ZoneModa Journal. Vol.13 n.2 (2023)
ISSN 2611-0563

Political t-shirt: un capo simbolo da Vivienne Westwood a Maria Grazia Chiuri

Eleonora ChiaisUniversità di Torino (Italia); Università di Bologna (Italia)

She is a researcher at the University of Turin and contract professor at the University of Bologna (Rimini campus), and deals mainly with fashion theories and trend studies based on a semiotic analysis methodology. She holds a PhD from the University of Turin with a thesis on the media modifications of the representation of the female body in the Italian edition of Vogue magazine and is the author of several articles and essays in Italian, English and Spanish in national and international scientific journals. She has recently published with Mimesis the book “Moda e trasparenza. Regimi discorsivi e dialettiche tra sguardi” (2023).

Pubblicato: 2023-12-20

Abstract

Launched on the US market in the first decade of the 20th century as a ‘bachelor suit’ by the Cooper Underwear Company, the T-shirt was christened as such only a few years later when, in 1920, Francis Scott Fitzgerald included a reference to the T-shirt in his This Side of Paradise. From then on, the popularity of this garment grew until it became a transversal must-have. The responsibility for this success (which exploded in the 1950s) was twofold. At the same time, thanks to the simplicity that had always characterised the t-shirt and had allowed it, in its early days, to be proposed as the perfect garment for bachelors, the tee became a uniform for the very young, who used it as a symbol of the rebellion against the interference of the dominant bourgeoisie. Through this mechanism of appropriation the genesis of the political t-shirt had been written: the simplest of garments had become a uniform. Starting from these initial considerations, the contribution - using the methodology of analysis of fashion theories and, in particular, semiotic tools - intends to reflect on the evolution of the t-shirt, focusing on the communicative choices (and consequences) implemented in three specific cases of political t-shirts (the long-sleeved “God Save the Queen” model by Vivienne Westwood in 1977, the “58% Don’t Want Pershing” t-shirt by Katharine Hamnett in 1984 and the “We should all be feminist” t-shirt designed by Maria Grazia Chiuri for Dior in 2017).

Keywords: Political T-shirt; Slogan Tee; Vivienne Westwood; Katharine Hamnett; Maria Grazia Chiuri.

“Puoi ottenere tutto ciò che voi se sei vestita per averlo.”
(Edit Head)

1. Introduzione: la moda come strumento di attivismo

La pratica del vestirsi è sempre un atto profondamente sociale e, con Barthes, acquisisce senso solo se s’inserisce in una dialettica tra individui all’interno di una collettività. Non stupisce, quindi, che il sistema moda sia stato e resti ancora oggi un fondamentale strumento per l’attivismo sociale. Ma qual è il meccanismo, in primo luogo narrativo, che permette a un abito o a un accessorio, a una frase o a un dettaglio para-vestimentario di trasformare il proprio valore simbolico risemantizzandosi per diventare emblema dell’attivismo? Cosa accade quando si carica, per esempio, una semplice t-shirt della responsabilità di proporsi come manifesto della nuova rappresentazione collettiva del contrasto?

A giustificare questi meccanismi trasformativi è, in primo luogo, la volontà di definire un’identità forte da contrapporre ad una alterità da contrastare attraverso la diffusione e l’uso, necessariamente strumentale, di simboli iconici e parole che diventano slogan modificandosi nel loro significato originario. Oggetti comuni assumono, così, una valenza semi-simbolica diventando simulacri d’identità collettive e rompendo la continuità per proporre una discontinuità all’interno della quale, per un tempo indefinito, si costruiscono messaggi che diventano proiezioni o meta-messaggi. In questa risemantizzazione del quotidiano, l’abbigliamento — che si fa divisa e uniforme a un tempo — occupa un ruolo centrale nella costruzione di nuovi modelli sociali ed etici. Questa è una realtà tutt’altro che recente.

Storicamente, infatti, gli esempi sono numerosissimi e, d’accordo con Calefato1 non è difficile raggrupparli sotto l’etichetta di “anti-moda” identificandone le origini nel momento in cui la Moda inizia a venire intesa da gruppi sociali in rivolta come la summa delle simbologie e dei valori dei gruppi cui questi si oppongono. Se alla genesi di queste risemantizzazioni vestimentarie è possibile collocare le divisa dei sanculotti2 o il virgineo bianco delle suffragette (citato ancora nel febbraio 2017 dalle deputate democratiche per opporsi a Trump nel discorso al Congresso) è vero, d’altra parte, che proprio nella contemporaneità, complici il processo che ancora Calefato3 definisce di “disintermediazione” e la cassa di risonanza delle narrazioni sui social network, il binomio moda-attivismo ha assunto un’importanza centrale imponendosi, anche nel mercato mainstream, come mezzo identitario di aggregazione sociale. Gli esempi, anche in questo caso, sono numerosi. Dalla capsule collection “Fashion Our Future 2020” proposta dal Council of Fashion Designers of America in piena campagna elettorale all’attivismo ambientale di Stella McCartney all’adesione alla campagna “#Blacklivesmatter” di Tommy Hilfiger (insieme a molti altri) fino alle collezioni dedicate al Pride 2022 di Calvin Klein, Converse, Puma, Borsalino. Effettivamente non è sbagliato sostenere che è proprio con l’avvento della società della comunicazione che il rapporto tra moda, politica e attivismo si modifica rendendo di fatto gli stessi abiti dei dispositivi parlanti capaci di conoscere non solo le regole ma anche gli slang del linguaggio vestimentario manistream rielaborando entrambi per dare vita a un gergo tanto autonomo quanto immediatamente riconoscibile. D’altra parte è risaputa la capacità propria di quella combinatoria di abiti e accessori che siamo soliti chiamare outfit di evidenziare, al variare del contesto e del periodo storico, aspetti culturali propri della società nella quale sono collocati. E nemmeno i capi apparentemente più semplici, come la t-shirt, fanno eccezione.

Partendo da queste considerazioni iniziali, il contributo — utilizzando la metodologia d’analisi delle fashion theories e, in particolare, gli strumenti semiotici — intende riflettere sull’evoluzione della t-shirt tanto dal punto di vista storico quanto dal punto di vista narrativo. In prima battuta, quindi, si ricostruiranno i momenti principali nell’evoluzione del capo, dalla sua nascita come capo di biancheria intima all’ascesa nelle passerelle della moda istituzionale come capo d’abbigliamento a tutti gli effetti. In seconda battuta, ci si concentrerà invece sulle scelte (e sulle conseguenze) comunicative messe in atto in tre casi specifici di political t-shirt identificati nella diacronia per rendere conto dell’evoluzione storica anche dal punto di vista della trasmissione di messaggi.

Date queste premesse l’obiettivo dello studio sarà quello di riflettere sulla storia della t-shirt leggendo, attraverso l’analisi di alcuni casi di studio selezionati diacronicamente, la sua evoluzione nel tempo come un percorso di passaggio da mezzo identitario di aggregazione sociale ad autentico strumento politico. Il punto di partenza sarà la considerazione di Volli4 secondo il quale vestirsi non significa altro che esercitare un’azione ma, affinché questa azione sia “semiotica”, ossia simboleggi effettivamente qualcosa, è necessario che il suo effetto sia ricercato proponendosi come il frutto di una precisa scelta e non di una semplice casualità.

2. T-shirt come divisa: la genesi

Lanciata sul mercato statunitense nel primo decennio del Novecento come bachelor suit dalla Cooper Underwear Company,5 la t-shirt fu battezzata come tale solo qualche anno dopo. Responsabile della scelta onomastica — legata alla caratteristica “forma a T” del capo —, fu Francis Scott Fitzgerald che, nel 1920, inserì un riferimento alla maglietta nel suo This Side of Paradise. Da quel momento in poi la popolarità di questo pezzo d’abbigliamento (dapprima icona dello sportswear, poi parte del guardaroba militare a stelle e strisce) crebbe fino a diventare un trasversale must have.

La responsabilità di questo successo (che esplose negli anni Cinquanta) fu duplice. Da un lato, infatti, a contribuire alla fortuna della tee furono i tanti (e illustri) testimonial della versione total white da Marlon Brando (in A Streetcar Named Desire, sia a teatro che al cinema) a James Dean (che la rese cult in Rebel Without A Cause del 1955). Dall’altro lato quella semplicità che da sempre caratterizzava la t-shirt e aveva permesso, ai suoi esordi, di proporla come il capo perfetto per gli scapoli (grazie all’assenza di spille da balia e bottoni) la rese un’uniforme per i giovanissimi che la utilizzarono come capo simbolo della ribellione all’ingerenza della dominante borghesia. Attraverso questo meccanismo di appropriazione la genesi della political t-shirt era stata scritta: il più semplice dei capi era diventato una divisa.

Come, d’altra parte, ricorda Calefato “la divisa funziona sempre un po’ come una parola d’ordine, dal momento che la sua funzione di riconoscimento sociale passa attraverso i segni che confermano il puro collocarsi nello stesso universo discorsivo di due o più interlocutori”.6 Rientrando nell’ambito del gergo vestimentario (più che in quello, elitario, del linguaggio della moda tradizionale) la t-shirt Anni Cinquanta si propone quindi come una risposta a una logica di identificazione di gruppo. Se la pratica del vestirsi è infatti sempre un atto profondamente sociale è vero anche, con Barthes, che questo atto acquisisce senso solo inserendosi in una dialettica tra individui all’interno di una collettività. Non stupisce, quindi, che il sistema moda sia stato e resti ancora oggi un fondamentale strumento per l’attivismo sociale e politico e che spesso utilizzi proprio gli elementi più semplici del guardaroba per trasmettere i messaggi più importanti. Questo è evidente considerando, ancora con Calefato, che “(esiste) uno schema generale dell’indumento pensato come scudo, e contemporaneamente come arma, le cui manifestazioni si iscriverebbero poi nei valori estetici che la moda elabora socialmente”.7

In un’orgia di sovrastrutturalità che diventa sostanza, ecco quindi comparire simbologie che rimandano ai grandi temi dell’esistenza, segni capaci di creare legami di senso con la realtà, stemmi che si connotano come soggetti dotati di vita autonoma e che pretendono di coinvolgere euristicamente chiunque li avvicini. Come sostiene Ernst Kris, d’altra parte: “Nel controllo sociale si sono sempre usati i simboli […] essi hanno sempre ispirato l’umanità […]. Il richiamo dei simboli è rimasto immutato in questo senso, e ovunque l’uomo sia diventato parte di un’unità, può essere influenzato da tali metodi”.8 Che l’elemento simbolico abbia sempre giocato un ruolo di primaria importanza nell’attestazione e nella riconferma delle ideologie è cosa nota, così come il fatto che l’accettazione di simboli e la loro “metabolizzazione” da parte dell’uomo siano “intesi a consolidare la sua fedeltà a qualche unità più vasta”.9 Il simbolo sublima l’ideologia, spesso al di là di quanto quest’ultima sia stata interiorizzata nella sua essenza profonda, diventando al contempo “segno stenografico dello slogan, del programma, della dottrina”,10 estrema schematizzazione di una identificazione e adesione ad uno schema di valori e di principi. Ma allo stesso momento ne diventa l’unica immagine reale, capace di radicarsi e di costituire la base per una decodifica inconscia dei messaggi fino a diventare la radice di ogni interpretazione della realtà. L’uso del simbolo si trasforma in una certificazione identitaria, nell’affermazione forte e deliberata di un’appartenenza a “un’anima collettiva” nella quale l’io individuale si fonde in un nuovo soggetto sociale che, pur nella sua astrattezza, trasforma il singolo facendolo “sentire, pensare e agire in un modo del tutto diverso da come ciascuno — isolatamente — sentirebbe, penserebbe e agirebbe”.11 Non a caso l’approccio simbolico e la costruzione di simboli “è uno degli stratagemmi preferiti e più efficaci per dirigere le masse, per ‘aspirare e ispirare’ le emozioni delle folle”.12 Tanto più quando, attraverso i meccanismi della propaganda, queste vengano sollecitate nel fare riferimento ad un universo simbolico già presente a livello culturale e di sentire collettivo al fine di produrre comportamenti sulla base di atteggiamenti irrazionali ma dal forte significato culturale e sociale. Tale procedimento, che ha luogo attraverso una trascrizione dei codici di riferimento ed un’iper-valorizzazione di significati fortemente connotati, arriva ad inglobare ogni manifestazione, ogni oggetto, trasformando in estensione ideologica uno stemma come un albero, un santo come un vestito.

3. Political t-shirt: i casi di studio

Alla luce di queste premesse l’analisi di alcuni casi di studio concreti permetterà di riflettere sull’impatto concreto di tre manifestazioni vestimentarie iconiche nella dimensione della moda politicizzata e attivista.

3.1 Vivienne Westwood e la t-shirt “God Save the Queen”

Il primo oggetto che sarà preso in esame sarà il modello a maniche lunghe con il disegno “God Save the Queen” proposto da Vivienne Westwood e che inaugurò di fatto quella che, per il movimento punk, sarà definita l’estate dell’odio. Siamo nel 1977, l’anno in cui la regina Elisabetta II celebrò il suo Giubileo d’argento vale a dire i 25 anni trascorsi come regnante. A Londra, più precisamente al 430 di Kings Road, si trova — dall’inizio degli Anni Settanta — il negozio di abiti “Let It Rock” aperto dalla Westwood e destinato a diventare, nel corso del decennio, lo spazio all’interno del quale la stilista creerà la genesi del suo lavoro creativo e stilistico. La boutique, che cambierà nome più volte, divenne presto il punto di riferimento per l’estetica punk londinese. In questo stesso spazio, proprio nell’anno celebrativo dedicato alla regina Elisabetta II, verrà proposta per la prima volta la t-shirt. Di che cosa si trattava? Semplicemente di una maglietta effetto used (con svariati tagli all’altezza delle spalle, delle maniche e dell’orlo inferiore del capo) a maniche lunghe, immaginata nella tonalità del bianco candido e caratterizzata da una grande stampa centrale progettata dal grafico Jamie Red (considerato a sua volta icona della contro-cultura punk). Nella stampa si poteva osservare un’immagina in primo piano della regina Elisabetta II ornata dalla corona d’ordinanza e da un austero collier e modificata con una spilla da balia posta a “censurare” parzialmente naso e bocca. Il ritratto, su sfondo scuro e di forma ovale, era incorniciata da una parte di testo della canzone dei Sex Pistols “God save the Queen” e dal logo della band musicale. Autori del lancio della t-shirt — destinata a diventare emblema dell’estetica punk secondo la quale la funzione primaria degli abiti non poteva che essere la possibilità di veicolare messaggi di protesta per sovvertire le convenzioni sociali — la stilista inglese e il compagno Malcom McLaren, manager della band musicale. Questo capo d’abbigliamento diventò velocemente iconico nell’universo punk proponendosi come un oggetto capace di ribaltare le convenzioni vestimentarie dell’epoca e prestandosi a numerose successive interpretazioni come quella proposta in forma di tributo dallo stilista Alexander McQueen che, nel 2008, portò sulle sue passerelle stagionali un abito haute couture stampato con l’icona punk del “God Save the Queen”. Gli stessi membri dei Sex Pistols tributarono diversi omaggi a questo capo simbolo del movimento continuando, negli anni, ad indossare — in occasione dei loro concerti — diverse interpretazioni di questa stessa t-shirt assurta, negli anni, al ruolo di autentica uniforme del fenomeno con l’obiettivo dichiarato di riproporre alle generazioni successive il messaggio di cui la t-shirt si fece portatrice al suo debutto nel panorama internazionale. Messaggio che, di per sé, sarebbe poi rimasto mantra delle creazioni vestimentarie dell’eclettica stilista inglese destinata, in tutta la sua lunga e fortunata carriera stilistica, a utilizzare le sue creazioni per lanciare un messaggio identitario all’interno del fashion business internazionale.

La stampa della regina Elisabetta II, risemantizzata all’interno dell’universo simbolico dell’estetica punk, assurge al ruolo di marchio secondo un meccanismo assolutamente vitale alle contro-culture fin dalle prime riflessioni di Hebdige sul tema. Proprio nel suo Subculture: The Meaning of Style (pubblicato per la prima volta nel 1979 e poi tradotto in italiano quattro anni più tardi da Costa&Nolan) l’esponente di spicco dei cultural studies propone, citando Diario del ladro di Jean Genet, un primo approfondimento sul valore emblematico e simbolico di alcuni oggetti di uso quotidiano trasposti in un universo che si vuole come identitario. In questo contesto, infatti, Hebdige sostiene la possibilità di racchiudere in un singolo oggetto all’apparenza banale (la vaselina nel suo caso, la spilla da balia capace di modificare il meccanismo interpretativo connesso alla disamina della stampa iconografica classica della sovrana celebrata nel nostro caso) un conflitto sociale che identifica proprio tali oggetti come segni di un’identità che, caricandosi del fascino del proibito nella dimensione del mainstream, diventa fonte di valore tra coloro che si riconoscono nella cultura in formazione di riferimento. In questo senso, quindi, non stupisce la necessità — postulata da Massimiliano Guareschi nell’introduzione all’edizione Meltemi del 2017 del volume di Hebdige — di leggere la maglietta qui considerata come un simbolo capace di collocarsi all’interno di quella cornice, di quell’estetica e di quella narrazione identitaria che è lo stesso punk nella seconda metà degli Anni Settanta e che propone, ancora oggi, alcune preziose chiavi di lettura per decifrare le coordinate di un protagonismo (tanto vestimentario quanto più strettamente politico) non più inquadrabile nelle forme consuete della militanza.

3.2 Katharine Hamnett: “58% Don’t Want Pershing”

Il secondo modello che verrà considerato sarà la maglietta indossata da Katharine Hamnett in occasione dell’incontro con Margaret Thatcher nel 1984 quando, invitata dall’allora Primo Ministro britannico con un piccolo gruppo di giovani designer a margine della London Fashion Week, la stilista indossò una maxi t-shirt bianca con la scritta “58% Don’t Want Pershing”. Questa maglietta — confezionata, secondo le memorie della stessa Hamnett, velocemente e artigianalmente — era destinata a diventare il capo cult della stilista inglese che poi avrebbe riproposto la stessa interpretazione stilistica in tutta la sua esperienza creativa successiva (dal modello “Choose Life”, indossato l’anno successivo da George Michael nel video musicale degli Wham! Wake Me Up Before You Go Go, al recentissimo “Cancel Brexit”).

In questo caso ci troviamo storicamente nella prima metà degli Anni Ottanta. La società internazionale sta vivendo il periodo storico e socio-economico che verrà definito quello del boom dei consumi. La designer inglese, già nota nel fashion system internazionale con il lancio della collezione femminile a suo nome nel 1979 e di quella maschile nel 1981, mostra un interesse per le tematiche relative all’ecologia e alla sostenibilità.13 Il 1984 rappresenta per la giovane stilista l’anno dell’affermazione con la vendita della sua collezione stagionale in 700 punti vendita su quaranta differenti paesi e l’ottenimento del titolo di “British Fashion Designer of the Year” da parte del British Fashion Council. Questo stesso anno verrà ricordato come quello nel quale sono nate le slogan tee destinate a diventare simbolo del suo stile creativo. La stilista, infatti, lanciò una linea di t-shirt candide e all’apparenza dal taglio molto semplice caratterizzate da scritte, in caratteri cubitali, che invitavano a compiere concretamente piccole azioni per il benessere del pianeta. Tra le altre, quindi, ecco le magliette con le scritte “Worldwide Nuclear Ban Now”, “Preserve The Rainforests”, “Save The Whales”, “Education Not Missiles” destinate ad animare i capi oversize che formavano la collezione della designer inglese. Mentre i suoi capi conquistavano i mercati la stilista venne invitata, come detto, a un incontro ufficiale con Margaret Thatcher e si presentò nei saloni di Downing Street indossando una maxi t-shirt con la scritta “58% Don’t Want Pershing”. La t-shirt aveva l’obiettivo di ricordare alla Primo Ministro inglese che la maggior parte dei connazionali non approvava l’acquisto di missili nucleari negli stati uniti e, ricordando gli annali, venne accolta dalla Lady di Ferro con un genuino e stupefatto “Finalmente qualcosa di nuovo!”.

L’eco sulla stampa internazionale fu enorme e la stilista consolidò il suo ruolo nel panorama internazionale. Le magliette divennero un cult e, nel giro di un tempo brevissimo, conquistarono personalità del mondo delle arti.14 Proprio come nel caso di Vivienne Westwood citato precedentemente, anche questi capi si prestarono, poi, a successivi tributi e reinterpretazioni spingendo la stilista a rilanciare, nel 2017, una collezione di capi unisex ripresi dagli archivi del brand e dedicati a tematiche (come quelle della sostenibilità ambientale e sociale) sempre attuali.

Il caso considerato appare, qui, particolarmente rilevante per la sua capacità di proporre una nominazione strettamente linguistica capace di veicolare in maniera immediata e inequivocabile la significazione del capo. Questo stesso capo, di conseguenza, acquisisce un significato (e un ruolo: quello di icona) tramite il linguaggio che crea la sua costruzione narrativa e che, allo stesso tempo, veicola la sua ricezione nel pubblico dei consumatori/osservatori. Nel caso delle slogan tee di Katharine Hamnett, quindi, la pratica del vestirsi, come le attività comunicative a questa affini, rappresentano davvero un atto profondamente sociale e performativo acquisendo, con Barthes, un senso grazie alla loro capacità di inserirsi all’interno di una dialettica tra individui nel contesto della collettività. Una collettività che, identificando battaglie e valori comuni, riesce proprio attraverso la scelta vestimentaria a soddisfare il peculiare bisogno di appartenenza dei suoi partecipanti attuando una serie di operazioni di enunciazione.

3.3 Maria Grazia Chiuri: “We should all be feminist”

Il terzo modello che verrà considerato sarà, infine, quello proposto da Maria Grazia Chiuri sulle passerelle di Dior della Primavera/Estate 2017 in occasione della sua sfilata di debutto alla guida creativa del brand. A Parigi, infatti, la prima direttrice creativa donna della storica maison francese inserì tra i 65 look proposti all’interno della collezione addirittura due t-shirt basic che si possono collocare nel filone delle slogan tee.

La sfilata dell’ottobre parigino si apre con alcuni look che riprendono il mondo dello sport e, in particolare, l’universo schermistico applaudito tra l’altro dalla giovane campionessa paralimpica Bebe Vio seduta in front row e già vicina alla maison grazie al suo ruolo di brand ambassador a partire dal 2016. Seguono, quindi, le t-shirt. La prima (collocata al diciottesimo posto nell’ordine di uscita e sfoggiata in abbinamento a una lunga gonna in tulle semi-trasparente indossata su shorts candidi effetto seconda pelle) è decorata dalla scritta “We should all be feminist”. La citazione è tratta dal titolo dell’intervento della scrittrice e attivista nigeriana di etnia Igbo, Chimamanda Ngozi Adichie (presente in prima fila) proposto in occasione del discorso TED talk nel dicembre del 2012. La seconda t-shirt, invece, rappresenta un pezzo continuativo per il brand e si caratterizza con la scritta auto-celebrativa “J’adore Dior”.15

La prima t-shirt, in particolare, appare rilevante all’interno dell’analisi qui considerata. In primo luogo, infatti, il suo esordio si colloca all’interno del contesto della moda istituzionale. In secondo luogo, poi, a questa semplice t-shirt bianca viene affidato il compito di proporsi come l’oggetto capace di ridimensionare l’estetica dello stesso brand proponendo nuovi valori (femminismo, legittimazione, affermazione e realizzazione della donna contemporanea) destinati poi a diventare trainanti nel new look firmato Maria Grazia Chiuri. Questa tee, sostanzialmente, si propone come il simbolo di un cambiamento a livello dello standard della bellezza proposto dal brand e riflette un processo di trasformazione e di metamorfosi che — nell’estetica della nuova direttrice creativa — deve riguardare tanto la percezione (e l’auto-percezione) della donna/consumatrice quanto, contemporanemante, la percezione (e, ancora, l’auto-percezione) dello stesso marchio.

A partire dall’oggetto t-shirt Dior, quindi, è possibile allargare lo sguardo all’intero corpo sociale del brand in trasformazione andando a intercettare il suo ruolo (attivo) di strumento della pratica culturale che, inserendosi entro i ben delimitati confini di un dato contesto, facilita la comprensione e veicola la riconoscibilità pubblica del marchio focalizzandosi in particolare su alcune sue caratteristiche ritenute significanti e significative in un dato ambito. I confini della metamorfosi, d’altra parte, sono continuamento oggetto di opere di risemantizzazione e di ridefinizione all’interno del sistema moda. Un processo di cambiamento capace, come nel caso qui considerato, di riproporre nel contesto della moda istituzionale una pratica stilistica nata in contesti di nicchia e poi reinterpretata nel contesto mainstream senza che questa riscrittura impoverisca la carica identitaria e narrativa del modello originario.

3.4 Riflessioni finali sulle political t-shirt considerate

Come dimostrano gli esempi qui considerati la moda è sempre un sistema di significazione che appare comprensibile, decodificabile e — ancor di più — interpretabile alla luce del contesto storico nel quale si colloca e delle influenze socio-culturali che incorniciano la sua presenza nel panorama vestimentario a questo contemporaneo. Sostiene, a questo proposito, Eugenia Paulicelli:

Gli abiti […], costituiscono una rete di immagini nei rapporti di comunicazione tra la gente e così come i miti, il cibo, le credenze portano i segni della vita collettiva, formando il tessuto stesso della cultura. Similmente le immagini e i simulacri inventati dalla moda, producono a loro volta discorsi, storie, mitologie con sistemi narrativi complessi e sottili. Tali mitologie sono destinate a restare, a sedimentarsi e a formare la struttura stessa della memoria collettiva e pertanto determinano anche inconsciamente i gusti, le scelte e l’ideologia.16

Se è vero, quindi, che la moda in accordo con un determinato momento storico porta avanti ideologie socialmente costruite e condivise, produce segni che fungono come riconoscimento e identificazione e contribuisce, in ultima analisi, al mantenimento delle regole della società è vero anche, però, che la stessa moda essendo per definizione incline al cambiamento propone, in un’oscillazione periodica ma costante, la modificazione (talora la distruzione) di tutti quei codici e segni costruiti in precedenza. In questo senso, come dimostrano i tre casi di studio considerati in questa riflessione, molto spesso il cambiamento è veicolato da quelle che vengono riconosciute come “contro-mode” o come “istanze anti-moda” vale a dire “l’insieme dei comportamenti apparentemente condotti contro di essa”.17 La parola chiave di questa definizione sta, però, nell’avverbio apparentemente. Queste piccole ribellioni, come per dimostra per esempio la citazione in forma di tributo proposta da Alexander McQueen della famosa t-shirt di Vivienne Westwood del 1977, hanno come conseguenza la creazione di nuove istanze altro che non fanno che contribuire al potere della moda stessa, dalla quale — parafrasando Kondo — nessuno è in grado di sfuggire.

Per comprendere le contro-mode (in ogni fase della loro naturale e fisiologica esistenza le si consideri) è dunque necessario considerare ogni simbolo (vestimentario ma, più in generale, culturale) proposto in simili contesti come oggetti capaci di riflettere una più generale volontà di cambiamento, una tensione verso la sovversione delle regole, un’aspirazione verso una nuova legittimazione identitaria. Proprio attraverso questo movimento — spesso dissacrante — di rottura dei codici del passato è possibile utilizzare il sistema vestimentario per la costruzione di nuove identità, tanto a livello individuale (di gruppo) quanto a livello collettivo (di contesto), creando proprio attraverso l’utilizzo di un insieme di simboli un nuovo paradigma narrativo e, di conseguenza, una nuova narrazione. Alla luce di tutto questo il corpus qui analizzato apparirà leggibile come un oggetto vivo e caratterizzato da un continuum dinamico. La riflessione, infatti, ha voluto prendere l’avvio da un capo (quello di Vivienne Westwood) nato in un contesto, il punk, per definizione “anti” per poi analizzare la capacità narrativa di un capo in alcuni tratti analogo (la slogan tee di Hamnett) ma già inserito all’interno della dimensione istituzionale della moda e concludersi quindi con alcune riflessioni sull’appropriazione (non snaturante) del medesimo stile creativo nel contesto mainstream.

4. Conclusioni

La più immediata manifestazione concreta nella modificazione (o, per meglio dire, risemantizzazione) del significato immediato degli oggetti di vita comune è necessariamente data, e visibile, nell’involucro sociale dal quale tutti sono, in qualche misura, rappresentati nella loro vita pubblica. È proprio nelle circostanze all’interno delle quali la necessità di definire la propria identità in maniera chiara e immediatamente riconoscibile che “l’abito fa il monaco”, definendo ruoli e posizionamenti, gerarchie e alterità. Per questo un’analisi sul rapporto tra simbolo vestimentario e manifestazione politica non può non tenere in considerazione il ruolo ed il valore dell’abbigliamento pseudo-bellico (quelle slogan t-shirt oggetto della riflessione qui proposta), concentrandosi poi sulla differenza tra i due termini più concreti per definirlo: “uniforme” e “divisa” che, etimologicamente, rimandano a due concetti letteralmente opposti vale a dire quello dell’uniformare e del dividere, rendere uguali e rendere differenti. È chiaro che, fin dalle origini, i vestiti hanno una palese finalità sessuale, seduttiva e addirittura sentimentale, già presente a partire dal racconto biblico che attribuisce perlopiù al pudore, quindi all’atteggiamento legato all’appena scoperta consapevolezza seduttiva del proprio corpo, la spinta originaria a coprire almeno parzialmente il corpo stesso. Nel momento in cui, però, l’abbigliamento come oggetto di seduzione non è più appannaggio del singolo ma diventa appannaggio del simbolo, è chiaro che questo va a definire l’identità stessa di una personificazione collettiva, rendendo prontamente riconoscibili i membri di un certo credo e deve, tra le altre cose, conquistare (in senso più o meno amoroso) altri possibili proseliti. Il medesimo concetto è largamente evidenziato dallo stesso Barthes quando, ne Il Senso della Moda, interrogandosi sugli stimoli da cui la moda stessa trae sostentamento consiglia di porre al centro dell’indagine, tra il resto, anche le politiche di dominio e marginalizzazione. E il dominio è esattamente quello che interessa in questa sede dove l’abbigliamento è letto come il rapporto incessante tra l’individuo, l’aspetto e l’appartenenza, come ciò che “ti copre scoprendoti”, disvelandoti come membro di un gruppo supportato da un abito capace di assommare in sé simbologia, ritualità e funzione politica. Un antenato di questa concezione semio-linguistica del vestiario è certamente il Sartor resartus (1869) di Thomas Carlyle:

All visible things are emblems; what thou seest is not there on its own account; strictly taken, is not there at all: Matter exists only spiritually, and to represent some Idea, and body it forth. Hence Clothes, as despicable as we think them, are so unspeakably significant. Clothes, from the king’s mantle downwards, are emblematic […] on the other hand, all Emblematic things are properly Clothes, thought-woven or hand-woven: most not the Imagination weave Garments, visible Bodies, where in the else visible creations and inspirations of our Reasons are, like Spirits, revealed.18

Nell’ambito della definizione del ruolo sociale, quindi, il vestire assume il proprio significato in maniera differente a seconda delle varie dimensioni dell’esistenza umana in cui viene utilizzato come segno: nell’ambito dell’esperienza estetico/bellica, in termini di espressione della propria identità e, specialmente, di differenziazione dall’identità altrui (o da un’identità propria rispetto alla quale si desidera distinguersi). Come affermazione non verbale del valore uno dei meccanismi semantici essenziali del vestire è infatti quello di fornire all’uomo un linguaggio capace di trasformare il corpo in una scacchiera di zone di repulsione e di attrazione.19 Attrazione (o repulsione, o divisione, o uniformazione) che, val la pena di ricordarlo, ha la sua origine grazie alla tripartizione tra corpo, sguardo e contesto dove spesso è la pressione di elementi contestuali, analizzati generalmente dalla semiotica in termini di circostanze enunciazionali, a determinare l’oscillazione del sistema significante del vestire verso l’uno o l’altro di simili effetti contraddittori. Che, evidentemente, se in “tempo di pace” orienta l’ottica visuale all’ambito della moda e della sensualità, quando compaiono le prime nubi di contrasto palesa forti valenze e contrapposizioni nel rapporto tra teoria della funzione e acquisizione di nuove valenze. Le contraddizioni, che rimandano, ancora una volta, alla dicotomia tra uniformazione e differenziazione, tracciano — quantomeno in nuce — la mappa di una semiotica del vestito che, posta sotto l’egida della sua funzione protesica, ha la sua naturale base teorica nella semiotica del corpo elaborata da Jacques Fontanille20 con la sua definizione delle due macrofigure fondamentali della corporeità. In base a questa suddivisione, quindi, si trovano da una parte la carne, perno dell’ancoraggio deittico e, dall’altra parte, l’involucro-pelle che, oltre a garantire una forma coesa al corpo, è un contenente rispetto al contenuto della carne e soprattutto espleta una funzione bidirezionale di filtro nelle relazioni tra interno ed esterno. Ciò che però più interessa, guardando al mondo delle t-shirt come strumenti di attivismo politico (e di conseguenza alla loro doppia valenza di divisori e uniformanti), è la capacità del corpo/rivestimento di fungere da superficie di iscrizione rispetto alle tracce di eventi esogeni (o endogeni) e la possibilità che questo supporto ha di lasciarsi modificare nella sua valenza comunicativa da ciò che circonda il suo status sociale.

A questo proposito, però, è indispensabile ricordare che il vestito, al di là della sua indubbia funzione protesica, è sempre “vittima” di una tentazione ad autonomizzarsi come oggetto a sé stante. Questa tentazione, però, è generalmente solo tensiva e mai effettivamente perseguibile in toto, dato che lo statuto del vestito prevede che esso sia un oggetto in grado di esemplificare le proprie proprietà e di assurgere alla funzione che lo definisce come “personaggio” (o attore, dunque autonomo) solo quando è indossato.

Alla luce di quanto finora evidenziato può valer la pena, in conclusione, sottolineare almeno tre aspetti dell’abito politicizzato (e politicizzante) propriamente detto. La divisa/uniforme/vestito dell’attivismo, infatti, da un lato diviene inevitabilmente un’interpretazione del corpo venendo colto, dall’osservatore, come una configurazione da interpretare a seconda di una serie di costrizioni che esso stesso definisce. Lo stesso abito, poi, ri-racconta il corpo, offrendo un nuovo accesso ai suoi valori e agli effetti di senso che questo potrebbe essere in grado di attualizzare. Infine l’abbigliamento, nella sua interezza, media la comunicazione della forma di ascrizione identitaria del corpo magnificando la capacità del singolo di renderlo una prassi comunicativa estensiva e acuendo, per conseguenza, il suo forte aspetto metacomunicativo.

In questo senso, l’universo simbolico che ne deriva, matrice di tutti i significati socialmente oggettivati, si pone come chiave di lettura metafisica della realtà da parte dell’opinione pubblica e ne costituisce il punto di riferimento attraverso il quale questa è in grado di rapportarsi con il mondo circostante: in parte attraverso il continuo riferimento a “stereotipi”; in parte mediante un bagaglio di elementi in larga misura privi di un significato oggettivo ed extra-culturale, ma connotati sulla base di un vissuto sociale che attribuisce loro valori assoluti. Proprio questa tendenza assolutizzante trasforma il simbolo nell’oggetto di vere e proprie pratiche cultuali rendendolo l’idealizzazione di un intero sentire collettivo, posto per questo motivo al vertice di ogni ideologia. Questa stessa ideologia, tramite il riconoscimento di un ruolo rilevante e autorevole che viene attribuito all’abito, attribuisce all’oggetto vestimentario un valore assai più elevato rispetto alla funzione sostanzialmente pratica che dovrebbe ricoprire nel suo essere, in fondo, un capo di abbigliamento. Quando, quindi, un oggetto quotidiano si carica di una simile carica simbolica diventa esso stesso un potente veicolo di identificazione e, di conseguenza, di attivismo e impegno politico.

Bibliografia

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  1. Patrizia Calefato, La moda e il corpo. Teorie, concetti, prospettive critiche (Roma: Carocci, 2021), 169.↩︎

  2. Caratterizzata, fin dal suo nome, dalla mancanza (sans) di quella particolare tipologia di calzoncini (les culottes) identificati come il simbolo dell’outfit aristocratico dell’Ancien Régime.↩︎

  3. Cfr. Calefato, La moda e il corpo, 63.↩︎

  4. Ugo Volli, “Moda e abbigliamento”, in La moda fra senso e cambiamento. Teorie, oggetti, spazi, eds Isabella Pezzini e Bianca Terracciano (Milano: Meltemi, 2021), 75–110.↩︎

  5. Per un ulteriore approfondimento della questione vedi Claudio Spuri, T-shirt, il tatuaggio di stoffa. Storia e attualità formato maglietta (Latina: Tunué, 2006).↩︎

  6. Cfr. Calefato, La moda e il corpo, 178.↩︎

  7. Cfr. Calefato, La moda e il corpo, 182.↩︎

  8. Ernst Kris, “Il pericolo della propaganda”, in La propaganda (Torino: Bollati Boringhieri, 1995), 68.↩︎

  9. Cfr. Kris, “Il pericolo della propaganda”, 69.↩︎

  10. Sergej Ciacotin, Tecnica della propaganda politica (Milano: Sugar, 1964).↩︎

  11. Gustave Le Bon, La psicologia delle folle (Milano: Mondadori, 1980).↩︎

  12. Cfr. Ciacotin, Tecnica della propaganda politica.↩︎

  13. Simili tematiche in questo periodo storico stanno timidamente facendo la loro apparizione a livello di brand. La nascita del marchio californiano Patagonia risale, per esempio, al 1973. Nel contesto europeo per un interesse sistematico a questi temi bisognerà invece attendere il periodo a ridosso del nuovo millennio con la nascita del marchio Freitag (nel 1993) e la prima collezione del brand Stella McCartney nel 2001.↩︎

  14. Emblematica nel successo della stilista fu la scelta del gruppo de Gli Wham! di indossare le sue creazioni nel video della hit mondiale Wake me up before you go go (pubblicata nel 1984). Nel videoclip, infatti, George Micheal, Andrew Ridgeley e la band indossarono la t-shirt bianca con la scritta “Choose Life”, mentre per le coriste furono creati dalla stilista alcuni capi ad hoc con la scritta “Go Go”. Tra i sostenitori dello stile di Katharine Hamnett fin dagli esordi si collocano anche Madonna e i Frankie goes to Hollywood per i quali, nello stesso 1984, fu creata l’apposita linea Frankie Says….↩︎

  15. Questo capo, del quale non ci sarà modo di parlare approfonditamente in questa sede, risulta interessante per due motivi. In primo luogo, infatti, si pone in continuità con l’heritage del brand e strizza l’occhio ai nuovi consumatori social ma anche ai fashion-nostalgici giacché, indossata dall’attrice Sarah Jessica Parker in un episodio della serie Sex & The City creò agli esordi degli Anni Duemila un riposizionamento del brand. In secondo luogo, poi, a questo capo “semi-continuativo” si attribuisce il compito di proporsi in continuità con il passato creativo del marchio che, all’interno di questa collezione, non trova altri riferimenti espliciti e immediati (nella collezione SS 2017, per esempio, sono completamente assenti i tagli del New Look che ancora oggi rappresentano la più immediatamente riconoscibile linea estetica e stilistica del marchio francese).↩︎

  16. Eugenia Paulicelli, “Le narrative della moda. Egemonia, genere, identità” in Annali d’Italianistica, 1998, Vol. 16, Italian Cultural Studies, 315–337.↩︎

  17. Simona Segre Reinach, La moda. Un’introduzione (Bari–Roma: Laterza, 2005), 3.↩︎

  18. Thomas Carlyle, Sartor Resartus: the Life and Opinions of Herr Teufelsdröckh (Londra: Chapman and Hall, 1869).↩︎

  19. Per approfondire questa tematica si rimanda ai lavori di Frazer (1890), Hirn (1900), Spencer e Gillen (1899).↩︎

  20. Jacques Fontanille, Figure del corpo: per una semiotica dell’impronta (Milano: Meltemi, 2004).↩︎