facilità d’uso e accessibilità economica, nonostante le iniziali difficoltà nel rendere fedelmente le caratteristiche uniche della maglieria e la necessità di sopperirvi attraverso soluzioni alternative e l’integrazione di altri software come Adobe 3D Substance Sampler. Questo lavoro non solo conferma la potenzialità degli strumenti digitali nell’ambito degli archivi di moda, ma evidenzia anche la necessità di adattare e implementare le tecnologie esistenti alle specificità dei materiali, per ottenere risultati che non solo siano visivamente convincenti, ma che valorizzino anche la qualità e l’intenzione del design originale.
Riprogettazione di un capo d’archivio
Per esplorare invece quelle che sono le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie di lavorazione nella maglieria, si è scelto di individuare un capo d’archivio che non fosse realizzato con questa tecnica, ma che presentasse con essa delle affinità e un elemento di “non vissuto”38 dato proprio dalla scelta di tecniche e materiali impiegati. Il capo selezionato, parte della collezione Prét-à-porter Autunno-Inverno 1995 di Gianfranco Ferré (Fig. 6), è un abito lungo alle caviglie con una base in tulle nero semi-trasparente interamente ricamata. Il ricamo è stato eseguito a mano-macchina con un punto catenella, utilizzando due filati di spessore e materiale diverso: un lurex di colore argento più scuro e un filato argentato più chiaro e spesso. Il capo gioca sul concetto di materia “a effetto” descritto da Ferré nella lezione alla Saint Martin’s39 e, in particolare, sul tema dei bagliori e dei riflessi dei metalli preziosi. Ferré era infatti solito ricrearne l’illusione a partire dalla manipolazione di materiali “poveri”, trasformati attraverso ibridazioni tecniche e tecnologiche. La diversa intensità del ricamo sui vari pezzi e il disegno creato dalle linee del ricamo contribuiscono a farlo sembrare un filo unico avvolto intorno al corpo. Dal ginocchio al fondo, il capo è inoltre foderato in un raso di seta e lurex per appesantirlo e favorirne la caduta quando indossato. All’interno, una sottoveste in tulle color carne è integrata nella cucitura della zip e bloccata a mano sul fianco opposto, in modo da attenuare l’eccessiva trasparenza sulle parti intime e limitare il contatto della pelle con il lurex. Anche in questo caso, tutte queste considerazioni conseguono una mappatura fotografica del capo d’archivio sia a diritto ma anche e soprattutto a rovescio (Fig. 7) come parte del processo di reverse engineering, riassunto nella tavola riportata di seguito (Fig. 8). Questo è stato il primo step fondamentale per comprendere il processo e le tecniche impiegate per arrivare alla sua realizzazione. Le prime considerazioni che emergono dal RE riguardano infatti la grande complessità che si cela dietro l’apparente semplicità della forma del capo in questione. La complessa costruzione ad intarsio di tanti piccoli pezzi è stata necessaria per nascondere le cuciture sul fianco destro dell’abito, creando continuità del ricamo ed ottenendo l’illusione che esso sia un filato unico che si avvolge intorno al corpo, esaltandone le forme. L’aderenza dell’abito e l’elasticità della base in tulle lo rendono inoltre molto affine alla maglieria e quindi adatto ad un esercizio di ripensamento dello stesso attraverso tale tecnica. Sebbene il capo sia stato concepito per un’uscita di sfilata e non per una successiva industrializzazione, va evidenziato come l’effetto materico sia stato ottenuto a discapito di altri aspetti: l’elasticità, fortemente ridotta per via del ricamo molto intenso, ha reso necessario l’impiego di due zip; il comfort, dato che il punto impiegato fa sì che il lurex sia presente anche sul rovescio e vada a contatto con la pelle, ha reso necessario l’inserimento di una sottoveste. Un altro spunto che ha guidato il processo di sperimentazione è stata dunque la possibilità di ottimizzarne vestibilità e comfort, cogliendo al contempo la sfida di ottimizzare il processo dal punto di vista dell’efficienza di tempi, costi e consumi. La sperimentazione è dunque partita dapprima con l’idea di ottenere un effetto estetico simile a quello ottenuto con la confezione e il ricamo nel capo originale, scegliendo materiali innovativi e sviluppando una reinterpretazione in punto maglia della lavorazione originale, opportunamente bilanciando peso e texture ricercata. Il punto sviluppato (Fig. 9) è una lavorazione su base in maglia rasata a rovescio ottenuta utilizzando il filato Superpiuma di Emilcotoni, ovvero un filato di cotone estremamente morbido al tatto ma al tempo stesso resistente. Lavorando poi in questa struttura base dei ranghi in maniera parziale è stato possibile ottenere delle righe, lavorando a maglie passate o miss stitch, con andamento irregolare e ondulato, con il fine di riprodurre un disegno simile a quello del ricamo originale. Il materiale utilizzato per queste righe è TPU Evolution di CoatYarn, ovvero un filato costituito da un’anima in poliestere e ricoperto, durante l’estrusione dalla filiera, con del poliuretano. Esso, in quanto polimero termoplastico, può essere caratterizzato sottoponendolo a pressatura termica, regolando parametri come temperatura, pressione e tempo di attivazione per conferirgli la texture del materiale interposto tra tessuto e superficie riscaldante. In questo caso, il punto maglia è stato pressato per 30 secondi in una pressa transfer a 150°C, con una pressione di 1 bar e con interposta sul diritto della lavorazione una carta “release” con finitura superficiale extra-lucida e dal peso di 180g. Questo processo di “attivazione” termica e l’utilizzo di tre diverse tonalità di argento del filato hanno conferito a quest’ultimo profondità ed estrema lucentezza, ricreando l’effetto dei bagliori e riflessi dell’argento ricercato da Ferré nel capo originale. Il cotone, invece, non viene influenzato dall’attivazione poiché non è un materiale termoplastico e non risente della temperatura in quanto protetto dalla carta: attivandosi solamente il TPU, dunque, il contrasto tra le sue cromie e quelle del materiale di base è ancora più enfatizzato dalla lucentezza. In secondo luogo, si è pensato a come implementare funzionalità e comfort del capo attraverso la tecnica della maglia. Questo aspetto non è stato considerato soltanto nello sviluppo del punto maglia descritto e nella trasposizione della sagoma in maglieria, ma anche sperimentando l’utilizzo di una nuova tecnologia di lavorazione che potesse mantenere tutti gli aspetti definiti precedentemente e, al tempo stesso, ottimizzare il processo di realizzazione del capo. Questo è stato possibile grazie ad uno studio della maglieria a capo completo o 3D e, in particolare, della macchina Wholegarment di Shima Seiki, il cui potenziale impiego è stato descritto nella tavola di seguito (Fig. 10). In questo caso, la caratteristica della macchina Wholegarment di avere due fronture di aghi aggiuntive rispetto alle due fronture canoniche delle macchine da maglieria standard, non viene sfruttata tanto per ottenere un capo senza cuciture, nonostante il numero di queste siano drasticamente ridotte rispetto al capo originale, quanto per rendere compatibile l’utilizzo del TPU con l’ottimizzazione del processo voluta. Infatti, da un lato la macchina consente di ottenere il capo intero in una sola fase di smacchinatura, ottimizzando il processo e abbattendo i costi di una eventuale produzione in serie. Dall’altro, è in grado di realizzare davanti e dietro del capo separatamente ma in contemporanea, mantenendo fianchi e parte inferiore della manica aperti e assemblando automaticamente i due pezzi solo alla fine del processo, in corrispondenza della manica. Questo rende possibile il processo di attivazione del TPU in piano attraverso le presse transfer. L’utilizzo di macchine a capo completo con fronture più lunghe, inoltre, consente di mantenere la modellistica della macchina a kimono, riadattata per la maglieria riportandola ad un’inclinazione orizzontale, potendo così mantenere la continuità della lavorazione in orizzontale su di essa, che non sarebbe stata ottenibile realizzando una manica tradizionale partendo dal polso. Una volta sceso dalla macchina, dunque, il capo, aperto sui fianchi e all’interno delle maniche, verrebbe attivato in piano attraverso la pressa termica, seguendo i parametri di tempo, tipologia di carta release, temperatura e pressione appositamente determinati per il punto sviluppato. Dato che la lavorazione è utilizzata al rovescio, il capo a diritto verrebbe confezionato a rimaglio con rovescio contro rovescio, cosicché successivamente necessiti soltanto di essere ribaltato. Il risultato dell’impiego di tale tecnologia è estremamente vantaggioso in termini di efficientamento del processo, che nel capo originale, per via delle tecniche impiegate, ha necessitato di numerosi passaggi molto complessi. La maglieria calata è di per sé una tecnica zero-waste, che rispetto alla confezione spreca una quantità irrisoria di materiale poiché i pezzi scendono dalla macchina con una forma già definita. In più, con la macchina Wholegarment, per quanto il capo presenti ancora due cuciture, è stato possibile studiare un pezzo unico che richiede soltanto altri due passaggi successivi alla smacchinatura (attivazione e cucitura) e di poche piccole rifiniture. Sebbene le cuciture non siano state drasticamente ridotte rispetto alla possibile smacchinatura del davanti e del dietro separati, i tempi di realizzazione sono stati invece praticamente dimezzati.
Conclusioni
I progetti presentati hanno esplorato l’analisi e l’utilizzo di due capi d’archivio di Gianfranco Ferré per esplorare due principali traiettorie di innovazione tecnologica che caratterizzano il settore della maglieria. Questi progetti vogliono essere un esempio di possibili applicazioni dell’archivio alla sperimentazione di nuove tecnologie e alla generazione di nuovi significati tramite soluzioni design-oriented. I risultati ottenuti non si sono basati sull’idea di effettuare una riprogettazione o una rimaterializzazione del materiale d’archivio con l’idea di migliorarlo, bensì con quella di attingere alla cultura e alla conoscenza scientifico-tecnologica che racchiudono nei loro spazi, siano essi fisici o digitali, come spunto per indagare l’uso di tali tecnologie e per comprendere quali soluzioni possono offrire nel presente. In entrambi i progetti, le tecnologie sperimentate hanno beneficiato dell’archivio come luogo e strumento per dimostrare le loro potenzialità e i loro limiti. Per quanto riguarda il tema della rimaterializzazione, la virtualizzazione del capo della collezione Autunno-Inverno 1985 ha dimostrato come nel settore della maglieria ci siano ancora forti limitazioni riguardanti i software, ma anche quanto potenziale queste tecnologie presentano se utilizzate anche con fini diversi da quello di ottimizzare la produzione. Nel contesto dell’archivio, infatti, dove il tema della diffusione della conoscenza è centrale al suo funzionamento, la virtualizzazione rappresenta uno strumento utile a superare i limiti imposti dalla materialità dei capi e dalle esigenze di conservazione. L’uso del software di modellazione Clo3D ha dimostrato come esso, grazie a soluzioni progettuali appositamente studiate e in combinazione con Adobe 3D Substance Sampler, sia al momento una soluzione ideale per ottenere un risultato di visualizzazione di alta qualità, in poco tempo e con un ridotto dispendio economico. La limitazione principale emersa è che Clo3D di per sé non è però sufficiente ad ottenere risultati soddisfacenti per la maglieria, in quanto il software, se usato in maniera canonica tende a farli apparire più come capi stampati che come capi in maglia. Questa problematica può essere superata attraverso la modifica di proprietà fisiche del materiale, possibile all’interno del software stesso, oltre che alla creazione di mappe di texture e materiali creati su software esterni, come nel caso della qui citata sperimentazione con Adobe 3D Substance Sampler. Per quanto riguarda invece il tema della riprogettazione, il lavoro sull’abito della collezione Autunno-Inverno 1995 ha dimostrato come un pezzo d’archivio può rivelarsi uno spunto per sperimentare l’uso di nuovi materiali e tecnologie per nuovi prodotti. Questo è emerso da un lato attraverso la sfida di mantenere gli elementi estetici che lo hanno reso unico, dall’altro ponendo a confronto le nuove tecnologie con quelle impiegate nel capo originale e con le loro limitazioni, in relazione alle istanze progettuali del suo ideatore e al contesto socioculturale in cui esso è stato pensato. In particolare, la scelta del filato innovativo per ricreare l’effetto del ricamo originale ha dimostrato come, prendendo ispirazione dall’approccio sperimentale di Ferré, un materiale solitamente impiegato per usi prettamente tecnici come il TPU Evolution di CoatYarn possa essere reso prezioso, attraverso un’attenta progettazione del punto maglia e della sua attivazione, e al tempo stesso funzionale, grazie alla combinazione con un materiale come il filato in cotone Superpiuma. L’utilizzo invece della macchina Wholegarment di Shima Seiki è risultato particolarmente efficace proprio perché posta a confronto con un processo e un metodo del passato e utilizzata per reinterpretarlo in un punto maglia e una costruzione dell’abito ugualmente complessi ma ottenibili attraverso un solo processo di smacchinatura. Il principale limite emerso in questa sperimentazione è la necessità di attivare il TPU in piano, costringendo il capo ad essere realizzato aperto sui fianchi per poter attivare il filato con la pressa termica. A conclusione di questi lavori, emerge la peculiarità della prospettiva di un designer all’interno dell’archivio. Questa risulta infatti privilegiata rispetto a quella di altre figure già nella fase di reverse engineering, dove la progettualità è stimolata da questioni e spunti proprio per via di quella interconnessione tra archetipi del passato e questioni del presente di cui si nutre la moda e che è ancora più centrale nel mondo della maglieria. Il reverse engineering è particolarmente efficace se a metterlo in atto è qualcuno che sa come leggere e interpretare gli elementi strutturali e simbolici che costituiscono quel sistema soggetto40 che è il capo d’archivio. Lo studio e la sperimentazione effettuata su un archivio risultano in una sua maggiore valorizzazione se abilitati dal sapere progettuale, poiché essi partono dalla comprensione del suo valore e arrivano a individuare ciò che di esso è ancora attuale, poiché stimola questioni che hanno a che fare con la contemporaneità. Con questo approccio, che risponde anche agli obiettivi stessi del Centro di Ricerca Gianfranco Ferré, l’archivio si trasforma da luogo del passato per eccellenza a luogo di attuazione del futuro nel presente grazie a quell’esercizio, suggerito da Agamben, per cui essere contemporanei significa “tornare ad un presente in cui non siamo mai stati”.41
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