“Italian Invasion”
Quando il curatore Germano Celant scrisse all’allora direttore del
Musée National d’Art Moderne del Centre Pompidou Pontus Hulten per
esprimergli i suoi primi intendimenti rispetto alla mostra Identité
italienne. L’art en Italie depuis 1959 programmata per due anni più
tardi, gli espose un progetto molto più ambizioso e articolato di quella
che sarebbe stata la mostra poi effettivamente realizzata. Nella lettera
del 15 maggio 1979 si legge infatti che essa avrebbe potuto articolarsi
in settori dedicati all’arte, alla grafica, alla fotografia e
all’architettura coprendo l’arco cronologico 1960–1980 che, solo per la
parte dedicata alla moda, avrebbe invece dovuto essere più esteso e
risalire fino al 1945, trattando quindi la produzione dall’immediato
dopoguerra alla stretta attualità.1 In questa lettera il
curatore intendeva soprattutto trasmettere l’intenzione di un progetto
complesso, sulla falsariga delle tre mostre inaugurali Paris–New
York, Paris–Berlin e Paris–Moscou che,
organizzate di concerto dai diversi dipartimenti del Centre Pompidou,
erano fortemente caratterizzate da un approccio pluridisciplinare,
accostando prodotti e opere di ambiti diversi, appunto: dalla moda al
design, dall’architettura alla grafica, e molto altro.2
Celant intendeva cioè da un lato allinearsi a una tendenza curatoriale
che condivideva e, dall’altro, sondare il terreno esprimendo i propri
desiderata, per poi adattarli strada facendo ad una scala
realizzabile. Identité italienne sarebbe poi infatti stata
ridotta all’esposizione delle opere di 18 artisti e ad una mole assai
significativa di documenti (libri, dischi, pagine di giornale e altro
ancora), delegando al catalogo parte della complessità immaginata
all’inizio.3 Questo pur vago e non realizzato
progetto originario permette comunque diverse considerazioni, a partire
proprio dal ruolo guida da subito riconosciuto alla moda. L’estensione
all’indietro dell’arco cronologico è dovuta al ruolo di traino per
l’economia italiana che essa ebbe, insieme all’artigianato del mobile, a
partire dall’immediato dopoguerra, e quindi all’intenzione di
valorizzare un patrimonio storico. Se già nel 1947 Salvatore Ferragamo
era stato insignito del Neiman Marcus award, volgarmente noto
come l’“America’s fashion Oscar”,4 dalla prima sfilata di
Firenze nel 1951 e via via sempre di più, come si vedrà, lo stile
italiano aveva conquistato l’attenzione dei buyers americani, a
parziale discapito dell’haute couture francese.5 La
presenza stessa della moda tra le prime idee di Celant per una mostra
sull’arte e la cultura italiane sembra però avere ragioni soprattutto
curatoriali e strategiche. Certamente egli condivideva l’impostazione
pluridisciplinare del Centre Pompidou, non lontana da quella che aveva
appreso dal suo maestro Eugenio Battisti e dal lavoro alla redazione di
“Marcatré”;6 ma occorre anche tenere conto del
fatto che proprio in quel periodo il comparto della moda conosceva una
nuova significativa espansione. Nel corso degli anni Ottanta, infatti,
il connubio di diversi fattori tra cui il basso livello di cambio della
lira sul dollaro, l’innovazione nei prodotti, la presenza di nuovi
imprenditori e la maggiore propensione da parte di alcuni di essi alla
ricerca di mercati esteri attirò nuovamente l’attenzione internazionale
e determinò una notevole espansione del settore e un incremento delle
produzioni e del giro di affari, tanto che il settimanale inglese
The Economist parlò di una via italiana al capitalismo.7 È in questo frangente che il
Made in Italy si fece latore di un messaggio più ricco e
articolato rispetto a prima e che si diffuse la percezione
dell’industria del design e della moda come un fenomeno tipicamente
italiano e largamente apprezzato.8 Emblematico in questo
senso è il caso di Giorgio Armani: gli abiti maschili che lo resero
famoso — con le giacche destrutturate nell’innovativa tonalità
greige — sono protagonisti di una delle scene più famose di un
film di grande successo come American Gigolo, del 1980;9 due anni prima, lo stesso stilista
aveva vestito Diane Keaton per la cerimonia degli Oscar in cui fu
premiata come miglior attrice per Io e Annie di Woody Allen;
mentre nell’aprile del 1982 il settimanale Time sancì la
definitiva conquista del mercato e del pubblico americani dedicandogli
una copertina destinata a fare epoca, accompagnata dal titolo “Giorgio’s
Gorgeous Style” (Fig. 1).
Il nuovo successo che la moda Made in Italy conobbe negli Stati
Uniti costituì un viatico anche per l’arte contemporanea: l’attenzione
alle produzioni italiane ebbe un riverbero positivo e fu uno dei fattori
che contribuirono, probabilmente, al successo delle cosiddette three
C’s, Chia, Clemente e Cucchi, i tre artisti della Transavanguardia
le cui opere entrarono rapidamente a far parte di importanti collezioni
pubbliche e private. Nella stessa settimana in cui Time dedicò
la copertina ad Armani, apriva al Guggenheim Museum Italian Art Now.
An American Perspective, curata da Diane Waldman, che accostava
esponenti dell’Arte povera e della Transavanguardia ad altri artisti
come Ontani o Pisani. Contemporaneamente le gallerie di Annina Nosei e
Gian Enzo Sperone che esponevano la pittura italiana sembravano quasi
rivaleggiare con i Salle e gli Schabel della Mary Boone Gallery,10 e solo una settimana prima il MoMA
aveva inaugurato un’importante retrospettiva su Giorgio De Chirico che
era, tra l’altro, uno dei punti di riferimento della nuova pittura
italiana.11 Elencando gli episodi citati e
aggiungendo ad essi la visita del Presidente della Repubblica Sandro
Pertini negli Stati Uniti (che poté vedere la mostra di Waldman poco
prima dell’apertura al pubblico), alcuni commentatori parlarono di
“Italian moment” o persino di “Italian invasion”.12
Si erano così create le condizioni per un rinnovato apprezzamento dei
prodotti italiani come forse non succedeva, negli Stati Uniti in
particolare, dagli anni Cinquanta. Germano Celant, che frequentava la
scena artistica americana e dal 1977 era contributing editor di
“Artforum”, ricordava anni dopo di essere rimasto colpito dal forte
impatto che ebbe la copertina del febbraio 1982 dedicata a Issey
Miyake.13 Cogliendo una nuova attenzione
verso le creazioni degli stilisti, dovette probabilmente approfondire un
argomento che non gli era consueto: nella sua biblioteca si trovano
infatti alcuni volumi sulla moda e sui suoi aspetti sociologici e
psicologici, da Psychosociologie de la mode di Descamp a Il
vestito parla di Squicciarino, pubblicati tra il 1979 e il 1986.14 Non sappiamo a quando risalgano
queste letture, ma è facile immaginare un aggiornamento abbastanza
tempestivo, forse ulteriormente sollecitato da alcuni eventi espositivi
che, anche in Italia, evidenziarono l’attualità e l’importanza della
moda, rafforzandone lo statuto disciplinare.15
Tra queste, vale la pena di menzionare almeno Conseguenze
impreviste (Prato, 1982–83) che accostava arte, moda e design dalla
fine degli anni Settanta alla strettissima attualità. Nel catalogo, un
breve testo sul linguaggio artistico firmato da Bonito Oliva metteva
l’accento sull’irrazionalità del gesto artistico e sulla sensualità
della materia, chiarendo come ora prevalesse “il linguaggio
espressionistico”,16 mentre Rossana Bossaglia segnalava
un numero crescente di mostre sulla moda e si interrogava sul rapporto
tra arte e moda e sul valore artistico di quest’ultima, arrivando a
considerare come essa non fosse un’espressione gregaria di stili
elaborati in altri ambiti, ma contribuisse in un rapporto di contiguità
di stimoli a definire lo spirito di un’epoca. I revival che
interessavano il vestiario avevano a suo dire uno statuto non dissimile
a quello delle citazioni della pittura postmoderna, e il confine tra i
due ambiti non era mai stato tanto labile.17
Sembra dunque comprensibile che Celant, capace di lavorare
contemporaneamente su più tavoli, prestasse attenzione a questo
fermento, così sintomatico della cultura degli anni Ottanta, e volesse
includere la moda in un progetto espositivo volto a raccontare l’arte e
la cultura italiane a un pubblico straniero, in una delle istituzioni
più importanti del mondo tra quelle consacrate all’arte
contemporanea.
Anni Ottanta di fermenti e reazioni. La valorizzazione nazionale dalla pittura alla moda, ovvero quando l’Arte povera diventa italiana
Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo si
assistette anche a una generale ripresa della pittura, mai del tutto
dismessa ma certo praticata con minore frequenza nel quindicennio
precedente, e ora tornata più vistosamente protagonista nel panorama
internazionale. È sintomatica una sequenza piuttosto fitta di mostre che
si tennero a New York tra il 1977 e il 1978, come Pattern
Painting al PS1, Bad Painting al New Museum o New
Image Painting al Whitney Museum.18 E
pochi anni dopo anche l’Europa avrebbe visto esposizioni come A New
Spirit in Painting (Royal Academy of Arts di Londra, 1981), che
registrava con un certo entusiasmo la nuova vague pittorica, o
Zeitgeist (Martin Gropius Bau di Berlino, 1982) che poneva
l’accento sulla componente neoespressionista della cosiddetta “Nuova
pittura”.19 In diversi casi, la riscoperta
della pittura portò con sé anche una ripresa di alcuni caratteri più o
meno vistosamente nazionali o riconducibili a tradizioni
nazionali.
In Italia fu la Transavanguardia ad incarnare più efficacemente di altri
questa nuova tendenza, conquistando rapidamente anche l’attenzione del
mercato internazionale. Achille Bonito Oliva, che l’aveva tenuta a
battesimo sulle pagine di “Flash Art”, faceva propria l’espressione
genius loci20 e accompagnava scritti e interviste
con i colori della bandiera italiana (Fig. 2), accusando contestualmente
l’Arte povera di eccessivo internazionalismo e conseguente perdita delle
radici antropologiche profonde.21 Quando, in occasione
di Identité italienne, una bandiera italiana venne fissata alla
facciata del Centre Pompidou (Fig. 3), fu evidente che la mostra
costituiva anche una risposta a questo attacco, funzionale in realtà
alle strategie di entrambi i critici.22
Lasciata libera di sventolare, essa richiamava certamente i vessilli che
si vedono sulle facciate delle istituzioni, e tuttavia poteva avere un
aspetto quasi piratesco: dove uno adoperava la bandiera come copertina
di un libro o escamotage grafico per incorniciare la propria fotografia,
l’altro la esponeva come segnale di una mostra da lui curata in uno dei
templi internazionali dell’arte contemporanea, di recente inaugurazione
e per di più progettato da architetti italiani: se non proprio una
bandiera di “conquista”, certamente un segnale di forza, che si sarebbe
ripetuto, tre anni più tardi, in occasione de Il Modo Italiano,
organizzata dal Los Angeles Institute for Contemporary Art (Fig. 4).23 Pur non avendo trovato immediata
realizzazione, il progetto di una mostra pluridisciplinare, che
comprendesse sì fotografia e architettura — cui era pacificamente
riconosciuto uno statuto artistico — ma anche la moda, sembra rivelare
il desiderio di dare un’immagine dell’Italia non solo come terra di
creatività in diversi settori, ma anche come Paese vivace, capace di
sperimentare e di restare in sintonia con i fermenti internazionali,
quando non di suscitarli. Non si può invece prescindere dal voluminoso
catalogo-cronologia che fa ancora oggi di Identité italienne
una mostra importante che elenca, mese per mese, una serie di eventi
nazionali e internazionali, artistici e non, interpolati da trascrizioni
di articoli o interviste. Senza soluzione di continuità, in quelle
pagine scioperi, attentati e rivoluzioni sono mescolati alle
segnalazioni di mostre e alle pubblicazioni di libri. Ne emerge così,
effettivamente, un’Italia aperta agli scenari internazionali e
fortemente legata — si potrebbe dire quasi crocianamente — alla propria
storia.24 La strategia di Celant si sarebbe
ulteriormente definita tra il 1984 e il 1985 con tre mostre e la
pubblicazione del volume Arte povera. Storie e protagonisti in
cui si legge che “storicizzata e in prospettiva” l’Arte povera “funziona
ancora come ‘conflitto’ contro il ritorno all’ordine della ricerca anni
Ottanta”.25 L’Arte povera era già stata il
cuore pulsante soprattutto di Identité italienne, ma la ripresa
effettiva del termine, accompagnata da un vero e proprio restyling
funzionale al nuovo clima culturale, avvenne con Coerenza in
coerenza. Dall’arte povera al 1984, Del arte povera a 1984
e The Knot. Arte Povera at PS1, che si tennero tra il 1984 e il
1985 rispettivamente a Torino, Madrid e New York.26
L’intento era innanzitutto quello di rafforzare l’immagine di gruppo e
bruciare lo scarto cronologico che separava la stagione poverista dalla
metà degli anni Ottanta, esponendo opere storiche insieme ad altre più
recenti. Se la tappa madrilena fu sostanzialmente un riallestimento
della mostra di Torino con poche variazioni, al PS1 l’anno successivo,
invece, la mostra assunse dimensioni maggiori e si arricchì di un nuovo
significato. Nonostante alcuni artisti avessero già esposto negli Stati
Uniti, l’Arte povera in quanto tale era ancora poco nota al grande
pubblico americano che, adesso, la conosceva non come una poetica fluida
cui potevano aderire di volta in volta artisti parzialmente diversi, non
come un’etichetta elastica a vocazione spesso internazionale e con forti
tangenze col più ampio contenitore della Conceptual art com’era stata
tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, ma come un
gruppo chiuso di dodici artisti27 di cui si
sottolineavano i legami con la cultura italiana. A questo proposito, non
è secondario notare che Celant scelse di ripubblicare sul catalogo di
The Knot la traduzione inglese del testo Per un’identità
italiana che aveva già adoperato in altre occasioni, tra cui
Identité italienne. Con poche modifiche, il saggio che nel 1981
doveva contestualizzare alcuni fatti artistici in relazione alla storia
culturale, sociale e politica italiana veniva qui utilizzato a
corollario della presentazione della sola Arte povera. Se da un lato
The Knot ha quindi notevolmente contribuito a far conoscere in
ambito americano e internazionale i percorsi e le opere di questi
artisti, dall’altro ha però esportato un’idea di Arte povera in un certo
senso addomesticata, italianizzata, epurata dello spirito di
contestazione degli esordi.28 Accostando opere di
periodi diversi, queste tre mostre testimoniavano l’evoluzione di
ciascun artista avvenuta inevitabilmente anche nel confronto con la
nuova pittura e nel panorama artistico della fine dei Settanta e
dell’inizio degli Ottanta in cui continuavano ad agire. Ma se le ragioni
degli artisti sono sfumate e si evincono da scelte poetiche e
linguistiche, quelle del curatore, che si esprime con mostre, saggi o
statement, sono inevitabilmente più brusche e immediate da
cogliere. Nel contesto nazionale e internazionale fortemente mutato era
probabilmente utile per Celant prendere le distanze dai toni combattivi
degli esordi: l’evocazione della guerriglia29
che poteva andare bene alla fine del 1967 e che, anzi, a un mese dalla
morte di Che Guevara era perfettamente sintonizzata con un clima
generale, solo pochi mesi più tardi (già dopo l’attentato di piazza
Fontana) doveva suonare in modo nettamente diverso, e a maggior ragione
è comprensibile che non se ne trovasse più traccia ora, dopo gli anni di
piombo e in pieno riflusso.30 Pochi mesi prima
dell’apertura al pubblico di The Knot si era chiusa a Toronto
The European Iceberg. Creativity in Germany and Italy Today,
curata dallo stesso Celant insieme a Roald Nasgaard dell’Art Gallery of
Ontario. La mostra metteva a confronto le produzioni artistiche,
architettoniche, grafiche e fotografiche dei due Paesi europei in cui la
Nuova pittura era stata particolarmente prolifica, mentre il catalogo
completava l’approfondimento con saggi dedicati anche al cinema, alla
moda e al teatro. Se anche in questo caso sembra evidente un debito nei
confronti delle tre mostre di Pontus Hulten sopra citate — a maggior
ragione per il confronto tra due Paesi — si tratta anche di una prima
parziale ripresa delle intenzioni che Celant aveva espresso nella
lettera del maggio 1979 e che avrebbero trovato più ampia realizzazione
alla metà degli anni Novanta con The Italian Metamorphosis
1943–1968 al Guggenheim Museum di New York.
The Italian Metamorphosis 1943–1968. Il mito rassicurante dell’epoca d’oro
Il 29 novembre 1988 il Guggenheim Museum di New York annunciò che dall’inizio dell’anno seguente Germano Celant si sarebbe unito allo staff del museo “as Curator of Contemporary Art”, spiegando che avrebbe lavorato a diversi progetti speciali, tra cui una mostra sull’arte contemporanea italiana a New York e una sull’arte contemporanea americana presso la Peggy Guggenheim Collection di Venezia. Per questo, si precisava, “Celant will reside in New York and Italy”.31 La mostra d’arte americana a Venezia non venne poi realizzata, mentre quella sull’arte italiana avrebbe disatteso in parte l’annuncio del comunicato stampa poiché, come si vedrà, non si trattava né soltanto di una mostra d’arte, né d’arte contemporanea in senso stretto. The Italian Metamorphosis 1943–1968, che venne inaugurata il 7 ottobre 1994, si articolava infatti in sezioni dedicate oltreché all’arte anche all’architettura, alla fotografia, alla letteratura artistica, al design, al cinema, all’artigianato artistico e, naturalmente, alla moda. I numerosissimi oggetti mantennero la divisione per categorie e furono allestiti nell’Annex, l’espansione del museo voluta dal direttore del Guggenheim Thomas Krens e da poco inaugurata; mentre le opere di appena 23 artisti furono esposte lungo la spirale di Frank Lloyd Wright, costituendo inevitabilmente la parte centrale della mostra. La varietà di oggetti era tale e tanta che in diversi tra gli addetti ai lavori soprannominarono scherzosamente la mostra “The Italian Minestrone”. La critica americana sembrò apprezzare l’estensione della mostra a diversi ambiti, ma qualcuno si rammaricava — come già era avvenuto a Toronto — che gli oggetti esposti fossero divisi per categorie e non riuscissero così a restituire fino in fondo la vivacità e la complessità di un’epoca, mancando di indagare la relazione tra le diverse arti.32 Come si vede, con questa mostra Celant era tornato su un’idea che maturava da oltre un decennio. Le differenze rispetto al progetto inizialmente abbozzato per Identité italienne sono tuttavia numerose e dovute probabilmente soprattutto al tempo trascorso, ma la più interessante è forse quella legata all’arco cronologico: se la mostra del 1981 partiva dal 1959 e arrivava alla stretta attualità, ora si ragionava invece su un periodo più lontano nel tempo, dunque più facilmente storicizzabile, e soprattutto funzionale a un racconto americano, non solo perché prendeva avvio dallo sbarco degli alleati in Sicilia, ma anche perché riguardava il periodo del dopoguerra in cui l’Italia aveva usufruito degli aiuti americani del Piano Marshall e aveva così potuto dare nuova linfa alla propria industria e manifattura, compreso il settore della moda che conobbe nel dopoguerra un’espansione particolarmente significativa. Scrivendo nel saggio introduttivo di una “new renaissance”33 che coinvolge tutti i settori produttivi e in cui il design in particolare “rappresenta una speranza di rifacimento e di rinnovamento mediante gli strumenti dell’industria, vero volano della rinascita di un Paese in fase di modificazione totale”,34 Celant sembra adottare quasi acriticamente la formula particolarmente cara agli americani di una renaissance italiana, nella doppia e volutamente ambigua accezione di rinascita e di Rinascimento, molto utilizzata nel dopoguerra e per tutti gli anni Cinquanta, ma con radici assai più antiche. Gli studi dimostrano infatti che il Rinascimento venne utilizzato come stile unificante per rappresentare e promuovere l’immagine dell’Italia ancor prima della sua effettiva unificazione politica e sostanzialmente fino ai giorni nostri senza soluzione di continuità, attraversando stagioni e contesti molto diversi tra loro.35 Il mito del Rinascimento come epoca d’oro italiana e l’uso del termine “renaissance” tanto nell’ambito storico artistico quanto in quello commerciale crebbe, in particolare negli Stati Uniti, proprio nel periodo preso in considerazione dalla mostra di Celant al Guggenheim. È il caso, per esempio, di Twentieth–Century Italian Art curata da Alfred Barr e James T. Soby nel 1949 ma ancora frutto delle politiche fasciste36 o, ancor più esplicita nell’evocazione di una “Italian Renaissance”, di Italy at Work. Her Renaissance in Design Today: una rassegna itinerante che fu allestita in ben dodici musei e istituzioni statunitensi tra il 1950 e il 1952 con l’intento di far conoscere il lavoro degli artigiani e dei designer italiani e “contribuire a migliorare la situazione economica di una nazione che lotta per riprendersi dalla guerra”.37 Nei comunicati stampa che accompagnavano questa seconda mostra si parlava esplicitamente di una “rinascita spirituale e industriale” dell’Italia del dopoguerra, raggiunta sotto il governo democratico con gli aiuti economici degli Stati Uniti e si celebrava “l’ingegno italiano, di chi sa lavorare con materie povere e, facendo di necessità virtù, rende il design più accessibile”.38 Nello stesso periodo, i reportage dall’Italia della stampa americana magnificavano l’eleganza di prodotti poveri ma frutto di grande sapienza artigianale come i cappelli di paglia39 e intanto la moda italiana si faceva conoscere nel mondo a parziale discapito di quella francese grazie anche ai prezzi più accessibili.40 Con la complicità di esposizioni e riviste, di una notevole ripresa della diplomazia del commercio, ma anche di collezionisti e dell’azione di conoscitori importanti come Bernard Berenson, si diffuse negli Stati Uniti un gusto particolare per il Rinascimento italiano, naturalmente con tutte le imprecisioni e gli arrotondamenti del caso. Ed è in questo frangente che i due concetti di Rinascimento e rinascita sembrano quasi sovrapporsi, alimentandosi anche di una serie di luoghi comuni legati all’idea di stile ed eleganza innati (in buona parte, a loro volta, retaggio del regime fascista).41 Nel clima di rinascita e riscatto, ma anche di una certa continuità di narrazioni e topoi, nacque — si può dire — la moda italiana: nel 1951 Giovanni Battista Giorgini organizzò a Firenze la prima di una serie di sfilate annuali che, da subito, riscossero grande successo presso i buyers dei department stores americani, tanto da indurre Paris-Presse a titolare in proposito “La bombe de Florence a ébranlé les salons de la haute couture parisienne et menacé son monopole”.42 Il successo fu tale che l’anno seguente si dovette usare la Sala Bianca di Palazzo Pitti per ospitare i buyers e i giornalisti arrivati apposta dagli Stati Uniti: si trattava probabilmente della prima vera e consapevole promozione dell’immagine del Made in Italy. In un contesto in cui il Rinascimento si prestava in modo particolarmente efficace alla promozione dell’immagine italiana, l’ambientazione fiorentina di queste sfilate giocò evidentemente un ruolo nell’attrarre l’attenzione americana e nel valorizzare le creazioni di moda come frutto dell’equilibrio tra antica sapienza artigiana e gusto moderno, ricalcando lo stereotipo per cui in Italia innovazione e tradizione sono fortemente intrecciate. Nel 1992, per celebrare il quarantesimo anniversario della prima sfilata a Palazzo Strozzi, Pitti Immagine organizzò presso lo stesso Palazzo la mostra La Sala Bianca. Nascita della moda italiana in cui vennero esposti centinaia di modelli dei dieci stilisti che sfilarono nel 1952. L’allestimento, curato da Gae Aulenti e Luca Ronconi, si articolava intorno all’idea del viaggio e della diffusione che queste creazioni rapidamente ebbero, e prese la forma di ambientazioni basate sulle raffigurazioni barocche e settecentesche di America, Europa, Africa e Asia: paesaggi e animali di gesso bianco (palme, elefanti, templi cinesi e così via) costituivano il set su cui erano posizionati manichini con le sembianze degli abitanti dei rispettivi continenti, con indosso le creazioni storiche della moda italiana degli anni Cinquanta, in un allestimento altamente scenografico (Fig. 5). La Sala Bianca, riaperta alla moda per l’occasione, ospitò invece un’antologica di Giorgio Armani (Fig. 6), probabilmente lo stilista italiano allora più conosciuto al mondo. Nel video promozionale e informativo girato per l’occasione, Luigi Settembrini, che coordinava le celebrazioni per il quarantennale della Sala Bianca, spiegava: “Armani non aveva sfilato alla Sala Bianca sotto il suo vero nome e quindi noi abbiamo ritenuto, invitandolo, di completare un ciclo: non sarebbe stata una vera celebrazione del Made in Italy senza Giorgio Armani alla Sala Bianca”.43 Nello stesso video, Germano Celant — che non era direttamente coinvolto nell’organizzazione — alludeva all’esposizione cui stava lavorando a New York e prevista per il 1994, spiegando che la moda sarebbe rientrata nel suo progetto “come momento di questa grande spinta visiva e creativa che è quella dell’identità culturale italiana”.44 L’intera manifestazione del 1992 sembra avere l’obiettivo di riattualizzare il mito della Sala Bianca e in questo sta uno degli aspetti di maggiore consonanza con Celant, il cui progetto espositivo era dedicato alla rinascita dell’Italia del dopoguerra nella quale, come si è detto, la moda aveva avuto una parte significativa. Per la sezione di The Italian Metamorphosis dedicata alle creazioni degli stilisti, scelse così di coinvolgere la squadra che aveva lavorato alla mostra fiorentina esponendo, con un allestimento assai diverso (Fig. 7), una selezione degli abiti presentati a Palazzo Strozzi due anni prima.45 Le ragioni per celebrare, alla metà degli anni Novanta, la stagione che dal dopoguerra avrebbe condotto al boom economico possono essere molteplici. Come si è detto, l’arco cronologico è funzionale a un racconto rivolto al pubblico americano, ma è anche facile, non problematico (appena in tempo per evitare la strategia della tensione inaugurata con piazza Fontana). Nei saggi in catalogo, gli Stati Uniti emergono quasi come demiurgo, o per lo meno come grande facilitatore e legittimatore di una nuova stagione di prosperità, di quella rinascita/Rinascimento raccontata fin da allora e nel solco della quale anche la mostra di Celant si colloca. Gli stessi oggetti esposti non hanno più il carattere di novità degli anni Cinquanta e, anzi, sono ormai molto noti e in certi casi addirittura familiari al pubblico newyorkese: la Vespa, prima di tutto, ma anche le macchine da scrivere Olivetti, la Isetta o la Cinquecento46 (Fig. 8). In un rassicurante solco di continuità, Celant promuoveva così l’arte e la cultura italiane, ma anche il proprio ruolo di curatore internazionale e, ancora, l’Arte povera che, nata sulle pagine di “Flash Art” nel novembre–dicembre 1967, veniva eletta ad apice di questa stagione gloriosa. Il climax eroico si concludeva così, anche visivamente, con alcuni dei capolavori più noti della stagione poverista, dalla Venere degli stracci all’Igloo di Giap, alla sommità della spirale del Guggenheim (Fig. 9). In una trasmissione televisiva dedicata alla mostra, Milly Carlucci chiedeva a Celant “quindi, missione compiuta? Abbiamo conquistato l’America?” per sentirsi rispondere: “dopo che gli americani sono sbarcati sulle nostre coste nel 1943, noi siamo sbarcati sulle loro. Quindi sì: missione compiuta, abbiamo conquistato l’America in pace e creatività”.47 Come si è visto, però, per “conquistare l’America” Celant dovette modellare il proprio progetto su un punto di vista che oggi si definirebbe quasi di auto-orientalismo, cioè che asseconda le aspettative dell’altro su di noi in una situazione di disparità, che assume l’altro come “referente privilegiato” del discorso su sé stessi e sul proprio sistema di valori.48 In questo caso si potrebbe parlare, storpiando la definizione, di “auto-italianismo” che egli ha adottato assecondando l’immaginario di un Paese con un sistema culturale e artistico più potente e che negli anni presi in considerazione dalla mostra non aveva mancato di esercitare la propria influenza sull’Italia, anche dal punto di vista culturale. Ci si potrebbe quasi spingere a considerare che il rapporto tra arte e industria (in particolare della moda e del design) si sia ora invertito. Negli anni Cinquanta, cioè, il Rinascimento era stato la legittimazione culturale trainante e aveva veicolato un’idea di bellezza, eleganza e capacità manuali e progettuali nata in seno alla storia dell’arte e della cultura. Quarant’anni più tardi, dopo che il mito del Made in Italy aveva conosciuto un rinnovato prestigio nel corso degli anni Ottanta e quando si ragionava ormai apertamente di Nation branding,49 era l’industria — della moda, prima di tutto — con i suoi miti glamour ad essere utilizzata come traino per celebrare e glorificare l’Arte povera in un tempio americano dell’arte contemporanea. The Italian Metamorphosis si configura così come il frutto della propria epoca e di un curatore capace di cogliere i segni dei cambiamenti culturali, come pure di cambiare con essi. E se può sembrare esagerato sostenere che qui la stagione della ricostruzione postbellica assurgesse a mito fondativo della nazione, è però certamente vero che l’identità culturale italiana tratteggiata dalla mostra newyorkese era ormai molto lontana da quella che emergeva dalle pagine del catalogo-cronologia di Identité italienne, ancora in certa misura militante e teso a proporre l’immagine di un Paese comprimario nel mondo, aperto a influenze e scambi, ma la cui identità coincideva sostanzialmente con la propria storia. Alle “contraddizioni”50 esposte allora, in una Parigi che conosceva e apprezzava artisti e intellettuali italiani, si preferiva qui il mito rassicurante dell’epoca d’oro. A questo proposito, cogliendo perfettamente lo slittamento, Benjamin Buchloh poteva commentare dalle pagine di “Artforum”:
History does not seem to be the subject anyway: how else would we explain the fact that a catalogue weighing eight pounds contains hardly any younger (or older) Italian scholars’ and historians’ critical or scholarly work on the extraordinary history and art of postwar Italy, but endless pages of fashion and Ferragamo shoes?51
In tutta evidenza, la moda fu in questa occasione un’alleata fondamentale e il ruolo strategico che ebbe allora nel promuovere l’immagine e la cultura italiane negli Stati Uniti sarebbe stato riconfermato pochi anni più tardi, ancora al Guggenheim, da un’importante retrospettiva dedicata proprio a Giorgio Armani, in occasione dei suoi venticinque anni di carriera, e ancora curata da Celant, insieme ad Harold Koda (Fig. 10).52 Senza che ci sia più nemmeno bisogno di esplicitarlo, lo stilista è descritto nelle pagine introduttive come un campione di italianità: naturalmente capace di intrecciare innovazione e tradizione e di tenere insieme gli opposti (maschile e femminile, est e ovest, local e global). A questo si aggiunge il riconosciuto merito di aver interpretato tempestivamente fermenti e cambiamenti sociali, dal prêt-à-porter alla donna lavoratrice, che lo tratteggia come un rivoluzionario del settore, capace di influenzare produzioni e percezioni della scena internazionale.53 Se il direttore del museo metteva questa mostra in relazione al nuovo corso attento alla cultura materiale, intrapreso a partire dagli anni Novanta54 — corso cui appartiene, tra le altre, anche The Italian Metamorphosis — per Celant si trattava probabilmente, ancora, di proporre un’immagine dell’Italia quanto più possibile internazionale55 e in questo, più che in altro, sta un’effettiva continuità nel suo percorso qui brevemente tratteggiato, almeno dal 1981. “Dal mio punto di vista, la moda è interessante innanzitutto perché partecipa alla storia della visività, dei colori, della plastica, del corpo. L’avvio della moda italiana è un momento immediatamente internazionale, perché tutta la cultura italiana a quell’epoca è internazionale” diceva infatti nel 1992, quando spiegava le ragioni per includere la moda nel proprio progetto espositivo per il museo newyorkese.56
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Su queste mostre si veda: Bernadette Dufrêne, La création de Beaubourg (Grenoble: PUG–Presses Universitaires de Grenoble, 2000).↩︎
Maria Grazia Messina, “Identité italienne a Parigi, Centre Pompidou, 1981: le ragioni di un catalogo,” Palinsesti, 4 (2014): 1–20; Silvia Maria Sara Cammarata, “Identité italienne 1981. Storia e significati di una mostra,” L’Uomo Nero, 17–18 (2021): 280–349.↩︎
Luigi Settembrini, “From Haute Couture to Prêt-à-Porter,” in The Italian Metamorphosis 1943–1968, catalogo della mostra, a cura di Germano Celant (Roma: Progetti Museali Editore, 1994), 482–494; si veda anche: Guido Vergani, “Cronaca di una vita e di un lavoro,” in I protagonisti della moda. Salvatore Ferragamo (1989–1960), catalogo della mostra, a cura di Kirsten Aschengreen Piacenti, Stefania Ricci, Guido Vergani (Firenze: Centro Di, 1985), 15–28.↩︎
Carlo Marco Belfanti, Storia culturale del Made in Italy (Bologna: Il Mulino, 2019).↩︎
Germano Celant, The Story of My Exhibitions (Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2021), 448; Raffaele Bedarida, Exhibiting Italian Art in the United States from Futurism to Arte Povera ‘Like a Giant Screen’ (London–New York: Bloomsbury, 2022), 175–179.↩︎
Rinaldo Gianola, “Design e moda, motori d’Italia,” in Made in Italy?, catalogo della mostra, a cura di Luigi Settembrini (Milano: Skira, 2001), 100–103.↩︎
Gianola, “Design e moda,” 100; Belfanti, Storia culturale del Made in Italy, 9–11.↩︎
Fabriano Fabbri, La moda contemporanea, II (Torino: Einaudi, 2021), 235.↩︎
Furio Colombo, “Avanguardie rivali a New York,” La Stampa (25 aprile 1982). Guggenheim Archives, coll. A0003, box 1328, folder 2–5, press review.↩︎
William Rubin, a cura di, De Chirico (New York: The Museum of Modern Art, 1982).↩︎
Pasquale Chessa, “Poi l’America disse: appendiamoli al muro!,” L’Europeo (10 maggio 1982). Guggenheim Archives, coll. A0003, box 1328, folder 2–5, press review; Giovanni Russo, “Pertini ai giovani USA: ‘Difendete la libertà, costi quel che costi’,” Corriere della sera (1 aprile 1982). Guggenheim Archives, coll. A0003, box 1328, folder 2–5, press review; http://www.centrosandropertini.it/cesp21-chisiamo/AttPertAlPresUSA1982-01.htm, consultato il 2 marzo 2023. È in questo clima che, quattro anni più tardi, Madonna sfoggerà la t-shirt con la scritta “Italians do it better” nel video di Papa don’t preach.↩︎
Germano Celant, “Il giardino della moda e delle arti,” in B ’96 Il tempo e la moda, catalogo della mostra, a cura di Luigi Settembrini (Milano: Skira, 1996), 13–23. Si veda anche Fabbri che spiega una certa consonanza tra il Celant degli esordi e le scelte di Miyake: Fabbri, La moda contemporanea, II, 279.↩︎
I volumi sono: Marc-Alain Descamps, Psychosociologie de la mode (Paris: Presses Universitaires de France, 1979); Eugénie Lemoine-Luccioni, La robe. Essay Psychanalitique sur le vêtement (Paris: Édition de Suil, 1983); Philippe Perrot, Le travail des apparences ou les transformations du corps feminin XVIII–XIX siècle (Paris: Édition de Suil, 1984); Nicola Squicciarino, Il vestito parla. Considerazioni psicosociologiche sull’abbigliamento (Roma: Armando Editore, 1986). Devo queste indicazioni a Marcella Martin, dottoranda del dipartimento di Italian Studies presso la New York University, che ringrazio. Almeno dal 1984 al 1992 Celant inoltre fu consulente del presidente del Gruppo Finanziario Tessile Marco Rivetti. Si veda: Giulia Caffaro, Le strategie di comunicazione del Gruppo Finanziario Tessile, tesi di Dottorato, Università di Bologna Alma Mater Studiorum, a.a. 2020–2021.↩︎
Gabriele Monti, “Moda, curatela, museo: un dibattito lungo un decennio, un decennio lungo quarant’anni,” ZoneModa Journal, 9.1 (2019), 61–89.↩︎
Achille Bonito Oliva, “Intrecci,” in Conseguenze impreviste. Arte, moda, design: ipotesi di una nuova creatività in Italia, catalogo della mostra, a cura di Achille Bonito Oliva, Rossana Bossaglia, Alessandro Mendini, I, (Milano: Electa, 1982), 11–13.↩︎
Rossana Bossaglia, “Arte e moda: qualche riflessione,” in Conseguenze impreviste, II, (Milano: Electa, 1982), 9–13.↩︎
Gianfranco Maraniello, “Pittura e scultura degli anni ’80,” in Arte contemporanea. Le ricerche internazionali dalla fine degli anni ’50 a oggi, a cura di Francesco Poli e Francesco Bernardelli (Milano: Electa, 2003), 222–247.↩︎
Christos M. Joachimides, Norman Rosenthal, Nicholas Serota, a cura di, A New Spirit in Painting, catalogo della mostra (London: Royal Academy of Arts, 1981); Christos M. Joachimides e Norman Rosenthal, a cura di, Zeitgeist, catalogo della mostra (Berlin: Verlag Frölich & Kaufmann, 1982).↩︎
Teorizzata da Christian Norberg-Schulz: Christian Norberg-Schulz, Genius Loci. Paesaggio Ambiente Architettura (Milano: Electa, 1979).↩︎
Achille Bonito Oliva, “La trans-avanguardia italiana,” Flash Art, 92–93 (ottobre–novembre 1979): 17–20; Denis Viva, La critica a effetto: rileggendo la trans-avanguardia italiana (1979) (Macerata: Quodlibet, 2020).↩︎
Viva, La critica a effetto, 24–28.↩︎
Germano Celant, a cura di, Il Modo Italiano, catalogo della mostra (Los Angeles–Torino: LAICA ed., 1984).↩︎
Messina, “Identité italienne a Parigi,” 1–20.↩︎
Germano Celant, “Cercando di uscire dalle allucinazioni della storia,” in Germano Celant, Arte povera. Storie e protagonisti (Milano: Electa, 1985), 17.↩︎
Germano Celant, a cura di, Coerenza in coerenza. Dall’arte povera al 1984 (Milano: Arnoldo Mondadori, 1984); Germano Celant, a cura di, Del arte povera a 1984 (Madrid: Ministerio de Cultura, 1985); Germano Celant e Ida Gianelli, a cura di, The Knot. Arte Povera at PS1 (New York–Torino: PS1, The Institute for Art and Urban Resources–Allemandi, 1985). Sulle tre mostre e sulla prima in particolare si veda: Silvia Maria Sara Cammarata, “Arte povera 1984. Quali opere e quali premesse,” in Inside the Exhibition. Temporalità, dispositivo, narrazione, a cura di Gloria Antoni, Matteo Chirumbolo, Gianluca Petrone, Célia Zuber (Roma: Artemide, 2022), 133–148.↩︎
Maddalena Disch, “Process art e arte povera,” in Arte contemporanea. Le ricerche internazionali dalla fine degli anni ’50 a oggi, a cura di Francesco Poli e Francesco Bernardelli, 122–149.↩︎
Sharon Hecker e Marin R. Sullivan, “Introduction” in Postwar Italian Art History Today. Untying ‘the Knot’, a cura di Sharon Hecker e Marin S. Sullivan (New York: Bloomsbury Visual Art, 2018), 1–18.↩︎
Germano Celant, “Arte povera. Appunti per una guerriglia,” Flash Art, 5 (novembre–dicembre 1967): 5.↩︎
Nicholas Cullinan, “From Vietnam to Fiat-nam: the Politics of Arte Povera,” October, 124 (spring 2008): 10–30.↩︎
Guggenheim Museum Archives, Department of Public Affairs press releases, A0035, Box 576, Press release “Italian Curator Germano Celant Joins the Guggenheim Museum”, 29 novembre 1988.↩︎
Michael Kimmelman, “From Postwar Italy, With Style,” The New York Times. Weekend (7 ottobre 1994), C1, C30.↩︎
Germano Celant, “Reasons for a Metamorphosis,” in The Italian Metamorphosis, 1943–1968, catalogo della mostra (New York: Guggenheim Museum Publications, 1994), XIX. Nella versione italiana del testo è tradotto in “nuovo rinascimento”.↩︎
Germano Celant, “Le ragioni di una metamorfosi,” in The Story of My Exhibitions, 503.↩︎
Belfanti, Storia culturale del Made in Italy, 25–64; Dellapiana, Il design e l’invenzione del Made in Italy, 11–74.↩︎
Raffaele Bedarida, “Operation Renaissance: Italian Art at MoMA, 1940–1949,” Oxford Art Journal, 35 (2012): 147–169; Silvia Bignami e Davide Colombo, “Alfred H. Barr, Jr. and James Thrall Soby’s Grand Tour of Italy” Italian Modern Art, 3 (gennaio 2020), https://www.italianmodernart.org/journal/articles/alfred-h-barr-jr-and-%20james-thrall-sobys-grand-tour-of-italy, consultato il 2 marzo 2023.↩︎
Brooklyn Museum Archives, Press release n. 129 del 1949 in Records of the Department of Public Information. Press releases, 1947–1952. 10–12/1949, https://www.brooklynmuseum.org/opencollection/exhibitions/859, consultato il 19 aprile 2022.↩︎
Brooklyn Museum Archives, Press release n. 95 del 1950 e n. 132 non datato, entrambi in Records of the Department of Public Information. Press releases, 1947–1952. 10–12/1950, https://www.brooklynmuseum.org/opencollection/exhibitions/859, consultato il 2 marzo 2023. Su Italy at Work si veda anche: Dellapiana, Il design e l’invenzione del Made in Italy, 125–135.↩︎
Dellapiana, 87–97.↩︎
Settembrini, “From Haute Couture to Prêt-à-Porter”, 486.↩︎
Claudio Fogu, The Historic Imaginary. Politics of History in Fascist Italy (Toronto: University of Toronto Press, 2003), 203–206.↩︎
Prima pagina di Paris-Presse, VII, n.2064 (6 agosto 1951). Giorgini aveva organizzato una manifestazione meno imponente l’anno prima in casa propria, il successo della quale fu determinante per quello alla Sala Bianca del 1952; Giannino Malossi, a cura di, La Sala Bianca. Nascita della moda italiana, catalogo della mostra (Milano: Electa, 1992).↩︎
Il video è disponibile presso l’archivio di Pitti Immagine a Firenze. Ringrazio Aurora Fiorentini che lo ha condiviso con me.↩︎
Ibid.↩︎
Conversazione con Aurora Fiorentini, 17 maggio 2023.↩︎
Dellapiana, 249–255.↩︎
Grandi mostre live. The Italian Metamorphosis. Alla conquista dell’America, programma televisivo andato in onda su Rai Uno il 27 luglio 1995 e consultabile presso le sedi delle Teche Rai.↩︎
Flavia Monceri, Altre globalizzazioni. Universalismo liberal e valori asiatici (Soveria Mannelli: Rubbettino Editore, 2002), 233–246; Viva, La critica a effetto, 90–91.↩︎
Melissa Aronczyk, Branding the Nation. The Global Business of National Identity (New York: Oxford University Press, 2013).↩︎
Germano Celant, “Pour une identité italienne,” in Identité italienne. L’art en Italie depuis 1959, catalogo della mostra, a cura di Germano Celant (Firenze: Centro Di, 1981), 6.↩︎
Benjamin Buchloh, “Focus: ‘The Italian Metamorphosis 1943–1968’,” Artforum (gennaio 1995): 82–83, 109.↩︎
Germano Celant e Harold Koda, a cura di, Giorgio Armani, catalogo della mostra (New York: Guggenheim Museum Publications, 2000).↩︎
Germano Celant, “Giorgio Armani: Toward the Mass Dandy,” in Giorgio Armani, 2000, XIV–XXIII.↩︎
Thomas Krens, “Preface And Acknowledgments,” in Giorgio Armani, VII–X.↩︎
La mostra riscosse notevole successo e divenne a lungo itinerante (Bilbao, Berlino, Londra, Roma, Shanghai, Tokyo) per approdare nel 2007 alla Triennale di Milano.↩︎
Video già citato, Archivio Pitti Immagine, Firenze.↩︎