ZoneModa Journal. Vol.13 n.2 (2023)
ISSN 2611-0563

“Modalità Storica”. Heritage e Revival nella moda contemporanea

Sofia GnoliIULM University (Italy)

She is Associate Professor at IULM University in Milan, where she teaches History of Fashion, Sociology of Events and Creative Industries Archives. She writes for La Repubblica, La Stampa, Il Venerdì and Vogue Italia. Curator, scientific consultant and heritage expert she has curated the historical archives of Valextra, Luisa Spagnoli and Federico Forquet. Among her publications: Moda. Dalla nascita della haute-couture a oggi (Carocci, 2020), L’alfabeto della moda (Carocci, 2019), Luisa Spagnoli 90 years of style (Rizzoli, 2018), Eleganza fascista (Carocci, 2017), The Origins of Italian Fashion 1900-1945 (V&A Publishing, 2014).

Pubblicato: 2023-12-20

Abstract

The article explores the links between fashion and the past in contemporary times, the love of revival, the taste for vintage and the importance of a brand’s cultural heritage. All elements that today, in the midst of globalisation, have become increasingly important. Brand heritage is a fundamental aspect of a brand’s identity, it represents what a brand is now seen through the lens of its own history. This yearning for the appreciation of one’s roots is one of the priorities of the big luxury holding companies which, for 25 years now, have tirelessly continued their climb up the ranks of the brands with the most illustrious history.

Keywords: Fashion Studies; Fashion History; Fashion and Communication; Heritage; Sociology of Fashion.

Il gusto del revival

Il passato, a fasi alterne, ha sempre avuto un ruolo importante nella moda. È il caso dell’amore per l’antichità classica dell’epoca rinascimentale, così come dell’interesse ottocentesco nei confronti dello stile troubadour. Nel 1836 Alfred de Musset scriveva: “Il nostro secolo non ha forme. Noi non abbiamo impresso il suggello del nostro tempo né alle nostre case, né ai nostri giardini, né a qualsiasi altra cosa… Anche gli appartamenti dei ricchi sono bazar di curiosità: l’antico, il gotico, il gusto del Rinascimento. Tutto è mescolato alla rinfusa. Insomma abbiamo impronte di tutti i secoli, salvo del nostro”.1 Addosso e in casa collezionare antichità era diventata una vera mania.

“In quell’anno Roma” scriveva Gabriele D’Annunzio riferendosi al 1885: “L’amore del bibelot e del bric-à-brac era giunto all’eccesso; tutti i saloni dell’alta nobiltà e dell’aristocrazia erano ingombri di curiosità; ciascuna dama tagliava i cuscini del suo divano in una pianeta o in un piviale e metteva le sue rose in un vaso di farmacia umbro o in una coppa di calcedonio”.2

Gli stili ammessi erano moltissimi e variavano con disinvoltura, dal Gotico, al Barocco, fino al Rococò. Tra vero e falso, autentico e rifatto la moda era pervasa dal passato. Sfogliando riviste dell’epoca è facile imbattersi su riedizioni di gorgiere (i grandi colletti plissettati) rinascimentali, così come su maniche ‘a prosciutto’ di cinquecentesca memoria o su panier settecenteschi alla Maria Antonietta, foggia amata da Eugenia de Montijo, bellissima ed elegante sposa di Napoleone III.

Più tardi, nel Novecento, ci sono stati tanti altri momenti ‘nostalgici’. È il caso delle silhouette Direttorio proposte nel primo decennio del secolo da Paul Poiret, così come della silhouette a corolla lanciata da Dior nel secondo dopoguerra. Era 12 febbraio 1947 quando, alla sua prima sfilata, Christian Dior presentò Corolle, una collezione contraddistinta da una linea romantica, opulenta e sinuosa che, in qualche modo, rappresentava la felicità ritrovata dopo gli anni bui del Conflitto. “Venivamo da un’epoca di guerra e di uniformi” avrebbe annotato Dior nelle sue memorie “con le donne simili a soldati e con spalle da pugile. Io disegnai donne come fiori, con le spalle morbide, il busto pieno, la vita sottile come una liana e gonne a corolla”.3 Quella linea dall’allure ottocentesca influenzò la moda internazionale per buona parte degli anni Cinquanta suscitando entusiasmi e critiche, come quella, racconta Dior, di un garagista di Los Angeles, il quale scrisse al couturier che, per colpa sua, la moglie somigliava a una bambola di pezza dei tempi della guerra di secessione. “Magari” si disse il disse Dior pensava a Via col Vento”.

L’operazione culturale fatta da Dior con la linea Corolle rimetteva al centro la tradizionale couture francese. “La donna fiore proposta dal couturier” scrive Enrica Morini “era tanto raffinata quanto priva di ironia e di fremiti femministi”. Una donna rétro che guardava con nostalgia alla grande borghesia del Secondo Impero. “Non è un caso” continua Morini “che questo periodo sia stato così prolifico di riedizioni cinematografiche della favola di Cenerentola in cui la parte della fata era sostenuta dai sarti francesi”.4

Più tardi, negli anni Sessanta-Settanta, dilagò la nostalgia per gli anni Venti e Trenta. Nel 1967 un film come Gangster Story di Arthur Penn influenzò la moda in maniera considerevole. All’indomani dell’uscita della pellicola, Faye Dunaway — con il suo look composto da basco, pullover aderente e gonna longuette — portò alla ribalta lo stile anni Trenta. Nel 1974 un analogo fenomeno revivalistico, questa volta degli anni Venti, si ebbe con la trasposizione cinematografica del romanzo di Francis Scott Fitzgerald Il Grande Gatsby (1974), il film di Jack Clayton, con Robert Redford e Mia Farrow che valse un Oscar per i costumi a Theoni V. Aldredge. Oltre che al cinema questo nostalgico amore per gli anni Venti e Trenta si riflette nelle creazioni di una quantità di designer, a partire da quelle di Walter Albini. Antesignano della figura dello stilista, Albini nutriva un profondo amore per il passato. Lo stretto legame con i moduli della cultura déco è un segno ricorrente delle sue creazioni, come emerge chiaramente dai suoi disegni e da molte sue collezioni. Fili conduttori del suo stile sono i riferimenti alle atmosfere descritte dai romanzi di Francis Scott Fitzgerald così come quelli al cinema hollywoodiano degli anni d’oro o a creatori francesi dei primi decenni del Novecento. Prima tra tutti Gabrielle Chanel da cui rimase folgorato, dopo averla incontrata brevemente a Parigi. “Mi piace il periodo” dichiarò nel 1983 Albini al Women’s Wear Daily “che va dal 1925 al 1935. Credo che sia stato il decennio in cui tutti gli aspetti dell’esistenza umana sono stati rivoluzionati. Si pensi al taglio dei capelli alla maschietta, alle gonne che si sono accorciate e all’eliminazione dei corsetti. O a Francis Scott Fitzgerald e a Zelda, alle prime Garbo e Dietrich, alla Bauhaus e all’Art Déco”.5 Memorabile in questo senso la sfilata (autunno-inverno 1973–74) che organizzò a Venezia nel 1973 tra le boiserie del Caffè Florian di piazza San Marco a Venezia. In quella collezione fece sfilare modelle con caschetti anni Venti, truccate in modo impeccabile che camminavano “frusciando tra i tavolini attraverso le cornici dorate delle porte”.6 Sulle orme di Yves Saint Laurent, che poco prima prima aveva saputo ‘giocare’ con i tempi dell’Occupazione nella sua storica collezione “Liberation” passata alla storia come “La collection du scandale” (haute couture, primavera-estate 1971), Albini costruì una collezione in bilico tra passato e presente, in un continuo gioco di rimandi e citazioni, tra Coco Chanel e la pittrice polacca Tamara de Lempicka.

Il suo nostalgico amore per quel periodo era tale che a chi gli domandò quali fossero le ultime novità Walter Albini rispose: “oggi nella moda non c’è più niente da scoprire, meglio raffinare l’antico e il suo buon gusto”7. Che si tratti di un arido repêchage? Niente affatto. Perché, come sostiene con un ardito paragone il designer americano Isaac Mizrahi: “La moda è un po’ come la cucina. Da secoli conosciamo moltissime ricette a base di pollo, ogni tanto possono cambiare le spezie, l’ingrediente primario è la stesso”. Così è la moda.8

The Historical Mode – Collusioni temporali – Lo storicismo ‘ibrido’ degli anni Ottanta

Nel 1989 il Fashion Institute of Technology di New York presentò una mostra dal titolo evocativo: The Historical Mode. I curatori dell’esposizione: Harold Koda e Richard Martin guardarono allora il passato con un nuovo occhio, non più nostalgico, ma profondamente contemporaneo. “Pochi orologi sono più precisi della moda” scrivono Martin e Koda sul catalogo della mostra nel capitolo introduttivo. “La rinascita del vintage come tipo di abbigliamento preferito delle avanguardie giovanili dimostra la pertinenza del passato storico negli anni Ottanta. E inoltre sottolinea il potere evocativo e nostalgico degli abiti. Esaminare — o anche riesumare — la storia è uno dei motivi ricorrenti del decennio”.9 Basta pensare ad Amadeus (1984), il film di Milos Forman che ispirò Jean Paul Gaultier e altri designer, o alle Relazioni pericolose (1988) di Stephen Frears che, a loro volta, fecero da ispirazione per diverse altre collezioni. Sfogliare il catalogo è un modo per rendersi conto di come alcuni designer del periodo hanno interpretato la citazione storica. Nel caso di Moschino, ad esempio, la riproduzione pedissequa di una gorgiera o di un corsetto settecentesco indossati a contrasto con un chiodo di pelle nera o con paio di jeans vogliono denunciare: “l’impossibilità di inventare. Lo stilista non come creatore di moda alla cui mitologia è assimilato, ma come progettista di comportamenti secondo cui non è importante ciò che ci si mette, ma come lo si mette o lo si combina”.10

In altre parole la mostra racconta come il revival del passato ha un senso solo se strettamente connesso alla contemporaneità. “Uno degli aspetti più impressionanti del fenomeno rétro è l’irrilevanza del passato storico, che esiste solo per essere cannibalizzato o riplasmato” scrive Valerie Steele e continua “designers, editors e fotografi saccheggiano il passato alla ricerca di immagini utilizzabili che vengono poi strappate dal loro contesto e impietosamente spogliate di gran parte del significato originale”.11

Lo dimostrano le tournure di Yohji Yamamoto (autunno-inverno 1988–89),12 gli abiti Primo Impero di Romeo Gigli (primavera-estate 1987)13 o le casacche cinquecentesche che lasciavano fuoriuscire le camicie sottostanti di Karl Lagerfeld per Chanel (autunno-inverno 1988–89).14

Queste incursioni nel passato potevano essere suggerite da eventi come appunto da film, da mostre, ma anche, continuano Koda e Martin: dal fatto che i designer si rendevano conto che i problemi della progettazione di un abito potevano essere affrontati attraverso soluzioni antiche.

A questo proposito viene in mente una grande assente alla mostra: Vivienne Westwood. Per la stilista inglese, l’interesse reale per il costume storico è nell’esperienza nel taglio e nel suo rapporto con il corpo. “Il difetto più lampante del prêt-à-porter di oggi e degli abiti per il mercato di massa” ha infatti dichiarato “è la banalità del taglio, che non ha rapporto con il corpo umano, per la semplice ragione che il lavoro con il corpo è stato eliminato dalla tecnica di lavorazione dell’abito. L’accento cade con forza molto maggiore sul disegno che viene ritenuto uno strumento efficiente nel lavoro industriale, ma in realtà funziona bene solo nella permutazione di varianti annacquate delle cose esistenti […]. A quanto ne so Dior non faceva schizzi per conto suo, ma andava continuamente a osservare abiti nei musei. L’ispirazione mi viene dallo studio dei costumi antichi e dalla loro raffigurazione idealizzata nell’arte, ma la fonte di gran lunga più feconda è la stessa pratica tecnica: le idee vengono dalla tecnica; l’espressione di se stessi è retorica”.15 Nel 1981, per realizzare i pantaloni della collezione Pirates, Westwood studiò a lungo al Victoria and Albert Museum. “Avevo visto” ha ricordato la designer inglese “la foto di un uomo con indosso un paio di calzoni troppo grandi, che facevano tutte pieghe sul cavallo con le tasche sformate. Volevo riprodurre quell’effetto, ma non riuscii a tirar fuori quel pantalone finché non trovai un libro che spiegava in che modo, all’epoca, veniva eseguito un paio di brache. Scoprii che la forma dei pantaloni era tutta diversa […]. Io volevo quell’aria dégagé propria degli abiti che non aderiscono alla persona: mi ci ruppi la testa”.16

Altro vistoso assente in Historical Mode è stato Gianni Versace, vero campione della citazione storica. Alcune dichiarazioni rilasciate nel 1982 dal designer calabrese sono davvero illuminanti: “I disegni non seguono una ricostruzione storico-filologica; ce ne sono anche di ispirazione bizantina; inoltre sono iscritti in un elemento drastico di geometria che li piega al contemporaneo. Perché la mia ispirazione non viene dalla cultura e dall’erudizione classica, ma da qualcosa di più istintivo o, se si vuole, dalla natura. Il passato non deve ispirare il revival: lo uso per guardare sempre avanti. Quello che intendo per classicità è proprio la freschezza e l’attualità delle sensazioni che provo e che provoco. Classico per me vuol dire contemporaneo”.17

Il passato sincronico di Anna Piaggi

Una delle figure più emblematiche della contaminazione tra passato e presente è Anna Piaggi (1931–2012). Importante protagonista della moda contemporanea, spesso liquidata semplicemente come giornalista, Anna è stata molto altro. Cool hunter, collezionista di moda, pioniera del vintage (quando ancora questo termine veniva usato soltanto nel linguaggio vinicolo). Sono passati alla storia i suoi accostamenti azzardati di mantelli anni Dieci di Poiret con tuniche da guerriero africano così come di delphos di Mariano Fortuny con sandali di Manolo Blahnik. Jean Charles de Castelbajac suo amico di sempre, di lei ha detto: “Apprezzavo soprattutto la dimensione archeologica. Nel suo modo di vestire andava in scena uno scontro, era una battaglia storica vivente tra presente e passato, tra gli indiani d’America e i punk”. Passando per quelle che la stessa Anna ha definito fortunate stagioni di “raccolto” di capi vintage e una particolarissima rilettura della storia della moda dove il passato, attraverso una serie di brillanti cortocircuiti, si ricongiunge al presente. A proposito del suo abbigliamento vintage, la stessa Anna ha dichiarato: “Il mio vestire vintage è maturato […] in gelidi granai della campagna inglese dove Frances, Phyllis e Zinnia, ‘mietitrici’ di abiti-tesoro di segreta provenienza, tenevano i loro privatissimi storages, aperti a pochissimi, tra i quali Vern Lambert.18 Vern, meraviglioso pioniere del vestire ‘street’ storico, mi introduceva, al ritorno da queste sue spedizioni (che avvenivano in ore antelucane) a un meraviglioso mondo popolato di figure femminili cui erano appartenuti in origine gli abiti-tesoro. Aspettavo con ansia, a Londra, i ritorni di Vern… Ricordo quando, senza tradire nessuna emozione, senza pronunciare una parola, estraeva, da due grandi borse da viaggio di alligatore naturale, provenienti dall’Africa e trovate a ‘Portobello Market’, le sue scoperte, arrotolate con semplicità e al rovescio”.19 Sintesi del suo stile è Anna-Chronique 20, volume uscito nel 1986, scritto e disegnato a quattro mani dalla stessa Piaggi con Karl Lagerfeld. “Quando Anna indossa un abito di un altro periodo” ha scritto Lagerfeld nella prefazione “lo porta con lo spirito di oggi. Lei fa rivivere per noi un momento lontano che credevamo di conoscere, un passato che non abbiamo vissuto ma pensiamo sia stato tale. Anna inventa la moda. Nel vestirsi fa automaticamente quello che noi faremo domani. Le sue qualità umane mettono le cose su un altro livello. Evita l’aneddoto; la sua storia è sempre vera e il suo atto sempre sincero”.21 Come ha ricordato Natalia Aspesi, cugina prima di Anna: “Nelle sue strabilianti fashion-performance, nulla è lasciato al caso, e non si riesce a immaginare se per un evento imprevisto, mettiamo, toccando ferro, un incendio, dovesse correre fuori casa all’improvviso, senza il tempo di studiare un’uscita solenne adatta al momento: a parte il fatto che di sicuro, nell’archivio piaggesco, Moreno (n.d.a. il suo assistente) le scoverebbe un vecchio casco rosso da pompiere, una sciarpa di Vionnet bruciata, un paio di stivali ricuperati dal terremoto di Messina, e, forse, un indispensabile diadema dai cascami di qualche set cinematografico. Essendo ogni sua apparizione una sceneggiatura attentamente studiata, ne esiste la testimonianza scritta: una serie di quaderni con in copertina la bandiera inglese, diari bizzarri che qualunque museo della moda pagherebbe a caro prezzo. Data, luogo, evento, persone presenti, e per esempio, aprendone uno a caso, per un’uscita del 18 gennaio 2004, ecco l’artistico assemblaggio: blouson rosso Dior, T-shirt Gucci, foulard nero, gioielli scaligeri Swarovski anni Cinquanta, cappello di metallo argentato, sciarpa con bandiera americana, stola Dior, guanti Vuitton, pantaloni Prada. Nel suo dotto caleidoscopio, ci sono punti fermi: i capelli grigi striati di blu con una ciocca ad onde Marcel sull’ occhio destro, gli occhi cerchiati di viola, il rosso alle guance perfettamente rotondo, uno dei suoi tanti cappellini assurdi che appositamente le crea il massimo cappellaio rimasto al mondo, l’inglese Stephen Jones, un antico, sottile bastoncino in funzione decorativa”.22 Anna era inoltre fermamente convinta che, come sosteneva nei suoi ‘comandamenti’ Elsa Schiaparelli,23 dovesse essere il corpo ad adattarsi all’abito e non viceversa. “I vestiti” ha confessato “mi hanno resa cosciente di alcune complicazioni del vestire e di alcune regole di comportamento. Ricordo la difficoltà di camminare con un abito a palloncino degli anni Cinquanta — fermato alle ginocchia da un nodo strettissimo — che portavo con scarpe di macramé d’oro puntutissime, oppure la tecnica per ‘maîtriser’ gli strascichi, oppure come affrontare con leggerezza il ‘cul de Paris’, sostenuto da un sellino imbottito. O, ancora, come convivere con le gabbie a cerchi di diverse misure sotto le grandi gonne o come imparare a respirare con i bustier più scomodi, come facevano le grandi ladies dell’epoca, e migliorare al tempo stesso il décolleté? La mia trainer […] ha immaginato la ginnastica più adatta a questo scopo. Congiungere i palmi delle mani in un gesto di preghiera, ruotarli, uniti, verso lo sterno, inspirare profondamente, poi espirare sempre profondamente, allontanando braccia e mani in un solo gesto. Ripetere…”.24

Tra il 1988 e il 2012, anno della sua morte, Anna è stata l’artefice di una storica rubrica di Vogue Italia “D.P. Doppie Pagine di Anna Piaggi”, esempio ideale di sintesi tra immagine e grafica, tra moda di ieri e di oggi attraverso una “logica illogica” come lei stessa l’ha definita. Parte di questa rubrica è poi confluita nel volume Fashion Algebra 25. “Scorrendo queste immagini” racconta Luca Stoppini, ex art director di Vogue Italia che alla rubrica di Anna ha lavorato sin dagli esordi: “Si capisce quanto le pagine di Anna siano state anticipatrici e aspirazionali. Non un personaggio da ‘front-row’ ma un animale da ‘backstage’. Si, è Anna che ha inventato il backstage, famose scorribande fotografiche dietro le quinte delle sfilate con Alfa alla ricerca di immagini impossibili”.26 A sfogliare oggi le D.P. si capisce come, come con un punto di vista unico, fuori dal coro, abbia saputo rendere durevole l’effimero.

Pur essendo stata una delle voci più importanti della moda internazionale, tra gli anni Sessanta e il principio del Duemila, Anna Piaggi non è stata così riconosciuta in Italia e all’estero è più celebre che da noi. Basta pensare ad Anna Piaggi. Fashion-ology 27, la mostra che le ha dedicato il Victoria and Albert Museum di Londra da cui traspare la sua particolarissima visione della moda, una sorta di brillante collisione tra passato e presente.

Il Brand Heritage

Nell’ultimo quarto di secolo, l’avvento della globalizzazione ha reso la storia e l’eredità culturale di un brand sempre più importanti. Il brand heritage è un aspetto fondamentale dell’identità di una griffe, rappresenta ciò che è adesso un marchio visto attraverso la lente della propria storia. Questo anelito alla valorizzazione delle proprie radici non smette di essere una delle priorità delle grandi holding del lusso che, da 25 anni a questa parte, continuano instancabili la loro scalata alle griffe dalla storia più illustre.

Della forza del legame tra passato e futuro è convinto Bernard Arnault, imprenditore francese fondatore e CEO del gruppo Louis Vuitton Moët Hennessy (LVMH), che tempo fa ha dichiarato: “l’innovazione è più potente quando scaturisce da un’heritage preservata”. Fin dalla sua nascita, nel 1987, LVMH leader mondiale del settore lusso e proprietaria di 75 maison, ha puntato sull’acquisizione di storici marchi: da Louis Vuitton a Christian Dior, da Celine a Fendi, da Givenchy a Emilio Pucci. Considerazioni simili possono farsi per altri gruppi come lo svizzero Richemont — specializzato essenzialmente in gioielli e orologi — e Kering, la holding finanziaria appartenente alla famiglia Pinault di cui nel 2023 fanno parte griffe come Gucci e Saint Laurent, Balenciaga e Alexander McQueen, Bottega Veneta e Brioni. In questa stessa direzione si è mosso Diego Della Valle che, oltre alle griffe Tod’s, Fay e Hogan, al principio del Duemila ha aggiunto al suo portafogli Roger Vivier ed Elsa Schiaparelli. Secondo l’imprenditore marchigiano: “l’heritage di un prodotto di alta qualità sta proprio nel processo di produzione, nell’abilità dell’artigiano che di solito viene tramandata di padre in figlio. Credo che, in un mondo che sta perdendo il valore della qualità preferendogli sempre più spesso la visibilità, sia molto importante mantenere alti standard qualitativi e puntare su buon gusto ed esclusività”.28 È così che, grazie a un fitto sistema di acquisizioni e rilanci, sono, via via, tornati a brillare marchi ‘impolverati’ dal tempo.

Il perché è molto semplice. Possedere un abito o un accessorio firmato dalla griffe del cuore, equivale ad appropriarsi a un pezzetto di sogno. Questo ‘sogno’ si può realizzare attraverso l’acquisto di un capo di abbigliamento, ma anche di un rossetto, di un profumo, di un foulard o, perché no, di una borsa. Non è un caso che, in concomitanza con l’affermarsi della globalizzazione, la borsa è diventata uno dei principali “prodotti d’ingresso” nel mondo dei marchi di lusso “Scegliere una borsa” spiega Miuccia Prada “è molto più semplice che scegliere un vestito, perché non ti costringe a confrontarti con l’età, con il peso, con tutto questo genere di problemi. Per noi è davvero un modo facile per fare soldi. La borsa è il miracolo dell’azienda”.29 Nascono proprio in questa direzione le numerose riedizioni di quelli che, nel mondo della moda, vengono chiamati modelli “iconici”. Pensiamo alla Kelly o alla Birkin di Hermès, alla Bamboo o alla Jackie di Gucci o, ancora alla 2.55 di Chanel.

È così che, sia nel caso dei grandi poli del lusso, sia nel caso in cui la griffe è rimasta di proprietà del fondatore, o della sua famiglia, come nel caso di Prada, di Giorgio Armani o di Salvatore Ferragamo, la valorizzazione del proprio passato, delle proprie radici è fondamentale. Nel lungo periodo i marchi che puntano su prodotti senza tempo superano costantemente i loro colleghi più orientati alla moda.

La moda è un’industria culturale ibrida e produce merce il cui valore economico è determinato da fattori immateriali; da questo punto di vista la narrazione, quella che è stata sempre più frequentemente chiamata storytelling, è diventata sempre più importante. Con la globalizzazione la moda ha iniziato a ‘nutrirsi’ di cultura in maniera sempre più vorace, attraverso una serie di strategie volte a esaltare il potere simbolico di una griffe.

Queste strategie possono essere gestite dall’alto come nel caso, ad esempio, della Fondazione Prada, oppure anche dal basso, attraverso i nuovi marketing (guerrilla, viral, esperienziale, ecc.), saccheggiando il patrimonio estetico di culture locali, giovanili, etniche, urbane e altre.

La sintesi di tali operazioni sta nello storytelling. Un esempio evidente di storytelling è dato, come spiega Nello Barile, dalla connessione tra Wes Anderson e Miuccia Prada. Questa partnership: “Si consolida grazie al comune interesse dei due per quella che Simon Reynolds definirebbe ‘estetica retromaniaca’, paradossalmente incentivata dall’archivio senza tempo di YouTube e basata sulla ricostruzione del passato talmente attenta, filologica e maniacale da assumere tratti surreali”.30 Risultato di tale comunità di intenti sono il corto di 8 minuti Castello Cavalcanti, così come il Bar Luce della Fondazione Prada.

Strettamente intrecciata con lo storytelling è l’importanza che, sempre più spesso, viene attribuita agli archivi storici, fondamentali per una vasta serie di progetti creativi e di comunicazione. “Il valore degli archivi” sostiene Federico Valacchi “risiede nella loro trasversalità (…). L’archivio è strumento di memoria e di una memoria tanto articolata quanto lo sono le curiosità degli utenti che vi si avvicinano”31 Dalla creazione di una collezione a una mostra retrospettiva, fino alla realizzazione di semplici post e video su Instagram o TikTok.

Nel nostro Paese tutto questo è molto evidente, vista la quantità di griffe italiane che hanno segnato il Novecento. Prendiamo il caso Emilio Pucci, per esempio, conservato a Firenze negli eleganti saloni del Palazzo di famiglia. Alle soglie di Firenze ci sono gli archivi Ferragamo, dedicati alla memoria di Fiamma Ferragamo, figlia maggiore del fondatore. Essi custodiscono un inestimabile tesoro di documenti, brevetti, prototipi e prodotti. Ancora diverso il caso Max Mara. L’archivio dell’azienda di Reggio Emilia, famosa per i suoi capispalla fin dall’inizio degli anni Cinquanta, conserva oltre 50 mila pezzi, tutti rigorosamente catalogati con tanto di provenienza del capo, costo e artefice.

Specchio dell’interesse sempre maggiore nei confronti della storia di un marchio è la nascita al principio del nuovo millennio di vari progetti e associazioni legati alla conservazione e alla valorizzazione dell’heritage.

È il caso di Museimpresa, associazione nata nel 2001 con il proposito di salvaguardare la memoria dell’industria e la capacità manifatturiera, che riunisce musei e archivi di imprese italiane grandi e piccole, ma anche di diversi altri progetti. A partire dalla biblioteca digitale Europeana Fashion 32, messa a punto con l’intento di raccogliere e condividere oggetti digitali legati al cultural heritage della moda, integrando collezioni di musei pubblici e privati. Sempre in questa direzione nel 2017 nell’ambito di Google Arts & Culture, è nato We Wear Culture, un progetto che raccoglie oltre 180 istituzioni e che, grazie all’uso di tecnologie di avanguardia, rende possibile esplorare gratuitamente archivi e collezioni di università, ONG e musei pubblici e privati di tutto il mondo. Un caso a parte è quello, pioneristico, del Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma fondato già nel 1968 da Arturo Carlo Quintavalle con l’intento di costituire una raccolta di arte, fotografie, disegni di architettura, design moda e grafica e di organizzare esposizioni e pubblicazioni di cataloghi. Lo CSAC, che dal 2007 è situato presso l’Abbazia di Valserena, a pochi chilometri da Parma, è strutturato nel 2023 in cinque sezioni: Arte, Fotografia, Media, Progetto e Spettacolo, nelle quali sono conservati circa 12 milioni di pezzi.

Oggi l’archivio, scrive Antonio Masciariello, head Heritage departement di Versace — griffe acquisita nel 2018 da Capri Holding, il gruppo che fa capo a Michael Kors —: “Non è solo uno strumento fondamentale nella cassetta degli attrezzi dello storico o del ricercatore: è anche un dispositivo formidabile di continua messa in moto del processo creativo. Gli oggetti in un archivio non raccontano solo la propria storia, ma sono anche vettori di altri possibili racconti, disponibili a essere interpretati da diversi attori”.33

Pensiamo alla celebre collezione Tribute (primavera-estate 2018) realizzata da Donatella Versace in onore del fratello Gianni, in occasione del ventesimo anniversario della sua morte. “Finalmente” ha dichiarato Donatella nella conferenza stampa prima dello show: “Ho avuto il coraggio di andare in archivio e di dare il mio tributo a Gianni”.34 Nelle note che accompagnano la sfilata, Donatella scrive: “Sarebbe impossibile commemorare Gianni in un’unica collezione, quindi ho deciso di onorare la sua eredità attraverso le sue amate stampe e le sue abbaglianti maglie metalliche”.35 È così che sono stati esplorati gli elementi ‘iconici’ di Gianni, dalle stampe barocche (autunno-inverno 1991 e primavera-estate 1992), a quelle con le farfalle (primavera-estate 1995), fino a quelle Pop, che avevano come protagonisti il viso di Marilyn Monroe ritratto da Warhol e le cover di Vogue. Donatella non ha dimenticato l’amore del fratello per la classicità, che si ritrova fin nel logo della maison con la testa di medusa, e ha fatto un’ode ai drappeggi di Gianni nell’ormai storico finale della sfilata. Progettato come un tableau vivant in cui le top model preferite di Versace con addosso abiti drappeggiati in metal mesh (Carla Bruni, Naomi Campbell, Helena Christensen, Cindy Crawford e Claudia Schiffer) ricomponevano idealmente il set di uno scatto di Avedon di 20 anni prima.

La rilettura dell’heritage del direttore creativo

Nelle metamorfosi perenni della moda, nei suoi intrecci incessanti tra diversi piani temporali e nell’attitudine, sempre più frequente a riportare alla ribalta gloriosi nomi del passato, una figura chiave è in questo senso quella del direttore creativo. Comparso negli anni Novanta, in coincidenza con l’ascesa dei gruppi del lusso, il direttore creativo ha il compito, di concerto con il CEO, di trasportare l’heritage del marchio nel presente per riscrivere un nuovo futuro. Per usare le parole di Daniel Birnbaum, il direttore creativo è una sorta di «archeologo delle cose a venire»36 perché, rielaborando e studiando quello che il mondo della moda ama definire “DNA del marchio”, crea le sue collezioni. Come ha notato Maria Luisa Frisa, il direttore creativo è un curatore, al tempo stesso un visionario e un manager, un po’ come “un Mister alla guida di una squadra. E le immagini attivate dalla metafora calcistico-sportiva funzionano proprio perché non si occupa solo di stile, ma agisce come un motivatore che deve ottenere dal suo team la miglior performance possibile per portare a casa il risultato”.37

Incarnazione ideale di questa nuova figura, lo stilista texano Tom Ford ha segnato ha segnato lo stile di fine millennio attraverso la sua personalissima rilettura dello stile Gucci, di cui è stato direttore creativo dal 1994 al 2004. Oltre a segnare un cambio di passo attraverso una nuova estetica, Ford ha riscritto i codici storici di Gucci. Si deve a lui il ritorno dell’uso quasi ossessivo del tradizionale tessuto con la doppia G, il reinserimento in produzione di storiche borse come la Jackie O’ o la riedizione dei classici mocassini col morsetto riletti con tacchi da 10 centimetri. In dieci anni Ford ha completamente riscritto l’immaginario della griffe guardando al futuro senza mai perdere di vista l’heritage. Sesso, griffe e provocazione fanno parte del suo DNA a tal punto che nel 2003 arrivò a fare una delle pubblicità più discusse del decennio. La modella estone Carmen Cass posava davanti all’obiettivo di Mario Testino nuda, con un chimono aperto su un corpo plasmato da ore di palestra, un paio di mutande abbassate che svelavano un pube rasato a forma di G. Dopo le polemiche di cui era stato oggetto negli anni Novanta, culminate con la cosiddetta generazione “no logo” — dal titolo dell’omonimo libro di Naomi Klein 38 — la griffe, forse per la sua funzione “rassicurante” e di status symbol era di nuovo alla ribalta. Emblematico è stato anche il caso di Alessandro Michele approdato nella maison nel 2015, dopo la parentesi di Frida Giannini e rimasto in Gucci fino al 2022.39 Pure lui, come aveva fatto Tom Ford a suo tempo, ha reso Gucci uno dei marchi più ambiti. Se Ford aveva mescolato i codici della casa con sesso e glamour, in Michele è forte il richiamo del passato. “Il passato” ha dichiarato “è un contenitore immenso. È un racconto fatto per strada, è un oggetto che compro, è un libro, è tutto, è parte del nostro oggi. Il grande errore è dire: ‘passato, guai che sei matto?’. Semmai trovo ‘antico’ chi, a tutti costi, vuole essere moderno. Alle volte questo termine suona più antico della colonna Traiana. Mi sento beatamente antico. Non mi sento così vintage da dire di essere moderno. Semmai lo sono davvero”.

Già alla sua prima sfilata l’importanza di altri momenti storici era scritta nella release. Nell’incipit si legge una frase del filosofo Giorgio Agamben: “È davvero contemporaneo chi non coincide perfettamente con il suo tempo”? 40. Nel giro di pochi mesi con quello che Suzy Menkes, autorevole firma dell’Herald Tribune, ha definito “attic chic”, a individuare la sua dimensione rétro, lo stile di Michele ha influenzato internazionalmente la moda al punto che sulle pagine di Time Vanessa Friedman ha scritto: “non era moda, era la moda; una serie di pezzi romantico-nostalgici che possono essere indossati da soli oppure mescolati, con grande facilità”.41 Lo stile eclettico di Michele che rielaborava senza nostalgia visioni apparentemente agli antipodi ha continuato a contraddistinguere anche le successive collezioni Gucci. Nella sfilata per l’autunno-inverno 2016–17 ad esempio, c’erano la ragazza bon ton con abitino verde mare in perfetto stile Regina Elisabetta, la groupie anni Ottanta con tailleur pantalone indossato a pelle e la signora rétro, che con il cappotto di broccato, sembrava uscita da un quadro di Holbein. Il risultato, oltre a far affiorare alla memoria certe suggestioni da Wunderkammer (seicentesche ‘stanze delle meraviglie’), faceva tornare alla memoria l’armadio strampalato di Zia Mame (1955), eroina dell’omonimo romanzo di Patrick Dennis.

Ancora diverso il caso John Galliano, oggi alla direzione creativa di Maison Margiela, approdato nella maison Dior nel 1997, dopo essere stato da Givenchy. Con la sua estetica flamboyant, pur utilizzando un approccio all’heritage piuttosto sfumato, Galliano ha spesso giocato con le proporzioni amate dal fondatore della maison: dalla giacca Bar con la sua linea costruita e avvitata, della storica collezione Corolle lanciata nel 1947 alle crinoline dei suoi fiabeschi abiti da ballo, fino alla lavorazione “cannage” della borsa Lady Dior (resa famosa da Lady Diana) ispirata alla seduta delle sedie dorate con seduta a canna di Napoleone III che arredavano, fin dalle origini, i saloni della Maison.

L’equilibrio tra direttori creativi e case di moda, permette ai vari marchi di reinventarsi senza mai perdere la propria identità, nel rimanere all’avanguardia rimanendo fedeli alla tradizione. In altre parole, il compito del direttore creativo è quello di integrare i valori, lo spirito e i codici di una griffe in un sottile equilibrio, come si legge in un comunicato ufficiale di LVMH: “Tra ‘sempre’ e ‘adesso’” e di “destreggiarsi tra strategia a lungo termine e impatto immediato, soprattutto nel mondo della moda, con i suoi cicli brevi. Nasce da qui l’esigenza di mobilità per case di moda e direttori creativi”.42 Prendiamo per esempio Hedi Slimane, il designer francese che negli anni Duemila ha ridisegnato la silhouette di Dior Homme e che, con una linea sottile e aderente, ha dato il là a un nuovo corso nella moda maschile. Dopo un intervallo trascorso a lavorare in altri ambiti, tra le altre cose, è stato direttore creativo di Yves Saint Laurent,43 griffe appartenente al gruppo Kering, lo stesso Slimane è approdato di nuovo in LVMH come direttore creativo di Celine con la missione di conservare l’heritage della griffe e al tempo stesso di estenderne l’universo alle linee uomo, couture e fragranze.

Una figura, quella del direttore creativo, che fa tornare in mente l’Angelus Novus di Paul Klee così come è stato interpretato da Walter Benjamin. “Questo dipinto” scrive il filosofo tedesco nella Tesi IX di filosofia “mostra un angelo che sembra sul punto di allontanarsi da qualcosa che sta contemplando con lo sguardo bloccato. I suoi occhi sono fissi […], il suo volto è rivolto al passato”. Il passato, per Benjamin è un cumulo di rovine che sale al cielo mentre l’angelo viene spinto verso il futuro dietro di lui da una tempesta impigliata nelle ali. Questa tempesta” conclude Benjamin è ciò che noi chiamiamo progresso”.44

Il caso Karl Lagerfeld

Un ruolo pioneristico nella valorizzazione dell’heritage è stato rivestito dal designer tedesco Karl Lagerfeld (1933–2019). Nato nel 1933, dopo un’infanzia trascorsa ad Amburgo, la sua città natale, appena diciannovenne approdò a Parigi. Qualche tempo dopo, nel 1954 partecipò a un concorso di moda. Di lì a poco divenne assistente di Pierre Balmain. Nel 1958 passò alla maison Patou. Da quel momento iniziò una vorticosa girandola di collaborazioni che, in meno di 15 anni, lo portò a lavorare come stilista per Krizia e Tiziani, Loewe e Max Mara, ma soprattutto per Chloé (1964–1983) e per Fendi (1965–2019).

Negli anni Settanta, inseparabile dal suo ventaglio, con gli occhiali scuri (“gli occhiali sono il mio burqua”,45 amava ripetere) e i capelli tirati indietro in una coda di cavallo “tale e quale”, avrebbe poi detto Quirino Conti “a quei ritrattini che Chardin dipingeva nella prima metà del Settecento”,46 divenne un’icona.

La sua ossessione per il lavoro, lo sfrenato amore per lo shopping, le esagerazioni, l’idiosincrasia per il contatto fisico, la prontezza nelle battute, il voler rimanere ancorato alla contemporaneità a dispetto di ogni revival, diventano presto leggenda. Lagerfeld è una sorta di camaleonte o un mercenario di alto bordo.

“In fondo” avrebbe poi confessato “sono al soldo di qualcuno che mi assume per portare avanti un marchio”, una storia. In questo senso inaugura un nuovo modello di business e anticipa la figura del direttore creativo. Nel frattempo nel 1982 lo contattò Alain Wertheimer, proprietario di Chanel che, in cambio di un milione di dollari l’anno, gli chiese di ‘rianimare’ la maison. “Ha carta bianca” gli disse. Karl gli rispose senza mezzi termini: “Il rispetto non è creativo. Chanel è un’istituzione, bisogna trattare un’istituzione come una puttana e allora se ne caverà qualcosa. Adesso cominciamo”.47 All’epoca “il marchio Chanel” osservava Lagerfeld “appariva vecchio e superato. Lo indossavano solo le mogli dei medici parigini. Nessuno lo voleva più, era un caso disperato”48 Nel gennaio 1983, a cento anni esatti dalla nascita di Mademoiselle Coco, Lagerfeld lanciò la sua prima collezione Chanel. Alle soglie di quella prima sfilata Suzy Menkes ha scritto: “È come riportare in scena una famosa pièce teatrale. Andrebbe vista con gli occhi del pubblico originario, ma anche senza troppa riverenza. È importante che i giovani scoprano lo stile di Coco Chanel e ci vuole anche un po’ di divertimento”.49 Sollecitato dalla sua passione per l’arte e per la moda Karl si è servito delle sue conoscenze per reinventare lo stile di Mademoiselle. Fin da quel debutto Karl individuò la venticinquenne Inès de la Fressange come musa ideale dello stile di Mademoiselle e iniziò a giocare con i vari fil rouge del brand. “Chanel” avrebbe poi detto lo stesso Lagerfeld “ha inventato qualcosa, il ‘total look’. È stata la prima a volere in esclusiva ‘un profumo femminile che sapesse di donna’. Dei bijoux per la sua collezione. Dal cappello alla scarpa, dalla cintura a catena alla camelia, dalle cravatte dalle borse, ha sublimato gli accessori”.50

Con un tocco speciale e una lungimiranza che si sarebbe rivelata esemplare, Lagerfeld ripartì dai codici di Chanel, come il tailleur di tweed, il piccolo abito nero, la borsa in nappa matelassé, le perle mischiate a vistose catene d’oro e la camelia, rileggendoli in chiave contemporanea, trasformando alla perfezione un abito o un accessorio datato in quanto di più desiderabile si potesse immaginare. “Ho riportato alla ribalta tutti questi elementi, esasperandoli e convincendo la gente che erano sempre stati così”.51 Fu allora che John Fairchild, proprietario e caporedattore del Women’s Wear Daily (1960–1996) lo battezzò “Kaiser della moda”.

Il suo passo successivo alla guida di Chanel fu il rifarsi alle linee lunghe e fluide, ai pizzi e alle trine usate da Coco negli anni Trenta. “Tutti pensano ai tailleur quando pensano a Chanel” annotava Diana Vreeland nelle sue memorie: “Se aveste potuto vedere i miei abiti Chanel negli anni Trenta — le gonne da zingara dégagées, i magnifici broccati, i bolerini, le rose tra i capelli, le velette con le paillette — di giorno e di sera! […]. Nessuno ha mai avuto un senso del lusso più grande di quello di Coco Chanel […]. Una donna vestita Chanel negli anni venti e trenta faceva il suo ingresso in una stanza con una tale dignità, autorità, un certo non so che, che andavano al di là della pura questione di gusto. Non parlo della Chanel dell’ultimo periodo che si divertiva ad addobbare le strade di Parigi. Quando riaprì, dopo la guerra, voleva vedere i suoi tailleur dappertutto”.52

Tra il 1983 e la fine del decennio, servendosi di pezzi di archivio e storytelling, Lagerfeld traghettò alla perfezione lo spirito di Chanel nella modernità. “L’immagine di Chanel” dichiarò allora “non deve essere quella di una vecchia signora che dà lezioni di eleganza. Bisogna considerare l’insieme della sua vita e della sua carriera entrambe strettamente legate per apprezzare il suo genio e per liberarsi dalle idee preconcette, dai luoghi comuni e dalle desolanti banalità”53 scritte su di lei nell’infinita bibliografia che la riguarda.

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  1. Rosanna Pavoni, Il fascino del passato, in Grazietta Butazzi, Alessandra Mottola Molfino, Moda e Revival (Milano: De Agostini, 1992), 9.↩︎

  2. Pavoni, Il fascino del passato, 10.↩︎

  3. Christian Dior, Christian Dior & Moi: L’autobiografia di Christian Dior (Roma: Donzelli, 2014), 28–29.↩︎

  4. Enrica Morini, Storia della moda XVIII–XXI secolo (Milano: Skira, 2010), 371–372.↩︎

  5. Cit. in Sofia Gnoli, Moda. Dalla nascita della haute couture a oggi (Roma: Carocci, 2020), 270.↩︎

  6. Isa Vercelloni, L’amore per Venezia, in Walter Albini. Lo stile nella moda, eds. Walter Albini (Modena: Zanfi, 1988), 89.↩︎

  7. Cit. Sofia Gnoli, “Walter Albini”, in Vogue Italia (dicembre 2009).↩︎

  8. Marylou Luther, “Retro Styles”, in Valerie Steele, The Berg Companion to Fashion (Oxford New York: Berg, 2010), 600.↩︎

  9. Harold Koda e Richard Martin, The Historical Mode (New York: Rizzoli, 1989), 8.↩︎

  10. Nicoletta Bocca, “Il passato nella moda d’oggi”, in Butazzi, Mottola Molfino, Moda e Revival (Milano: De Agostini, 1992), 56.↩︎

  11. Valerie Steele, La moda rétro, in Paola Colaiacomo, Vittoria Caterina Caratozzolo, Mercanti di stile. Le cultura della moda dagli anni ’20 a oggi (Roma: Editori Riuniti, 2002), 201.↩︎

  12. Koda, Martin, The Historical Mode (New York: Rizzoli, 1989), 109.↩︎

  13. Koda, The Historical Mode, 91.↩︎

  14. Koda, The Historical Mode, 53.↩︎

  15. Nicoletta Bocca, “Il passato nella moda d’oggi”, in Butazzi, Mottola Molfino, Moda e Revival (Milano: De Agostini, 1992), 55.↩︎

  16. Paola Colaiacomo, Vittoria Caterina Caratozzolo, Cartamodello. Antologia di scrittori e scritture sulla moda (Roma: Luca Sossella Editore, 2000).↩︎

  17. Bocca, “Il passato nella moda d’oggi”, 51–52.↩︎

  18. Profondo conoscitore di costume, Vern Lambert che negli anni Sessanta possedeva un piccolo negozio di abiti d’epoca a Londra, era il punto di riferimento per i costumi delle band del rock anni Sessanta dai Beatles a Jimi Hendrix. Grande amico di Anna che di lui avrebbe ricordato: “Vern ha infuso il colore nella mia ottica, tendenzialmente black and white nelle mie pagine è stato costante researcher, stimolatore, affabulatore. Gli anni passati con lui sono stati una meravigliosa ‘festa mobile’”. Cit. Sofia Gnoli, Anna Piaggi e il mito, a 90 anni dalla sua nascita, La Repubblica on-line, (22 marzo 2021).↩︎

  19. Anna Piaggi, Vintage souvenir, in Enrico Quinto e Paolo Tinarelli (a cura di), Un secolo di moda. Creazioni e miti del XX secolo (Milano: Federico Motta Editore, 2003), 235–236.↩︎

  20. Anna Piaggi, Karl Lagerfeld e Vern Lambert, Anna-Chronique: Un Diario Di Moda (Milano: Longanesi&C, 1986).↩︎

  21. Anna Piaggi, Karl Lagerfeld, Un diario di moda. Anna chronique (Milano: Longanesi&C, 1987), 10.↩︎

  22. Natalia Aspesi, “L’avventura di Anna è un puzzle colorato”, La Repubblica, 29 gennaio 2006.↩︎

  23. I ‘comandamenti’ di Elsa Schiaparelli costituiscono l’epilogo della sua autobiografia Shocking Life (J.M. Dent, 1954).↩︎

  24. Anna Piaggi, Vintage souvenir, 235–236.↩︎

  25. Anna Piaggi, D.P. Doppie Pagine Di Anna Piaggi in Vogue: Fashion Algebra (Milano: Leonardo arte, 1998).↩︎

  26. Luca Stoppini, Le D.P. “Doppie Pagine” di Anna Piaggi, in Gnoli, a cura, Ephimera. Dialoghi sulla moda (Milano: Electa, 2019).↩︎

  27. Piaggi, Anna, Judith Clark, Manolo Blahnik, Gene Krell, Patrizia Calefato, Grazia D’Annunzio, Fabien Baron, e Jefferson Hack. Anna Piaggi fashion-ology (London: Victoria and Albert Museum, 2006).↩︎

  28. Suzy Menkes, “Heritage Luxury: Past Become The Future”, New York Times, 8 november 2010.↩︎

  29. Cit. Dana Thomas, Deluxe. Come i grandi marchi hanno spento il lusso (Milano: De Agostini, 2007), 177.↩︎

  30. Nello Barile, La moda è un medium, 21 febbraio 2016, https://www.marieclaire.it/mclikes/a19474931/storytelling-moda/↩︎

  31. Federico Valacchi, “Comunicare il valore degli archivi: il sistema archivistico nazionale”, in Il capitale culturale. Studies on the value of cultural heritage, V, 2012, 145–162 citato in Daniela Calanca, Cinzia Capalbo, “Introduzione”, in ZoneModa Journal, vol.8 n° 1, XX.↩︎

  32. Europeana, https://www.europeana.eu/it/themes/fashion.↩︎

  33. Antonio Masciariello, Memoria, identità, progetto: l’archivio d’impresa nel fashion design come progetto culturale e come strumento di produzione. Il caso dell’archivio storico Versace, tesi di dottorato, IUAV, 2020, 1.↩︎

  34. Mascariello, Memoria, identità, progetto, 90.↩︎

  35. Mascariello, Memoria, identità, progetto, 90.↩︎

  36. Dal titolo del saggio The Archaeology of Things to Come, di Daniel Birnbaum sul mestiere del curatore riferendosi al lavoro di Hans Ulrich Obrist.↩︎

  37. Maria Luisa Frisa, Creativi e precari, in Marie Claire #Likes, 19 settembre 2017 https://www.marieclaire.it/mclikes/a19414510/likes-creativi-e-precari/.↩︎

  38. Naomi Klein, No Logo: Taking Aim at the Brand Bullies; No Space, No Choice, No Jobs (New York: Picador USA, 1999).↩︎

  39. Nel 2023 alla direzione creative di Gucci è subentrato il designer di origini napoletane Sabato De Sarno.↩︎

  40. Cit. Gucci, Il Contemporaneo è l’intempestivo, Press Release collezione autunno-inverno 2015-2016↩︎

  41. Rebecca Mead, Gucci’s Renaissance Man, in New Yorker, 12 Settembre 2016, https://www.newyorker.com/magazine/2016/09/19/guccis-renaissance-man.↩︎

  42. https://www.lvmh.it/news-folder/direttori-creativi-e-maison-di-moda/.↩︎

  43. Hedi Slimane aveva già lavorato per la Yves Saint Laurent quando ancora era nelle mani dei suoi fondatori, poi nel 1998 quando il Gruppo Gucci di Pinault (oggi Kering) acquisì la griffe abbandonò il suo incarico.↩︎

  44. Patrizia Calefato, Vestire il tempo 2017, in Caroline Evans e Alessandra Vaccari, Il tempo della moda (Milano: Mimesis, 2019), 102.↩︎

  45. Marie Ottavi, Karl (Milano: L’Ippocampo, 2022), 631.↩︎

  46. Quirino Conti, La coda di Lagerfeld, Dagospia, 16 febbraio 2011.↩︎

  47. Ottavi, Karl, 321.↩︎

  48. Cit., Chanel sfilate, eds. Patrick Mauriès e Adélia Sabatini (Milano: L’Ippocampo, 2020), 13.↩︎

  49. Patrick Mauriès e Adélia Sabatini, Chanel sfilate, 26.↩︎

  50. Karl Lagerfeld, Il mondo secondo Karl (Milano: Rizzoli, 2013), 75.↩︎

  51. Patrick Mauriès e Adélia Sabatini, Chanel sfilate, 13.↩︎

  52. Diana Vreeland, DV (Roma: Donzelli, 2012), 126, 172, 174.↩︎

  53. Morini, Storia della moda XVIII–XXI secolo, 504.↩︎