Frutto di un approfondito studio di ricerca del Fondo Emilio Schuberth donato dalla figlia di quest’ultimo al Centro Studi e Archivio della Comunicazione (CSAC) dell’Università di Parma, Emilio Federico Schuberth. Moda e media ai tempi della Dolce Vita indaga sulla vita e sull’opera del grande couturier morto nel 1972. Il volume — il secondo sul couturier, dopo quello pubblicato nel 2004 da Bonizza Giodani Aragno — scritto da Dorothea Burato, assegnista di ricerca all’Università degli Studi Aldo Moro di Bari, si concentra essenzialmente sul rapporto del couturier napoletano con il mondo dello spettacolo.
Non dobbiamo dimenticare che Schuberth lavora a Roma, e che la Città Eterna nell’immediato Secondo dopoguerra era il fulcro dei rapporti tra moda e cinema.Il fascino della capitale era entrato a tal punto nell’immaginario internazionale che William Wyler decise di ambientarvi Vacanze Romane (1953), il film in cui una Audrey Hepburn agli esordi, completamente frastornata dalla bellezza di Roma, dimentica completamente ogni dovere di principessa in visita ufficiale abbandonandosi tra le braccia di un fascinoso giornalista (Gregory Peck). “Ispirato” annotava un’osservatrice attenta come Irene Brin “alle vacanze che la principessa Maragareth d’Inghilterra aveva trascorso a Roma seguita dal colonnello Peter Townsend, Vacanze romane non fu soltanto girato a Palazzo Brancaccio, ma un poco in tutti gli angoli di Roma”.
Stava nascendo la Hollywood sul Tevere. Belle e famose, le stelle del cinema internazionale arrivavano a Roma per interpretare negli stabilimenti di Cinecittà schiave e regine, ancelle e imperatrici. E, nelle pause, iniziarono a frequentare i nuovi atelier della capitale, tra cui spiccava quello di Schuberth.
Quando nel 1953 Ava Garner e l’imperatrice Soraya approdarono a Roma, Irene Brin sulle pagine di Bellezza si chiedeva: “Chi sarà la bellissima donna che mostra guance di magnolia ed occhi di smeraldo Ava o Soraya, l’Imperatrice o la diva? Si somigliano, e forse lo vogliono e certo lo sanno. Gli stessi contrasti di nero e di bianco, le stesse sopracciglia folte, le stesse dense ciglia ricurve e la malinconica alterigia del gesto”. Sembrava che le sorti di queste due magnifiche creature si dividessero solo in sartoria. Se la diva era una fedelissima delle Sorelle Fontana, l’imperatrice aveva un debole per i rivoli scintillanti di Schuberth che fondevano armoniosamente opulenza ottocentesca e glamour contemporaneo.
“Per tutti gli anni Cinquanta” scrive Burato “la visita all’atelier di Schuberth era una tappa obbligata per le donne dell’aristocrazia e le dive del cinema. Nel lussuoso spazio di via XX Settembre si esaurisce la differenza tra il palcoscenico e la passerella, tra la sfilata e il set cinematografico: per le clienti più importanti, il sarto trasforma la semplice prova in un rituale dal sapore fiabesco. I suoi abiti sono declinazioni di un’idea di moda che si basa in primo luogo sull’esaltazione della femminilità”.
Accanto a dive internazionali come Bette Davis e Gloria Swanson, sottolinea l’autrice, le due grandi muse di Schuberth sono state Sophia Loren e Gina Lollobrigida. Quando la Lollo varcò per la prima volta la porta del suo atelier scriveva Michele Quiriglio su Cinema il 16 giugno 1956: “Era la tipica bella ragazza italiana che non sa bene come vuole essere e come deve vestire (…) lo sguardo ancora un po’ timido era incorniciato da capelli né lunghi, né corti, sempre un po’ spettinati. Schuberth li avrebbe voluti corti, la ebbe vinta. Nacque così la pettinatura alla Lollo. Cambiato il tipo si doveva cambiare la costruzione dell’abito. Niente più gonne larghe ma abiti fasciati”.
Erano gli anni in cui la moda italiana era dominata dalle ‘reginette’ uscite dai concorsi di bellezza e in cui la Lollo si contendeva con la Loren il primato della maggiorata. Anche nel caso della Loren fu Schuberth a costruirne il look e a trasformarla da tipica bellezza partenopea in musa internazionale del gusto. “Seguendo i consigli di dieta e di ginnastica che Schuberth le diede la prima volta che la vide, ha potuto facilmente plasmare il proprio corpo. Veste da diva. E le donne guardano, osservano, copiano” si legge nel 1956 su Cinema.
I suoi modelli — famosi anche per gli originali procedimenti di realizzazione che vedevano accostati insieme spago e filo di seta, paglia e strass — erano famosi per la l’eccentricità dei nomi come ad esempio “Oggi mi sento felice”, “Ho un amore importante”, “Mi hai stregato”, “Cuore di Schuberth”. Il suo estro emerge anche dal modo in cui amava presentarsi. “Leggero, veloce, incredibile, con la blusa aperta da cui spuntano gioielli che sono grandi decorazioni francesi, Schuberth trascorre i suoi saloni dando impressione di una genialità che, organizzandosi, non ha perso nulla della sua leggerezza”. Così Gianna Manzini descrive nel 1953 Emilio Federico Schuberth sulle pagine di “La fiera letteraria”.
Tutti dettagli che, insieme ai gioielli, alle unghie laccate, al fondotinta e al suo particolarissimo “riporto” che, per coprire la calvize, formava una vezzosa virgola sulla fronte, sembrano avere più di qualcosa di comune il genderfluid del dei nostri giorni.