“Che la moda abbia un passato sembra quasi una contraddizione in termini: considerata passeggera e fuggevole per definizione, la moda non è solo ciò che è di moda oggi, ma anche un processo che si articola nel tempo”.1
“And perhaps that rich dark archeology remains men’s fashion’s most poignant beauty: that wonder, iniquity and sadness are woven through our fashion history, warp and weft, its inescapable undergirding”.2
Fashioning masculinities: the art of menswear
Dal 19 marzo al 6 novembre 2022, il museo Victoria & Albert di Londra ospita la mostra Fashioning Masculinities: The Art of Menswear, curata da Claire Wilcox e Rosalind McKever — rispettivamente Senior Curator of Fashion e Curator of Paintings and Drawings del V&A — insieme al supporto della ricercatrice e curatrice Marta Franceschini. La mostra prende forma a partire dalla partnership con il brand di moda fiorentino Gucci e presenta il lavoro di exhibition making del progetto JA Projects, firmato dall’architetto londinese Jayden Ali. L’ampio set di discipline e competenze che caratterizza il team curatoriale e progettuale si manifesta in particolare nella varietà degli oggetti presenti in mostra, tra cui si contano abiti, calzature, accessori, ma anche dipinti, sculture, fotografie e materiali audiovisivi — per la maggior parte appartenenti alla collezione permanente del museo. Altri oggetti selezionati provengono invece dalle collezioni private di donatori, collezionisti — tra cui il guardaroba personale del mecenate d’arte Edward James — e di “fashion aficionados”3 come Mark Reed e Charlie Porter. La varietà dei materiali esposti e la costruzione tematica, corale e anti-cronologica del percorso espositivo rispecchia l’ambizione della mostra di stimolare riflessioni ampie e articolate sulle relazioni tra moda maschile, le proprie storie e la nozione proteiforme di mascolinità.
Suddivisa nelle sezioni tematiche Undressed, Overdressed e Redressed — riprese anche nel catalogo della mostra,4 — il percorso espositivo parte da un’analisi espansa del corpo maschile, di ciò che lo ha storicamente regolato e definito, e di ciò che lo ha per primo coperto. Successivamente, la sezione Overdressed traccia un excursus nel regno dell’iperdecorativismo, individuando le istanze in cui il menswear diviene territorio di ostentazione, glamour o eccesso. L’ultima sezione, Redressed, evidenzia infine la natura dinamica dell’abito maschile e le evoluzioni — spesso subdole e impercettibili, a volte invece palesi e radicali — dei suoi capisaldi sartoriali, come l’abito tre pezzi, esplicitando l’urgenza del menswear di ricodificarsi e revisionarsi continuamente in luce di cambiamenti sociali, culturali e identitari. Costellata da inaspettati rimandi storici e animata da cortocircuiti temporali — per esempio, la giustapposizione tra una figura ottocentesca come il dandy inglese George Bryan “Beau” Brummell e la sua controparte contemporanea incarnata dall’icona pop Harry Styles — Fashioning Masculinities si offre come esempio ideale per un’osservazione critica su come la moda maschile sia continuamente soggetta a riletture storiche e progettuali, in particolare quando letta attraverso la pratica del self-fashioning. Definita dallo storico della letteratura Stephen Greenblatt come “il processo individuale di costruzione di un’identità pubblica che esprima codici culturali e valori sociali”,5 la nozione di self-fashioning è la reale protagonista della mostra e della moda in essa presentata. Inoltre, funge da elemento che consente ai confini rappresentativi della mascolinità di sfumare, manifestandosi questa come libera autodeterminazione di sé, svincolata da costruzioni binarie e stereotipate. In quest’ottica, l’abito diventa così uno strumento ideale, un veicolo efficace, per la sperimentazione ed evoluzione del concetto stesso di mascolinità.
Date queste premesse, il contributo vuole dunque osservare criticamente il progetto espositivo, tentando da una parte di esplicitare le dinamiche che si instaurano tra curatela, abito e le sue temporalità; dall’altra, di dimostrare come la pratica del self-fashioning e il suo approccio antilineare alla storia della moda possa agire come strumento per una curatela espansa e articolata sulla moda maschile. In particolare, l’indagine si sofferma su tre casi studio tematici: la gestualità, le cromie e un caposaldo del guardaroba maschile — il completo sartoriale —, utilizzandoli come percorsi narrativi attraverso cui osservare il ruolo del self-fashioning nel menswear e in mostra. L’analisi condotta esplora questi temi appropriandosi della stessa metodologia adottata dal progetto curatoriale, instaurando cioè un dialogo corale e antilineare tra l’analisi degli oggetti in mostra e gli escamotage espositivi. Infine, la ricerca lascia spazio a ulteriori aspetti della mostra e ai limiti di questa, sottolineando l’urgenza di restituire la vastità e complessità del tema trattato. Per rendere il testo più fruibile, si è deciso di fare riferimento alla mostra chiamandola nella sua versione ridotta Fashioning Masculinities.
La moda maschile nel contesto del museo
Prima di addentrarsi nell’analisi della mostra in questione, è necessario posizionare il progetto espositivo all’interno della storia delle fashion exhibition dedicate alla moda maschile. Seguendo la parabola ascendente evidenziata dal ricercatore e docente Jeffrey Horsley già nel 20176 — che registra una proliferazione di mostre sul tema dall’avvento del nuovo millennio — Fashioning Masculinities non solo rappresenta uno degli esempi più recenti di progetti che testimoniano il crescente interesse verso la moda maschile, ma è anche la dimostrazione di uno spostamento di attenzione dal menswear — la sua funzione storica, sociale e creativa — al suo legame con il concetto di mascolinità. Nella sua analisi quantitativa, Horsley enuncia inoltre che “sartoria” e “tradizione” sono spesso i concetti che agiscono da forze motrici per la maggioranza di questi progetti curatoriali, evidenziando quanto la “tensione tra conformità/uniformità e stravaganza/innovazione”7 detenga un ruolo cruciale all’interno del processo curatoriale — un’ossessione che, in generale, nasce con l’avvento delle mostre di moda, come dimostrato dalla classificazione ideata nel 1997 dalla storica e curatrice Valerie Steele atta a compartimentalizzare gli intenti e tipologie di fashion exhibition.8
Un esempio di questa prassi viene descritta nel contributo parte del catalogo della mostra Fashioning Masculinities firmato dall’autore e ricercatore Satish Padiyar. L’autore cita9 un racconto pubblicato nel 1852 che, tramite un escamotage letterario che prevede un punto di vista maschile, esplicita senza mezzi termini il sentore comune all’alba dell’apertura dell’embrionale Victoria & Albert Museum, conosciuto allora come Museum of Ornamental Art. Il protagonista del racconto, Mr. Crumpet, afferma di sentirsi infelice e di vergognarsi tremendamente di sé da quando ha messo piede nel museo per visitare la mostra inaugurale curata dal fondatore Henry Cole, il cui obiettivo era di istruire il popolo inglese all’apprezzamento del “good design” e di stimolare così un progressivo abbandono di qualsiasi tipo di decorativismo spiccio. Il risultato della mostra è dunque una messa al vaglio della moda del tempo, minuziosamente scomposta per essere rivista e rivisitata in ogni sua minima parte.
Fino agli anni ’70 del XX secolo,10 inoltre, le istituzioni museali si occupano di esporre abiti e accessori privilegiando percorsi cronologici e lineari, seguendo cioè un approccio considerato ideale per raccontare un’evoluzione consequenziale delle fogge di un determinato periodo e contesto geografico che ne dimostri il progressivo miglioramento. Questa tradizione curatoriale, che prende le sue mosse tanto dall’ambizione enciclopedica dei musei nazionali ottocenteschi — come lo stesso V&A — quanto dall’idea di progresso modernista, viene gradualmente meno con l’avvento del Postmodernismo, periodo in cui grandi certezze e sicure metodologie vacillano di fronte a un’interpretazione plurale, labirintica,11 frammentaria, sincopata e soggettiva della realtà. Non a caso, la mostra spartiacque individuata da Judith Clark, Amy De La Haye e Jeffrey Horsley nel loro volume “Exhibiting Fashion: Before and After 1971” è Fashion: An Anthology by Cecil Beaton, allestita presso il V&A proprio nel 1971 e considerata, per mole, estensione e curatela, il progetto che ha sancito il vero ingresso della moda nello spazio museale. È in questo momento che il discorso attorno alla storia della moda — e sulla sua messa in mostra — si espande e inizia a farsi più fitto, dove le relazioni tra passato e presente si moltiplicano e districano su innumerevoli binari sovrapposti e sovrapponibili. Dall’idea di “Tigersprung”12 introdotta dal filosofo Walter Benjamin al concetto di “ucronia” di Charles-Bernard Renouvier, teorie speculative e interpretazioni filosofico-storiche inedite vengono così applicate alla moda in mostra e ai suoi passati — già profeticamente definiti dal mondo letterario come effimeri, mutevoli e cangianti.13
Lontana invece da qualsiasi ambizione riformista e aperta a una discussione sia sul presente che sui passati della moda maschile, la mostra Fashioning Masculinities si presenta sì come uno degli esempi più recenti di fashion exhibition temporanee dedicata alla moda maschile presso il V&A — la prima, Men in Skirts, era stata inaugurata a febbraio 2002 — ma anche come alternativa a una visione dicotomica o progressista sul vestiario maschile. Piuttosto, la mostra propone infatti un caleidoscopio di narrazioni che evidenziano le evoluzioni e involuzioni dell’abbigliamento maschile — centrale soprattutto nella sezione Redressed — esplicitate da una curatela eterogenea e composita. In particolare, la mostra rappresenta il primo esperimento dell’istituzione museale a introdurre il concetto di self-fashioning all’interno del discorso sulla mascolinità e dimostra il tentativo del V&A di celebrare le relazioni tra menswear e le sue temporalità, dispiegando la varietà, le potenzialità e i percorsi dell’abbigliamento maschile all’interno della propria cornice istituzionale. Ragionando sul catalogo della mostra, la curatrice Rosalind McKever sottolinea come la metodologia applicata alla progettazione del catalogo e della mostra conservi in sé un’idea di pluralità storica agli antipodi rispetto all’approccio prettamente storico-cronologico e progressista della tradizione museale in moda.
Our authors, with expertise ranging from the early modern to the contemporary, do not attempt a linear menswear history. Instead, whether inspired by a single object or examining a larger theme, they trace resonant connections across and beyond European menswear histories.14
Lo stesso approccio viene ripreso anche nelle scelte di exhibition design, che estetizzano i cortocircuiti cronologici presenti in mostra attraverso giochi di scorci tra le sue varie sezioni — nelle parole di McKever: in qualsiasi momento, all’interno del percorso espositivo, “percepisci dove sei, da dove sei arrivato e dove stai andando”.15 Immaginando traiettorie narrative “attraverso il menswear”,16 la mostra e il catalogo guardano ai passati della moda “per ispirare un futuro dove la creazione di abiti permetta alle persone di essere chiunque vogliano essere”.17 Dalle sezioni tematiche alla metodologia individuata per la mostra, Fashioning Masculinities tenta in definitiva di scollinare le classificazioni tradizionali delle mostre di moda maschile utilizzando la lente del self-fashioning per innescare sia corsi e ricorsi storici nella moda sia per la proliferazione di nuove definizioni — anche immaginative, mitologiche, anacronistiche — di mascolinità.
Il tempo del menswear
È evidente quanto il concetto di temporalità sia centrale all’interno di un discorso sulla moda e la sua messa in mostra; tema protagonista del volume Il tempo della moda del 2019 redatto dalle teoriche e storiche della moda Caroline Evans e Alessandra Vaccari. Le autrici considerano infatti la moda come “un mezzo di comunicazione basato sul tempo e con un suo tempo specifico, molto più di ogni altro ambito del design”,18 e si approcciano alla tematica per fare luce su tre temporalità distinte (ma non circoscritte) della moda: il tempo industriale, antilineare e ucronico. Attraverso la triplice lente che passa dal tempo razionale e consequenziale dell’industria a quello antilineare caratterizzato dai concetti di “ciclicità, ricombinazione, citazione e revival”,19 e concludendo poi con il tempo ucronico — ossia il tempo letterario, fantascientifico, immaginativo e mitologico —, il volume propone così una serie di testi esplicativi dell’indole proteiforme e speculativa tipica della moda e delle sue relazioni con il tempo.
Anche nel volume Moda. Storia e Storie — un compendio di ventuno contributi presentati durante il convegno “Storie di moda/Fashionable Histories” tenuto dall’Università di Bologna nel 2008 — i docenti Maria Giuseppina Muzzarelli, Giorgio Riello ed Elisa Tosi Brandi si interrogano sulle specificità della relazione della moda con la propria storia, soprattutto quando analizzata attraverso uno sguardo multidisciplinare, tracciando così un caleidoscopio di interpretazioni, metodologie e approcci. Come esplicitato nell’introduzione dal gruppo editoriale, la storia della moda viene intesa come molteplice e la macro-linea di successione di stili si trova continuamente costellata e alimentata da una pletora di biografie, soggettività e oggetti, portatori e portatrici delle loro personalissime storie.20
Gli epicentri di queste reti temporali sono indubbiamente gli abiti stessi, intesi non come oggetti sterili ma come “l’incrocio di una serie di traiettorie, esattamente come un evento storico”,21 come “archeologie o oracoli”,22 come “stratificazione”23 di “culture, identità e storie”.24 Altamente multidimensionali, carichi di temporalità distanti e talvolta discordanti, gli abiti mettono in netta discussione il concetto di cronologia e successione, incarnando la natura composita e agile della moda, i suoi innumerevoli (auto)riferimenti e la sua capacità di definire dei “punti di rottura”25 nelle definizioni geografiche, identitarie, di genere e di classe.
Nel caso specifico della moda maschile, le relazioni con la propria temporalità si fanno ancora più dirompenti, trovandosi storicamente “all’ombra”26 della moda femminile. Nei suoi studi, il ricercatore Christopher Breward collega infatti l’apatia collettiva che ha aleggiato sulla moda maschile a un “crescente interesse per le manifestazioni sociali, economiche e politiche del patriarcato” il quale avallava una visione rinunciativa verso l’abbigliamento maschile relegando il “gusto alla moda nel mondo delle donne e degli uomini non conformi”. 27 Breward prosegue sottolineando che “[l]a mancanza di spazio dedicato all’abbigliamento maschile nella documentazione storica era stata ‘naturalizzata’” come la conseguenza spontanea “dell’attenzione minima che si presume fosse stata dedicata alle questioni sartoriali dalla maggior parte degli uomini del XIX secolo”.28
Questa consapevolezza trova le sue radici nelle teorie legate al genere sviluppatesi durante il XIX secolo, ed evidenzia quanto la scarsa considerazione verso l’abbigliamento maschile abbia rappresentato una delle cause dello sviluppo del menswear. Attraverso il suo pensiero, il Senior Lecturer in Sociologia alla University of Leicester Tim Edwards, sottolinea l’importanza della moda maschile in quanto “microcosmo del macrocosmo degli uomini, della mascolinità e della società. […] Di conseguenza, ciò che lo studio della moda maschile rappresenta, per eccellenza, è la persistenza di atteggiamenti di genere, relazioni di genere e stereotipi di genere riguardanti gli uomini, la mascolinità e il loro posto nella società”.29 Nel corso del XXI secolo, le indagini sull’abbigliamento maschile non si sono esaurite, entrando a fare parte degli interessi dei fashion studies. Come affermano i docenti Reilly e Blanco: “[l]a moda maschile è essenziale per creare, performare e mettere in discussione costrutti culturali sulla mascolinità. La scelta dell’abbigliamento non è solo centrale allo sviluppo di specifiche concezioni della mascolinità; la moda, infatti, è spesso un segno per tipi specifici di mascolinità”.30
Saranno poi gli anni ’90 ad affermarsi come momento cruciale di ricerca ed evoluzione per gli studi sulla mascolinità nel contesto della moda31 spaziando dallo studio di John Harvey32 sulla relazione tra mascolinità e il culto del nero, fino al lavoro del sopracitato Christopher Breward.33 Si potrebbe citare inoltre “Don We Now Our Gay Apparel”, il lavoro del ricercatore e curatore Shaun Cole,34 traccia un’indagine sulla storia degli uomini gay nel XX secolo, indagando l’uso dei vestiti come mezzo di negozizazione di identità di genere e sessualità.
Questa breve panoramica vuole dimostrare la rilevanza del corpo maschile vestito all’interno degli studi storici e socio-culturali legati alle nozioni di moda, mascolinità e definizione di genere. Ed è proprio a partire dalla messa in discussione e dalla riappropriazione di queste narrazioni — principalmente di stampo eurocentrico —, che nasce dunque l’urgenza di continuare a rivelare quel “ricco hinterland di valore rivelatorio [insito] nelle scelte sartoriali che definiscono la mascolinità”,35 ossia di immergersi in quella relazione ucronica e immaginativa del menswear per recuperarne i miti, le storie dimenticate o quelle arbitrariamente ignorate che sopravvivono nell’abbigliamento maschile e che hanno tracciato nel corso dei secoli diverse definizioni di mascolinità — anche attraverso la realizzazione di mostre.
Il self-fashioning come pratica ucronica
I concetti di pluralità e di tempo ucronico introdotti precedentemente, dunque, risultano fondamentali non solo per comprendere la storia della moda, l’abbigliamento maschile e la progettazione di mostre di moda; ma anche per osservare la relazione tra mascolinità e una pratica che raduna in sé i concetti stessi di storia (personale e collettiva), abito, display, fantasia e curatela: il self-fashioning.
Come osserva la storica Anne Hollander, l’abito ha sempre dialogato con il corpo — vestendolo e svestendolo — declinandosi così alle scelte personali di chi lo indossa.36 Questa relazione primordiale con il vestiario si carica di ulteriori significati nel momento in cui quelle stesse scelte sfumano arbitrariamente i confini convenzionali posti tra corpi, generi, identità e rappresentazioni di sé. Ecco che il corpo — e, di conseguenza anche l’abito che lo veste — assumono i contorni di un bodyscape, come definito dall’antropologo Massimo Canevacci, rivelando “una pluralità identitaria che espande la coscienza del proprio sé. Dei propri sé”.37 Così accade in particolare per ciò che concerne la moda maschile, dalle cui interazioni con il corpo e rappresentazioni fuoriescono innumerevoli definizioni di mascolinità.
L’idea di una nozione di mascolinità plurale e fluida viene descritta da R.W. Connell come una composizione eterogenea di caratteristiche visive e culturali riconoscibili per ogni tempo e luogo.38 Tale presupposto viene sostenuto ulteriormente dalle ricerche condotte dallə filosofə post-strutturalista statunitense Judith Butler, che attraverso l’idea di gender performativity39 individua sfumature e contorni sempre meno definiti della mascolinità, liberati dalle costrizioni binarie e stereotipate che regolano la rappresentazione e percezione dei generi.40
Facendo indubbiamente uso dell’apparato simbolico e delle qualità rappresentative dell’abito, il self-fashioning consente dunque, a chi lo desidera, di allinearsi alle convenzioni sartoriali del proprio tempo, ma anche di manifestare una propria visione personale e immaginativa di sé. Nelle parole dell’antropologa Ornella Kyra Pistilli, questa pratica rappresenta “la più potente metafora abitativa della modernità”,41 in quanto si avvale di azioni di “montaggio”42 per architettare nuove prospettive rappresentative di sé. In quest’ottica, la moda maschile agisce come veicolo “non più per cosa si deve essere e rappresentare, ma per ciò che si vuole essere e rappresentare”.43
È dunque possibile osservare quanto la pratica del self-fashioning abbia a che spartire con la definizione di tempo ucronico44 tracciata da Vaccari ed Evans, affermandosi come strumento alternativo per una ridefinizione di sé lontana da sistemi consolidati, esattamente come le “mode utopiche, d’avanguardia, sperimentali […] si collocano deliberatamente al di fuori dei ritmi della produzione industriale”.45 La moda maschile e, in particolare, la pratica del self-fashioning, diventano così strumenti dissidenti non solo per la proliferazione di nuove rappresentazioni di mascolinità, ma anche per una comprensione più estesa e completa di questo concetto.
Osservare “fashioning masculinities”
La letteratura sfiorata nei paragrafi precedenti introduce dunque una serie di concetti chiave per l’analisi della mostra Fashioning Masculinities, come le articolate relazioni tra la moda e le proprie storie, le temporalità plurali dell’abito maschile e il self-fashioning come pratica ucronica e immaginativa per nuove definizioni di mascolinità. Si è inoltre accennato alla posizione dell’abbigliamento maschile all’interno del contesto museale, individuando nella mostra del V&A sia uno spostamento da una narrazione storico-cronologica a una interpretativa, sia il cambio di registro dagli obiettivi riformisti ad ambizioni divulgative e speculative.
Prendendo spunto dalla tripartizione tematica della mostra, il contributo applica la stessa metodologia alla sua analisi, proponendo così uno studio espanso, eterogeneo e non cronologico del progetto curatoriale. In particolare, si è individuato nel concetto di gestualità, nell’uso del colore e nel completo sartoriale maschile tre campi di indagine esemplificativi delle teorie prese in esame. I tre temi vengono così osservati da più punti di vista — dall’oggetto materiale al set design, dai manichini al catalogo della mostra — per rivelare le interazioni, connessioni e posizioni delle pratiche museali-curatoriali e degli oggetti esposti rispetto al concetto di self-fashioning e di rilettura storica.
La gestualità maschile in mostra
Undressed, la prima sezione della mostra, invita il pubblico a fare una riflessione attorno al concetto di corpo e di posa maschile come idee essenzialmente artificiali e arbitrari. Dall’ideale classico di corpo muscolare e virile come “icona culturale”,46 passando per l’interesse settecentesco per la danza, per il portamento sfacciato rinascimentale e la posa austera ottocentesca; il linguaggio del corpo maschile e la sua corporeità sono storicamente frutto di un’elaborata dottrina di movenze che, nel corso dei secoli, ha influenzato le rappresentazioni della mascolinità.
Il corpo e le sue gestualità vengono come continuamente “rinnovate” attraverso la convinzione che “una nuova immagine del corpo possa rappresentare una chiave per accedere a una nuova e positiva immagine di sé”.47 Il corpo maschile diventa dunque un nuovo e forse il principale mezzo di espressione del sé, allo stesso tempo oggetto di scrutinio da parte di ideali irreali — prevalentemente legati a una rappresentazione di corpi giovani, abili, europeocentrici ed eterosessuali. Da qui nasce l’urgenza della mostra di snocciolare queste tradizionali modalità di presentazione per sovvertirle alla luce di un’idea di mascolinità fluida e articolata, partendo proprio dal corpo maschile come grado zero della pratica di self-fashioning.
Costellata da una serie di statue classiche parte della collezione permanente del V&A, la sala foderata da fluidi pannelli in tessuto stampato trasuda di un’aura austera ma delicata. Apollo Belvedere — icona ideale del corpo maschile ed emblema delle nozioni classiche di proporzione e armonia48— spicca insieme agli artefatti in marmo e gesso, tra i quali si mimetizzano una serie di manichini e busti su plinti a supporto degli abiti in mostra. All’interno di questa pletora di corpi, tre svolgono un ruolo cruciale e dettano il registro dell’intera sala: vestiti con look tratti dalle collezioni Off-White SS22, J.W. Anderson SS13 e Ludovic de Saint Sernin SS20, i manichini sono progettati in modo da emulare le gestualità tipiche delle Tre Grazie, come dipinte ne La Primavera di Sandro Botticelli. In questo caso, la postura dei manichini innesca volutamente cortocircuiti temporali all’interno della mostra, rovesciando i canoni della rappresentazione maschile sia attraverso rimandi alla storia dell’arte sia tramite interpretazioni sartoriali contemporanee di mascolinità. Di riflesso, la delicata trasparenza degli abiti esposti — accessoriati con parrucche in organza — enfatizzano le movenze sinuose dei manichini, evidenziando il ruolo cruciale della postura nel self-fashioning. Un’operazione curatoriale di questo tipo esprime la costante relazione di negoziazione che unisce corpo, abito e rappresentazione e come questa possa essere sovvertita per definirne nuovi panorami.49
Procedendo nel percorso espositivo, si incontra un’altra interazione che, attraverso la lente della gestualità, evidenzia il ruolo del self-fashioning nel contribuire alla nozione di mascolinità attraverso la moda. La sezione Overdressed, infatti, incapsula le iterazioni più sgargianti e ostentate della moda maschile, dai lussuosi drappeggi del Settecento alle evoluzioni del glamour contemporaneo. Storicamente associato ai concetti di funzionalità, razionalità e decoro, l’abito maschile è invece stato più volte investito dalle visioni sartoriali di couturier, designer e l’esigente società dell’èlite, i quali hanno offerto nuovi codici estetici — spesso in netto conflitto tra loro — attraverso cui performare e rappresentare status, genere e identità. A dominare sulla sala è la giustapposizione tra un abito reale ed uno rappresentato: da una parte il quadro del 1773–74 firmato Joshua Reynolds che ritrae Charles Coote, dall’altra l’abito di Randi Rahm realizzato per l’attore Billy Porter in occasione dei Golden Globes del 2019. Nella prima opera, il protagonista è ritratto in un sontuoso abito, completo di passamanerie, piumaggi, volant, fiocchi e un mantello drappeggiato rosa chiaro — il colore era originariamente scarlatto, ma deperì con il tempo — sintomo dell’appartenenza alla classe agiata e dominante, oltre che all’Ordine di Bath di cui faceva parte. La postura è tipica della ritrattistica del tempo: il corpo è eretto e nonchalante, reclinato su una spada, mentre le gambe sono incrociate e le mani rilassate spiccano dalla cappa. Il dipinto trasuda della ferrea sicurezza di sé del protagonista, ma soprattutto della sfacciata convinzione e consapevolezza di far parte dell’èlite. Anche il manichino che incarna Billy Porter — uomo omosessuale nero — esprime una presenza ugualmente consapevole: le gambe aperte in segno di sicurezza, le mani che si aprono invitando gli occhi a un’attenta osservazione dell’ensamble. Nonostante la gestualità di entrambi i personaggi sia radicata nello stesso spettro di simbologie ostentorie, le due opere esprimono l’urgenza di voler mostrare idee completamente contrastanti di mascolinità: una radicata in un potere elitario, sacrale e istituzionale; l’altra occupata in un gesto di riappropriazione e autoaffermazione. Ispirati al vestiario Settecentesco, i decori sull’abito indossato da Billy Porter si scontrano con il rigore del completo classico da uomo, che non solo va mostrato ma addirittura riconosciuto, ostentato e celebrato — come ha prontamente dimostrato Porter sul red carpet, dominandolo con movenze ampie per reclamare50 la sua presenza attraverso l’estensione (culturale e fisica) di quell’abito.
I cortocircuiti che instaurano conflitti aperti tra le vite passate e presenti dell’abito maschile continuano nella sezione Redressed. Sulla struttura arancione acceso che agisce come cornice della sala sono infatti presenti a sinistra il ritratto di Jean-Baptise Belley del 2014 firmato da Omar Victor Diop — scelto anche per la copertina del catalogo della mostra —, a destra quello del capitano Gilbert Heathcote del 1801–5 di William Owen. Attraverso un’azione di riconquista, Diop emula non solo l’abito ma anche la postura tipica dei ritratti ottocenteschi con l’obiettivo di conferire alle biografie della diaspora africana uno status all’interno della storia e dell’arte globale. Simili ma speculari, le gestualità espresse nei ritratti danno vita ai due abiti storici esposti nelle teche di fronte a essi — anche se, da una parte vi è la storia per come è realmente andata e, dall’altra, quella che avrebbe potuto essere, ma che non è stata. Anche in questo caso, la relazione tra abito e tempo acquista un ruolo cardine soprattutto in luce della sua controparte immaginaria — il ritratto di Jean-Baptise Belley — dove l’ucronia del self-fashioning risulta lampante e la postura à la “braggadocio”51 tipicamente ottocentesca gioca un ruolo fondamentale non solo per riapproriarsi di biografie sistematicamente oscurate dalla storia, ma anche come strumento per delineare possibili multiversi della moda — dove un abito ottocentesco può facilmente convivere con un pallone da calcio (posto sotto il braccio del protagonista).
La mascolinità come caleidoscopio
Osservando la mostra, appare evidente come, oltre alla suddivisione tematica, il progetto espositivo privilegi una successione cromatica espressa attraverso un utilizzo attento e ponderato di pannellature e supporti colorati. La triplice divisione della mostra viene infatti accentuata ed esplicitata attraverso l’uso del colore, il quale assume un ruolo particolarmente evocativo in relazione al tema di ciascuna sezione. Nelle sale parte di Undressed, per esempio, la presenza del bianco tenue è impattante ed esasperato dai muri in tessuto stampato, dalla presenza dei manichini, delle statue, dei gessi e dei capi candidi e monocromatici. Rievocando tanto i canoni estetici irreali delle statue (neo)classiche quanto il senso di protezione e intimità associato all’underwear, questo colore oscilla tra significati discordanti passando da un retaggio influenzato da ideali e canoni estetici tossici a un senso di vulnerabilità e innocenza. Su una delle pareti della prima stanza viene proiettata la performance Spitfire della compagnia New Adventures fondata da Matthew Bourne,52 una coreografia dove sei corpi maschili — vestiti esclusivamente in intimo bianco — si muovono per dare vita a una danza ironica e gioiosa, la quale sovverte le prassi del teatro classico sostituendo ai bianchi tutù del balletto femmile una serie di capi di intimo maschile, offrendo così una rappresentazione della mascolinità nella danza come libera e svincolata da retaggi vestimentari consolidati. Se il colore bianco è stato tipicamente associato a un’idea utopica di neutralità, non si può dire lo stesso di altri colori. Per esempio, l’idea che il colore blu e il colore rosa incarnino due generi ben precisi è una convenzione che, seppur non rispecchiando alcun tipo di realtà fattuale,53 fa parte dell’immaginario collettivo legato a una rappresentazione stereotipata54 di mascolinità e femminilità. Il caso emblematico della dualità tra blu e rosa viene analizzato e ribaltato all’interno della mostra del V&A attraverso il display Think Pink, dove su uno sfondo damascato verde bottiglia vengono presentati a contrasto tre look maschili dei designer contemporanei Harris Reed, Thom Browne e Yushan Li e Jun Zhou di PRONOUNCE, i quali si appropriano volutamente di questo colore per scardinare il rigido binarismo di genere nella moda. In particolare, l’ensemble di Thom Browne parte della collezione SS20 risulta emblematica poiché fonde elementi sartoriali storicamente considerati come mascolini — come la conchiglia protettiva, che ammicca alla tradizione della brachetta rinascimentale — a un colore tradizionalmente associato al guardaroba femminile — il rosa, appunto. L’attenzione si posiziona infatti sull’uso predominante del colore, che investe l’intero outfit in cotone seersucker, fatta eccezione per le calzature ispirate invece ai palloni da football americano che vengono ingigantiti ed estremizzati. Oltre a tingere di rosa un tessuto canonicamente associato al guardaroba maschile, il designer crea dei cortocircuiti temporali innovativi attingendo dalla storia del menswear per rievocare quei momenti in cui il colore era parte integrante del vestiario da uomo. La visionaria creatività del designer innesca così un netto contrasto simbolico e temporale, evidenziando le potenzialità del self-fashioning nel veicolare rimandi storici.
L’ultima sezione della mostra, Redressed, è dedicata quasi esclusivamente a un excursus tra le varie iterazioni dei capisaldi del guardaroba maschile, primo su tutti il completo sartoriale. Spesso associato a un tipo di vestiario monocromatico e formale, il capo rimanda a un’ideale di potere patriarcale ed elitario per via della riconosciuta difficoltà di reperimento di questo colore in natura per la cui produzione era indispensabile un dispendio di tempo, energie e mezzi fuori scala — oltre a essere un colore essenzialmente effimero e facilmente deperibile. Da simbolo di potere, nell’Ottocento il nero muta a paradigma dell’eleganza minimalista maschile, per poi diventare appannaggio “di pratiche sovversive o controculturali” trovando “una nicchia e un posto perenne nell’opera degli autori della moda della fine del XX secolo e del post-millennio, che spesso evocano spettri neri dal passato”.55 Un esempio di questo approccio sovversivo al colore nero, alle sue storie e passati, è l’abito firmato da Alexander McQueen parte della collezione SS20, composto da uno smoking nero con un’ampia apertura da cui spicca una camicia e un paio di anfibi bianchi. In questo caso, lo spettro di simbologie associate al colore vengono esasperate tramite la giustapposizione di un capo simbolo della tradizione sartoriale maschile — lo smoking nero — a un accessorio intriso di un’idea di virilità vittoriana — gli anfibi, che rievocano l’industria bellica contemporanea. La mostra non manca infine di celebrare le iterazioni più vivaci e sperimentali dell’abito da uomo, progettando un display composto da un tavolo da biliardo foderato in moiré rosso su cui campeggiano dieci look tratti da momenti differenti della storia della moda — ognuno tinto di cromie sgargianti e motivi brillanti. Se da una parte il display a forma di tavolo da biliardo sembra ammiccare alla convinzione che l’abito maschile colorato conservi in sé un’idea di frivolezza o di gioco, dall’altra potrebbe rappresentare una metafora della mascolinità come caleidoscopio, dove i look presentati — che prendono il posto delle sfere colorate del biliardo — diventano parte integrante di un movimento di rimandi, reinterpretazioni e ricodifiche da cui proliferano le più svariate definizioni e rappresentazioni della mascolinità.
I multiversi del completo maschile
Nel 1930 lo psicologo John Carl Flügel introduce la teoria della Grande Rinuncia Maschile,56 un cambiamento di paradigma vestimentario e passaggio della moda ostentatamente vistosa dei Peacock verso una direzione sobria ed austera, figlia dell’industrializzazione e della democrazia. Più recentemente, Cristopher Breward57 riprende le osservazioni di Flügel, esplicitando invece le possibilità di rappresentazione che l’apparente abbandono del decorativismo ha introdotto nel vestiario maschile.
Tutt’altro che monolitico, la mostra traccia infatti un’analisi estesa del completo sartoriale, evidenziandone le infinite iterazioni e mutamenti nel corso della storia. Recuperando i suoi passati e ricodificandoli, la mostra evidenzia come i codici e le simbologie legate a questo particolare oggetto siano soggetti a continue interpretazioni, sovversioni e riconfigurazioni, stimolate dalle visioni progettuali di designer e progettisti.
Dalla giacca sartoriale trompe l’oeil della collezione SS96 firmata Jean Paul Gaultier, su cui campeggia la stampa di un busto nudo maschile che ammicca all’ideale di nudità classica; alle sperimentazioni ingegneristiche di Craig Green che snaturano completamente l’architettura del completo da uomo; fino al ruolo dello smoking all’interno della cultura visuale della moda femminile — in mostra è presente uno scatto di Marlene Dietrich nel film Morocco (1930) — la mostra offre un compendio delle varie anime di questo capo, esaltandone l’impatto culturale e progettuale. Allo stesso tempo, sembra esplicitare il passaggio del completo da “oggetto di confine”58 — ossia dall’idea di un capo protettivo, detentore e gatekeeper del potere patriarcale — a soggetto senziente, consapevole e capace di mettersi in discussione.
Un esempio del ruolo che gioca il self-fashioning in questo contesto è rappresentato dall’ultimo capo in mostra, uno smoking classico con ampia gonna da sera in velluto firmato dal designer statunitense Christian Siriano. Questo outfit appare emblematico poiché si carica di forti significati, ibridando un elemento tipicamente maschile — lo smoking — e uno tradizionalmente femminile — la crinolina — formando così un abito discorde, slegato da convenzioni sociali e norme espressive. Quando indossato dall’attore Billy Porter sul red carpet durante la 91esima edizione degli Oscar del 2019,59 il capo si carica ancor più di tratti ucronici, alimentando una mitologia dell’abito capace di tracciare un presente della moda semplicemente rimescolando le sue storie passate.
Infine, un altro oggetto presente in mostra che potrebbe essere inteso come la metafora del processo di decostruzione e ricostruzione dell’abito maschile è la giubba datata 1630–35 presente nella sezione Overdressed. Realizzata tra Italia e Inghilterra e composta da seta nera intrecciata con fili d’argento e nastri di garza rifiniti con piccoli dettagli argentati, il capo presenta un contrasto cromatico tra l’esterno nero e rigoroso e il suo interno caratterizzato da una fodera di seta giallo brillante. L’oggetto rappresenta un raro esempio ancora esistente la cui sopravvivenza è fragile e precaria poiché i composti di ferro usati per la tintura indeboliscono inevitabilmente il tessuto portandolo verso un lento deterioramento. Ecco che la giubba diventa una metafora del lento e faticoso sbriciolamento di quella coltre nera di stereotipi, norme e convenzioni che regolano l’espressione e rappresentazione della mascolinità, un processo che — guidato dalla nuova generazione di designer — ha come obiettivo quello di instaurare nuovi brillanti codici d’abbigliamento che vadano oltre gli stringenti binarismi di genere.
Conclusioni
Prendendo ad esame la mostra Fashioning Masculinities come esempio di fashion exhibition dedicata alla moda maschile e interessata allo studio delle definizioni di mascolinità in relazione all’abito, il contributo traccia un’analisi delle modalità attraverso cui il menswear è stato inserito all’interno del contesto museale. Individuate alcune caratteristiche peculiari del progetto espositivo, la ricerca si avvale poi di una letteratura eterogenea per esplorare il concetto di temporalità della moda, in particolare quella maschile. Storicamente messa al vaglio e in secondo piano all’interno del discorso sulla moda e dunque brulicante di aspetti ancora inesplorati, la moda maschile diventa così il territorio ideale per rivelare le modalità attraverso cui il menswear si è interfacciato con la propria storia. Da una prima analisi emerge così il ruolo fondamentale del self-fashioning nella moda maschile, in particolare nella sua definizione di pratica ucronica, ossia capace di instaurare connessioni antilineari, immaginative e sperimentali con la propria temporalità. Utilizzando la stessa metodologia applicata alla mostra — ossia stabilendo delle connessioni tematiche ed eterogenee che uniscano oggetto, curatela e progetto espositivo — il contributo palesa il ruolo del self-fashoning all’interno della mostra seguendo tre percorsi interpretativi arbitrari. Intravedendo nel concetto di gestualità, nell’elemento cromatico e nell’oggetto del completo sartoriale tre centri nevralgici di riflessione, l’articolo esplicita la stretta e intricata relazione tra abito, curatela e temporalità della moda, sostenendo come la pratica del self-fashioning sia uno strumento ideale per stimolare riletture storiche e proporre nuove definizioni di genere. Se da un lato Fashioning Masculinities risulta un esempio virtuoso, riuscendo sapientemente a trasmettere le sfaccettature e le complessità del tema, dall’altra ha permesso di individuare degli aspetti ancora inesplorati, che meriterebbero uno studio approfondito. Di per sé, la mostra infatti non si presenta come manifesto politico, ma lo diventa nel momento in cui non esaurisce aspetti fondamentali per una riflessione completa sul tema della mascolinità. Tra queste mancanze è da notare l’assenza di rimandi al concetto di “mascolinità tossica” e alla cultura machista, aspetti determinanti per tessere un’analisi articolata sul tema, specialmente nel contesto museale. Come dimostra lo stesso progetto espositivo, il menswear e le definizioni di mascolinità sono infatti in continuo mutamento e trasformazione, dunque è cruciale che le ricerche e le proposte curatoriali future continuino a esplorare il tema con sguardo aperto, critico e inclusivo. A questo riguardo, sarebbe auspicabile che l’industria culturale della moda continui a riscoprire ulteriori aspetti del menswear, celebrando in particolare le storie dimenticate e gli aspetti storicamente oscurati dalla cultura egemonica e patriarcale, a favore di una rappresentazione quanto più estesa e trasparente dell’abito maschile e dei suoi significati.
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McKever e Wilcox, 11.↩︎
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Ulrich Lehmann, Tigersprung. Fashion and Modernity (Cambridge: MIT, 2002).↩︎
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Rosalind McKever, “Do Clothes Make The Man,” in McKever, Wilcox e Franceschini, 10.↩︎
London College of Fashion, “Curating and designing Fashioning Masculinities,” University of The Arts, Novembre 17, 2022, video della conversazione, 1:06:36, https://www.youtube.com/watch?v=meDVAg_fUgs.↩︎
McKever, 11.↩︎
McKever, 11.↩︎
Caroline Evans e Alessandra Vaccari, Il tempo della moda (Milano: Mimesis, 2019), 11.↩︎
Evans e Vaccari, 11.↩︎
Maria Giuseppina Muzzarelli, Giorgio Riello, Elisa Tosi Brandi, “La moda in mostra: il ruolo del museo della moda,” in Muzzarelli, Riello, Brandi, 2.↩︎
Muzzarelli, 10.↩︎
Gus Casely-Hayford, “Epilogue,” in McKever, Wilcox e Franceschini, 246.↩︎
Francesca Granata, “Il tempo carnevalizzato. Margiela e la collezione di costumi teatrali,” in Evans e Vaccari, 170.↩︎
Christopher Breward, “Cultures, Identities, Histories: Fashioning a Cultural Approach to Dress,” Fashion Theory, Vol. 2, n. 4, (1998): 301–313.↩︎
Susan North, “Young Englishman Behaving Badly (And Dressing Outrageously),” in McKever, Wilcox e Franceschini, 84–97.↩︎
Cf. Horsley, 11–29.↩︎
Christopher Breward, “Modes of manliness: Reflections on recent histories of masculinities and fashion,” in The Fashion History Reader: Global Perspectives, a cura di G. Riello e P. McNeil (Abingdon: Routledge, 2010). 301–307.↩︎
Breward, 301–307.↩︎
Tim Edwards, Men in the mirror: Men’s fashion, masculinity and consumer society (London: Cassell, 1997), 3–4.↩︎
Andrew Reilly e José F. Blanco, “Masculinities in fashion and dress,” in Routledge International Handbook of Masculinity Studies, a cura di L. Gottzén et al. (Abingdon: Routledge, 2020). 394–403.↩︎
Come ad esempio i contributi di Chenoune Farid Chenoune, A History of Men’s Fashion (Paris: Flammarion, 1993); Anne Hollander, Seeing Through Clothes (New York: Viking Press, 1978); Richard Martin e Harold Koda, Jocks and Nerds: Men’s Style in the Twentieth Century (New York: Rizzoli, 1989); Neil Spencer, “Menswear in the 1980s: Revolt into Conformity,” in Chic Thrills: A Fashion Reader, a cura di J. Ash, E. Wilson (London: Pandora Press, 1992) 40–48; Teal Triggs, “Framing Masculinity: Herb Ritts, Bruce Weber and the Body Perfect,” in Ash, Wilson, 25–29.↩︎
John Harvey, Men in Black (London: Reaktion Books, 1995).↩︎
Christopher Breward, The hidden consumer: Masculinities, fashion and city life 1860–1914 (Manchester: Manchester University Press, 1999).↩︎
Shaun Cole, Don We Now Our Gay Apparel: Gay Men’s Dress in the Twentieth Century (Oxford: Berg, 2000).↩︎
Casely-Hayford, “Epilogue,” in McKever, Wilcox e Franceschini, 246.↩︎
Anne Hollander, Sex and Suits. The Evolution of Modern Dress (London: Bloomsbury, 2016).↩︎
Massimo Canevacci, Sincretismi. Esplorazioni diasporiche sulle ibridazioni culturali (Cosa&Nolan: Milano, 2004), 186.↩︎
R.W. Connell, Masculinities (Sydney: Allen & Unwin, 2005).↩︎
Judith Butler, Gender Trouble: feminism and the subversion of identity (New York and London: Routledge, 1990), 6.↩︎
Cf. Butler, 6.↩︎
Ornella Kyra Pistilli, Dress code: sincretismi, cultura, comunicazione nella moda contemporanea (Roma: Castelvecchi Editore, 2005).↩︎
Cf. Pistilli, 100.↩︎
Cf. Pistilli, 86.↩︎
Cf. Evans, Vaccari, 12.↩︎
Cf. Evans, Vaccari, 14.↩︎
Susan Bordo, Unbearable Weight: Feminism, Western Culture, and the Body (Berkley: University of California Press, 1993).↩︎
Featherstone, Mike, “Ubiquitous media: an introduction,” Theory, culture & society Vol. 26, n. 2–3 (2009): 1–22.↩︎
Claire Wilcox, “Fine and Dandy,” in McKever, Wilcox e Franceschini, 122.↩︎
Elisabeth Gernerd, “A Well Turned Leg,” in McKever, Wilcox e Franceschini, 122.↩︎
John Carl Flugel, The psychology of clothes (London: Hogarth, 1930).↩︎
Elizabeth Currie, “Braggadocio: a Brief History of Swagger,” in McKever, Wilcox e Franceschini, 113.↩︎
New Adventures, “Spitfire,” regia e coreografia di Matthew Bourne, Dance Umbrella Gala, 2006, video della performance, 9:47, https://www.youtube.com/watch?v=6tb4fp0gXfA.↩︎
Richard Thompson Ford, Dress code: Come la moda dà forma alla storia, trad. Roberta Zuppet (Milano: Il Saggiatore, 2023).↩︎
Come sostiene Paoletti: “Se oggi il colore blu si codifica come maschile e il colore rosa come femminile, nella storia evolutiva del costume era esattamente il contrario. Questo cambiamento di paradigma considerava il rosa un colore maggiormente impattante e forte adatto quindi al genere maschile, mentre il blu delicato e gradevole si adattava perfettamente al genere femminile.” Jo Barraclough Paoletti, Pink and Blue: Telling the Boys from the Girls in America (Bloomington: Indiana University Press, 2013).↩︎
Christopher Breward, “Monochrome Man,” in McKever, Wilcox e Franceschini, 181.↩︎
Cf. Ford, 98.↩︎
Christopher Breward, The Suit: Form, Function and Style (London: Reaktion Books, 2016).↩︎
Shaun Cole, “Underpinnings: The Next Best Thing to Naked,” in McKever, Wilcox e Franceschini, 73.↩︎
Cole, 73.↩︎