ZoneModa Journal. Vol.13 n.2 (2023)
ISSN 2611-0563

Persone, Pianeta, Profitto e Parole. Come la sostenibilità riscrive la storia della moda

Clizia MoradeiUniversità IUAV (Italy)

She is a PhD student in Fashion and previously was research fellow at Università Iuav di Venezia. Her research themes include sustainable fashion practices and methodologies with a focus on biomaterials at the intersection with botany, biology and new ecologies; the educational aspect intertwining visual arts, product and fashion design; the relationship between design, craftivism and industrial production. Touching some of these themes, she published the chapter «Sustainable Sneakers for a Return to Nature» in The Fashion Notebook 2022 edited by Pearson.

Alessandra VaccariUniversità IUAV (Italy)

She is professor and researcher in fashion history and theory at Università Iuav di Venezia. With a background in contemporary art history, her interdisciplinary work focuses on three main areas: Italian and European modernist fashion in the early 20th century; the relationships between time and fashion; present-day fashion cultures and theories in their implications on environmental sustainability and social change. On fashion and time she has co-edited Time in Fashion: Industrial, Antilinear and Uchronic Temporalities (2020). Her most recent book is Indossare la trasformazione (2022). Since December 2019 she leads the research Fashion Futuring at Università Iuav di Venezia.

Pubblicato: 2023-12-20

Abstract

The contribution moves from the temporal perspective of the Anthropocene, in which the human being is seen as creator and manipulator of what surrounds it, to ask what shape time has in the perspective of fashion and how it is being rewritten in a post-anthropocentric direction. For this purpose, we intend to shed light on the complex relationship of fashion with its historical dimension by analyzing the complexity that the term sustainability evokes. The contribution proposes a conceptual and methodological framework based on three key aspects of sustainability explained by the so-called three “p”s strategy: people, planet and profit. Through this framework, the contribution offers the possibility of addressing the dense series of temporal references necessary to re-read the connections between fashion and sustainability, incorporating into the investigation both the development of a theory of sustainability related to fashion and the analysis of specific cases of study. The perspective highlighted by this contribution allows us to frame fashion as a destructive force, but also as a possible transformative, hybridizing and healing agent, as a conscious form of conservation of the physical, social and cultural environment in which we live.

Keywords: Anthropocene; Sustainability; History; Fashion; Eco-centric System.

Le autrici hanno condiviso i contenuti del presente articolo. Le sezioni Parole e Persone sono state scritte da Alessandra Vaccari; le sezioni Pianeta e Profitto sono state scritte da Clizia Moradei.

Parole

Nei primi decenni del XXI secolo è cresciuta l’attenzione verso le tematiche ambientali e la sostenibilità è diventata una questione centrale per la moda, aprendo nuove domande su come possa contribuire a scriverne la storia. Per chi studia le manifestazioni della moda è evidente che non si tratta tanto di aggiungere il capitolo “sostenibilità” a un libro di storia già scritto, quanto di ripensare alla radice il rapporto tra moda e storia. A questo scopo, il contributo si apre con questa sezione, intitolata Parole, per sottolineare la necessità di riflettere sulla materia con cui i discorsi della moda sono costruiti e sulla relazione tra discorso, contesto e impatto socio-culturale. Trent’anni fa, il libro pionieristico della storica e teorica della moda Caroline Evans Fashion at the Edge: Spectacle, Modernity and Deathliness1 diede voce alle preoccupazioni della fine del XX secolo nei confronti delle rappresentazioni della morte, dell’alienazione e del trauma della modernità. Mentre il libro di Evans si proponeva di comprendere il lato oscuro della moda di fine millennio, confrontandola con il consumo accelerato del XIX secolo, questo articolo trova la sua urgenza nelle incertezze e nelle ansie che caratterizzano la cultura della moda dei primi decenni del XXI secolo da cui scaturisce un immaginario spesso apocalittico. Un’epoca in cui la crisi climatica e gli scenari del post-Antropocene hanno investito il contesto dell’industria della moda, cambiando anche i termini dell’impegno intellettuale ed etico verso la stessa da parte di studiosi, designer e appassionati. Intendendo per post-Antropocene sia l’eredità in termini di disastri ecologici dell’epoca definita come Antropocene,2 sia la sua rielaborazione da parte di interpreti della moda che operano — a nostro avviso — in linea con la visione post-umana proposta dagli autori discussi di seguito nell’articolo. La moda pertanto può essere interpretata come uno degli strumenti chiave per cambiare rotta. A questo scopo, il paradigma temporale antilineare su cui si basava l’impianto teorico di Evans3 lascia il posto qui a una concezione ucronica,4 intesa come utopia del tempo; di un tempo fatto di realtà parallele e sovrapposte in cui ciò che è mio diviene tuo, o che mentre cresco, cambia con me. In questa prospettiva temporale, il contributo inquadra l’era corrente dell’Antropocene, in cui l’essere umano è artefice e manipolatore dell’ambiente che lo attornia, per domandarsi quale forma vi abbia assunto la moda e come potrebbe essere riscritta in prospettiva storica. Autrici quali Daniëlle Bruggeman5 e Kate Fletcher e Mathilda Tham6 hanno proposto concezioni del tempo alternative a quelle generate da una cultura capitalista, puntando lo sguardo alle pratiche indigene e alle eco cosmologie. Si tratta di una dimensione dove la storia non dovrebbe limitarsi all’operato umano, bensì riconoscere agentività e rilevanza anche a ciò che non è animato. Ne consegue che il prodotto storico di un tempo alla ricerca del compromesso con la sostenibilità, non sembra tanto o unicamente scaturire dall’operato umano imposto, quanto dall’insieme complesso di fenomeni collettivi reticolari. Questa interpretazione della moda come esito di un tempo ucronico e collettivo non è di per sé positiva né negativa, ma è tenta di superare i limiti che pesano sulla visione della moda come mera industria o epifenomeno. Da un lato, la moda è stata infatti considerata come sinonimo di un’industria che erode le risorse naturali e come causa del cambiamento climatico che danneggia l’ambiente fisico e sfrutta gli esseri umani; dall’altro, è stata vista come un fenomeno che non ha storia, ridotta a un epifenomeno, sollevata così paradossalmente da ogni responsabilità etica e politica.7 Quale di queste due interpretazioni ha effetti peggiori?

Per rispondere a questa domanda, si intende fare luce sui rapporti complessi della moda con la sua dimensione storica, prendendo spunto dagli studi che si stanno facendo strada nel dibattito sulla dimensione storica della sostenibilità,8 utili a inquadrare la moda come possibile forza trasformativa,9 rigenerativa e curativa, che tende a forme consapevoli di conservazione dell’ambiente fisico, sociale e culturale in cui viviamo. La prima considerazione è che il dibattito corrente sulla sostenibilità può essere di aiuto alla storia della moda. Nonostante lessico e temi di tale dibattito siano stati codificati solo di recente, soprattutto nel loro utilizzo diffuso, molte pratiche riferibili alla sostenibilità della moda hanno radici antiche. Per esempio, è questo il caso del riciclo, della modellistica zero waste e degli abiti di seconda mano. Secondo alcuni autori, la sostenibilità è un tema emerso negli anni Sessanta e Settanta dalle preoccupazioni globali in materia di ambiente,10 manifestatosi nella moda attraverso le controculture giovanili, quale ad esempio il movimento Hippie. La definizione di sostenibilità è emersa in modo esplicito nel Rapporto Brundtland del 1987, secondo cui è essenziale attuare una forma di sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere quelli delle generazioni future. Questa definizione appare tuttavia limitata, poiché sembra tenere conto solo della specie umana, escludendo una visione in cui il benessere deriva dalla interdipendenza di tutti gli esseri, viventi e non. Questi limiti sono stati progressivamente evidenziati attraverso la nozione di multispecismo tratta dall’ambito della biologia,11 aperta alle scienze umane e sociali, alle arti e a un’idea di storia intesa come “storia della consapevolezza”, per citare il nome del Dipartimento dove insegnano autrici come Donna Haraway12 e Anna Tsing.13

Il bisogno urgente di un approccio metodologico che definisca la storia della moda come strumento per creare teorie e pratiche per un futuro più sostenibile ci ha guidate a riflettere sulle parole utili alla storia della moda per riformulare il proprio lessico. Per farlo si è adottata una struttura concettuale mutuata dagli studi sulla sostenibilità e definita come strategia delle tre “p”: persone; pianeta e profitto (o prosperità). Sviluppata nell’ambito del management economico negli anni Novanta come triple bottom line, tale struttura è divenuta famosa con la pubblicazione di John Elkington del 1998,14 il quale si definisce e viene spesso definito come il suo fondatore.15 La triple bottom line è stata proposta con l’obiettivo di “provocare una riflessione più profonda sul capitalismo e sul suo futuro”,16 come contributo per un’organizzazione volta al benessere sociale, alla salute ambientale e a un’economia più equa. L’articolo si propone di elaborare un framework metodologico articolato sulle tre assi di persone, pianeta e profitto nell’epoca dell’Antropocene. Le analisi presentate sono il frutto di un lavoro di sperimentazione di tale framework, condotto dalle due autrici tra il 2022 e il 2023, nell’ambito del corso di Storia e teoria della moda, tenuto da Alessandra Vaccari con la collaborazione didattica di Clizia Moradei presso il Corso di Laurea Magistrale in Arti visive e Moda dell’Università Iuav di Venezia. Oltre alle studentesse e studenti frequentanti il corso, partecipanti attivi alla riflessione storico-critica, hanno preso parte al programma anche attivisti, designer e docenti di moda italiani e stranieri. Dal lavoro svolto è emersa la convinzione che ripensare la storia della moda nella prospettiva della sostenibilità e con l’ausilio dei fashion studies sia un esercizio fondamentale per ridisegnare gli obiettivi della ricerca storica, la nostra esperienza di essa e il modo in cui viviamo. Una visione che, come ritiene Bruggeman, è contraria al principio capitalista secondo cui l’ego del consumatore si crea attraverso l’acquisto di prodotti al “supermercato delle identità”,17 che nutre un ego illusorio e individualista. La moda ego-centrica solitamente scorda o ignora la dimensione vissuta e la realtà materiale.18 Oggi invece è sempre più urgente che la sostenibilità ponga attenzione alla preservazione del futuro dell’ambiente fisico e delle comunità a vantaggio della collettività, attraverso il rispetto, la cura e le pratiche di un “vestire gentile”.19 Dissolvendo le identità individuali verso la fondazione di un sistema eco-centrico.

Figura 1: Infografica dell’inquadramento metodologico, 2023.

Persone

La strategia della tre “p” considera per persone tutte le parti interessate e coinvolte nel sistema economico-produttivo, collegandosi alla responsabilità sociale d’impresa (CSR): i dipendenti, le comunità all’interno delle quali opera un’organizzazione, gli individui lungo tutta la catena di fornitura, i clienti e le generazioni future. Dal nostro punto di vista questo significa due cose: da una parte riportare al centro della storia della moda chi è stato trascurato o posto in condizioni marginali o oppositive; dall’altra — e di conseguenza — inserire la moda in una relazione più attiva con i consumatori e le pratiche di consumo. Ciò significa mettere al centro della storia della moda la sostenibilità come pratica di sensibilità e di consapevolezza. Esistono storie della moda basate sul contributo dei fashion designer,20 storie che fanno dialogare chi di essa ha scritto in forma filosofica, saggistica o romanzata21 e storie che mettono in primo piano l’apporto creativo dei consumatori22 come alcune specifiche controculture giovanili.23 Emerge d’altra parte la necessità di includere anche i casi di attivisti o hacktivist — impiegando un termine di Otto von Busch24 — sintomo di una crescente partecipazione attiva dentro e fuori del sistema della moda e capace di contribuire positivamente a rendere l’esperienza della moda benefica. Per quanto riguarda le persone, abbiamo cercato di riportare al centro del discorso della storia della moda chi è stato trascurato e chi storicamente ha criticato la moda come dinamica di cambiamento fine a se stessa. Per esempio, lo storico dell’arte Radu Stern25 ha radunato nel libro A contre courant i contributi di chi ha criticato apertamente la moda. È interessante notare come i manifesti anti-moda che si sono succeduti tra la fine dell’Ottocento e gli anni Quaranta del Novecento abbiano in realtà contribuito a creare mode parallele e a valorizzare il potere della moda stessa. Al cuore della sua analisi sono le voci degli artisti dell’avanguardia, di coloro che hanno visto nella moda non tanto il simbolo di una classe sociale, quanto una forza generatrice di esperienze che si schieravano contro la moda commerciale, di una moda che diveniva portavoce di valori estetici e insieme etici. Similarmente, hanno agito le comunità di intellettuali e artisti che hanno dedicato attenzione al corpo e alla pratica dell’abbigliamento in nome di una riforma della vita, delle sue norme sociali e igieniche. Benché queste abbiano esplicitamente negato la moda, le hanno implicitamente riservato un posto all’interno del dibattito. È il caso per esempio delle comunità utopiche europee ottocentesche e primonovecentesche, come il sanatorio di medicina naturopatica Jungborn di Rudolph Just in Germania frequentato da Franz Kafka26 e la comunità di Monte Verità di Ascona in Svizzera studiata da Harald Szeemann.27 Introducendo il rapporto tra moda e utopia — in cui si intende rivisitare un fenomeno passato che spesso si rivolge al futuro — la ricercatrice Mila Burcikova rimarca che:

sebbene abiti e ornamenti esistano e assumano anche un grande significato nelle società utopiche, la moda — associata a incessanti cambiamenti di stili — è generalmente rappresentata in termini negativi. Ciò rende la moda oggetto di visioni distopiche, piuttosto che utopiche. C’è poca pietà per la moda nell’utopia.28

L’immaginazione utopica ha però innescato in passato, e può innescare in futuro, esperienze di post-growth fashion,29 ovvero una trasformazione dei consumi finalizzata a un ricentramento sui bisogni vitali. Viene quindi proposta una prospettiva migliorativa, raggiungibile proprio grazie ai linguaggi della moda. Come ricorda Elizabeth Wilson,30 non tutti i riformisti ottocenteschi erano totalmente contrari alla moda. Ada Sarah Ballin31 sosteneva, per esempio, che più che abolire la moda occorresse rendere i capi salutari, affermando l’importanza dell’esercizio fisico e dell’uso della lana piuttosto che del cotone, considerato poco assorbente. Ballin fu anche tra le prime a denunciare la nocività dei coloranti sintetici tessili introdotti in quegli anni,32 oggetto anche degli studi della storica della moda Alison Matthews David33. Tali esperienze, che hanno messo in discussione il ruolo della moda, possono essere interpretate come forze positive di cambiamento. Questa osservazione ci permette di mettere a fuoco il secondo aspetto scaturito dal concetto di persone, ovvero: un’idea di moda come cura e come pratica di un vestire gentile, di cui scrive la studiosa Simona Segre Reinach.34 Qui entra in gioco il concetto di cura nella moda, argomento che emerge dall’esigenza di tornare a fare comunità, di ritrovare un senso della vita e di preservare gli ecosistemi e le specie viventi del pianeta al di là dell’Antropocene. Questo aspetto verrà sviluppato nel paragrafo successivo in cui si analizzano i biomateriali come mezzo per una conciliazione interspecie, unitamente al fashion design come pratica di mutua cura. Nei fashion studies il discorso sull’etica della cura è analizzato dalla studiosa Anneke Smelik,35 a partire da una rilettura degli studi femministi degli anni Novanta sulle politiche di interdipendenza che concepiscono la cura come gesto attivo di generosità, come essere “con-passionevole”, come pratica collaborativa, teorizzando una “cura universale” e dei “modelli promiscui di parentela”.36 Osservando il panorama contemporaneo, durante la ricerca abbiamo individuato due casi rilevanti per questa interpretazione del termine persone nella moda al tempo dell’Antropocene. Da un lato il lavoro di Rosie Broadhead, che persegue un approccio al design dell’abito improntato alla tecnologia come strumento di cura, e dall’altro di Alessandra Micolucci, connesso alla moda lenta, alle tinture vegetali e all’artigianalità come via di accesso a forme di consumo della moda più rispettose per il corpo e gentili per l’ecosistema. Broadhead è una designer inglese che ha conseguito il Master in Material Futures della Central Saint Martins di Londra. Attualmente è ricercatrice presso l’Università di Ghent.37 Broadhead segue progetti sperimentali concentrandosi sul beneficio che la tecnologia dei finissaggi può apportare sulle superfici tessili, agendo per contatto in modo sinergico col microbioma cutaneo, rispondendo ai principi della terapia probiotica.38 Un esempio è il suo brand indipendente Skin Series che propone indumenti che la designer definisce terapeutici, la cui base è un tessuto di fibra di alga trattato per includere proprietà antiossidanti o caricato di ingredienti bio-attivanti.39 Micolucci, fashion designer e fondatrice dell’omonimo brand, è laureata in Design della moda all’Università Iuav di Venezia ed è attiva a Venezia.40 La sua progettualità comprende la coltivazione di piante tintorie e l’utilizzo di tessuti biologici come ortica, canapa, lino e cotone, provenienti da produttori italiani. Ogni pezzo delle sue collezioni è confezionato e dipinto a mano, rievocando così, in maniera poetica, epoche in cui gli abiti avevano un valore legato al tempo lento della crescita delle piante, del cucito e della cura per i dettagli, ma anche per la conservazione delle specie e degli ecosistemi.

Figura 2: Locandina del seminario di Rosie Broadhead, Università Iuav di Venezia, 10 maggio 2023.

Pianeta

Pianeta è un termine che movimenta una serie di elementi e concetti utili a inquadrare la prospettiva storica da adottarsi per passare da un approccio ego-centrico a uno eco-centrico. Una transizione necessaria per passare dal piano delle persone a quello del prodotto. Il termine pianeta introduce un contesto animato da una visione pianeto-centrica che sottende all’idea di “Earth-logic”.41 Negli studi storici sulla moda è stato privilegiato lo studio dello sviluppo industriale come base dell’evoluzione degli stili e del progresso economico-sociale,42 o il sistema della moda come incipit per una rilettura del ruolo sociale degli abiti nelle loro diverse accezioni lessicali,43 mentre è stato spesso posto in secondo piano il loro complesso rapporto con il contesto ambientale naturale, con il pianeta e le sue risorse. In questo paragrafo si riflette su come la sostenibilità abbia invece ridisegnato, nel passato e nel presente, la relazione tra umano e non umano, tra uomo e pianeta, tra macchina e risorse naturali. Mostrando le infinite ibride possibilità offerte dalla moda post-antropocentrica, si cerca qui di capire come ne riconfiguri la condizione esistenziale all’interno del discorso ontologico e filosofico, tra aspetti positivi e negativi — poiché anche l’insostenibilità è stata elemento necessario di un processo storico di evoluzione. In questo ambito si colloca la mostra Eco-Fashion: Going Green (2010), tenutasi presso il museo del Fashion Institute of Technology e curata da Jennifer Farley Gordon and Colleen Hill, concepita con l’obiettivo di aprire il discorso sul rapporto tra l’industria della moda e l’ambiente. Si parla dell’urgenza di dissolvere l’ego della moda al fine di ri-centrarsi sulle identità soggettive e sui corpi fisici, valorizzando l’esistenza incarnata degli esseri umani sulla Terra e nel dialogo con i propri abiti. Una mostra che parla di corpi che si vogliono distinguere dalla loro mercificazione capitalistica.44 Si tratta di un invito a vivere il corpo a pieno, per darsi un senso e dare un senso al mondo. La comprensione dell’esperienza incarnata deriva dalla tradizione filosofica esistenziale della fenomenologia della percezione associata a Maurice Merleau-Ponty.45 Tale esigenza si manifesta in due fenomeni principali oggetto di indagine: il desiderio di un ritorno alla materialità dell’esperienza; l’attenzione progettuale alle necessità del pianeta nel rispetto delle sue risorse.
Tali aspetti ci hanno condotte da una parte a osservare gli avanzamenti in merito al dibattito filosofico sul nuovo materialismo, dall’altra all’indagine delle filosofie postumaniste, impegnate nella riconciliazione tra umano e natura (o altre alterità non umane). Lo studio si colloca dunque entro il cosiddetto “material turn” invocato da Tony Bennet e Patrick Joyce,46 che — come spiegano Agnès Rocamora e Anneke Smelik47 — indica una svolta verso la sostanza materiale della moda dopo decenni in cui imperava il post-strutturalismo concentrato sul suo linguaggio e sulla sua testualità. L’ego della moda genera infatti un paradosso: esso è composto di una moltitudine di significati non materiali pur essendo allo stesso tempo fortemente materialista, poiché ossessionato dal consumo di oggetti.48 Questo paradosso si concretizza in virtù della capacità dell’ego della moda di produrre pattern di consumo che vanificano il valore affettivo ed emozionale dell’oggetto rispetto a quello economico. Per quanto concerne il postumanesimo, Rosi Braidotti49 afferma che la condizione postumana è un’opportunità per favorire la ricerca di modelli di pensiero, conoscenza e autorappresentazione alternativi a quelli dominanti, vedendo il postumano come una entità in divenire.50 Haraway51 ne sottolinea questa sua natura in divenire, ovvero in relazione con il mondo e con gli altri, umani e non, al fine non solo di sopravvivere, ma di proliferare su un pianeta infetto. La nozione di postumano è stata tradotta nei fashion studies in prima istanza da Smelik52 che ha esplorato esempi tratti dall’estetica cyborg e queer, oltre alle connessioni che essa instaura con la sostenibilità. In quest’ultimo caso riprende l’intuizione di Haraway di coltivare una “response-ability” per un mondo fiorente (o flourishing) atta ad incentivare le più fantasiose forme di interconnessione.53 Da tutto ciò deriva questa analisi del termine pianeta, dove l’umano — o postumano — svolge non solo il ruolo del consumatore e di produttore di scarti, ma in alcuni casi esso stesso è lo scarto che può essere tramutato in risorsa. Dove i fashion designer si fanno carico di innescare processi di cura tra corpo-abito-ambiente. Laddove la (ri)scoperta dei biomateriali funge da mezzo metaforico per una conciliazione interspecie. In cui la componente progettuale legata alla funzionalità contribuisce a guidare la transizione sostenibile perseguendo i principi della riduzione di scarti di produzione e dei pattern di consumo, poiché le superfici tessili sono concepite come vive, capaci di crescere e adattarsi a tutti i corpi. Nel passato della moda si riscontrano volubili tendenze del rapporto tra pianeta/risorse e consumatore/prodotto. Scaturite da entusiasmi variabili in base a ciò che era considerato prioritario per la specifica epoca storica. Basti pensare ai vantaggi intravisti nell’uso delle fibre tessili artificiali a partire dalla fine del XIX secolo, con picco nel dopoguerra degli anni Cinquanta, considerate come la perfetta soluzione economica e funzionale.54 Ciò, fintanto che non ne sono venuti alla luce i risvolti negativi che in tempi recenti le hanno demonizzate insieme a tutto ciò che deriva dal petrolio. Allo stesso modo l’avvento del prêt-à-porter attorno agli anni Sessanta, la cui deriva insostenibile e inarrestabile ha preso la forma del mass market, in cui la fuorviante innovazione della filosofia “usa e getta” è stata applicata ai più svariati ambiti produttivi dalla fine del XX secolo ad oggi. Usi che gradualmente hanno soppiantato le sedimentate pratiche domestiche di riparazione e rammendo atte a tramandare da una generazione all’altra non solo beni — riducendo così sprechi e consumi — ma anche costumi, intesi come le tradizioni e le storie di vita,55 prediligendo per contro consumi veloci e affettivamente superficiali. Sul piano progettuale odierno, gli emblemi dei tentativi di ritorno ai principi di nuovo materialismo e postumanesimo nelle accezioni sopra indicate sono stati individuati come: gli abiti composti da scarti organici non-più-umani reimmessi nella filiera; i materiali e le tecnologie, antiche e recenti, che offrono la possibilità di abbattere l’impatto produttivo e consuntivo pre e post consumo attraverso soluzioni naturali, adottate sul piano sia industriale che sperimentale. Coinvolti all’interno del ciclo di incontri realizzati nell’ambito della ricerca, i tre esempi rispettivamente analizzati sono: Zsofia Kollar, la quale tocca il tema della prospettiva circolare; Lara Campos con i suoi capi in tessuti viventi; Petit Pli con i capi in plissé che crescono insieme al corpo. Selezionati in quanto rappresentativi di una interpretazione neomaterialista che pone la materia al centro dell’attenzione, essi perseguono il filone del material driven design. In questo contesto la materia assume un ruolo vitale, capace di auto-determinarsi nella relazione col designer56 e di creare interconnessioni tra esseri umani e non umani. Ciò risulta in linea con la visione postumana che vede il corpo relazionarsi all’abito in una forma simbiotica, risultando capace di evolvere e mutare di significato in modo sinergico e non duale. Altro aspetto che accomuna questi tre esempi è il fatto che per quanto si tratti di casi fortemente sperimentali, sono concepiti dalla reinterpretazione di antiche pratiche. Zsofia Kollar, di origini ungheresi ma con base in Olanda, ha conseguito una laurea in architettura e design e un Master in progettazione interdisciplinare. È fondatrice del progetto/marchio Human Material Loop, che si concentra sull’utilizzo dei rifiuti di capelli per sviluppare prodotti di maglieria, la cui missione è dimostrare che le persone non sono al di sopra ma parte dell’ecosistema, oltre al farsi portavoce della cultura che soggiace ai capelli.57 A livello produttivo si tratta di una filiera chiusa che non genera ulteriori scarti, in cui anche i capelli più corti vengono filati. La filatura avviene in Italia mentre i capelli vengono recuperati dai saloni di parrucchieri e in futuro — come c’è stato spiegato durante l’incontro — anche dai clienti stessi, che potranno idealmente ordinare un maglione fatto con le proprie ciocche rimaste imbrigliate nel pettine. Gli aspetti più interessanti emersi dalla nostra conversazione con Kollar sono: la circolarità radicale che prevede di riutilizzare ciò che il nostro corpo produce; la contraddizione — che ricorda un ritorno al primitivismo — tra l’ossessione corrente per la depilazione e il ricoprirsi di capelli; la lunga tradizione che soggiace all’uso simbolico di questo supporto materiale. Occorre infatti sottolineare che l’utilizzo dei capelli non è totalmente nuovo nella moda. Esso era diffuso già nel VII secolo nella tradizione cinese della dinastia Tang, come filato per il ricamo su seta.58 A metà del Seicento i capelli erano inseriti all’interno di monili di memorie o affetti.59 Negli anni della seconda guerra mondiale, a causa della carenza di materie prime in Svezia, la manifattura Tabergs Yllefabrik AB nello Småland rivisitò la tradizione di mescolare un 60% di capelli umani con un 40% di lana per produrre calzini, guanti e maglioni. Tali fenomeni riprovano l’efficacia che oggi tale alternativa per fibra tessile può apportare contestualizzata entro un’operazione di rinnovamento della tradizione orientata alla efficientazione della sua filiera produttiva. Questa operazione inoltre rompe, mediante una provocazione sensoriale, la barriera di disgusto che spesso si crea tra ciò che è umano (il capello attaccato alla cute) e ciò che umano in qualche modo non è più (il capello morto staccato) introducendo una nuova forma di ecologia dell’intimità tra corpi familiari ma estranei.60 Questo esempio è in linea con l’affermazione secondo cui occorre sollecitare un’interpretazione della moda come possibilità di relazione intima tra corpo e materia, istigando forme di material encounters.61 Il secondo caso di studio rientra nella più ampia tendenza dei biomateriali, ossia materiali ottenuti da risorse rinnovabili, e più specificatamente dei bio-based di provenienza vegetale.62 Occorre sottolineare in questo contesto come le fibre naturali sono insite nella tradizione tessile e che ciò che è cambiato nel tempo sono il lessico e l’utilizzo sempre più diffuso che se ne fa. Lino, cotone, canapa, bambù, sono solo alcune di queste fibre di cui oggi si parla in termini di variante organica (es. cotone organico) e rigenerata. Spesso nella loro versione rigenerata non sono morfologicamente — e quindi neanche processualmente — molto diverse dalle fibre sintetiche, come riporta Sarah Scaturro in un’analisi che mette in discussione il ruolo ambivalente della tecnologia nei movimenti della eco-tech fashion.63 Il lavoro di Lara Campos è stato scelto come rappresentativo del filone specifico del growing design,64 che propone materiali organici sperimentali per la moda. Si tratta di operazioni ancora pionieristiche che, portando all’estremo le riflessioni sulla natura organica e vitale dell’abito, aprono a uno scenario che presenta i cosiddetti living garments. Lara Campos, argentina, si definisce material driven designer, ricercatrice e artista tessile. È parte del collettivo Simbioceno e si è diplomata presso l’Istituto Fabricademy di Barcellona con il progetto Be Grounded, progetto per un filato germinante trasformato in abito attraverso una meticolosa operazione artistica, attraversando la nozione di simbiosi.65 Infine, il brand Petit Pli propone una rilettura in chiave sostenibile di un’antica tradizione, a partire da una riflessione tangibile incentrata sullo sfruttamento delle potenzialità della materia o materiale di partenza. Come scrive nell’elaborato di fine corso una studentessa,66 c’è una genealogia storica e forti stratificazioni morfologiche che vanno dalla brevettazione del plissè nel 1909 da parte di Mariano Fortuny y Madrazo con gli abiti Delphos — una tecnica di piegatura tessile permanente pensata per liberare forme e movimenti — ai Torchon da viaggio della designer Nanni Strada elaborati nel 1986, passando per lo sfruttamento da parte del mass market, come testimoniato dal contemporaneo revival dei popcorn top degli anni 2000. Una rilettura contemporanea fa del plissè uno strumento per immortalare l’abito in quanto adattabile a tutte le taglie ed età — come nel caso di Petit Pli. Petit Pli67 è un brand londinese emergente fondato nel 2017 dall’ingegnere Ryan Mario Yasin, caratterizzato da un team interdisciplinare. In particolare, i capi della linea Clothes that grown, realizzati in nylon riciclato, sono una proposta per far fronte alla crescita e agli sprechi dell’abbigliamento per bambini. Essa si rivolge a bambini di età da un mese fino a dieci anni. Per rendere i propri prodotti più durevoli, il brand ha inoltre creato uno speciale tessuto detto Ripstop, con una tecnologia di rinforzo che rende il materiale resistente allo strappo e alla caduta. Questo caso di studio, come i precedenti, grazie all’innovazione materiale sostanziale ridefinisce la nozione di temporalità. Altera il ciclo di vita del capo, le sue pratiche d’uso, e instaura una relazione più sintonizzata sulle ciclicità naturali e i bisogni dell’ambiente.

Figura 3: Locandina del seminario di Zsofia Kollar con Leonardo Avezzano, Università Iuav di Venezia, 17 maggio 2023.

Profitto

La moda, come forma di “seduzione commerciale attraverso la novità e l’innovazione”,68 è stata spesso percepita come libera da qualsiasi obbligo morale. Allo stesso modo, il filosofo Jonathan Dollimore 69 ha affermato che “le culture che si preoccupano della mutevolezza” — come la moda — “sono culture di transizione in cui tutti i punti fissi sembrano essere stati rimossi”. Mentre Jeremy Gilbert-Rolfe nel suo saggio Beauty and the Contemporary Sublime sosteneva che il glamour rende la moda sovversiva nel suo rifiuto del significato,70 rendendo possibile la fuga dalla ragione logocentrica e da ogni discorso di verità e di moralità. Tuttavia, come ha sottolineato tra gli altri Llewellyn Negrin, la creazione di stretti legami tra l’industria dell’abbigliamento e il suo sfruttamento commerciale unito al consumo eccessivo, significa che la moda non potrà mai essere innocente.71 La storia contemporanea ha dedicato particolare attenzione al rapporto tra moda e capitalismo e, più di recente, alla questione postcoloniale, dove la domanda è: chi sfrutta cosa? Questo paragrafo si domanda se si possa ancora parlare di progresso — nell’accezione capitalistica? In che rapporto vi si pone la moda e che ruolo riveste in questo cambio di paradigma? Il passaggio da ego a eco analizzato sopra segna un cambiamento di prospettiva che cerchiamo qui di allacciare a esperienze che ne hanno supportato l’avvio. Si pensi, per esempio, al diffondersi di movimenti attivisti o controculturali, che si dispiegano in varie forme, dalle comunità DIY, fino a pratiche di fashion design lento e democratico che incentivano una decrescita dei consumi. Tutte esperienze finalizzate a una rilettura del concetto di capitalismo e di bene di consumo per una soggettificazione degli oggetti. Questa sezione riguarda i luoghi di produzione e le forme di comunicazione e commercializzazione dei prodotti di moda in una prospettiva storica sostenibile. Trovano qui spazio le periferie, gli immaginari speculativi proposti dal metaverso e dai social media, le forme alternative di scambio quali i swap party, le innumerevoli piattaforme per la compravendita di vestiti usati. Fenomeni che sono portavoce di una svolta affettiva nei confronti del valore materiale delle cose, ma che comportano anche un accorciamento delle filiere e un dialogo B2C più diretto e immediato. Per questa sezione del framework teorico si fa riferimento ai discorsi su moda a capitalismo riportati da Rocamora e Smelik.72 Seppure nel capitalismo si parla di valore delle cose in termini di valore economico, lo stesso Marx ne Il Capitale ha sostenuto come il suo valore consista nel plusvalore che scaturisce dal rapporto d’affetto con le cose materiali.73 Le due autrici sopra fanno riferimento al motto dell’artista Barbara Kruger “I shop, therefore I am” (Compro, dunque sono), riprova del compromesso continuo tra realtà materiale e simbolica.74 Come menziona Twigger Holroyd, c’è una scuola di pensiero — il post-growth thinking — che rifiuta di credere che il capitalismo sia una tendenza naturale e inevitabile dell’uomo.75 Illustrando come esso sia originato da una deriva delle ribellioni contadine del XIV e XV secolo che condussero allo stabilimento dei commons (le comuni) prima, e degli enclosures feudali poi, privandoli così dell’autonomia originariamente conquistata e avviando l’accumulazione di ricchezza necessaria per dare il via al capitalismo.76 Entrano nel dibattito autori quali la filosofa Silvia Federici, che parla di reincantare del mondo.77 Intesa come una strategia utile a riconoscere una logica diversa da quella dello sviluppo capitalista, essa mira a ricostruire società fondate sull’uso comune delle ricchezze naturali e prodotte. Reincantare il mondo è letto in questa cornice come il superamento dell’alienazione capitalistica creatasi dal distacco tra soggetto e oggetto, che ha ostacolato e minacciato sia pratiche sociali ed economiche più sperimentali, sia pratiche spirituali, animiste e indigene di contatto con il proprio corpo, tra corpi altri, con la terra e con gli oggetti della terra. In questo contesto è utile accennare l’idea di de-growth. In generale, il movimento per la decrescita si oppone a qualsiasi forma produttiva, quindi, anche all’attuale forma di sviluppo sostenibile che vede come una ossimoro. Nelle parole di Giorgos Kallis et al. 78 riprese nel libro Earth Logic: Fashion Action Research Plan,79 la decrescita ha l’obiettivo di rallentare intenzionalmente i flussi produttivi e i consumi al fine di ridurre al minimo i danni agli esseri umani e ai sistemi terrestri.80 A tali [riflessioni sembra collegarsi la nozione di post-growth fashion di Fletcher,81 innescata dal riconoscimento del valore processuale e dinamico di utilizzo dell’abito, piuttosto che considerarlo come un prodotto statico. Secondo cui l’atto del progettare e dell’indossare si sovrappongono senza soluzione di continuità, allungando il valore e di conseguenza la vita dei guardaroba. In una prospettiva storica, dunque, il termine profitto associato a quello di sostenibilità permette di rivisitare e riscrivere la storia della moda riconquistando quelle pratiche di collettività, solidarietà, affettività che nel tempo sono andate perdute. Allo stesso modo permette di innescare una rinnovata fiducia nel progresso e nella tecnologia contemporanee, spesso viste come de-umanizzanti, attraverso una loro integrazione storica. Alla luce di quanto emerso finora, sono tre gli aspetti connessi al tema del profitto: il ruolo delle figure intermediarie di ieri e oggi della filiera; il valore simbolico degli scarti come risorsa; la moda come pratica sociale e collettiva. Come nesso tra il dibattito su capitalismo imprenditoriale e prospettive di sostenibilità possiamo rileggere l’intervento della curatrice Lucia Savi e della storica della moda Chiara Faggella. In questa occasione si è discusso il libro A New History of Made in Italy: Fashion and Textiles in Post-War Italy,82 che propone una storia materiale della moda italiana a partire dal ruolo delle manifatture tessili locali, dai materiali e dai suoi produttori. In particolare si rilevano tracce storiche della figura del carnettista, un professionista d’intermezzo della filiera italiana che faceva da portavoce dei fornitori tessili proponendo delle prime applicazioni e design alle case di moda. Riflettendo e discutendo questa figura, che nel tempo è sparita, sembra quasi che oggi ritorni nella forma dei centri di ricerca e sviluppo materiali. Di quelle realtà che si innestano, appunto, tra i produttori tessili e le aziende di moda e abbigliamento, proponendo e testando soluzioni nuove, spesso improntate alla sostenibilità. Elementi per certi versi di disturbo della filiera, poiché ne sfidano (con spirito di innovazione) le regole, i ritmi e le prassi, creando una frattura generativa volta indirettamente allo scardinamento della gerarchia capitalistica. Da cui l’idea che l’innovazione agisce negli interstizi. Un secondo caso di studio è stato individuato nel contributo di Silvia Gambi, che è intervenuta nel dibattito presentando il documentario Stracci (2021) diretto da Tommaso Santi e scritto da Tommaso Santi e Silvia Gambi. Questo apre la discussione sui temi del mercato di seconda mano e della cosiddetta epoca del Wasteocene.83 Il documentario tratta la manifattura del riciclo tessile pratese, attraverso interviste ai vari stakeholder, tra imprenditori, artigiani e manovali, italiani e internazionali. Il tema centrale è il danno che la sovrapproduzione sta generando in tutto il mondo con accumuli ingestibili in determinate aree geografiche, contro la possibilità offerta dal riciclo degli stracci, ovvero dei panni di lana in disuso, attraverso la valorizzazione di una tradizione industriale e artigianale, mestiere considerato per lungo tempo umile e vergognoso. In linea con questa forma di valorizzazione delle mani che operano per materializzare la moda dietro la facciata dell’industria è il terzo caso di studio. Qui ci viene in supporto Bruggeman,84 la quale analizza una serie di casi che inglobano pratiche di abbigliamento volte a riqualificare i ruoli tradizionali, ridisegnandone le gerarchie all’interno del sistema sociale. Pratiche che valorizzano il valore umano e non economico della moda. Ciò si riscontra in particolare nell’operazione di Pascale Gatzen col progetto Questioning the Concept of a Uniform parte integrante della mostra You reach out — right now — for something: Questioning the Concept of Fashion del 2014 presso Art Tower Mito e Marugame Genichiro-Inokuma Museum of Contemporary Art (MIMOCA) in Giappone. Questo progetto ha mostrato il grande potere trasformativo della moda. Esso ha previsto la preparazione in materia sartoriale di un gruppo di addette alla guardiania dei rispettivi musei per la realizzazione delle proprie uniformi e per diffondere tali competenze durante l’arco della esposizione anche alle altre colleghe. Non è casuale la scelta di lavorare sull’uniforme, elemento solitamente associato a un gesto di imposizione e spersonalizzazione. Inoltre, l’idea del progetto era che queste uniformi fossero qualcosa in continuo divenire, sottoposte alla personalizzazione quotidiana. Col fine — ben riuscito — di testare il processo di crescita affettiva partecipata e collettiva tra le addette, concentrandosi sulla natura fisica ed esperienziale della moda. Il progetto rimarca l’affermazione di Lidewij Edelkoort,85 le cui parole sottolineano il rischio che l’abito sia considerato solamente un derivato della moda e non il suo fulcro, aprendo il discorso ai movimenti che ne riaffermano l’autonomia usando il termine “abbigliamento” invece che “moda”.86 Sebbene questa critica alla moda non possa essere oggetto di approfondimento in questa sede, vale la pena sottolineare come alcune studentesse partecipanti al corso abbiano percepito come centrale questo punto. Per esempio una studentessa 87 ha riflettuto in questa prospettiva sul tema della griglia, mettendo in relazione i tracciati sartoriali e i cartamodelli editoriali (oggi spesso scaricabili online) a una rilettura del lavoro di attivismo progettuale di Superstudio negli anni Sessanta.88

Figura 4: Locandina del seminario di Silvia Gambi, Università IUAV di Venezia, 19 aprile 2023.

Conclusioni

L’articolo ha approfondito il ruolo trasformativo della moda e ha affrontato alcune possibili traiettorie di lettura della sua storia attraverso lo strumento fornito dal paradigma delle tre “p” nel discorso della sostenibilità. Alle categorie di persone, pianeta e profitto ha aggiunto anche la quarta “p” di “parole”. In questo articolo sono state messe a fuoco alcune urgenze rispetto a ciascun termine di analisi. Per quanto riguarda le persone è emersa la necessità sia di riportare al centro della storia della moda chi è stato trascurato o posto in condizioni marginali, sia di inserire la moda in una relazione più dinamica con i propri consumatori e le proprie pratiche di consumo. Riguardo al pianeta sono emersi due fenomeni principali a cui far fronte: il desiderio di focalizzarsi sulla materialità dell’esperienza e il rispetto delle risorse planetarie, anche in una prospettiva storica. Riguardo al profitto, sono state messe sotto i riflettori alcune figure addette alla sperimentazione, oltre ad alcune modalità e strumenti partecipativi che fungono da mediatori. Infine, riguardo alle parole, è stato sottolineato il bisogno di riflettere sulla materia con cui i discorsi della moda sono costruiti e sulla relazione tra moda, contesto e impatto socio-culturale con particolare riferimento all’epoca dell’Antropocene. Tutti questi aspetti assumono un ruolo centrale nel far fronte alle necessità di democratizzare il sistema della moda e incentivare una consapevolezza dei consumi, impiegando anche gli strumenti dell’indagine storica per comprendere l’attuale percezione di cosa sia un bene di consumo. Essi convogliano verso una comune idea di ribaltamento delle logiche di prima-dopo, ego-eco, morto-vivo, scarto-risorsa, io-tu, umano-pianeta, presente-passato, invitando a pratiche più collaborative e reticolari — come esorta Bruggeman89 — che restituiscano consapevolezza dell’essere inscritti e compartecipi della medesima storia.

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  1. Caroline Evans, Fashion at the Edge: Spectacle, Modernity and Deathliness (Londra: Yale University Press, 2003).↩︎

  2. Paul Jozef Crutzen, Benvenuti nell’Antropocene. L’uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova era (Segrate: Mondadori, 2005).↩︎

  3. Crutzen, Benvenuti nell’Antropocene.↩︎

  4. Caroline Evans e Alessandra Vaccari (a cura di), Time in Fashion: Industrial, Antilinear and Uchronic Temporalities (Londra: Bloomsbury Visual Arts, 2020).↩︎

  5. Daniëlle Bruggeman, Dissolving the Ego of Fashion (Arnhem: ArtEZ, 2018).↩︎

  6. Kate Fletcher e Mathilda Tham, Earth Logic: Fashion Action Research Plan (Londra: JJ Charitable Trust, 2019).↩︎

  7. Malcolm Barnard, Fashion Theory: An Introduction (Abingdon-Oxon: Routledge, 2014).↩︎

  8. Sasha Rabin Wallinger, “A History of Sustainability in Fashion,” in Routledge Handbook of Sustainability and Fashion, a cura di Kate Fletcher e Mathilda Tham (Abingdon: Routledge, 2014), 151–159; Amy Twigger Holroyd, Jennifer Farley Gordon e Colleen Hill, Historical Perspectives on Sustainable Fashion. Inspiration for Change (Londra: Bloomsbury, 2023).↩︎

  9. Alessandra Vaccari, Indossare la Trasformazione (Venezia: Marsilio, 2022).↩︎

  10. Simon Dresner, The Principles of Sustainability (Londra: Earthscan, 2008); Twigger Holroyd et al., Historical Perspectives on Sustainable Fashion.↩︎

  11. Christoph D. D. Rupprecht, Joost Vervoort, Chris Berthelsen et al., “Multispecies Sustainability,” Global Sustainability, Vol. 3 (2020), E34, https://doi.org/10.3390/microorganisms9061192.↩︎

  12. Donna Haraway, Chtulucene. Sopravvivere su un Pianeta Infetto (Nero Editions, 2019).↩︎

  13. Anna Lowenhaupt Tsing, The Mushroom at the End of the World: On the Possibility of Life in Capitalist Ruins (Princeton: Princeton University Press, 2015).↩︎

  14. “provoke deeper thinking about capitalism and its future.” John Elkington, Cannibals With Forks: The Triple Bottom Line of 21st Century Business (Stony Creek: New Society Publishers, 1998).↩︎

  15. Wayne Norman e Chris MacDonald, “Getting to the Bottom of ‘Triple Bottom Line’,” Business Ethics Quarterly, Vol. 14, No. 2 (Aprile 2004): 243–262.↩︎

  16. John Elkington, “25 Years Ago I Coined the Phrase ‘Triple Bottom Line.’ Here’s Why It’s Time to Rethink It,Harvard Business Review, 25 Giugno 2018, https://hbr.org/2018/06/25-years-ago-i-coined-the-phrase-triple-bottom-line-heres-why-im-giving-up-on-it.↩︎

  17. Zygmunt Bauman, Liquid Modernity (Cambridge: Polity Press, 2000), 83.↩︎

  18. Bruggeman, Dissolving the Ego of Fashion, 8.↩︎

  19. Simona Segre Reinach, Per un Vestire Gentile (Londra: Pearson, 2022).↩︎

  20. Alessandra Vaccari, La Moda nei Discorsi dei Designer (Bologna: Clueb, 2012).↩︎

  21. Paola Colaiacomo e Vittoria Caterina Caratozzolo (a cura di), Cartamodello: Antologia di Scrittori e Scritture sulla Moda (Milano: Sossella, 2000); Agnès Rocamora e Anneke Smelik (a cura di), Pensare Attraverso la Moda: Una Guida agli Autori Classici (Milano: Meltemi, 2022).↩︎

  22. Angela Partington, Popular Fashion and Working-Class Affluence (Abingdon: Routledge, 2007).↩︎

  23. Yuniya Kawamura, Sneakers: Fashion, Gender, and Subculture (Londra: Bloomsbury, 2016).↩︎

  24. Otto von Busch, Fashion-able. Hacktivism and Engaged Fashion Design, tesi di Dottorato (Gothenburg: University of Gothenburg, 2008).↩︎

  25. Radu Stern, Against Fashion (Cambridge-London: MIT Press, 2004).↩︎

  26. Mark Anderson, Kafka’s Clothes: Ornament and Aestheticism in the Habsburg Fin de Siècle (Oxford: Clarendon Press, 1992).↩︎

  27. Harald Szeemann (ed.), Monte Verità: Antropologia Locale come Contributo alla Riscoperta di una Topografia Sacrale Moderna (Milano: Electa, 1978).↩︎

  28. “although clothes and adornments do exist and even take on great significance in utopian societies, fashion — associated with incessant changes in styles — is generally portrayed in negative terms. This makes fashion the subject of dystopian, rather than utopian, visions. There is little mercy for fashion in utopia.” Mila Burcikova, “Introduction: Fashion in Utopia, Utopia in Fashion,” Utopian Studies, Vol. 28, No. 3 (2017): 381–397.↩︎

  29. Kate Fletcher, Craft of Use: Post-growth Fashion (Abingdon: Routledge, 2016).↩︎

  30. Elizabeth Wilson, “Utopian dress and dress reform”, in Adorned in Dreams: Fashion and Modernity, di Elizabeth Wilson (New Brunswick: Rutgers University Press, 2003), 208–227.↩︎

  31. Ada Sarah Ballin, The Science of Dress in Theory and Practice (London: Sampson Low Marston Searle & Rivington, 1885).↩︎

  32. Wilson, Adorned in Dreams, 213.↩︎

  33. Alison Matthews David, Fashion Victims: The Dangers of Dress Past and Present (Londra: Bloomsbury Visual Arts, 2015).↩︎

  34. Segre Reinach, Per un Vestire Gentile.↩︎

  35. Riferimenti al ciclo di seminari Fashion Matters: Beyond the Canon of “Made in Italy” (2022) e alla conferenza Earth, Water, Air, and Fire: the four Elements of Fashion (2023), entrambi presso l’Università Iuav di Venezia.↩︎

  36. Andreas Chatzidakis, Jamie Hakim, Jo Littler, Catherine Rottenberg e Lynne Segal, “Introduction: Carelessness Reigns”, in The Care Manifesto: The Politics of Interdependence, a cura di The Care Collective (Londra: Verso, 2020), 1–20.↩︎

  37. Rosie Broadhead, ultimo accesso 30 Agosto 2023, https://rosiebroadhead.com.↩︎

  38. Rosie Broadhead, Laure Craeye e Chris Callewaert, “The Future of Functional Clothing for an Improved Skin and Textile Microbiome Relationship,” Microorganisms, Vol. 9, No. 6 (2021):1192.↩︎

  39. Skin Series, ultimo accesso 30 Agosto 2023, https://skinseries.org.↩︎

  40. Alessandra Micolucci, ultimo accesso 30 Agosto 2023, https://www.alessandramicolucci.com.↩︎

  41. Fletcher e Tham, Earth Logic: Fashion Action Research Plan.↩︎

  42. Christopher Breward, Fashion (Oxford: Oxford university press, 2003).↩︎

  43. Roland Barthes, Sistema della Moda (Torino: Einaudi, 1970).↩︎

  44. Bruggeman, Dissolving the Ego of Fashion, 29–30.↩︎

  45. Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della Percezione (Milano: Il Saggiatore, 1962).↩︎

  46. Tony Bennet e Patrick Joyce (a cura di), Material Powers: Cultural Studies, History and the Material Turn (New York: Routledge, 2010).↩︎

  47. Rocamora e Smelik (a cura di), Pensare Attraverso la Moda, 37–38.↩︎

  48. Bruggeman, Dissolving the Ego of Fashion, 49.↩︎

  49. Rosi Braidotti, Il Postumano: La Vita Oltre l'Individuo, Oltre la Specie, Oltre la Morte (Roma: DeriveApprodi, 2020).↩︎

  50. Braidotti, Il Postumano, 18.↩︎

  51. Haraway, Chtulucene.↩︎

  52. Anneke Smelik, “Fractal Folds: The Posthuman Fashion of Iris van Herpen”, Fashion Theory, Vol. 26, No. 1 (2020): 5–26; Anneke Smelik, “A Posthuman Turn in Fashion” in Routledge Companion to Fashion Studies, a cura di Veronica Manlow, Eugenia Paulicelli e Elizabeth Wissinger (New York: Routledge, 2021), 57–64.↩︎

  53. Smelik, “A Posthuman Turn in Fashion”, 7.↩︎

  54. Twigger Holroyd et al., Historical Perspectives on Sustainable Fashion, 16–18.↩︎

  55. Twigger Holroyd et al., “Domestic and Costume Making”, in Historical Perspectives on Sustainable Fashion, 147–151.↩︎

  56. Jane Bennet, Vibrant Matter: A Political Ecology of Things (Durham: Duke University Press, 2010).↩︎

  57. Human Material Loop, ultimo accesso 30 Agosto 2023, https://humanmaterialloop.com; Zsofia Kollar, ultimo accesso 30 Agosto 2023, https://zsofiakollar.com.↩︎

  58. Human Material Loop, “History of Hair,” ultimo accesso 30 Agosto 2023, https://humanmaterialloop.com/history-of-hair/.↩︎

  59. Deanna Farneti Cera, Vestire la Moda: Gioielli Non Preziosi dal 1750 ai Giorni Nostri (Milano: ​​5 continents, 2019).↩︎

  60. Clizia Moradei, “Ecologia è Intimità fra Estranei: La Moda nelle Sue Pratiche Materiali e Femminili di Sostenibilità,” Officina, Vol. 41 (2023): 10–17.↩︎

  61. Bruggeman, Dissolving the Ego of Fashion, 51.↩︎

  62. Biofabricate and Fashion for Good, Understanding “Bio” Material Innovations: A Primer For the Fashion Industry (2020).↩︎

  63. Sarah Scaturro, “Eco-tech Fashion: Rationalizing Technology in Sustainable Fashion,” Fashion Theory, Vol.12, No. 4 (2008): 470–473.↩︎

  64. Valentina Ciuffi, “Growing Design,” Abitare Magazine, Vol. 531 (2013): 108–111; Serena Camere e Elvin Karana, “Growing Materials for Product Design,” International Conference on Experiential Knowledge and Emerging Materials, Delft University of Technology (19/20-06-2017): 101–115, https://eksig.org/EKSIG2017.html.↩︎

  65. Lara Campos, ultimo accesso 30 Agosto 2023, https://lara-campos.com.↩︎

  66. Agata Parziani, “Il plissè. Una tecnica sostenibile da Mariano Fortuny a Petit Pli”, elaborato per il corso di Storia e teoria della moda. Università Iuav di Venezia, a.a. 2022–2023.↩︎

  67. Petit Pli, ultimo accesso 30 Agosto 2023, https://shop.petitpli.com.↩︎

  68. Evans, Fashion at the Edge, 67.↩︎

  69. Jonathan Dollimore, Sex, Literature and Censorship (Cambridge: Polity, 2001).↩︎

  70. Jeremy Gilbert-Rolfe, Beauty and the Contemporary Sublime (Allworth, 1999), 43.↩︎

  71. Llewellyn Negrin, “Rei Kawakubo: Agent Provocateur in a Hyper-Glamourized World”, in Rei Kawakubo: For and Against Fashion, curato da Rex Butler (Regno Unito: Bloomsbury Publishing, 2023), 57.↩︎

  72. Rocamora e Smelik (a cura di), Pensare Attraverso la Moda.↩︎

  73. Karl Marx, Il Capitale (Palermo: R. Sandron, 1894).↩︎

  74. Rocamora e Smelik (a cura di), Pensare Attraverso la Moda, 38.↩︎

  75. Twigger Holroyd et al., Historical Perspectives on Sustainable Fashion, 135.↩︎

  76. Jason Hickel, Less is More: How Degrowth will Save the World (Londra: Windmill Books,2020).↩︎

  77. Silvia Federici, Reincantare il Mondo. Femminismo e Politica dei “Commons” (Ombre Corte, 2018).↩︎

  78. Giorgos Kallis, Susan Paulson, Giacomo D’Alisa e Federico Demaria, The Case for Degrowth (Cambridge: Polity, 2020).↩︎

  79. Fletcher e Tham, Earth Logic: Fashion Action Research Plan.↩︎

  80. Kallis et al., The Case for Degrowth, viii.↩︎

  81. Fletcher, Craft of Use.↩︎

  82. Lucia Savi, A New History of “Made in Italy”: Fashion and Textiles in Post-war Italy (Londra: Bloomsbury Visual Arts, 2023).↩︎

  83. Marco Armiero, L’Era degli Scarti. Cronache dal Wasteocene, la Discarica Globale (Einaudi, 2021).↩︎

  84. Bruggeman, Dissolving the Ego of Fashion, 28–38.↩︎

  85. Lidewij Edelkoort, Anti_Fashion. A Manifesto for the Next Decade (2015).↩︎

  86. Bruggeman, Dissolving the Ego of Fashion, 8.↩︎

  87. Elisa Bolzonello, “Perfor(m)are tramite la griglia”, elaborato del corso di Storia e teoria della Moda, Università Iuav di Venezia, a.a. 2022–2023.↩︎

  88. “Superstudio, Istogrammi d’architettura, Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci,” Exibart, ultimo accesso 30 Agosto 2023, https://www.exibart.com/pezzo-da-museo/superstudio-istogrammi-darchitettura-centro-per-larte-contemporanea-luigi-pecci/.↩︎

  89. Bruggeman, Dissolving the Ego of Fashion, 68.↩︎