In concomitanza con la prima proiezione del documentario Biki. La donna che rese divina Maria Callas, (regia di Michele Mally) all’Anteo Palazzo del Cinema il 16 settembre 2024, ho avuto l’opportunità di intervistare Simona Segre Reinach, docente presso l’Università di Bologna e antropologa esperta di moda in una prospettiva globale. Segre Reinach è stata coinvolta nel lavoro di sceneggiatura, in virtù delle approfondite ricerche svolte nell’archivio Biki e confluite nella monografia Biki. Visioni francesi per una moda italiana (Rizzoli, Milano 2019). Il suo studio mette in evidenza la ricchezza dell’archivio, costituendo un punto fermo per ogni attività di valorizzazione futura.
Irene Calvi (IC): Prima di tutto vorrei chiederle: quando ha iniziato a lavorare sull’Archivio Biki, l’intento era già quello di conferire maggiore visibilità a questo specifico fondo? Ad esempio, sul sito viene citato come parte del sistema della Soprintendenza dei Beni Archivistici, tuttavia non sembra avere una denominazione distintiva o una rilevanza particolare rispetto ad altre raccolte. È previsto un progetto che vada oltre la semplice organizzazione dei materiali, magari rivolto anche agli studenti?
Simona Segre Reinach (SSR): Per quanto riguarda il sito, no, non c’è ancora la denominazione corretta. Ne ho parlato con la professoressa Emanuela Scarpellini, co-curatrice dell’archivio insieme a me. Il nuovo il sito è in corso di realizzazione. Come sai, la burocrazia accademica è complessa, e siamo ancora in una fase di riorganizzazione.
IC: Capisco, quindi l’archivio è stato affidato all’Università degli Studi di Milano Statale principalmente perché si trova nel capoluogo lombardo?
SSR: Sì, esatto. Jacques Renault, nipote di Biki — nome d’arte di Elvira Leonardi, Bouyeure (1906—1999) voleva che il materiale fosse conservato a Milano. La professoressa Scarpellini è esperta di storia della moda e di archivi; quindi, abbiamo avviato una collaborazione per gestire l’archivio Biki. Si tratta di un archivio puramente cartaceo, documentale, non ci sono abiti. È stato organizzato secondo una classificazione archivistica tradizionale, per cronologia, quindi diviso per anni, per facilitare l’accesso agli studiosi e alle studiose di moda, poiché i documenti coprono un lungo periodo, dai primi anni Quaranta fino agli anni Novanta. Anche se, ovviamente, il periodo più interessante termina con gli anni Settanta.
IC: Questi materiali d’archivio sono inclusi nel volume Biki: visioni francesi per una moda italiana, edito da Rizzoli nel 2019?
SSR: Sì, tutto il materiale di base proviene dall’archivio. Inoltre, abbiamo ricevuto un grande dono dal compianto Giovanni Gastel, e cioè alcune fotografie di abiti, provenienti dall’archivio di Cavalli & Nastri, appositamente realizzate per il libro.
IC: Di particolare interesse sono le lettere tra Biki e suo marito Robert Bouyeure, scritte durante la guerra. Nel libro sono riprodotte fedelmente ed è perciò possibile leggerle in versione originale. È previsto un progetto di digitalizzazione di questi documenti, al fine di renderli accessibili online?
SSR: In futuro potrebbe essere possibile, ma ci sono delle regole da rispettare per la pubblicazione online. Molti documenti sono già scansionati. Quindi, anche se tutto è digitalizzato, non è ancora online perché mancano le risorse per gestirlo adeguatamente.
IC: A proposito di archivi di moda, come si può definire un archivio di moda senza abiti? Quale importanza rivestono i cosiddetti “fashion ephemera”1 in un archivio di questo tipo?
SSR: Sarebbe bello avere anche gli abiti, ma spesso questi archivi vengono salvati in modo fortuito. Questo è un piccolo miracolo perché ricostruisce la storia di Biki e del mondo della moda intorno a lei. Molti abiti non ci sono più, sono sparsi tra collezionisti e negozi vintage, ma ci sono molte fotografie, soprattutto perché Maria Callas indossava spesso abiti di Biki.
IC: Infatti, il documentario Biki. La donna che rese divina Maria Callas (2024) è stato un passo successivo alla pubblicazione del libro. Com’è nato questo progetto?
SSR: Il film è nato dall’iniziativa di Michele Mally, noto regista di documentari d’arte e di musica: Michele Mally si è imbattuto nella storia di Biki e nel libro. Ha proposto il progetto a una casa di produzione milanese, la 3D Produzioni, e così abbiamo deciso di realizzarlo insieme. Ho collaborato alla sceneggiatura e il film ha avuto un taglio più divulgativo rispetto al libro. È stato presentato durante la Settimana della Moda a Milano e ha avuto un buon riscontro. Vedremo quale sarà il futuro del documentario, sicuramente verrà trasmesso anche altrove e sarà sottotitolato in inglese.
IC: Cosa vi aspettate che scopra il pubblico durante la visione di questo documentario?
SSR: L’idea è proprio di far scoprire un personaggio importante ma poco conosciuto dalle nuove generazioni. Nel film c’è la messa in scena di una lezione all’Accademia del Costume e della Moda, per spiegare agli student* il ruolo che Biki ebbe nella storia della moda in Italia. Inoltre, il rapporto tra Biki e Callas è molto interessante perché rappresenta una forma di collaborazione autentica, quasi un’anticipazione delle moderne relazioni tra brand e celebrities.
IC: In effetti Biki si presenta come una figura innovativa. Ritiene che abbia ricoperto un ruolo significativo nel connettere creatività e industria?
SSR: Sì, assolutamente. Biki non ha solo lavorato per un pubblico elitario, ma ha anche voluto produrre una moda accessibile, per esempio disegnando Cori, in stretta collaborazione con l’industria. In questo senso, è stata una figura centrale nel costruire quello che oggi chiamiamo il “sistema moda italiano”.
Marco Pecorari, Fashion Remains: Rethinking Ephemera in the Archive, (London: Bloomsbury Visual Arts, 2021).↩︎