Dai sistemi di abbigliamento Dressing Design (1970–1972) e Vestire è facile (1973) di Archizoom Associati alla Unisex Transformable Collection #6 (P/E 2011) di Rad Hourani, passando per il metaprogetto Il Manto e la Pelle (1973) di Nanni Strada e Clino Trini Castelli, la Ice Jacket (1987) di Stone Island, la Goggle Jacket (1988) di C.P. Company, la collezione One Hundred and Eleven (P/E 2007) di Hussein Chalayan, il progetto Pyrex Vision (2012) di Virgil Abloh, fino alla digital fashion house The Fabricant fondata nel 2018, esiste un minimo comune denominatore. Si tratta della moda degli abiti trasformabili che ha comportato la sperimentazione di strutture, materiali, morfologie, caricandosi di significati differenti a mano a mano che, dalla seconda metà del Novecento, è entrata in dialogo con le riflessioni sulla funzionalità, sulla fluidità di genere, sulla sostenibilità, sulla virtualità. Tuttavia, se i progetti, le collezioni, i singoli pezzi d’abbigliamento elencati, compresa la recente casa di moda digitale, sono stati oggetto di specifici approfondimenti, è decisamente più arduo imbattersi in studi dedicati all’aurorale diffusione di abiti trasformabili tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo.
Ed è proprio questa lacuna che intende colmare il saggio, pubblicato da Marsilio nel 2022, Indossare la trasformazione. Moda e modernismo in Italia di Alessandra Vaccari, Professoressa associata presso l’Università Iuav di Venezia, dove svolge attività di ricerca e insegnamento nell’ambito della Storia e teoria della moda. Obbiettivo che l’autrice ha perseguito con costanza nell’arco di un decennio, portando avanti un’articolata indagine interdisciplinare sostenuta da una pluralità di fonti, conservate presso musei, biblioteche, università, archivi pubblici e privati sia italiani sia esteri. Degni di nota sono, in questa direzione, i riferimenti puntuali ad articoli e illustrazioni tratti da riviste di moda, testi e opere delle Avanguardie artistiche, ritratti fotografici e filmati del cinema degli esordi, che puntellano un ragionamento complesso quanto originale, accompagnando chi legge alla scoperta della fascinazione modernista per questa famiglia di abiti, portavoce di valenze culturali, estetiche, sociali e politiche, prima ancora che funzionali, come ben si evince dall’analisi di tre figure dell’epoca. Vaccari eleva infatti a casi studio Leopoldo Fregoli (1867-1936), Rosa Genoni (1867-1954) e Filippo de Pisis (1896-1956), testimoni di come gli abiti trasformabili — indossati pubblicamente da tutte e tre le figure, sebbene in ambiti culturali differenti — abbiano soddisfatto molteplici esigenze di cambiamento, metamorfosi e reinvenzione del sé in un periodo storico parimenti segnato da profondi mutamenti.
Seguendo l’ordine stesso della scansione in capitoli del volume, passiamo dunque a illustrane i contenuti cardine. Vaccari apre il saggio con un capitolo metodologico, che accoglie un’articolata riflessione di carattere storico-critico sul nesso trasformazione, moda e modernismo, delineando così la cornice in cui si innesta l’originale analisi della diffusione sul territorio italiano di abiti trasformabili negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento. Da annoverare tra gli aspetti più significativi indagati nel volume, vi è l’intento di sottolineare come questi abiti abbiano contribuito all’esperienza della modernità, di cui incarnano ideali e istanze, visioni e valori, illuminando desideri di identità sociali nuove e flessibili. Occorre infatti precisare che lo scopo dell’autrice non sia quello di inquadrarli dal punto di vista del design. L’interesse verte piuttosto sugli abiti trasformabili quali paradigma di cambiamento e dinamismo, contribuendo in maniera incisiva alla riflessione in corso sull’esistenza di una moda modernista, di cui tale famiglia vestimentaria è, come l’autrice mette acutamente in luce, esempio emblematico. Sulla scorta delle teorie emerse nell’ambito dei Gender and Feminist Studies, gli abiti al centro dell’indagine sono, inoltre, osservati alla luce del concetto di “performatività”. Un approccio che ha permesso ad Alessandra Vaccari di concentrarsi sull’esperienza del vestire, osservando come gli abiti trasformabili interagiscano con corpo e identità di chi li indossa.
Oltre a indagare il trasformismo illusionista di Leopoldo Fregoli, gli “abiti a sorpresa” del Futurismo e il rapporto che la moda, intesa come paradigmatico motore di trasformazione, intrattiene con il cinema delle origini, il secondo capitolo accende i riflettori sulla pratica di ammodernamento dei capi d’abbigliamento, all’epoca particolarmente diffusa, inquadrandola come “il grado fondamentale dell’abito trasformabile” (p. 63). Una pratica di cui l’autrice trova riscontro nelle riviste femminili d’inizio secolo, inclini a fornire istruzioni tecniche particolareggiate per aggiornare il guardaroba delle signore e, dunque, per rimodernare i capi in accordo con le ultime novità in fatto di stile. La spinta alla trasformazione dell’abito come pratica modernista è, inoltre, posta in relazione all’industrializzazione del processo produttivo della moda. In questo caso, i capi standardizzati, proposti dalla moda semi confezionata, presentano elementi trasformabili al fine di sopperire alle carenze di un sistema di taglie embrionale, favorendo così la personalizzazione e l’adattamento dei modelli a tipologie di corpo differenti. Tuttavia, l’autrice individua con acume un secondo grado, più complesso, dell’abito trasformabile, strettamente connesso all’emersione di nuove soggettività e alla spettacolarizzazione della realtà. Sono esemplificative, in questo senso, le performance teatrali e cinematografiche di Leopoldo Fregoli, attore, cantante, illusionista e regista italiano, divenuto celebre in Europa e America sul finire dell’Ottocento grazie alla straordinaria abilità di interpretare molteplici personaggi cambiando costume in tempi assai brevi. Gli abiti trasformabili, sia quelli messi a disposizione dal mercato sia quelli creati ad hoc, sono infatti un elemento centrale dei cosiddetti spettacoli à transformations del teatro di varietà, che Fregoli ha sfruttato con maestria, sia nelle pièce teatrali, sia nei filmati proiettati in chiusura delle stesse. Oltre a quelli dei fratelli Lumière, era solito mostrare in scena brevi film, realizzati al fine di documentare, mediante la nuova immagine in movimento, il proprio repertorio di attore camaleontico, talvolta ponendo in luce la spettacolarità degli abiti trasformabili fino a svelarne il funzionamento. Pellicole, queste, che hanno supportato Vaccari nel richiamare l’attenzione sul ruolo di primo piano ricoperto da tali abiti nell’attività trasformativa dell’attore oltre che per riflettere sulle relazioni moderniste tra moda e costumi di scena, sia teatrali sia cinematografici.
Imperniato attorno a Rosa Genoni, creatrice di moda, femminista e attivista italiana, il terzo capitolo ha invece il pregio di sottolineare come l’abito, in questo caso quello trasformabile, possa agire attivamente nei processi di costruzione identitaria. L’accento è posto su “abiti trasformabili progettati per cambiare intrinsecamente di aspetto a seconda del modo in cui sono indossati” (p. 11). In questa direzione, la figura di Genoni è analizzata in relazione a un modello di abito spiccatamente popolare quanto anticonvenzionale, emblema di una moda riformata e “proto-razionalista”, che intende liberare il corpo dalle costrizioni ottocentesche, rispettando le esigenze di “mobilità” della donna moderna. Si tratta del cosiddetto abito-mantello “Tanagra”, che Genoni disegna e indossa pubblicamente in occasione del Primo Congresso nazionale delle donne italiane, tenutosi a Roma nel 1908. In sintonia con la moda internazionale e con la ricerca d’avanguardia, in particolare quella futurista, secondo Alessandra Vaccari “Tanagra” condensa “i precetti modernisti del dinamismo e gli ideali di ammodernamento dei ruoli femminili” (p.121). In altre parole, il desiderio di autoaffermazione — come creatrice, teorica e pioneristica promotrice di una moda italiana svincolata dalla sudditanza rispetto alla moda francese, oltre che come femminista e attivista per i diritti delle lavoratrici — è materializzato da Genoni attraverso tale modello trasformabile e multiforme, in grado di incarnarne gli ideali di dinamismo, flessuosità e magrezza, peculiari della visione modernista della femminilità. L’abito-mantello “Tanagra” è, in definiva, un chiaro esempio di come questa famiglia vestimentaria abbia offerto — scrive l’autrice — uno “spazio di trasformazione personale” (p.121). Trasformazione resa ancora più evidente dall’analisi del terzo caso studio.
Al centro del quarto e ultimo capitolo vi è, infatti, lo scrittore e pittore italiano Filippo de Pisis (1896–1956), caso emblematico di come l’abito sia in grado di favorire un atto performativo e generativo del soggetto. In particolare, il focus della riflessione si sposta dalla performance degli abiti trasformabili a una performatività di genere che sfuma i confini interspecie, tra umano e vegetale, attraverso una sofisticata “poetica floreale” che coinvolge anche la performance vestimentaria. Nel quadro dell’elaborazione di un’estetica del vestire maschile che rispecchi la soggettività del singolo — rispetto a cui progetta finanche un libro incompiuto, intitolato Dell’eleganza — de Pisis intreccia il gusto per gli abiti fané, logori e consunti, peculiare del dandismo ottocentesco, con l’arte di indossare il fiore all’occhiello, un “elemento — scrive l’autrice — che si presta a ricucire le spaccature tra guardaroba maschile e femminile, in una prospettiva di fluidità di genere” (p. 174). Intreccio che, contrastando l’omogeneità di stile proposta dalla moda, si presta altresì a sostanziare un “anti-eroismo queer e provocatorio”, in aperta opposizione alla coeva retorica fascista dell’uomo virile e dominatore, dove l’elemento floreale diviene “centrale per la trasformazione dell’abito e della soggettività” (p. 180).
In definitiva, bisogna plaudere a un progetto che ha riposizionato l’attenzione sulle origini di questa famiglia di abiti, ancora di grande attualità, ponendone in luce non solo la funzionalità, ma soprattutto la complessità delle implicazioni culturali, sociali, politiche ed estetiche che derivano dall’interazione del soggetto con essa, ieri come oggi.