“L’essenza del Camp è anzi il suo amore dell’innaturale, dell’artificio e dell’eccesso”.1
“L’androgino è certo una delle grandi immagini della sensibilità camp”.2
Premessa
Nel 2023 cadono i quarant’anni dalla scomparsa di quello che è comunemente riconosciuto come il padre del prêt-à-porter e del nascente concetto di stilismo Walter Albini (Busto Arsizio, 1941 – Milano, 1983), questo contributo intende proporre un’indagine monografica su quest’ultimo tramite una ricognizione d’archivio presso CSAC, Centro Studi e Archivio Comunicazione.3 Infatti, l’istituzione dell’Università di Parma conserva uno dei più importanti fondi dello stilista, ordinato in 4191 materiali eterogenei composti da figurini tecnici, disegni, schizzi, capi di abbigliamento ed accessori.4 Inoltre, il saggio propone un’analisi dettagliata della collezione maschile Autunno–Inverno 1975–1976 presentata presso il Ristorante Angolo di Milano nel marzo del 1975, e una riesamina di parte dell’operato di Walter Albini alla luce del concetto di camp, così come teorizzato da Susan Sontag nel 1964 nel suo Notes on Camp.5
In particolare, la prima parte dello studio si concentrerà su alcune collezioni di Walter Albini, in cui emerge in modo pionieristico il concetto di gender, tema che attualmente occupa un importante dibattito critico che coinvolge diverse discipline. Un esempio significativo, infatti, è rappresentato dalla collezione maschile A–I 1975–1976, l’anno prima Albini ha un ampio servizio sulla rivista tedesca Der Mann in cui si scrive: “Mode at einen neuen Namen — und wir haben eine neue Mode. Der Name: Walter Albini” (“La moda ha un nuovo nome — e noi abbiamo una nuova moda. Il nome: Walter Albini”).6 In questa sfilata, lo stilista, insieme a suoi amici e amiche come Ken Scott, Emy Vincenzini, Silvano Malta e altri, tra cui la modella Danka Schroeder, indossò alcuni capi della collezione, invertendo con una leggera dose di ironia e disimpegno i confini di genere attraverso un cortocircuito identitario con la modella Vincenzini.
Come già enunciato questo studio, nella seconda parte, seguendo la strada aperta da Christopher Breward nel libro Walter Albini e il suo tempo. L’immaginazione al potere,7 ha anche l’intenzione di muoversi tra le maglie del concetto di camp, allo scopo di evidenziare quali possono essere gli elementi riconducibili a questa sensibilità nell’operato dello stilista. L’argomento in questione, come sottolineato da Fabio Cleto, si rivela sfaccettato e intricato nella sua definizione.8 Tuttavia, prendiamo in considerazione alcuni passaggi del trattato di Sontag al fine di comprenderne la possibilità di rileggere Albini sotto la luce di questa sensibilità, come definita dall’autrice stessa. In particolare, esaminiamo alcuni punti critici del trattato di Sontag evidenziati nell’opera di Albini: un marcato citazionismo verso il mondo degli anni Venti e Trenta (in quanto sono considerati camp “gli abiti femminili degli anni Venti”9), una passione per l’Art Nouveau e il movimento Preraffaellita, un’attenzione alla figura del dandy e a quella di Marlene Dietrich, ma anche una profonda sensibilità verso l’estetica dell’androgino. Quest’ultima emerge chiaramente nel gioco di travestimento presente nella sfilata assunta come caso studio, in cui Emy Vincenzini diventa Albini stesso attraverso il filtro del personaggio del Duca di Mantova, tratto da Il Rigoletto. Tale trasformazione non solo sovverte le convenzioni binarie di genere, ma si riflette anche nell’identità dello stilista stesso e nella figura dell’androgino, concetto cardine nell’ambito della sensibilità camp. Tale idea è stata già precedentemente evidenziata da Gloria Bianchino, scrivendo che Emy Vincenzini era “vestita con abiti maschili, quasi a voler simboleggiare il doppio di Albini, una sorta di androgino, l’eterno femminile che si nasconde in tutti gli uomini”.10
Questo scritto nasce anche alla luce della mostra Camp. Note of fashion, curata da Andrew Bolton al Metropolitan Museum di New York nel 2019, nella quale si analizzavano i principali punti dell’argomentazione di Sontag, intuibile anche dal titolo della mostra stessa, riattualizzandoli nell’ambito delle poetiche del fashion design, ed esponendo una serie di abiti in cui compaiono alcuni diretti discendenti di Albini, quali Franco Moschino.11
Attraverso l’analisi dei materiali e documenti presso CSAC, inclusa una vasta rassegna stampa, l’obiettivo è proporre una nuova interpretazione che si insinua nella sensibilità camp. Ciò evidenzia elementi chiave del percorso creativo di Albini, come il suo stile distintivo e le influenze artistiche che hanno modellato la sua visione, rientranti nella sfera del camp. Questo studio intende proporre una nuova lettura dello stilista, approfondendo il suo ruolo centrale nel ridefinire i confini di genere e nel superare le convenzioni tradizionali del settore. Questa esplorazione si riflette anche in sfilate di moda che si discostano, in termini di modalità e pubblico, dagli eventi delle decadi precedenti.
Collezione e sfilata, fuori dalle regole
Lo stilista inizia il proprio percorso professionale agli albori degli anni Sessanta, intraprendendo una serie di collaborazioni, prima di tutto con Mariuccia Mandelli (Krizia), dove si occupa della linea Krizia Maglia. Simultaneamente, condivide il suo impegno presso l’atelier milanese della stessa, collaborando a fianco di Karl Lagerfeld. Successivamente Albini stabilisce rapporti lavorativi con varie aziende, tra cui Billy Ballo, Cadette, Trell, Montedoro, Princess Luciana, Paola Signorini, Uama Sport, Cole of California, Annaspina, Glans e Callaghan. Un pregresso periodo parigino, protrattosi per una durata di quattro anni, spinto dalla ricerca del mito personificato da Coco Chanel, figura di rilevante importanza per l’immaginario dello stilista, lo conduce a collaborare con testate giornalistiche quali Vanità e Corriere Lombardo. Oltre a ciò, la città francese gli offre l’opportunità di intraprendere un incarico presso l’agenzia di stilismo Maime Arnodin et Denise Fayolle. Comunemente conosciuto come lo stilista che ha spostato le sfilate da Firenze a Milano, Albini è stato anche l’ideatore della cosiddetta “collezione unitaria” all’inizio degli anni Settanta. Dopo la sua prematura scomparsa, CSAC12 ha avviato un processo di conservazione e valorizzazione di un ingente patrimonio, composto da 4191 materiali eterogeni, tra cui circa 2800 figurini tecnici e disegni, 352 capi di abbigliamento, 137 paia di calzature, 161 copricapi, 15 borsette, 55 sciarpe, foulard e parei, oltre a 189 accessori vari come bracciali, orecchini e spille.13
Le collezioni conservate coprono un vasto arco cronologico che va dal 1967 al 1982, sono presenti anche molti schizzi giovanili senza datazione, donati attraverso un primo atto del 1983 da parte di Paolo Rinaldi e un secondo del 1988 da parte di Barbara Curti.
In particolare, la presente indagine si propone di esaminare l’opera di Albini successivamente all’avvento del prêt-à-porter, focalizzandosi sulla sfilata della collezione maschile A/I 1975–1976, presentata presso il Ristorante Angolo di Milano.14 Come introdotto nella premessa, questa sfilata ha sfidato il concetto binario di genere e si è collocata in una posizione pionieristica rispetto alle attuali e complesse dinamiche di gender.15 In questa circostanza, Emy Vincenzini sfila indossando un completo maschile assieme a Danka Schroeder e Daniela Morera. Ciò che rende questa sfilata distintiva è il fatto che, oltre a sottoporsi a un processo di travestitismo che la conduce dall’abbigliamento tradizionalmente femminile a quello maschile, la collezione trae ispirazione da alcuni celebri melodrammi come Figaro e La Traviata. Sebbene non si facciano evidenti riferimenti simbolici a tali opere, l’atmosfera di esse è a volte richiamata attraverso lievi variazioni stilistiche, come ad esempio i pantaloni alla zuava indossati dal personaggio di Calaf in Turandot, inoltre i modelli e le modelle sfilano sulle note delle grandi arie d’opera per tenore.
La collezione in questione presenta circa trenta figurini disegnati da Albini su fogli superiori allo standard, tutti realizzati a matita e composti da prove tessuti. I disegni portano sul fronte la sequenza di uscita della sfilata dettata quindi da una serie numerica che va dal numero 1 al 21 e hanno varie scritte realizzate a matita e con un pennarello rosso, principalmente indicano il nome della modella o modello e alcune il personaggio da interpretare (sempre maschile).16 Difatti la collezione si articola sulla base di melodrammi storici e gli amici e amiche, insieme a modelle e modelli professionisti, sono chiamati ad interpretare questi personaggi attraverso un’azione che si pone a mezza via tra un atto performativo, carico di quel travestitismo artistico e culturale degli anni Settanta, e una sfilata di moda ambientata in un posto caratterizzante e poco usuale come un ristorante del centro di Milano. Già Derna Querel nel recensirla si appropria di un termine preso in prestito dal linguaggio artistico, parla infatti di “un vero happening, uno di quegli avvenimenti che mescola moda, costume, gastronomia, mondanità, capaci di trasformare i compratori, i giornalisti, gli analizzatori dell’etica esistenziale”.17 La sfilata18 in questione trova una precedente controparte nell’evento del 1973 al Caffè Florian di Venezia, nel quale i modelli e le modelle furono denominati con i titoli dei dogi e delle dogaresse e sfilavano accompagnati da un’orchestrina situata in Piazza San Marco che eseguiva composizioni di valzer e tango. L’anno successivo invece, nel 1974, presso il salone Pier Lombardo, Walter Albini presentò la sua prima collezione interamente dedicata al vestiario maschile. Parallelamente, nello stesso anno della sfilata presso il ristorante Angolo di Milano, Albini progetta una sfilata Primavera–Estate e Autunno–Inverno, fuori calendario, presso “l’insolita sede”19 dei Vivai del Sud di Roma. Questa sfilata è rimasta celebre in quanto ispirata a Coco Chanel e agli anni Trenta.20 Si evidenzia inoltre l’uso della “giacca da uomo” in occasioni di “gran sera”,21 nonché la “rievocazione della donna Chanel, filiforme, asessuata”,22 infine rimane un evento definito “anacronistico”23 per il suo libero spirito citazionistico. Alla sfilata era presente anche una “macchina spandiaromi” realizzata dall’artista armeno Yervant Gianikian24 e durante il pranzo, servito nelle tonalità del colore rosa, veniva offerta una rosa a tutti gli spettatori e spettatrici. La colonna sonora della sfilata è stata La Vie en rose, declinata dall’originale di Edith Piaf a quella di Louis Armstrong, nel complesso, gli ospiti hanno ascoltato ventisette interpretazioni della canzone francese.25
Tramite un approfondito lavoro di ricerca archivistica all’interno del fondo Albini, è stato possibile effettuare una ricostruzione accurata della sequenza dei capi presentati durante la sfilata presso il ristorante di Brera, insieme alle rispettive modelle e modelli e ai personaggi interpretati. Come ho già evidenziato i disegni dei capi sono realizzati a matita su carta, utilizzando fogli di dimensioni superiori a un formato A4 (spesso standard), elemento già evidenziato da Bianchino nel 1988.26 Questo aspetto costituisce una costante nel materiale progettuale di Albini conservato a CSAC. Sui fogli adiacenti ai disegni, i campioni di tessuto sono fissati mediante una pinza, elemento che evidenzia chiaramente una marcata discontinuità rispetto alla produzione precedente al prêt-à-porter. La maggior parte dei fogli presenta il disegno frontale del capo di abbigliamento, spesso accompagnato da un’immagine in scala ridotta dell’indumento ripreso da dietro o in sbieco. Inoltre, sono presenti scritte realizzate con un pennarello rosso che indicano il nome della modella o del modello e il numero sequenziale del capo durante la sfilata. Con una matita, vengono tracciati anche i dati tecnici sull’indumento e il nome del personaggio del melodramma da interpretare. È interessante notare che molti figurini e alcune annotazioni di natura progettuale sono ulteriormente delineati con un sottile pennarello nero, evidenziando così la loro importanza nel contesto dell’intero progetto. Poiché si tratta di una collezione Autunno–Inverno, i fogli contenenti lo stesso numero di sequenza sono in alcuni casi duplicati, uno per il capospalla e l’altro per gli altri indumenti. Questo indica che viene presentato un “Total look”, con il primo foglio che illustra la combinazione quasi sempre composta da giacca, pantaloni e camicia (o maglione a girocollo), mentre il secondo foglio rappresenta il capospalla, principalmente trench e cappotti. Questo metodo consente di offrire una visione completa delle varie proposte di abbigliamento per la stagione Autunno–Inverno. Essa mette in luce sia gli indumenti destinati a essere indossati come strati inferiori, sia quelli concepiti come capispalla da sovrapporre, garantendo in tal modo una visione dettagliata e completa della collezione nel suo complesso. Relativamente a questa collezione Gloria Bianchino, nel corso di uno studio condotto CSAC, scrive: “si tratta di un ciclo progettuale che vede le collezioni maschili presentate per la prima volta separatamente da quelle femminili, per tradizione considerata destinatario privilegiato del messaggio moda”,27 inoltre la critica evidenzia come in questo modo di lavorare “le collezioni maschile vengono utilizzate per la prima volta come avanguardia della moda femminile”.28 Già in questa affermazione possiamo cogliere i germi della portata innovativa di tale attività. Albini tende ad invertire la rotta, come aveva fatto precedentemente spostando le sfilate da Firenze a Milano,29 progettando e presentando la collezione maschile prima del debutto di quella femminile, in un certo senso permettendo alla collezione maschile di dettare le tendenze del momento, spesso di retaggio soltanto femminile. Questo modus operandi aveva avuto un precedente un anno prima quando nel Salone Pier Lombardo Albini aveva presentato autonomamente la collezione uomo, senza presentare la donna.
Ritornando all’analisi dei modelli emerge dall’ applicazioni di filati che i toni della collezione tendono al marrone, con alcune eccezioni di completi che virano sul blu o grigio ma che spesso vengono presentati insieme in una scala di tonalità. Ad ogni figurino sono stati attaccati almeno quattro tessuti, ognuno indicante un particolare indumento del completo, che per quanto concerne i vestiti è spesso composto da giacca e pantaloni, camicia, gilet e cravatta, mentre chiaramente i capispalla portano solo una tipologia di tessuto, principalmente lana (probabilmente di Alpaca), denominato spesso “moquette” dallo stilista. I filati non sono monocromatici ma sono spesso di vari motivi tradizionali molto battuti, come alcune declinazioni di gessati, tweed, scozzesi e pied de poule.30
Proseguendo nell’analisi dei figurini, come già accennato, è significativo osservare che ogni disegno riporta il nome dell’indossatore o dell’indossatrice e il personaggio melodrammatico ad essi associato. In particolare, sul disegno numero 1 che raffigura il capospalla, è marcato in rosso il nome Jaques e scritto a matita Almaviva, corrispondente al personaggio del Conte di Almaviva nell’opera Il Barbiere di Siviglia (1).31 Lo stesso melodramma, nel quale il protagonista è Figaro, vede l’interpretazione del fotografo Guido Cegani (5). Invece, i personaggi appartenenti all’opera di Giacomo Puccini sono: Pinkerton da Madame Butterfly (4), interpretato dal modello Ron; Calaf da Turandot, impersonato da Paolo Garetti (6) (Fig.1); Hannes Buller assume il ruolo di Dick Jonson in La Fanciulla del West (14); lo stilista Ken Scott diventa il personaggio Des Grieux in Manon Lescaut (19) (Fig.2). Ulteriori rinomati personaggi fanno la loro comparsa sulla scena: Don Josè dall’opera Carmen, interpretato da Joe de Susa (13); il modello Victor rappresenta Don Giovanni di Mozart (20); Mike, come indossatore, assume il ruolo di Belmonte in Il ratto del Serraglio (16); Turiddu, protagonista della Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni, è interpretato dal fotografo Rocco Mancino (7), mentre un riferimento esplicito di parole si può individuare nell’artista Piero D’Amore, che assume il ruolo di Nemorino nell’opera L’Elisir d’Amore di Gaetano Donizetti (10). In questo contesto di difficile lettura a causa di grafia è il figurino 12 dove la scritta in rosso pare riportare Forneris e quella a matita Marco o Mario, aprendo quindi a innumerevoli interpretazioni dal Mario della Tosca, o della Cavalleria Rusticana o La Fanciulla del West. Il celebre truccatore Gil Cagnè interpreta Sir Edgardo dell’opera di Donizetti Lucia di Lammermoor (9), mentre meno ascrivibile alla logica sequenziale del melodramma è il disegno 15 dove ai nomi di Danka e dello stilista Silvano Malta è affiancato il nome di Gualtiero, che non è legato a nessuno personaggio glorioso e passionale di qualche dramma ma è il nome di battesimo dello stesso Walter Albini32 (inoltre il suo yorkshire si chiamava Walterino). La ricerca identitaria nella poetica dello stilista è alla base del proprio operato; infatti, lavora in primis sulla propria identità diventando Walter,33 per Fabriano Fabbri questa azione significa un “cambio ideologico”,34 l’inaugurazione di un “diverso spazio di teatralità”35 e la teatralità — come vediamo — è il cardine di questa sfilata e un punto importante per Sontag quando scrive che il camp “introduce un nuovo criterio di valutazione: l’artificio come ideale, la teatralità”.36 Giuseppe Verdi emerge come uno dei compositori più frequentemente citati da Albini. Il personaggio di Ernani, tratto dall’omonimo melodramma, trova la sua interpretazione nel modello Victor. A Ron/Danka è invece affidato il ruolo di Alfredo da La Traviata (3) (Fig. 3), mentre l’indossatore Rudi assume il personaggio di Manrico nell’opera Il Trovatore (8). Le figure di Daniela Morera, stretta collaboratrice di Andy Warhol, e Didi Chelotti, proprietario dello storico negozio di Forte dei Marmi, incarnano Radames nell’opera Aida (11) (Fig. 4). Il modello Ron interpreta Riccardo in Un Ballo in Maschera (17), mentre alla figura dell’imprenditore tessile Fabio Bellotti è riservato il ruolo di Don Alvaro in La Forza del Destino (18) (Fig. 5). Si osserva in questa sequenza che il sesso femminile è costantemente accompagnato da un soggetto maschile sulla passerella. Come sottolineato da Tonchi, la sfilata si sviluppa con “coppie dove lei è come lui”.37 Infatti, le uscite si susseguono con Ron/Danka, Malta/Danka, Morera/Chelotti, prefigurando il duo Vincenzini/Albini.
La collezione si distingue per la presenza di abiti eleganti, come nel caso del completo Don Alvaro di Fabio Bellotti, caratterizzato da un gilet, una giacca monocromatica e pantaloni gessati. Tuttavia, vi sono anche approcci più casual, come nell’ensemble di Guido Cegani/Figaro, in cui la giacca viene sostituita da un blouson, o in situazioni in cui la cravatta viene abbandonata a favore di una camicia dal collo coreano, come evidente nell’outfit di Rocco Mancino/Turiddu, composto da un giubbotto e una sciarpa. Nel complesso il taglio dei pantaloni è molto simile modello per modello (tranne Paolo Garetti/Calef che indossa dei pantaloni lunghi fino sotto al ginocchio dal sapore orientale così come è orientale l’ambientazione del melodramma pucciniano), cambiano le giacche che variano da mono a doppio petto principalmente con colli dal risvolto classico.
Chiudono la sfilata Emy Vincenzini e Walter Albini interpretando il celebre personaggio di Il Rigoletto, il Duca di Mantova, sempre nato dalle sinfonie di Giuseppe Verdi (20) (Fig.6). L’abito indossato da Vincenzini e Albini è identico, il più elegante della collezione, dalle immagini sembrerebbe che entrambi si presentano contemporaneamente al pubblico generando probabilmente un senso di quel tipico perturbante freudiano indotto dalla visione dei gemelli o di un sosia.38 Albini sembra duplicato, non solo artefice della sua prima evoluzione identitaria da Gualtiero a Walter, ma ora cavalca il binarismo di genere facendosi “interpretare” dall’amica Vincenzini.39 Inoltre, si crea un cortocircuito identitario perché entrambi vestono i panni di un ulteriore personaggio immaginario e dal carattere libertino. L’elemento inedito non sta certo nel vestire una donna con indumenti storicamente legati all’immaginario maschile. È rilevante notare che il primo esempio di Tuxedo disegnato da Yves Saint Laurent risale al 1966;40 tuttavia, va sottolineato che Marlene Dietrich, anch’essa una figura iconica rilevante per Albini, indossò uno smoking nel film Marocco del 1929. Negli anni Venti, emerse infatti anche il concetto di garçonne. Nel 1975, una fotografia celebre di Helmut Newton ritrae una modella con uno smoking di YSL percorrendo le strade parigine; inoltre, nello stesso anno un servizio su Linea Italiana presenta un’immagine di una modella indossante un abito maschile a doppio petto firmato da Walter Albini.41
Di appena un paio di anni prima è ormai l’iconico servizio Unilook. Lui e lei alla stessa maniera, dove si celebrava la moda unisex di Albini, realizzato sulle pagine di L’uomo Vogue da Oliviero Toscani.42 Per Maria Luisa Frisa e Stefano Tonchi questo servizio: “racconta delle grandi conquiste femministe, delle utopie di uguaglianza e libertà portate avanti dalle generazioni del dopoguerra, di una diversa consapevolezza maschile rispetto agli stereotipi di genere, dei cambiamenti in atto nel rapporto tra uomo e donna. Di una volontà di cancellare tutte le differenze”.43 Un’altra foto, questa volta di Alfa Castaldi, per la Campagna Primavera–Estate 1971 per Montedoro, pubblicata su Vogue Italia del 1971, ritrae una schiera di modelli e modelle dall’abbigliamento militare molto simile tra loro, in cui le donne indossano giacche da uomo e gonna.
Questa emergente espressione di mascolinità nel vestiario femminile è altresì evidenziata da Walter Albini in un’intervista rilasciata al settimanale Epoca, durante la quale, rispondendo a una domanda sulla novità della stagione, lo stilista afferma: “Lo smoking: giacca tagliata a uomo, gonna nera. Un po’ mascolino, lo ammetto”.44 Nello stesso anno, anche Harper’s Bazaar presenta un editoriale intitolato Una giacca da uomo, nel quale vengono pubblicate, tra le altre, le creazioni di Basile, disegnate da Muriel Grateau, e quelle di Trell ad opera di Albini.45
Nel contesto dell’epoca, non erano ancora giunti i tempi adeguati ad affrontare temi quali l’“antigender”,46 così come le altre definizioni come “more gender”, “unisex”, “queering fashion”,47 “genderless” o “gender neutral”, delle quali Alessandro Michele diventerà in parte un interprete affermando in una intervista di non amare il concetto di creazione per donne o uomini, ma di “creare abiti per esseri umani”.48 Come annota infatti Calefato, soltanto negli anni Novanta tali concetti inizieranno a essere approfonditi.49 Tuttavia, il panorama dei decenni Sessanta e Settanta, come sottolinea invece Judith Beyer, è “Characterized by several revolutionary movements, unisex and androgynous clothes became, once again, fashionable”,50 e un personaggio iconico come David Bowie ne è un emblema.
Quelli di Albini in realtà non sono abiti che sono stati pensati per donne (come quelli dello stilista francese), ma la collezione è quella maschile che viene ironicamente indossata dalle modelle. In questo contesto, lo Statement di empowerment di Yves Saint Laurent viene raccolto da Albini che lo trasforma in una azione performativa, molto vicina alle pratiche artistiche a lui coeve dove il concetto di identità, trasmutato spesso in travestitismo, era al centro della ricerca di vari artisti. Già Gloria Bianchino inerente il lavoro di Albini parla di “mostra/sfilata”51 riferendosi principalmente alle operazioni dello stilista presso la Galleria Marconi di Milano nel 1976 con il progetto Vestire è un po’ partire, accompagnato da un testo di Ines Vercelloni, dove oltre al contesto marcatamente artistico si innestava anche una progettazione dai connotati artistici grazie alla collaborazione con diciotto fotografi tra i quali Aldo Ballo e Maria Vittoria Backhaus.52 Nel caso della sfilata al ristorante milanese sarebbe più opportuno parlare di sfilate/performance53 (come anche per la sfilata dedicata a Chanel) dove incide anche un tasso di teatralità e spettacolarizzazione che in parte caratterizza proprio i fashion show realizzati dagli anni Sessanta in poi,54 eventi che cambiano abbastanza drasticamente da quelli dei decenni precedenti come ci ricorda Carolin Evans scrivendo: “The origins of today’s spectacular fashion shows lie in the 1960s, and are directly connected to the rise of designer ready-to-wear, and its expansion to include menswear”.55 In questo contesto illustrato da Evans sembra che Albini riesca a trovare la sua giusta collocazione sia come promotore del ready-to-wear italiano che della espansione della moda maschile.
Tornando alla collezione di Albini le donne che sfilano sono in totale solo tre, Danka Schroeder, Daniela Morera e Emy Vincenzini e nella sfilata/performance indossano vestiti realizzati per la collezioni maschile. Questo travestitismo sembra inserirsi in tutte quelle sperimentazioni identitarie di stampo artistico di cui ne dà una prima lettura Gillo Dorfles nel 1976, appena un anno dopo la sfilata di Albini. Nel volume il critico parla in modo chiaro del travestitismo femminile contrapponendolo a quello maschile, chiaramente nel contesto artistico contemporaneo ricco di artisti e artiste che operavano in quella direzione come Urs Lüthi, Luigi Ontani, Joan Jonas,56 e chiaramente Bianca Pucciarelli Menna che nel 1977 convola a nozze con il suo alter ego Tomaso Binga. Gli anni in cui Albini progetta la sfilata sono gli anni appena successivi al 1968, un periodo caratterizzato da scontri sociali e da battaglie femministe che permettono di ipotizzare l’idea di una donna nuova e libera dagli orpelli che connotavano la figura della casalinga.57 In questo contesto storico, attraverso l’adozione di strategie di trasformazione e travestitismo, artisti e artiste introducono nuove prospettive sulla costruzione dell’identità e sulla possibilità di eludere i ruoli imposti dalla società, spesso veicolati dai mass media. Viene frequentemente enfatizzato il ruolo della rappresentazione visiva, in particolare nel contesto della società di massa, nel plasmare la comprensione della realtà. Ciò si fa per aprire spazi alla riflessione critica sulla società, sul genere e sulla costruzione stessa dell’identità. Durante questi anni, il corpo assume spesso un ruolo centrale nelle questioni identitarie, un corpo veicolato dalle pratiche artistiche e elemento attivo nel campo della moda.
In questo humus storico e culturale Albini e Vincenzini sembrano attivare una vera e propria performance artistica, immortalata da immagini fotografiche che li colgono anche mentre si guardano riflessi in uno specchio del ristorante milanese. Di queste immagini ne parla Stefano Tonchi scrivendo:
Nei suoi tratti alterati dal trucco, come nel guardaroba personale, maschile e femminile si combinano. Ma l’immagine non è gay in senso moderno, piuttosto omosessuale nella tradizione delle avanguardie e del femminismo degli anni Venti e Trenta, con donne in pantaloni e atteggiamenti maschili e uomini la cui eleganza e attenzione ai particolari annulla la virilità.58
Tonchi sottolinea altresì i continui “scambi di identità” con Emy Vincenzini, evidenziati da scatti realizzati durante eventi serali e, soprattutto, durante sfilate, che — anche grazie ad Albini — iniziarono a sfuggire a una connotazione tradizionale uscendo da una impostazione binaria dei ruoli di genere e dalla pianificazione tradizionale della sfilata di moda. In questa prospettiva sembra che l’operato di Albini possa in parte anticipare quanto scritto da Evans:
If the early twentieth century saw the fashion show evolve out of commercial theater, the close of the century saw commercial fashion evolving into an approximation of what the academic Judith Butler has termed “performativity” (Butler 1990). The fashion show, with its emphasis on novelty and spectacle, became a switching station for postmodern identities.59
Ancora Fabbri invece torna sull’ampio concetto di travestitismo nell’ambito della moda degli anni Settanta, affermando: “Travestitismo, teatralità e overstantment diventano uno schema normativo, cadenze di espressioni obbligatorie per restare al passo coi tempi”,60 inserendo in questa prospettiva l’operato di Walter Albini “tra gli stilisti che entrano nei panni di qualcun altro, come gesto estetistico di cambiamento identitario o di gioco di maschera, talvolta attraverso l’assunzione di uno pseudonimo”.61 Della sfilata al ristorante Angolo non sono presenti molti articoli nella rassegna stampa conservata a CSAC, ma tra questi emerge un servizio di Oliviero Toscani sulle pagine di Vogue Italia che immortala Albini, con un nutrito gruppo di collaboratrici e collaboratori, che indossano tutti pantaloni ampi alla Duca di Windsor insieme a camicie scozzesi per sdrammatizzare la eleganza degli Oxford bags. Toscani coglie il gruppo frontalmente in uno schieramento che sembra diviso in due tempi: dal lato sinistro Albini è calato nel contesto femminile in mezzo alle sue amiche Emy Vincenzini, Isa Stoppi e Patrizia Di Giovanni, mentre dall’altro lato una schiera maschile composta da Massimo Albini, Paolo Rinaldi, Giovani Giudice, Maurizio Galbignani accogli accovacciata ai piedi Nuccia Fattori. Il redazionale in sé non registra questa alternanza gender ma, citando la collezione presentata nel ristorante di Brera, ipotizza come “questa snobberia” di alternare modelli maschili e femminili sia un “gesto di noia nei riguardi di una moda alla quale questo stilista sofisticato sente che oggi non si può dare nulla di nuovo?”.62
Note sul camp
Come affermato nella premessa, uno degli obiettivi del saggio, oltre alla ricostruzione del materiale archivistico per delineare la dinamica della collezione in esame e l’analisi della presentazione della collezione presso il ristorante nel quartiere Brera, è quello di indagare l’operato dello stilista alla luce dei cinquantotto punti annotati da Susan Sontag nel suo Notes on Camp. Questo allo scopo di comprendere come Albini abbia anticipato alcuni elementi emersi soprattutto negli ultimi decenni, come ad esempio la ridefinizione dei confini di genere, di cui il camp sembra essere un elemento distintivo. Questa lettura viene evidenziata anche da Vittoria Caterina Caratozzolo la quale scrive:
Albini intuisce che quel gusto per il rétro, sempre meno ingenuo e sempre più espressione di una sofisticata e ironica sensibilità camp, rappresentava una sorta di ribellione nei confronti di un mercato dell’abbigliamento incapace di farsi interprete di modalità d’essere ancora latenti.63
Allo stesso modo anche Fabriano Fabbri non manca di accennare a questa sensibilità, inserendola in un ampio discorso generale sul postmoderno come culla della ripresa di elementi culturali estratti da diversi campi, dove si mescola “dall’ «alto» o dal «basso», dai sapori nobili, aulici, a quelli trash, camp, spesso affiancati, sovrapposti, felicemente raccozzati”.64
In questa prospettiva di studi il saggio di Sontag, così come il volume di Cleto e gli autori li riportati, fungono da coordinate critiche per una rilettura dell’operato di Walter Albini. In questa traiettoria è fondamentale l’intervento di Gabriele Monti pubblicato nel secondo volume di Cleto e dal titolo When fashion goes camp. Monti intraprende una lettura ponendo in parallelo Susan Sontag e Roland Barthes, con la volontà di individuare una certa analogia tra camp e moda. In primis tratta della capacità citazionistica della moda che “si nutre di strumenti che non le appartengono”,65 come di una caratteristica che rientra nelle dinamiche del camp. Nello stesso saggio Monti divide la moda in due momenti nei quali è possibile percepire questa sensibilità, il primo è la progettazione dell’abito; quindi, quella fase che va dall’ideazione alla creazione, mentre il secondo è quello dell’abito indossato, performato. In questi due periodi è possibile riscontrare il camp, e anche per il nostro caso studio questi due momenti sembrano funzionare come possibili livelli di lettura.
Nel primo Albini, senza voler generalizzare eccessivamente, sembra adottare una particolare modalità progettuale che ricade chiaramente nel citazionismo, tra icone camp del passato come Marlene Dietrich nei suoi continui travestitismi da uomo,66 citata anche nel punto 25 della Sontag, all’attenzione all’Art Nouveau, altro nodo critico importante dell’argomentazione dell’autrice,67 che viene sistematicamente analizzato già da Bianchino e da altri autori che hanno affrontato il lavoro dello stilista.
Tuttavia, trattare di Walter Albini e il suo citazionismo è molto complesso.68 Si dice che i suoi disegni facciano pensare a Joséphine Baker e Toulouse-Lautrec,69 i suoi modelli culturali non fanno salti ampi come quelli compiuti da Gianni Versace con il suo amore per la Magna Grecia, ma sembrano estrarre elementi di stampo camp nelle culture passate: basti pensare alla collezione Preraffaellita del 1971 presentata a Mare Moda Capri. Pittura e poesia preraffaelita sono citati da Sontag nel punto 9 che è un tassello centrale per comprendere la relazione tra questa sensibilità e lo stilista. Albini pensa che in quel determinato periodo storico nella moda “non ci sia più nulla da inventare”,70 allargando in questo modo il campo di rimandi al passato, in parte derivati anche dalla sua formazione presso l’Istituto d’Arte. Inoltre, sembra che ci sia una nuova parentela tra travestitismo e citazionismo; infatti, anche Enrica Morini nella sua Storia della moda tratta del “gioco del travestitismo come connaturato ad ogni revival”.71
Per quanto riguarda una dimensione più prettamente omosessuale, a cui il camp sembra facilmente accoppiato, al punto 9 Sontag si riferisce chiaramente alla figura dell’androgino, “una delle grandi immagini della sensibilità camp”,72 che — come abbiamo visto — è costantemente chiamata in causa da Albini con i suoi giochi di travestimento in prima o terza persona.73 La Sontag tratta chiaramente di attrazione sessuale scrivendo che
il camp tocca una delle verità più misconosciute del gusto: la forma più raffinata di attrazione sessuale (nonché del piacere sessuale) consiste nell’andar contro la natura del proprio sesso. Nel fascino degli uomini virili c’è qualcosa di femminile; quanto di più bello nelle donne femminili è un che di maschile…74
Storicamente, il concetto di camp è stato facilmente associato alla sfera dell’omosessualità,75 in particolare a una connotazione più marcatamente queer. Ovviamente, ciò non è affatto sufficiente per accostare Albini a questa particolare sensibilità. Tuttavia, è un elemento legato soprattutto all’ambito identitario, espresso attraverso il gusto per il mascheramento e il travestitismo, che può offrire una chiave di lettura aggiuntiva rispetto alle tematiche proposte. In questo contesto Monti sottolinea che
il superamento di una concezione rigida e dicotomica dei generi sessuali può procedere sia per eccesso camp […], sia per sottrazione […]. Entrambe queste poetiche sono compresenti nel panorama del fashion design contemporaneo e a un livello profondo sembrano muoversi nella stessa direzione, contrastando cioè la classica visione di due generi sessuali distinti, a cui corrispondono abiti caratterizzati da uno spaccato dimorfismo sessuale.76
Un altro nodo critico importante per questa interpretazione è l’assunto di “vita come teatro”77 che sembra ricollegarci al secondo momento individuato da Monti che evidenzia il lato “performativo” del vestito e quindi il momento della sfilata, in cui l’abito viene performato. Tuttavia “Vita come teatro” ha in Albini una doppia valenza78: da un lato richiama il lato appunto performativo della sfilata di moda, dall’altro il suo stesso “personaggio Walter” che amava indossare alle feste delle maschere di animali disegnate da lui stesso, “maschera come dispositivo glam, realizzato e performato con il gusto camp”.79 Infine, la figura del dandy non può non essere chiamata in causa, ne parla Sontag al punto 45 scrivendo che “Il distacco è prerogativa di una élite; e come il dandy era nell’Ottocento il surrogato dell’aristocratico nelle faccende culturali, così il Camp è il dandismo contemporaneo. È una soluzione al problema: come essere dandy nell’epoca della cultura di massa”.80 Infatti, Tonchi si si riferisci ad Albini come “un dandy in doppiopetto”.81
Uscendo per un attimo dai binari di Monti, sembrano ricadere nella sfera del camp anche le attività più prettamente declinate ad una sfera artistica di Albini come, ad esempio, la mostra tenutasi nel 1977 presso la Galleria Eros di Milano. Tale esposizione presentava una sfilata di falli, dei quali il CSAC conserva due prototipi senza ornamenti, che letteralmente vestivano alcuni elementi distintivi di celebri stilisti dell’epoca, nonché di altre personalità. Ad esempio, Missoni indossava una tipica maglia del proprio marchio, Ken Scott si contraddistingueva per la fantasia tessile, mentre Giorgio Armani era rappresentato da un giubbino nero con cerniera e da un elegante foulard che avvolgeva il collo/pene. Vittima o artefice di questo sentimento camp è anche la collezione Primavera–Estate 1979: una serie di magliette, conservata presso il CSAC, a cui è impressa la scritta “cazzo”, adornata con strass (Fig.7), oltre ad altre diciture quali “cocaine” (Fig.8), “io e te” e “taxi”, in quanto “l’essenza del camp è detronizzare la serietà. Il camp è scherzoso, è anti-serio”.82 Sulla stessa linea si muove la collezione di magliette con l’oroscopo cinese, anche queste conservate da CSAC.
Conclusioni
Questi lavori rappresentano un esempio significativo di come il “sentimento camp” possa giocare con gli elementi culturali e simbolici derivati da una determinata epoca storica, ridefinendo i concetti di gusto e bellezza attraverso un’ottica ironica e provocatoria, attraverso l’abbigliamento che per Sontag è un’arte che ha più affinità con il gusto camp.83 L’utilizzo delle parole scurrili e dei simboli sessuali nella collezione di magliette sottolinea una volontà di sfidare i canoni tradizionali della moda, creando un’atmosfera di trasgressione e ambiguità che verrà seguita da Franco Moschino e successivamente da Jeremy Scott, difatti molto presente nella mostra di Andrew Bolton.84 Queste opere fungono da specchio della società contemporanea e delle sue convenzioni, ponendo l’accento sull’importanza della critica sociale e dell’auto-espressione all’interno del mondo della moda. Usando sempre le idee di Sontag possiamo inserire l’operato di Walter Albini nel “Camp ingenuo”,85 un camp puro che si distingue da un “camp intenzionale”.86 In conclusione possiamo ipotizzare che il concetto di ‘Putting it together’, suggerito come chiave di lettura da Simona Segre Reinach,87 oltre a delineare l’ideazione del Total look e la convergenza della progettazione industriale come fece il WWD nel 1971, potrebbe altresì essere impiegato per questa particolare tendenza di unire e combinare gli elementi maschili e femminili, eliminando le differenze non solo attraverso dei capi di abbigliamento uguali per lui e per lei, ma soprattutto attraverso una serie di sfilate e azioni che cercato di detronizzare la convenzione. D’altronde Walter Albini affermava: “Bisogna imparare la libertà di vestirsi fuori da ogni schema”,88 in quanto “camp è lo spirito di stravaganza”89 e “glorificazione del ‘personaggio’”.90
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Susan Sontag, “Note sul Camp”, in Popcamp, ed. Fabio Cleto (Milano: Marcos y Marcos, 2008), 249.↩︎
Sontag, “Note sul Camp”, 249.↩︎
Per le ricerche svolte per questo saggio, desidero esprimere la mia gratitudine per la disponibilità di Matilde Alghisi e Paola Pagliari presso il CSAC, Centro Studi e Archivio della Comunicazione, Università di Parma.↩︎
Oltre allo studio presso CSAC, la ricerca si è ampliata grazie al contributo di Paolo Rinaldi e dell’utilizzo delle immagini provenienti dalla sua collezione privata.↩︎
Susan Sontag pubblica Notes on Camp nel 1964 sulla rivista “Partisan Review”. Nel 1966, 1967 in Italia, il saggio è inserito nel suo importante volume Contro l’interpretazione.↩︎
“Flirt zwishen Tiber und Themse. Mode — Apercus aus Italien”, Der Mann 4, 1974 (trad. dell’autore).↩︎
In particolare, il discorso di Breward ha la volontà di rileggere il linguaggio internazionale della moda sotto la luce di ingrandimento del camp, come letto da Sontag, infatti l’autore afferma: “Applicare l’attributo camp alle sensibili proposte della dotata generazione di Albini non significa sminuire l’importanza. Rappresenta invece un tentativo per contestualizzare e spiegare la loro visione univoca sulle questioni stilistiche che sembrano spesso trascendere le circostanze locali”. Christopher Breward, “Camp e il linguaggio internazionale della moda negli anni ’70”, in Walter Albini e il suo tempo. L’immaginazione al potere, eds. Maria Luisa Frisa e Stefano Tonchi (Venezia: Marsilio, 2010), 15.↩︎
Nel suo studio Fabio Cleto scrive: “Si tratta di un’estetica, di uno stile o gusto, è stato detto, oppure di una sensibilità, un modo d’essere. Uno stile di pensiero e di performance. Una specifica formazione — fors’anche una prerogativa — omosessuale, una strategia di sopravvivenza (ma con stile nella maschera dell’ironia), eppure difficilmente circoscrivibile all’omosessualità, di per sé condizione non necessaria, né sufficiente. Di volta in volta, la sia assume quale categoria metastorica, oppure inesorabilmente legata al particolare, a una economia o posizionamento culturale” Fabio Cleto, “Sipario” in PopCamp 1. ed. Fabio Cleto (Milano: Marcos y Marcos, 2008), 11.↩︎
Sontag, “Note sul Camp”, 251.↩︎
Gloria Bianchino, “Albini e il prêt-à-porter”, in Walter Albini, eds. Gloria Bianchino (Parma: CSAC, 1988), 11.↩︎
Gloria Bianchino identifica Franco Moschino come colui che raccoglie l’eredità di Albini. Analogamente, Bianchino menziona anche Cinzia Ruggeri. Bianchino, Walter Albini, 14.↩︎
Per un approfondimento sulla storia e la natura dell’archivio moda CSAC si rimanda a Italian Fashion Designing 1945–1980. Disegno della moda italiana 1945–1980, ed. Gloria Bianchino (Parma: CSAC, Università di Parma, 1987); Il Rosso e il Nero. Figure e ideologie in Italia 1945–1980 nelle raccolte del CSAC, eds. Gloria Bianchino e Arturo Carlo Quintavalle (Milano: Electa, 1999), Moda Media Storia. Incontri di lavoro. Parma 3/4 novembre 1984, ed. Arturo Carlo Quintavalle (Parma: CSAC, 1989). Più recentemente si segnala Elena Fava e SManuela Soldi, “Il progetto di moda allo CSAC dell’Università di Parma”, in Laboratorio Italia. Canoni e contraddizioni del Made in Italy, eds. Malvina Borgherini, Sara Marini, Angela Mengoni, Annalisa Sacchi e Alessandra Vaccari (Milano: Mimesis, 2018).↩︎
Un ingente patrimonio, valorizzato inizialmente da uno studio pionieristico di Gloria Bianchino nel 1988 mediante una mostra e un catalogo. Nello stesso anno, venne pubblicato un altro volume relativo a una mostra: Walter Albini: lo stile nella moda = style in fashion. In seguito, nel 1990, Carla Sozzani curò l’edizione di un catalogo legato a una mostra dedicata allo stilista. Circa vent’anni dopo, Walter Albini fu al centro di uno studio condotto da Maria Luisa Frisa e Stefano Tonchi.↩︎
La collezione in questione è conservata presso il fondo Walter Albini (Album 16) coll 1015, CSAC, Centro Studi e Archivio Comunicazione, Università di Parma.↩︎
In un altro contesto anche Elsa Robiola lo definisce un pioniere affermando: “Non si può negarlo, perché è lapalissiano osservando tutti i suoi disegni. Ha sempre anticipato di due o tre anni il gusto comune. È un pioniere e un pilota della moda delle intuizioni sempre giuste. Lo considererei come un vero artista nel campo della moda”. Elsa Robiola citata in Gina Avogrado, “Un autentico stile italiano influenzato da Ertè”, Tempo (5 aprile, 1975).↩︎
In generale la scritta rossa indica il nome dell’interprete e in grafite è scritto il protagonista del melodramma.↩︎
La giornalista prosegue l’articolo ponendo l’accento sui personaggi dei melodrammi interpetrati da Albini insieme al gruppo di amiche e amici, infine tratta del messaggio lanciato da Albini con questa operazione, senza però fare alcun riferimento sull’inversione binaria ma evidenziando piuttosto il codice di abbigliamento per “strati multipli”. Derna Querel, “La «linea uomo» si chiama Albini”, Roma (28 marzo, 1975).↩︎
Per un breve descrizione delle sfilate si rimanda a Manuela Soldi, Collezioni, in Walter Albini e il suo tempo. L’immaginazione al potere, eds. Maria Luisa Frisa e Stefano Tonchi (Venezia: Marsilio, 2010), 230–234.↩︎
Massimo Maggiorani, “Non tutte rose e fiori per l’alta moda italiana”, Giornata Italiane (maggio, 1975).↩︎
Inerente a questa collezione Giuliana Ricca nel Bollettino dell’Ente Italiano della moda evidenzia altri generi di influenza nell’operato di Albini, scrivendo: “Sono stampati di crêpes de Chine e si ispirano al ‘estethic mouvment’. Un’epoca che va da Dante Gabriel Rossetti a Oscar Wilde (fine ’800)”, Giuliana Ricca, “Servizio Speciale sulla presentazione dell’alta moda italiana primavera estate 1975”, Servizi Speciali, Ente Italiano della Moda, bollettino n. 373, Anno VIII, 24.01.75 ore 13.00., documento conservato in Walter Albini, Rassegna stampa 1975, CSAC, Centro Studi Archivio e Comunicazione, Università di Parma.↩︎
Vittoria Magno, “I Flash si sono spenti sulle sfilate romane di alta moda”, Il Gazzettino (31 gennaio, 1975).↩︎
Dina Tanger, “Nei tessuti di classe sboccia il tulipano”, La Gazzetta del mezzogiorno (26 gennaio, 1975).↩︎
Eliana Pirazzoli scrive: “è evidente la convinzione di Albini che l’alta moda sia linguaggio del passato, da manuale storico, mentre il linguaggio del nostro tempo è ormai quello della moda pronta. […] Collezione anacronistica ma su di un tema che sarebbe doveroso dibattere a fondo” Eliana Pirazzoli, “Anni’50. Le italiane riscoprono il tailleur — «La collezione tulipano» di Valentino — Omaggio a Chanel nei modelli presentati da Albini”, Il Messaggero (25 gennaio, 1975).↩︎
Matilde Crespi, “Niente pantaloni per Valentino”, Il Mattino (26 luglio, 1975).↩︎
Pia Soli, “L’alta moda. Una malattia che fa vivere”, 26 luglio, 1975. Nei faldoni presso CSAC non è stato conservato il nome del giornale, si intuisce dalla tipologia di carta e dalla dimensione che sia un quotidiano.↩︎
Bianchino, Walter Albini, 12.↩︎
Bianchino, Walter Albini, 217.↩︎
Bianchino, Walter Albini, 217.↩︎
Il trasferimento delle sfilate a Milano aveva aperto un dibattito tra i vari interlocutori. In questo contesto riporto solo due voci estrapolate dalla rassegna stampa consultata. Franco Tancredi, organizzatore delle sfilate fiorentine, scrive: “le sfilate di Milano non sono importanti. Albini è finito, Ken Scott ha abbandonato Firenze perché non aveva successo e cadette è stato gettato fuori perché non all’altezza di Palazzo Pitti. Missoni è l’unica casa importante a lasciare Firenze”, in “Confidenze di New York da Dora”, Lo specchio, data non pervenuta. Dal lato opposto invece Pia Soli sostiene le passarelle milanesi parlandone come di una “settimana santa di collezioni”, ed evidenziando inoltre il valore dell’iniziativa privata “la sola vera forza della moda, la sola base della creatività” Pia Soli, “Di foggia mascolina il prêt-à-porter”, Il Tempo (marzo 30, 1975).↩︎
Sulla relazione tra la produzione di tessuti e Albini si rimanda a Bonizza Giordani Aragno “Walter Albini e il tessuto stampato”, in Bianchino, Walter Albini, 59–79.↩︎
La numerazione dentro le parentesi indica la sequenza di uscita dei vari modelli.↩︎
Questo cambio identitario da Gualtiero e Walter viene spesso evidenziato anche negli studi di Fabriano Fabbri che scrive: “Il «ricco» Albini […] si crea un Doppelgänger che dichiara il suo amore incondizionato per la finzione e per l’inautentico, degli anni Venti e degli anni Trenta”. Fabriano Fabbri, La moda contemporanea II. Arte e stili dagli anni Sessanta alle ultime tendenze (Torino: Piccola Biblioteca Einaudi), 340.↩︎
Nello specifico Fabbri scrive: “la mutazione di Gualtiero-Walter corrisponde ad uno sdoppiamento che consente di scorrere dalla persona al personaggio, di duplicarsi in un ludico alter-ego; slegato dalle incombenze della realtà ordinaria, il clone, idealmente, può salire a bordo della DeLorean ed esibire tutte le sue facoltà di time-traveler, di rievocatore di epoche trascorse e di attualità come vuole l’accezione più stringente del postmoderno, anche se, senza mai esagerare, nelle sue scorribande”. Fabbri, La moda contemporanea II, 343.↩︎
Fabbri, La moda contemporanea II, 343.↩︎
Fabbri, La moda contemporanea II, 343.↩︎
Sontag, “Note sul Camp”, 259.↩︎
Tonchi, “Stilista Superstar”, 13.↩︎
Già Bianchino aveva evidenziato il “mito del doppio” nell’operato di Albini, in particolare facendo riferimento all’inaugurazione del nuovo negozio-ristorante Fiorucci del 1975. Bianchino, Walter Albini, 11. Sul tema del doppio torna anche Gabriele Monti riferendosi al segno zodiacale di Albini, e scrivendo “Pesci creativi, sognatori. Doppi. Come lui che amava giocare con la sua identità ambigua, sospesa fra il principe stiloso alla Gatsby e il ragazzo pasoliniano con attillate camicie scollate di jersey e cinture tigrate”. Gabriele Monti, “Sotto il segno dei pesci”, in Walter Albini e il suo tempo. L’immaginazione al potere, ed. Maria Luisa Frisa e Stefano Tonchi (Venezia: Marsilio, 2010), 34.↩︎
Un aspetto rilevante da evidenziare è il fatto che Albini diventa il modello delle sue stesse creazioni. Questa pratica sarà replicata in altre sfilate, come quella a Mare Moda Capri nel settembre del 1976, come riportato da Luciana Bocciardi nelle pagine della Gazzetta del Popolo. Luciana Bocciardi, “Estate’76: un bikini quasi come il tanga”, in Gazzetta del Popolo (7 settembre, 1975).↩︎
Musée Yves Saint Laurent Paris, https://museeyslparis.com/en/biography/premier-smoking (ultimo accesso 14 luglio, 2023).↩︎
Autore sconosciuto, Linea italiana (ottobre, 1975).↩︎
Il servizio appare su L’uomo Vogue del 1971.↩︎
Maria Luisa Frisa e Stefano Tonchi, “La Bellezza utile”, in Italiana. L’Italia vista dalla moda 1971–2001, eds. Maria Luisa Frisa, Gabriele Monti e Stefano Tonchi (Milano: Marsilio, 2018), 13.↩︎
Walter Albini in Epoca (26 luglio, 1975).↩︎
“Una giacca da uomo”, Harper’s Bazaar (luglio–agosto, 1975).↩︎
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Queste definizioni sono trattate nel saggio di Beyer, Antigender Fashion.↩︎
Alessandro Michele nell’intervista con Alexander Fury, Fashion Features Director di AnOther Magazine e critico di abbigliamento maschile per il Financial Times, in occasione della mostra Fashioning Masculinities The Art of Menswear realizzata dal Victorian & Albert Museum di Londra nel 2022. Federica Salto, “«Non creo abiti per donne o uomini ma per esseri umani». In conversazione con Alessandro Michele”, in Vogue Italia, (19 luglio 2022), https://www.vogue.it/moda/article/alessandro-michele-gucci-intervista-fashion-masculinities (ultimo accesso 10 agosto 2023).↩︎
Patrizia Calefato “Identità in transizione, figure androgine, genderless” in La moda e il corpo. Teorie, concetti, prospettive critiche, eds. Patrizia Calefato (Roma: Carrocci, 2021), 115–118.↩︎
Beyer, Antigender Fashion, 3.↩︎
Bianchino, Walter Albini, 14.↩︎
Nel corso del suo percorso professionale Albini ha realizzato svariati progetti in gallerie d’arte. Oltre la sfilata alla Galleria Marconi Vestire è un po’ partire, si ricorda il progetto del 1977 alla Galleria Anselmini di Milano e alla Galleria Solferino, sempre nel capoluogo lombardo. Entrambe le operazioni sono da considerarsi casi studio di commistione tra arte e moda, non solo chiaramente per il luogo che le ospita ma anche per l’operato di Albini. Nel primo caso costruisce su dodici pannelli un collage di vestiti prestati da amiche e amici come Anna Piaggi e Giorgio Armani, mentre nel secondo caso, in un evento organizzato nel periodo natalizio e dal titolo Chi c’è e cosa si fa a Milano, Albini invia al gallerista — anziché i pannelli precedentemente esposti alla galleria Anselmini nel 1976 — delle maschere con il proprio viso. Sul concetto di maschera, analizzato in vari contesti ma interpretabile in Albini attraverso il filtro pirandelliano, lo stilista aveva già precedentemente lavorato all’inaugurazione del ristorante Fiorucci nel 1975 dove aveva esposto venti manichini con la sua faccia. In questo contesto l’identità di Albini si moltiplica, e “questa è una azione che sembrerebbe prefigurare l’installazione di Maurizio Cattelan Spermini del 1997”. Valentina Rossi, 1972. Moda Design Storia https://mostra1972.unipr.it/page/designer_albini (ultimo accesso 10 giugno, 2023).↩︎
Il dibattito critico inerente all’affinità tra fashion show e pratiche performative è principalmente approfondito dal numero 5 di Fashion Theory del 2001. In particolare, il saggio di Ginger Gregg Duggan “The Greatest Show on Earth: A Look at Contemporary Fashion Shows and Their Relationship to Performance Art” intraprende una analisi delle sfilate degli anni Novanta in relazione, principalmente, alle performance storiche degli anni Settanta, senza prendere in considerazione il cambiamento a livello performativo degli anni Novanta, teorizzato però solo successivamente da Claire Bishop nel 2012. Claire Bishop, “Delegated Performance: Outsourcing Authenticity”, October, 140, (maggio 2012): 91.↩︎
Già Lucia Sollazzo nel 1975 registra questo cambiamento delle sfilate in un articolo dal titolo esemplificativo come “Sfilate-Happenig a Milano”, scrivendo: “il calendario e dunque folto ed ha pretese di novità, ispirate all’esempio francese: si snoda infatti tra atelier, teatri, saloni d’albergo, club raffinati, locali caratteristici: può accadere che per vedere una sfilata si debba assistere prima ad uno spettacolo di marionette e qua e là spuntano happenings fatti apposta per sveltire il consueto connubio di musica ad alto volume e modelli danzanti in passerella”. Lucia Sollazzo, “Sfilate-Happening a Milano”, La Stampa (26 marzo, 1975).↩︎
Caroline Evans, “The Enchanted Spectacle”, in Fashion Theory 5 (3): 271–310. Si rimanda anche al libro di Evans, Fashion at the edge: Spectacle, Modernity and Deathlines (New Haven (CT): Yale University Press, 2003), dove l’autrice rilegge i catwalk di Margiela alla luce del concetto di deriva e di détournement di Guy Debord.↩︎
In particolare, Dorfles cita varie volte la figura dell’androgino, ma sempre relazionato al maschio che si traveste da donna (marcando anche “particolari tendenze intersessuali o omosessuali”), infatti del travestimento femminile si limita a scrivere: “E questo soprattutto nel caso di uomini che si atteggiano a donne e molto più raramente nel caso opposto. Il fatto di «travestirsi da donna», o comunque di accentuare il carattere sessuale diverso dal proprio, è molto più frequente del maschio che nella femmina; per ragioni che mi sembrano ovvie. Che la femmina, più che il maschio (almeno nella specie umana) si serva di orpelli vari per accrescere le sue caratteristiche sessuali secondarie, è un dato di fatto che non ha bisogno di dimostrazioni”. Gillo Dorfles, Giovanni Buttafava, Gianni Romoli, Peppo Delconte e Carlo Romano, Gli uni & gli altri: travestiti e travestimenti nell’arte, nel teatro, nel cinema, nella musica, nel cabaret e nella vita quotidiana (Roma: Arcana, 1976), 8.↩︎
Nel marzo del 1975 il bikini di Walter Albini, interpretato da una modella intenta nel mangiare un piatto di spaghetti è sulla copertina della controversa rivista femminista/femminile Libera fondata da Adelina Tattilo.↩︎
Tonchi, “Stilista Superstar”, 13.↩︎
Evans, “The Enchanted Spectacle”, 306.↩︎
Fabbri, La moda contemporanea II, 342.↩︎
Fabbri, La moda contemporanea II, 342.↩︎
“Il Clans degli italiani”, Vogue Italia, (luglio-agosto, 1975). In particolare, Oliviero Toscani in questo servizio immortala sette importanti case di moda come Missoni, Caumont, Krizia, Basile, Ken Scott, Pims, Fendi.↩︎
Vittoria Caterina Caratozzolo, “Vestire è un po’ partire. Embricazioni di moda e turismo in Italia dal periodo post‐bellico agli anni Settanta”, ZoneModa Journal, Vol.11 n.2 (2021), 55–69, p. 65↩︎
Fabbri, La moda contemporanea II, 340.↩︎
Monti, “When fashion goes Camp”, 599.↩︎
Si evidenzia inoltre che Albini dedica un’intera collezione a Marlene Dietrich.↩︎
In particolare, nel punto 8 Sontag scrive che l’Art Nouveau è “il più tipico e compiuto degli stili camp”. Sontag in Cleto,Note sul Camp, 255.↩︎
Questo argomento viene affrontato in modo sistematico da Bianchino nel sotto capitolo “Albini, Poiret, Chanel”, Bianchino, Walter Albini, 16. Inoltre, la figura di Chanel viene considerata Camp da Fabio Cleto. Cleto, “Sipario”, 10.↩︎
Marjolein Breman Lorenzoni in Gina Avogrado, “Un autentico stile italiano influenzato da Ertè”, Tempo (5 aprile, 1975).↩︎
Walter Albini in “Riflettori sulla moda”, La Provincia (25 settembre, 1975).↩︎
Enrica Morini, Storia della moda (Milano: Skira, 2010), 460.↩︎
Sontag, Note sul Camp, 252.↩︎
Sontag al punto 11 si riferisce anche alla figura dell’ermafrodita scrivendo “Il camp è il trionfo dello stile ermafrodita”. (La convertibilità tra ‘uomo’ e ‘donna’, ‘persona’ e ‘cosa’). Sontag, Note sul Camp, 253.↩︎
Sontag, Note sul Camp, 252.↩︎
Lo stesso Cleto scrive: “In larga misura, il camp del primo Novecento si è così intrecciato con un’omosessualità che negoziava ironicamente — nel segno di una teatralità volutamente queer, categoria quest’ultima che per molti versi si sovrappone al camp — la propria sopravvivenza con lo stigma decretato dalla cultura dominante”. Cleto p.11. Molti sono i contributi su questa linea, raccolti alcuni anche nel volume di Cleto, come: Babuscio, Jack. “Camp and hte Gay Sensibility” In Gays and Film, eds. Richard Dyer, p. 40–57. London: BFI, 1977; Bergman, David, ed. Camp Grounds: Style and Homosexuality. Amherst: University of Massachusetts Press, 1993.↩︎
Monti, “When fashion goes Camp”, 609.↩︎
Al punto 10 Sontag scrive: “È l’estrema estensione, sul piano della sensibilità, della metafora della vita — come — teatro”. Sontag, Note sul Camp, 253.↩︎
Nel 1982 Albini prepara anche alcuni modelli per uno spettacolo teatrale di Luca Ronconi, Latina, mai realizzato. Due figurini si conservano nel sito di Ronconi al link https://lucaronconi.it/scheda/extra/latina (consultazione 20 agosto 2023), gli altri sono pubblicati in Frisa, Tonchi, Walter Albini e il suo tempo. L’immaginazione al potere.↩︎
Monti, “When fashion goes Camp”, 35.↩︎
Sontag, “Note sul Camp”, 260.↩︎
Tonchi, “Stilista Superstar”, 13.↩︎
Sontag, “Note sul Camp”, 259.↩︎
Sontag, “Note sul Camp”, 251.↩︎
Andrew Bolton, Camp, Notes on fashion (New York: The Metropolitan Museum of Art, 2019).↩︎
Sontag, “Note sul Camp”, 255.↩︎
Sontag, “Note sul Camp”, 255.↩︎
Segre Reinach, Simona. “Putting it Together”. In Walter Albini e il suo tempo. L’immaginazione al potere, eds. Maria Luisa Frisa e Stefano Tonchi (Venezia: Marsilio, 2010).↩︎
Albini in Bianchino, Walter Albini, 14.↩︎
Sontag, “Note sul Camp”, 256.↩︎
Sontag, “Note sul Camp”, 257.↩︎