Introduzione
Nel vasto palcoscenico del cinema, l’attenzione riservata alla moda ha spesso seguito i ritmi sinuosi delle creazioni femminili provenienti dalle grandi capitali della moda come Milano, Roma e Firenze. Tuttavia, dietro ogni inquadratura c’è un mondo di stile maschile che, seppur spesso trascurato, ha cominciato a emergere con forza e personalità e solo di recente la ricerca accademica ha colmato la lacuna esistente rispetto a Napoli, ricostruendo il ruolo che anche essa ha svolto nella definizione della variegata geografia della moda italiana.1
Di fatto, in ritardo rispetto al panorama dell’abbigliamento femminile, la moda maschile ha gradualmente guadagnato spazio all’interno di programmi di diffusione e produzione che hanno contribuito in modo significativo al prestigio internazionale della moda italiana. Questo successo è stato plasmato attraverso manifestazioni collettive, iniziative promozionali, la pubblicazione di riviste specializzate, ma anche mediante la produzione cinematografica.
In tale contesto, un ambito che richiede ancora un’analisi approfondita è la relazione sviluppatasi nel corso degli anni, a Napoli, tra le eccellenze della sartoria maschile e l’industria cinematografica italiana, estendendosi successivamente oltre i confini nazionali.2 Recuperare la conoscenza di questa dinamica è essenziale per una storicizzazione accurata dell’abbigliamento Made in Naples e permette di cogliere le intricate dinamiche di successo che hanno caratterizzato alcuni protagonisti di una scuola di lunghissima tradizione.
In questa occasione, si portano in luce i risultati di un’indagine dedicata alle opere di Maestri come Vincenzo Attolini e Gennaro Rubinacci (London House) nell’ambito della produzione cinematografica. Tale analisi non si limita alle recenti e celebri collaborazioni con registi di spicco quali von Donnersmarck e Corbijn, bensì si estende alla fase pioniera del loro operato, indagando il contesto delle strutture laboratoriali in cui sarti e apprendisti confezionavano i vestiti destinati agli attori, sia per le scene che per la vita quotidiana. Vincenzo Attolini e Gennaro Rubinacci, tra i principali protagonisti di questo mondo, lavoravano su committenza di figure come Totò, Marcello Mastroianni, Vittorio De Sica, Robert De Niro; i loro successori hanno, invece, instaurato, qualche anno più tardi, rapporti di collaborazione con George Clooney, Johnny Depp e Toni Servillo.3 Quindi, potremmo dire che le creazioni di costumi per i protagonisti del cinema non si siano limitate alla sola rappresentazione sul grande schermo, ma abbiano oltrepassato il contesto cinematografico, entrando anche nel mondo della moda quotidiana.
Gli esordi del cinema a Napoli: il battesimo della città come pioniera del cinema
Napoli, oggi, si afferma non solo come una patria dell’arte e della cultura al pari delle altre capitali, ma anche come un luogo all’interno del quale sono nati e si sono sviluppati antichi mestieri che ancora adesso continuano ad essere tramandati di generazione in generazione.4
La città conserva con orgoglio il primato di una lunga tradizione sartoriale, dove l’arte del taglio e del cucito è stata tramandata di padre in figlio, creando un patrimonio unico e ineguagliabile. I sarti napoletani sono custodi di segreti artigianali antichi, che conferiscono alle loro opere un’aura di raffinatezza e maestria.5 Tra le tecniche più distintive ed emblematiche vi sono l’impiego della manica a mappina, della tasca a barchetta e a pignata, i bottoni sovrapposti sul polsino e il doppio punto fatto a mano, elementi che incarnano la perizia e l’abilità artigianale tramandate nel tempo. Tuttavia, è la giacca sfoderata a rappresentare l’apice dell’eccellenza sartoriale. Oltre a offrire un livello di comfort superiore per chi la indossa, questa tipologia di capospalla permette di esaltare l’abilità dei Maestri sarti napoletani in maniera senza pari. La sua caratteristica principale risiede nella totale assenza di fodera interna, che consente di mettere in luce lo scheletro del capo; questo permette di rivelare con precisione e dettaglio ogni singola cucitura e finitura, solitamente nascoste. In tal modo, la giacca sfoderata diviene una testimonianza tangibile della maestria artigianale partenopea, esprimendo al contempo un’eleganza e un gusto estetico senza tempo.6
In aggiunta, la città detiene un altro primato di notevole importanza: è il luogo in cui ha preso vita l’industria cinematografica italiana. Le strade pittoresche e i vicoli suggestivi hanno ispirato registi, attori e sceneggiatori, contribuendo a plasmare il volto del cinema italiano.7 La città partenopea, in questo modo, si presenta non solo come una testimonianza vivente della storia, ma anche come un’officina inesauribile di creatività e talento che continua a influenzare l’arte, la cultura e l’industria cinematografica in tutto il Paese. Queste due realtà, quindi, quella legata alle industrie cinematografiche e quella legata all’antico mestiere dell’artigianato sartoriale, hanno spesso intrecciato i loro cammini nel corso della storia, attingendo ispirazioni e suggestioni l’una dall’altra.
Nel 1896 il cinema ha varcato la soglia della città di Napoli, instaurando un legame indissolubile che avrebbe radicato le sue influenze in modo rapido e profondo. La Galleria Umberto I, simbolo del progresso industriale, divenne il cuore pulsante delle attività cinematografiche e la sede principale dello sfoggio delle mise più in voga, oltre che punto di fulcro della città grazie alla presenza dei Grandi Magazzini Mele, luogo che ha contribuito alla spettacolarizzazione del consumo, con le riproduzioni cinematografiche accostate all’acquisto.8
Qui, oltre al primo caffè chantant italiano e il Salone Margherita, si insediavano tre sale cinematografiche: Il Colosseo, il Santa Brigida e l’Umberto. Questa triade di luoghi, attraverso la proiezione su schermo, suggeriva al pubblico nuove prospettive di vita, trasformando la Galleria in un centro dinamico di transizioni commerciali, artistiche e sociali.
Il cinema napoletano, radicato profondamente nella ricca tradizione culturale della città, si è distinto per la sua autenticità, spesso realizzato direttamente sul luogo stesso. Questo genere cinematografico ha abilmente catturato la cultura popolare quotidiana e l’essenza della vita di strada.9 Al centro di questa scena locale, si sono elevate con rilievo tre compagnie cinematografiche — Dora Film, Lombardo Film e Partenope Film — tutte caratterizzate dalla gestione a conduzione familiare e da una connessione intima con le radici della comunità napoletana.10
Partenope Film, guidata da Roberto Troncone, si è distinta come una forza trainante nell’esplorazione delle storie e delle tradizioni locali attraverso la cinematografia.11 Roberto Troncone è stato il responsabile della produzione del primo lungometraggio realizzato interamente a Napoli, intitolato “Il delitto delle fontanelle,” datato al 1907.12
Nel frattempo, Lombardo Film, fondata dalla collaborazione tra Gustavo Lombardo e Leda Gys, ha visto la luce come un’impresa cinematografica significativa. Gustavo Lombardo, con un passato di impegno politico nel socialismo, ha successivamente fondato la Titanus, una delle case di produzione cinematografica italiane più prestigiose.13
Parallelamente, la figura determinante di Elvira Notari, mente brillante dietro la Dora Film, ha svolto un ruolo fondamentale nella scena cinematografica napoletana. Notari, pioniera del cinema, ha gestito con maestria la casa di produzione più amata nell’epoca napoletana, lasciando un’impronta indelebile con la produzione di 60 lungometraggi, oltre 100 documentari e cortometraggi, e la formazione di numerosi attori tra il 1906 e il 1930.14 Purtroppo, la sua prolifica produzione è stata interrotta dalla censura fascista, che proibiva l’utilizzo dei dialetti nelle pellicole italiane, e con l’avvento del sonoro ha segnato la fine dell’era del cinema muto e, più nello specifico, la resa della produzione cinematografica nella città partenopea, anche se questa continuerà ad essere comunque rappresentata negli spazi della nascente Cinecittà che, intanto, stava diventando il centro nevralgico della produzione del cinema italiano.15
Nonostante le sfide, queste imprese cinematografiche non erano solo studi, ma vere e proprie comunità creative immerse nelle dinamiche della vita di strada e nelle sfumature della cultura napoletana. Attraverso registi, attori e collaboratori locali, il cinema napoletano è riuscito a narrare storie autentiche, svelando la bellezza e la complessità della vita quotidiana attraverso l’obiettivo della cinepresa.16 Queste produzioni non solo hanno contribuito a preservare e celebrare le tradizioni locali, ma hanno anche offerto al pubblico uno sguardo affascinante sulla vibrante realtà delle strade di Napoli, incanalando la vitalità e l’umanità della città attraverso la magia del cinema di strada.
Nonostante le sfide, sia la produzione sartoriale che quella cinematografica continuano a prosperare, mantenendo vive le radici culturali e artistiche di Napoli e contribuendo alla sua vibrante identità.
Tra ago e pellicola: la sartoria maschile nel cinema
I casi Attolini e Rubinacci
Parallelamente alla diffusione del cinema, la moda inizia a dilagare attraverso gli stessi canali e con le stesse modalità. Napoli ha visto il fenomeno della moda trasformarsi in un elemento chiave della vita quotidiana, influenzando il modo in cui le persone si vestivano e si presentavano nella società.
I luoghi di socializzazione, tra cui la Galleria Umberto I, i vivaci café, le sale cinematografiche e i magazzini Mele, sono diventati non solo le arene del cinema, ma anche i posti in cui la moda ha fatto la sua entrata trionfante. In particolare, l’influenza esercitata dai magazzini Mele ha portato a una democratizzazione della moda stessa, con significative implicazioni socioculturali.
Nello specifico, si è assistito a un cambiamento nel comportamento della borghesia, la quale, tradizionalmente incline a emulare gli abiti e lo stile di vita dell’élite, ha trovato nell’ampia disponibilità di beni presenti presso i magazzini Mele l’opportunità di accedere liberamente a prodotti che riflettevano il lusso e l’eleganza propri dell’élite stessa. Tale democratizzazione ha contribuito a ridefinire i parametri sociali e culturali legati alla moda, consentendo a una fascia più ampia della popolazione di esprimere il proprio status e le proprie aspirazioni attraverso l’abbigliamento e gli accessori. I luoghi di aggregazione, dunque, sono diventati palcoscenici dove questo fenomeno ha trovato la sua massima espressione e si è mescolato con la cultura urbana.17
L’aspetto complementare dell’industria della moda è storicamente rappresentato dall’arte sartoriale. Analogamente alle prime case cinematografiche che portavano la firma di famiglie intraprendenti, anche le sartorie che hanno vestito il cinema hanno radici familiari profonde. Tale connessione si rivela particolarmente evidente nelle sartorie di abbigliamento maschile, dove la realizzazione degli abiti è diventata un’arte di lunga generazione, trasmessa con dedizione di padre in figlio ed estendendosi a tutta l’ampia schiera di allievi e apprendisti che vi hanno collaborato.18
La passione per il lavoro sartoriale si traduce in guardaroba impeccabili, indossati da attori e personaggi cinematografici, contribuendo a plasmare l’estetica e lo stile dei film. Questa sinergia tra l’arte sartoriale e il cinema rappresenta un connubio perfetto, in cui l’impegno familiare e la dedizione all’eccellenza si fondono per creare un patrimonio di stile che dura nel tempo. In questo modo, le sartorie napoletane non solo vestono il cinema, ma contribuiscono a narrare storie attraverso l’eleganza e la raffinatezza dei loro abiti, perpetuando così una tradizione artigianale di grande prestigio.
Tra le storiche case sartoriali che hanno contribuito a plasmare l’eleganza degli attori cinematografici napoletani, spiccano con grande rilievo i nomi di Attolini e Rubinacci. Queste sartorie, testimoni di un’eredità artigianale che si estende dai primi del ’900 ai giorni nostri, hanno lasciato un’impronta indelebile nell’industria cinematografica vestendo alcuni tra i più illustri attori del panorama italiano.
Esamineremo attentamente questi due esemplari distintivi che hanno giocato un ruolo preminente nel definire il panorama della storia della moda maschile all’interno della tradizione sartoriale napoletana.
Attraverso un approfondimento di queste istanze particolari, s’intenderà delineare il loro impatto e la loro risonanza storica nel contesto più ampio della tradizione sartoriale napoletana.
La nascita della sartoria Rubinacci è intrinsecamente legata alla figura di Gennaro Rubinacci, un vero e proprio Arbiter elegantiarum del suo tempo. Gennaro ha incarnato l’essenza dello stile e della raffinatezza, tanto che gli uomini di buona famiglia ricercavano continuamente il suo consiglio in materia di abbigliamento. Egli è stato una guida preziosa, accompagnando la nobiltà dai propri sarti e offrendo saggi consigli su taglio, vestibilità e stoffe per arricchire i guardaroba di uomini di classe.19
La presenza di Rubinacci divenne un rito insostituibile per gli uomini dell’epoca, tanto che nel 1932 intraprese una nuova avventura, fondando la propria sartoria, battezzata con il nome di “London House”. Questa iniziativa non è stata solo un passo commerciale, ma un’autentica espressione della sua influenza e dell’importanza che la sua visione della moda aveva assunto nella società dell’epoca.
La sartoria Rubinacci, con la sua sede in via Filangieri, si è affermata come una destinazione d’elezione per coloro che cercavano l’eccellenza nell’abbigliamento su misura. Il savoir-faire di Gennaro, tramandato di generazione in generazione, ha contribuito a creare un marchio sinonimo di stile e classe.
Questa straordinaria transizione da consigliere di stile a fondatore di una sartoria riconosciuta testimonia la forza e l’influenza di Gennaro Rubinacci, il cui legame indissolubile con il popolo napoletano e la creazione di abiti su misura ha lasciato un’impronta indelebile nella storia della moda e dell’arte sartoriale.20 È rilevante notare che Rubinacci ha fornito abiti su misura a personalità di spicco della cultura dell’epoca, tra cui De Sica, De Filippo e Malaparte. Questo è stato reso possibile in parte dalla sua abilità nel produrre, a Napoli, per primo, giacche destrutturate e leggere tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50. Tale innovazione ha contribuito significativamente alla sua reputazione e alla diffusione della sua influenza nell’artigianato sartoriale. Ulteriormente, la conferma della sua posizione preminente nel mondo della sartoria si è manifestato nel 1941, quando ha ottenuto il diritto esclusivo di utilizzare lo stemma della casa reale di Umberto di Savoia, l’ultimo re d’Italia. Questo riconoscimento ufficiale ha contribuito a sottolineare la sua autorità nel campo della sartoria fine, consolidando la sua reputazione come punto di riferimento per l’eleganza e l’eccellenza artigianale.21
La “London House” diventa il crocevia in cui storia e tradizione si fondono in modo armonioso con l’informalità e l’eleganza. Questo luogo non è stato solo un club, ma è diventato il simbolo di una concezione più libera e personale dello stile, in cui la storia e la tradizione si abbracciano con l’innovazione e l’individualità. Gennaro Rubinacci, con la sua genialità, ha trasformato l’atto di vestire in un’espressione di personalità e creatività, creando un’eredità che va oltre i confini della sartoria e influenzando il modo in cui gli uomini concepiscono la loro identità attraverso l’abbigliamento. Infatti, questo luogo costituiva un’associazione esclusiva e un punto di incontro peri i cittadini più influenti di Napoli. L’opportunità di commissionare un abito su misura o una serie di cravatte era considerata quasi secondaria rispetto all’interazione sociale, alle conversazioni argute e ai discorsi che caratterizzavano gli incontri tra l’élite aristocratica e gli uomini d’affari abbienti.22
La sartoria Rubinacci si è trasformata in uno spazio polifunzionale, non solo luogo d’incontro per i clienti, ma anche un vero e proprio centro di formazione per coloro che desideravano apprendere l’arte dell’eleganza su misura. In questo contesto, uno dei giovani talenti destinati a lasciare un’impronta significativa è stato Vincenzo Attolini, incaricato di sovrintendere a una crescente squadra di sarti.
Nel cuore di questo ambiente dinamico, Rubinacci e la “London House” diventano i fornitori di abiti per uomini che dominano la scena culturale dell’Italia del dopoguerra.23 Tra gli illustri clienti spiccano nomi come il rinomato attore e regista Vittorio de Sica e l’uomo di teatro Eduardo De Filippo. È in virtù della connessione instaurata con Vittorio De Sica che si può affermare che la collaborazione tra Rubinacci e l’industria cinematografica ha trovato un ancoraggio significativo. La sua interazione con De Sica non si è limitata alla progettazione di abiti per le produzioni cinematografiche, bensì ha dato origine a un legame di fiducia così saldo che ha consentito all’attore, divenuto successivamente un abile regista, di affidarsi a Rubinacci anche per la confezione di abiti destinati alla sua vita privata. Nel contesto cinematografico, merita particolare menzione il frac realizzato da Rubinacci nel 1937 per Vittorio De Sica nel film Il signor Max.
La vicenda di Gianni, l’edicolante romano, che decide di abbandonare la routine quotidiana per un’esperienza di crociera, costituisce un affascinante esempio di esplorazione delle dinamiche sociali e degli aspetti psicologici legati alle scelte di vita. La sua decisione di investire il ricavato di un intero anno di duro lavoro ad una breve vacanza in crociera può essere interpretata attraverso una lente sociologica, evidenziando il desiderio umano di fuggire temporaneamente dalle responsabilità quotidiane.
Durante la crociera, Gianni si imbatte nell’affascinante Donna Paola, dando vita a un intrigo romantico che si sviluppa attraverso l’adozione dell’identità di Max, l’amico benestante. Questo stratagemma, caratterizzato da una sorta di “mascheramento sociale”, può essere analizzato attraverso il prisma della psicologia sociale, rivelando la volontà di Gianni di presentarsi in una luce diversa per conquistare l’interesse di Donna Paola.
La collaborazione tra Rubinacci, il regista Mario Camerini e probabilmente il costumista Gino Carlo Sensani, si inscrive, per questo film, in un contesto artistico e cinematografico che va oltre la mera creazione di costumi, ma si estende alla rappresentazione visiva e simbolica dei personaggi e delle trame narrative. L’apporto della sartoria Rubinacci aggiunge un livello di autenticità e precisione nel delineare il personaggio del protagonista, il giornalaio che assume l’identità del ricco Max per conquistare l’affascinante ragazza benestante.
Il focus sul frac nel film rivela l’importanza di questo indumento nell’evoluzione della trama. La richiesta al protagonista di possederne uno per partecipare a una serata di gala sottolinea l’elemento del travestimento e l’aspirazione del personaggio a immergersi in un mondo sociale altrimenti inaccessibile. Attraverso il linguaggio visivo, questo indumento diventa un simbolo di status e di aspirazioni, veicolando significati culturali e sociali che arricchiscono la narrazione cinematografica. È plausibile ipotizzare che Rubinacci abbia contribuito non solo con il frac (Fig. 1), ma anche con altri abiti di scena per il film, garantendo coerenza e coesione stilistica nell’abbigliamento del protagonista. La scelta di far indossare sempre al protagonista una giacca con manica a mappina napoletana (Fig.2) può essere interpretata come un elemento visivo che sottolinea la persistenza dell’autenticità del personaggio principale nel corso della trama.
La sinergia tra Rubinacci e Vittorio De Sica continua nel film L’Oro di Napoli del 1954. La creazione di un cappotto per un personaggio interpretato da De Sica — insieme a grandi volti del cinema italiano come Sophia Loren, Eduardo De Filippo, Antonio De Curtis —, che ricopre sia il ruolo di attore che di regista, sottolinea la profonda connessione tra l’industria cinematografica e la tradizione artigianale della sartoria napoletana. Questa collaborazione diventa un caso di studio interessante in cui la moda e il cinema convergono, fornendo un esempio eloquente di come la sartoria possa contribuire all’estetica e alla caratterizzazione visiva di un’opera cinematografica. La decisione di rendere visibile, anche solo a tratti, il logo della casa di alta sartoria Rubinacci (London House) in alcune inquadrature — si può notare, ad esempio, al 13’ — è un esempio di come il regista intenda mettere in evidenza la collaborazione con la sartoria stessa. Questo gesto può essere interpretato come un’implicita dichiarazione di orgoglio nei confronti della qualità artigianale della sartoria napoletana e della sua importanza nel contesto cinematografico (Fig. 3). Dal punto di vista del marketing, questa visibilità del logo può essere considerata come una strategia per promuovere sia il film che l’eccellenza sartoriale.
Oltre a vestire icone culturali, la sartoria diventa una scuola di artigianato, dove giovani aspiranti sarti hanno potuto apprendere i segreti di questa nobile arte. La trasmissione delle conoscenze è avvenuta in un contesto in cui la maestria artigianale si è fusa con la creatività, dando vita a una nuova generazione di talenti che hanno portato avanti il prestigio e l’eredità di Rubinacci.24
In questo modo, la sartoria Rubinacci non solo incide sul panorama della moda e dell’eleganza, ma anche sulla formazione di nuove generazioni di artigiani, consolidando il suo ruolo di punto di riferimento per l’arte sartoriale napoletana e italiana.
Attolini, invece, traccia un percorso rivoluzionario all’interno della sua bottega sita in via Vetriera; di fatti, tra le mura di quell’atelier, sembrerebbe essere nato un capo d’abbigliamento senza precedenti, una giacca che sfidava gli standard dell’epoca, completamente destrutturata e lontana dall’austerità dei completi impeccabili provenienti dalle eleganti sartorie inglesi di Savile Row.25
Negli anni ’30, Napoli brillava come una delle città più raffinate ed eleganti d’Italia. La moda napoletana, all’epoca, rappresentava un amalgama tra lo stile inglese, con le sue radici profonde, e le influenze francesi e spagnole, conferendo alla città un’identità unica che ben presto sarebbe diventata celebre in tutta la penisola.
Per quasi tre decenni, dall’inizio del XX secolo fino agli anni ’30, lo stile napoletano si è riflettuto quasi integralmente nello stile inglese. Nonostante le differenze climatiche, con un clima decisamente meno freddo rispetto alla Gran Bretagna, e la scomoda rigidità delle strutture dei vestiti, i napoletani hanno sentito la pressione sociale di vestirsi seguendo i canoni britannici per essere considerati veramente eleganti.26
L’ispirazione di Vincenzo è scaturita dalla sua attenzione alle esigenze dei suoi clienti, che lamentavano la pesantezza e la limitazione dei movimenti nelle tradizionali giacche. Determinato a offrire una soluzione pratica e confortevole, il maestro sartoriale ha ideato un capo che ha segnato un’innovazione nella storia della moda. Senza sapere quanto il suo gesto avrebbe influenzato il panorama fashion, Vincenzo Attolini ha creato una giacca che andava oltre la semplice vestibilità, inaugurando una nuova era di stile.27 Secondo quanto riportato dalla famiglia Attolini nel loro magazine “Timeless FW 2023/24”, difatti, il merito dell’ideazione della giacca napoletana secondo gli stereotipi contemporanei va al nonno, Cesare, che ha stabilito gli standard iconici oggi riconosciuti. Il suo contributo si è focalizzato sulla necessità di sviluppare un capo d’abbigliamento che offrisse una vestibilità più confortevole, adeguandosi alle esigenze del clima caldo di Napoli e al temperamento vivace dei suoi abitanti. Questa visione innovativa ha contribuito in modo significativo alla diffusione della fama della giacca napoletana nel panorama internazionale dei capispalla.
L’eredità di questo audace pioniere è stata portata avanti con maestria da suo figlio Cesare, che non solo ha mantenuto viva la fiamma della creatività, ma ha perfezionato il modello originale adottato da suo padre, elevandolo ai massimi livelli qualitativi. Così, attraverso le generazioni, la visione di Vincenzo Attolini ha continuato a brillare, lasciando un’impronta indelebile nella moda italiana e mondiale.
In relazione alla sartoria Attolini, si evidenzia una rilevante sinergia con l’industria cinematografica, particolarmente connessa alla collaborazione instaurata con l’acclamato attore Toni Servillo nel contesto della realizzazione del film premio Oscar La Grande Bellezza (2013).
Jep Gambardella, protagonista del suggestivo scenario cinematografico delineato da Paolo Sorrentino, emerge come un’icona della vita notturna di Roma, una figura enigmatica che ha incantato gli spettatori per decenni. Il racconto della sua storia si snoda attraverso i lussuosi locali notturni, le feste sfarzose e gli eleganti caffè, in cui Gambardella ha danzato sulla linea sottile tra frivolezza e profondità. La storia di Jep Gambardella offre uno spaccato della psicologia umana, affrontando tematiche esistenziali universali. La sua metamorfosi interiore, innescata da questa inaspettata epifania, diventa il punto focale di una narrazione che va oltre la superficie delle feste mondane per esplorare la profondità della condizione umana.28 Sorrentino, attraverso la sua regia innovativa, conduce il pubblico in un viaggio emozionale e intellettuale, sfidando le convenzioni narrative e sondando le complesse stratificazioni della vita di Jep.
Il paesaggio senza tempo di Roma diventa un elemento centrale nel processo di riflessione di Jep. L’arte visiva di Sorrentino si manifesta nella rappresentazione di monumenti e scorci della città eterna, catturando l’essenza intrinseca di un luogo che trascende le epoche. La bellezza di Roma, nella sua forma assurda e squisita, diventa una metafora visiva per la bellezza effimera e complessa della vita stessa.29
Tale convergenza rappresenta un’intersezione peculiare tra l’arte sartoriale e l’espressione visiva del cinema, delineando una connessione tangibile tra il mondo della moda e la settima arte. Un’analisi approfondita di questa collaborazione e degli abiti indossati (completo da giorno monopetto e doppiopetto, frac, tight, smoking) offre l’opportunità di esplorare le dinamiche e le influenze reciproche tra la sartoria Attolini e il linguaggio cinematografico, contribuendo così alla comprensione delle interazioni multidisciplinari che permeano l’industria della moda e del cinema.30
La storia della collaborazione ha lasciato un’impronta indelebile nel mondo della moda cinematografica. Un capitolo di particolare rilievo che non solo ha catturato l’essenza della bellezza visiva, ma ha anche fatto emergere la maestria sartoriale di Cesare Attolini.
Questa sinergia tra il talento cinematografico e l’artigianato sartoriale ha raggiunto il culmine nel 2014, quando La Grande Bellezza ha conquistato l’Oscar. Per celebrare questo successo, l’atelier Attolini ha pubblicato un libretto riccamente illustrato, arricchito da un’intervista esclusiva a Toni Servillo.31 Le pagine del libretto hanno colto l’essenza del film, mostrando immagini straordinarie accanto a fotografie dell’attore nell’atelier napoletano, avvolto nella perfezione delle giacche create dallo stesso Cesare.
Questa non è stata l’unica incursione cinematografica degli Attolini. Nel 2008, prima di La Grande Bellezza, hanno contribuito ai costumi del film Il Divo, anch’esso diretto da Sorrentino e interpretato da Toni Servillo nel ruolo del potente politico Giulio Andreotti.
Nell’atmosfera silenziosa e sonnolenta di Roma, all’alba, emerge una figura inquietante e inesorabile: Giulio Andreotti. Quest’uomo, che si distingue dalla massa dormiente, è il protagonista di una narrazione intricata e ambigua che attraversa il tessuto della politica italiana. Il suo non dormire non è solo una questione di attività incessante, ma rappresenta metaforicamente l’incessante opera del potere che lo avvolge come una seconda pelle. La storia di Giulio Andreotti si configura come uno studio di potere, politica e resistenza. La sua figura, incastonata nella trama intricata della storia italiana, offre spunti di riflessione sulla natura del potere, sulla sua durata e sulla sua relazione con le forze controverse che possono minacciarlo.32
La sfida di incarnare due personaggi così contrastanti ha evidenziato l’abilità degli Attolini nell’adattare la loro arte a diverse personalità. Servillo stesso ha sottolineato la dedizione di Cesare Attolini, il quale, per il ruolo di Andreotti, ha innovato con camicie dai colletti straordinariamente alti e giacche sagomate, trasformando l’attore nel carattere rigido e distintivo del politico.33
Paolo Sorrentino si distingue nel panorama cinematografico per la sua abilità unica nel comunicare attraverso un linguaggio cinematografico “sui generis”, caratterizzato da una libertà espressiva che sfida le convenzioni tradizionali. Il regista napoletano, con la sua narrazione talvolta misteriosa e intrigante, penetra profondamente nel tessuto sociale e culturale dei luoghi e delle persone, rivelando aspetti nascosti e spesso trascurati. Il suo desiderio di trasmettere un messaggio di potere, lusso e ostentazione emerge in modo eloquente attraverso le sue opere cinematografiche. Sorrentino fa uso di una narrativa visiva ricca di simbolismi e metafore visive, che si traducono in una rappresentazione tangibile del potere attraverso immagini iconiche e lussuosi dettagli scenografici. La sua capacità di portare sullo schermo non solo storie ma anche atmosfere e sensazioni contribuisce a creare un’esperienza cinematografica immersiva.34
Nel suo impegno artistico, Sorrentino non si limita a narrare storie, ma si propone di portare con sé un frammento della sua storia personale e delle radici napoletane. La sua profonda connessione con Napoli si manifesta nel mettere in evidenza i tratti peculiari delle persone e del popolo, catturando l’essenza dell’aria che si respira in città.
L’inclusione degli abiti di Cesare Attolini — disegnati dalla costumista Daniela Ciancio35 — nei progetti cinematografici di Paolo Sorrentino non è solo una collaborazione tecnica, ma un’iniezione di raffinatezza e autenticità nelle trame visive dei film. Attraverso questa sinergia tra cinema e alta moda, il regista napoletano arricchisce il suo linguaggio artistico, evidenziando il potere della moda non solo come mezzo di espressione estetica, ma come componente fondamentale nel tessuto narrativo delle sue opere.
Nel contesto cinematografico della sua opera, la scelta accurata dei colori degli abiti indossati dal personaggio Jep riveste un ruolo di primaria importanza, rivelando una profonda connessione con il simbolismo cromatico e suscitando riflessioni su aspetti socioculturali e psicologici. L’analisi di tali scelte cromatiche può essere esplorata attraverso una lente scientifica, considerando le implicazioni storiche e culturali associate a ciascun colore.
Il protagonista sfoggia abiti dai colori audaci come il nero, il rosso, il giallo e il blu, ognuno dei quali incarna un significato simbolico profondo. Il nero, ad esempio, può essere interpretato come un simbolo di potere politico, richiamando una tradizione che affonda le radici nel XVI secolo, quando il nero divenne indicatore di ricchezza e buon gusto, consolidandosi come una scelta di prestigio nel vestiario aristocratico.36
Il rosso, invece, è associato alla passione, evocando emozioni intense e vibranti. Questo colore, intriso di simbolismo, trasmette un messaggio visivo che sottolinea la vitalità e l’energia emotiva del personaggio di Jep.37 Parallelamente, il giallo, con la sua connessione al sole e all’oro, assume connotazioni di positività, diventando un simbolo di splendore e ricchezza. La scelta del giallo nei costumi di Jep potrebbe essere interpretata come una rappresentazione visiva della sua ricerca di luminosità e abbondanza nella vita.38
Il blu, infine, porta con sé una dualità di significati. Mentre in molte culture è associato alla tristezza, riflettendo sulle sfumature più oscure dell’animo umano, può anche rappresentare la tranquillità. In questo contesto, il blu potrebbe essere interpretato come un riflesso delle complesse emozioni del protagonista, rivelando una profondità psicologica attraverso il suo abbigliamento.39
La costante ricerca di significato nel vestiario di Jep non solo arricchisce la narrazione cinematografica, ma apre anche la porta a un approfondimento delle sfumature simboliche che contribuiscono a definire la complessità del personaggio e del contesto narrativo.
Il regista, con la sua attenzione al dettaglio, si prodiga per mettere in risalto elementi chiave della sartoria partenopea, contribuendo così a creare una narrazione visiva.
Uno degli aspetti più evidenti che emergono dalla pellicola è la presenza ricorrente delle maniche a mappina (Fig. 4), i quattro bottoni sovrapposti sulle maniche, le tasche a barchetta e a ferro di cavallo (Fig. 5). L’attenzione di Sorrentino a questi dettagli sartoriali non è casuale, ma riflette, probabilmente, la sua volontà di immergere lo spettatore nella bellezza intramontabile della sartoria napoletana; crea un dialogo visivo che celebra l’arte dell’abbigliamento locale, inserendo la moda come elemento narrativo e culturale nell’opera cinematografica.
In questo connubio tra cinema e sartoria, gli Attolini hanno dimostrato di essere non solo artigiani della moda, ma anche narratori di storie attraverso i loro capolavori su misura.
I nipoti di Vincenzo, eredi di Cesare Attolini, nel corso di un’intervista rilasciata nel 2016 per il testo Italian Style. Fashion & Films for Early Cinema to the Digital Age di Eugenia Paulicelli, hanno svelato le origini di una collaborazione straordinaria che ha segnato un incontro di creatività e maestria artigianale nel mondo del cinema. Il racconto inizia nel 2008, durante la preparazione del film Il Divo, quando si è verificato un vero e proprio colpo di fulmine tra due mondi: quello della straordinaria sartoria Attolini e l’eccezionale talento dell’attore Toni Servillo.
I nipoti hanno raccontato di aver compreso sin da quel primo incontro le esigenze narrative per le quali il loro contributo sarebbe stato richiesto. La loro missione, semplicemente, era mettere a disposizione i loro costumisti e l’intero know-how a disposizione di Toni Servillo, con l’unico desiderio di contribuire alla costruzione autentica del personaggio che l’attore avrebbe interpretato sullo schermo.
“In queste situazioni, devi riconoscere che i vestiti fanno l’uomo, sia sul set che nella vita di tutti i giorni”, hanno affermato Massimiliano e Giuseppe Attolini. Hanno inoltre sottolineato come Toni Servillo, in diverse occasioni, abbia manifestato profonda ammirazione per la capacità sartoriale di Cesare Attolini nel guidarlo attraverso i suoi abiti nell’incarnare la personalità complessa di Giulio Andreotti. Rivelando il dietro le quinte del processo creativo, hanno spiegato che, abbandonando l’idea tradizionale di eleganza morbida e non strutturata, Cesare Attolini ha raggiunto il successo. Ha realizzato un colletto per le camicie che raddoppiava l’altezza, facendo scomparire il collo di Toni, tagliando le giacche in modo che si curvassero elegantemente sul collo e creando spalle sproporzionate per ottenere una figura curva, costringendo così Servillo ad assumere posture e gesti innaturali e rigidi, per una performance autentica e coinvolgente.40
Gli anni successivi hanno visto la collaborazione persistere, questa volta, come anticipato, per il film La Grande Bellezza. Hanno contribuito identificando forme, colori e tessuti che avrebbero incarnato la verve, il gusto raffinato e la qualità estroversa del personaggio Jep Gambardella. In questo modo, la sartoria Attolini ha nuovamente giocato un ruolo cruciale nel plasmare ed elevare l’interpretazione di Toni Servillo, confermando la loro straordinaria alchimia artistica nel connubio tra moda e cinema.
Conclusioni
Attolini e Rubinacci non sono solo case sartoriali, ma custodi di una tradizione che ha vestito e impreziosito la cinematografia napoletana nel corso dei decenni. Hanno collaborato con icone del cinema passato come Vittorio de Sica, Totò, Eduardo de Filippo e del cinema nuovo come Toni Servillo, George Clooney, Johnny Deep, contribuendo a definire il loro stile in modo inconfondibile. Le creazioni, caratterizzate da tagli impeccabili e tessuti pregiati, hanno incarnato l’eleganza classica reinterpretata in chiave moderna, conferendo agli attori un’aura di raffinatezza senza tempo.
In questo modo, la figura del sarto napoletano e in particolare quelle di Attolini e Rubinacci si confermano come pilastri dell’arte sartoriale napoletana, trasformando la moda in una forma d’arte che dialoga con la cinematografia, contribuendo a creare personaggi indimenticabili sul grande schermo e consolidando la reputazione di Napoli come culla di eleganza e stile.
D’altra parte, il cinema riveste un ruolo molto rilevante perché rappresenta una prova di forza contro l’azione distruttrice del tempo e ci aiuta a tenere in ordine i rapporti con il passato per ricordare chi siamo e cosa abbiamo vissuto. Nel corso del tempo le pellicole d’autore hanno dato anche un supporto essenziale ai sistemi di comunicazione e promozione della moda, contribuendo, attraverso la rappresentazione dei luoghi come i siti antichi del Mezzogiorno e i paesaggi dei borghi e delle città d’arte italiane, all’affermazione del Made in Italy.
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Vedi Sorrentino, 219–232.↩︎
Vedi Paulicelli, Italian Style, 185–191↩︎
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Vedi Paulicelli, 233–238↩︎
Vedi Francesco Vigni, La Maschera, Il Potere, La Solitudine. Il Cinema Di Paolo Sorrentino (Montevarchi: Aska Edizioni, 2014).↩︎
Daniela Ciancio è una figura poliedrica nel panorama artistico italiano e internazionale, con una formazione multidisciplinare che spazia dalla direzione artistica alla storia del costume nel cinema. Ha fatto parte del consiglio di amministrazione della European Film Academy nel periodo 2010–2013 e della giuria degli EFA Special Awards nel 2015. Ha ricevuto diversi riconoscimenti per il suo contributo nel campo del costume cinematografico, tra cui due David Di Donatello per i migliori costumi nei film “Il Resto di Niente” (2005), diretto da De Lillo, e “La Grande Bellezza” (2013), diretto da Sorrentino. Fa, altresì, parte dell’Accademia europea del cinema (EFA), dell’Accademia italiana del cinema David di Donatello e dal 2014 dell’Accademia di arti e scienze del cinema. Oltre al cinema ha esteso la sua esperienza anche alla televisione, al teatro e all’opera, sia in Italia che all’estero.↩︎
Caroline Young, I Colori Della Moda. Storia Dell’abbigliamento in Dieci Colori (24 Ore Cultura, 2023), 14–37.↩︎
Vedi Young, 180↩︎
Vedi Young, 110–130↩︎
Vedi Young, 62–85↩︎
Vedi Paulicelli, 233–238↩︎