Il libro di Silvia Vacirca affronta uno dei momenti più trascurati della storia della moda italiana, gli anni della Seconda guerra mondiale, e lo fa attraverso l’analisi di “Bellezza. Mensile dell’alta moda e della vita italiana”. Le prime righe dell’introduzione rendono subito evidente a chi legge i motivi di questa scelta, essendo “Bellezza” nata a circa sei mesi dalla dichiarazione di guerra dell’Italia alla Francia e all’Inghilterra. Creata “sotto gli auspici dell’Ente nazionale della moda” — come si legge nella pagina iniziale del primo numero del gennaio 1941 — la rivista intendeva essere un progetto editoriale culturalmente ed esteticamente ambizioso. Nel libro la rivista viene definita come una versione italiana di “Vogue”, poiché Gio Ponti, che l’aveva concepita, aveva preso come modello editoriale le autorevoli “Vogue” e “Harper’s Bazaar”.1
Il primo merito del libro è di contribuire a superare una lacuna della storiografia della moda italiana, che per molto tempo ha preferito concentrarsi sul ventennio fascista da un lato e sull’immediato dopoguerra dall’altro. La moda della prima metà degli anni Quaranta del XX secolo è stata perlopiù messa ai margini, diversamente da quanto accaduto in altri contesti nazionali coinvolti nel conflitto, come nel caso di Francia, Gran Bretagna e anche Germania. Riguardo alla Francia, si pensi per esempio a La mode sous l’Occupation, influente studio della storica Dominique Veillon.2 Un esempio britannico è l’imponente lavoro di storicizzazione delle politiche di razionamento e progettazione della moda, che hanno progressivamente trasformato la sigla CC41 — etichetta dello schema di abbigliamento Utility sperimentato durante gli anni del conflitto — in un simbolo della storia della moda del Regno Unito.
Un altro importante merito del libro è di avere messo direttamente al centro dell’attenzione una rivista di moda e di averla trattata come oggetto di studio dotato di una propria intrinseca ragione di esistere. L’autrice esplora i benefici e le potenzialità di ibridare discipline storiche, storia della moda e il filone emergente degli studi sui periodici, conducendo una ricerca generosamente interdisciplinare, in cui politica, abiti, gusti, consumi e cinema trovano il loro spazio. “Bellezza” si presta particolarmente bene a questo scopo, in quanto espressione dell’utopia di una nuova cultura della moda italiana da parte delle politiche governative del fascismo.
Il libro è pubblicato in inglese ed è strutturato in quattro capitoli, di cui i primi due permettono all’autrice di posizionarsi rispetto alla ricco panorama di studi esistenti su moda e fascismo. Il progetto di una moda totalitaria e le istituzioni su cui si fonda sono l’oggetto del primo capitolo. Il secondo è dedicato al vestire italiano, tra materiali autarchici e loro interpretazione da parte di designer quali Anita Pittoni a Trieste, Gegia e Marisa Bronzini a Venezia, Fernanda Lamma a Bologna. Il capitolo include una riflessione sull’esperienza italiana di tesseramento dei tessuti e del vestiario durante gli anni della guerra.
La parte di più ampio respiro è raccolta nel terzo capitolo, anticipato da una sezione iconografica che comprende fotografie e illustrazioni tratte da “Bellezza” e seguito dal capitolo conclusivo, dedicato al cinema come mezzo di propagazione delle nuove mode, delle nuove ideologie e dei nuovi gusti promossi dal fascismo.
Al centro del terzo capitolo sono i concetti di eleganza, il ruolo dell’aristocrazia sotto il fascismo e il rapporto tra moda e “vita italiana”. Sono messe in dialogo le voci di chi ha fatto la rivista: oltre a Ponti, sono presenti anche quelle della giornalista Elsa Robiola, del fotografo Lucio Ridenti, della contessa Elena Celani, dell’illustratore Federico Pallavicini e di molti altri. Per le sue implicazioni metodologiche, merita un approfondimento il titolo scelto per questo capitolo, che recita: All that is airy turns into stone. Da un lato, il titolo capovolge l’assunto marxiano “all that is solid melts into air”, reso celebre dal filosofo statunitense Marshall Berman nella sua opera omonima dedicata all’esperienza della modernità.3 Dall’altro, lo vira nella chiave interpretativa proposta da Emilio Gentile, che ha scelto la pietra come materia e come metafora per spiegare l’esperimento di una modernità totalitaria attuata dal regime.4
Anche secondo Vacirca “la moda è stata una forza autentica della cultura fascista in quanto ha creato un mondo verbale, visuale e materiale attraverso il quale ciò che era aereo divenne solido”.5 Questo permette all’autrice d’ipotizzare che la moda italiana del tempo sia stata espressione di una modernità totalitaria, ovvero una modernità di segno profondamente diverso da quella basata sul processo di continua disintegrazione e rinnovamento studiata da Berman con riferimento ai contesti liberali e spesso associata alla moda nei paesi democratici.
Da un punto di vista contenutistico, è pienamente comprensibile la scelta di Vacirca di limitare la ricerca a come la moda sia stata al servizio del discorso dominante del fascismo. È anche pienamente condivisibile il suo proposito di dimostrare come la moda sia stata una forza attiva durante gli anni in esame, poiché essa prende inevitabilmente parte al cambiamento sociale.
Meno chiaro, da un punto di vista teorico, è il motivo per cui il ruolo attivo della moda di quegli anni si esprima solo nel dare forma al progetto governativo del fascismo e non invece nel criticarlo. Una chiave di lettura che rischia di lasciare in ombra forme – altrettanto attive – di resistenza della moda al fascismo e di tattiche di sopravvivenza alla censura di regime. La moda in passato è stata spesso considerata come una delle più seducenti espressione di potere, ma la svolta critica avvenuta negli studi della moda del XXI secolo ha messo in luce più ampie sfumature della dimensione politica insita nella moda e nel suo sistema. In altre parole, la dimensione politica della moda si esprime non solo in termini di forme totalizzanti di potere, quanto nella possibilità di sfidarle, come ha dimostrato per esempio la storica delle culture della moda Djurdja Bartlett.6
In conclusione, il libro costituisce un punto di partenza essenziale per le studiose e gli studiosi della moda interessati a indagarne le dinamiche storiche. Il lavoro in futuro sarà di riflettere su come la moda, nei suoi molteplici ruoli, partecipi al sistema di pensiero di un’epoca, sia assecondandolo, sia sovvertendolo.
Bibliography
Bartlett, Djurdja (a cura di). Fashion and Politics. New Haven-London: Yale University Press, 2019.
Berman, Marshall. All that is solid melts into air: the experience of modernity. New York: Simon and Schuster, 1982.
Gentile, Emilio. Fascismo di pietra. Roma: Laterza, 2007.
Rostagni, Cecilia. “Bellezza” della vita italiana Moda e costume secondo Gio Ponti”. La Rivista di Engramma, 175 (2020): 287–298.
Veillon, Dominique. La mode sous l’Occupation: débrouillardise et coquetterie dans la France en guerre, 1939–1945. Parigi: Payot, 1990.
Sul contributo di Gio Ponti, vedi anche: Cecilia Rostagni, “Bellezza” della vita italiana Moda e costume secondo Gio Ponti”, La Rivista di Engramma, 175 (2020): 287–298.↩︎
Dominique Veillon, La mode sous l’Occupation: débrouillardise et coquetterie dans la France en guerre, 1939–1945 (Parigi: Payot, 1990).↩︎
Marshall Berman, All that is solid melts into air: the experience of modernity (New York: Simon and Schuster, 1982).↩︎
Emilio Gentile, Fascismo di pietra (Roma: Laterza, 2007).↩︎
Silvia Vacirca, Fashioning Submission. Documenting Fashion, Taste and Identity in WWII Italy Through “Bellezza” Magazine (Milano: Mimesis International, 2023), 101.↩︎
Djurdja Bartlett (a cura di), Fashion and Politics (New Haven-London: Yale University Press, 2019).↩︎