Introduzione
È la primavera del 1970 a Roma, nel giardino dello studio dell’artista Pietro Consagra. A sinistra, seduta su una struttura in legno, vi è l’artista trapanese Carla Accardi, che dalla fondazione del collettivo artistico marxista e formalista Gruppo Forma 1 nel 1947 insieme a colleghi quali Consagra, Turcato, Sanfilippo ed altri, si è concentrata sulle proprietà estetiche del segno, prima su tela, poi attraverso nuove esplorazioni scultoree e spaziali in sicofoil. Indossa una gonna e un cardigan di lana della stessa fantasia a quadri, e sotto, un golf con dettagli a rombi; ai piedi, scarpe basse di pelle discrete ma eleganti. Seduta su una sedia a destra della fotografia vi è la giornalista italo-eritrea Elvira Banotti che solo un anno prima, nel programma L’ora della verità, aveva accusato il collega Indro Montanelli di aver comprato come sposa una bambina etiope di dodici anni durante la campagna coloniale fascista, fatto che egli aveva liquidato con un autoindulgente “Scusatemi, ma in Africa è un’altra cosa”, palesando le iscrizioni del colonialismo italiano sui corpi delle donne della popolazione vinta.1 Banotti indossa una camicia scura sotto un cardigan smanicato, una gonna a fantasia Principe di Galles e scarpe con il tacco basso in pitone. Fra le due, assorta in un pensiero, vi è la critica d’arte fiorentina Carla Lonzi, allieva di Roberto Longhi e reduce dalla pubblicazione del libro Autoritratto.2 Indossa una camicia a righe verticali, pantaloni di pelle e stivali bassi. Rispetto alle amiche, ha un abbigliamento senz’altro più spartano.
Quella fotografia (Fig.1) sancisce la nascita di Rivolta Femminile, uno dei gruppi femministi più famosi, complessi e mitizzati della storia del neofemminismo italiano. Ma di questa storia, perché concentrarsi proprio sui vestiti? Tale quesito emerge alla luce di una serie di contraddizioni che hanno a che fare con l’immagine di sé e dell’altra, la possibilità per le donne di concepire l’abbigliamento a partire da sé in quanto esperienza profondamente corporea e dunque politica, e l’interpretazione della moda come l’incarnazione dello sguardo maschile o come roba da donne a seconda dei punti di vista.
Per via della radicalità del suo pensiero, Carla Lonzi è un’autrice che riemerge ciclicamente dalla storia carsica del femminismo ad ispirare nuove generazioni di donne. Sia nella critica d’arte,3 innovata attraverso l’uso del magnetofono, alla ricerca di un rapporto diretto con l’artista e dunque contro la critica d’arte come strumento di classificazione degli artisti e delle correnti, fino al femminismo,4 dove ha trovato la sua “festa”,5 la figura di Carla Lonzi è stata studiata da ogni angolazione. Un lato che di lei è poco investigato, probabilmente perché reputato di scarso interesse rispetto al suo pensiero, è il suo rapporto con l’abbigliamento e con la sua immagine. Su di lei pare esservi un diniego della corporeità al di là dello stretto tema del femminismo, che sembra connaturato all’avversione del femminismo verso l’abbigliamento e la moda.
Di Lea Vergine ricordiamo vividamente il caschetto con la candida ciocca di capelli sul davanti, nella tarda età coperto da eccentrici turbanti e cappelli a falda larga, la camicia bianca, l’infinita sigaretta fra le dita. Il guardaroba di Palma Bucarelli è così ricco da avere assunto un inestimabile valore storico, e per questo è conservato al Museo Boncompagni-Ludovisi di Roma. Di Marisa Volpi si ricorda la predilezione per le spalline ad enfatizzare il lungo collo, silhouette che viene ripresa nella foto di copertina della sua raccolta di racconti Congedi,6 i capelli corti e i grossi occhiali da vista. Di Carla Lonzi, invece, non si ricorda uno stile preciso o un elemento della sua persona che sia stato trasformato in simbolo. Tuttavia, quasi tutti i suoi scritti sono corredati da un apparato fotografico che spesso interagisce con il testo, dove l’autrice è ben visibile in gesti di vita quotidiana, spesso in compagnia dei suoi affetti, degli artisti con i quali ha dialogato nella sua professione di critica, o delle compagne di Rivolta, ed è proprio in questi passaggi che diventa interessante andare a scoprire come la sua riflessione teorica e politica si combini con il suo personale rapporto con l’abbigliamento.
Dunque, questo articolo mira a ricostruire l’armadio di Carla Lonzi intrecciando l’abbigliamento narrato nei suoi libri con l’abbigliamento indossato visibile attraverso le molteplici fotografie sparse qua e là per i testi, nonché disponibili nell’archivio della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma e nell’Archivio Pietro Consagra di Milano, in modo da comprendere la relazione che la critica d’arte e pensatrice femminista ha intessuto con i vestiti e il valore che essi hanno assunto nell’analisi che lei ha fatto di sé nella sua scrittura autocoscienziale.
Moda e femminismo: una relazione possibile?
Come affermato da Monica Titton, da alcuni anni a questa parte, battaglie politiche come il femminismo sono diventate un trend di moda.7 Soprattutto a causa di una crescente legittimazione di istanze neofasciste e neoconservatrici nell’ambito della politica istituzionale a spese di diritti politici e civili che si consideravano ormai garantiti, il sistema della moda si è sentito in dovere di promulgare e ribadire messaggi di progresso e sostegno alle cause femministe, antirazziste, queer e ambientaliste: ne è un esempio l’estetica fluida di Alessandro Michele, che negli anni della direzione creativa di Gucci ha arricchito le sue collezioni con citazioni che andavano dalla filosofia politica alle teorie queer (da Hannah Arendt a Paul B. Preciado, passando per Michel Foucault, Donna Haraway e Judith Butler), fino a rievocare esplicitamente la lotta femminista italiana degli anni Settanta con la collezione Resort del 2020, dove riferimenti al paganesimo si alternavano a ricami e stampe che ricordavano il femminismo della differenza sessuale e la data dell’approvazione della legge 194 per l’interruzione volontaria di gravidanza.8 Esempio più vistoso, e certamente più controverso, è quello di Maria Grazia Chiuri che, in quanto prima direttrice creativa di Dior, un marchio storicamente guidato da uomini, fin dalla sua prima collezione ha fatto del femminismo un elemento fondante della sua visione estetica e politica, come dimostrato dalle t-shirt con gli slogan “We Should All Be Feminists” e “Sisterhood is Global”. Inoltre, ha collaborato con famose artiste femministe come Judy Chicago, Tomaso Binga e Niki de Saint Phalle, arrivando a citare esplicitamente il lavoro di Carla Lonzi mediante l’arte di Claire Fontaine.9 Il duo artistico italo-francese si è infatti da sempre ispirato a Carla Lonzi,10 e per la sfilata Autunno/Inverno 2021 ha ideato una serie di installazioni al neon, fra le quali spicca la scritta “We Are All Clitoridian Women”; nella stessa collezione, è stata presentata la t-shirt “I say I”, che riporta fedelmente il titolo del secondo Manifesto di Rivolta Femminile “Io dico io”, del 1977.11 Nonostante la ricca bibliografia femminista che Chiuri ha costruito negli anni attraverso le sue collezioni, Titton ha evidenziato una vistosa incongruenza fra i messaggi di emancipazione femminile lanciati dalle magliette slogan e dal set design delle sfilate, e un abbigliamento che ancora si rifà allo stile piuttosto tradizionalista di Christian Dior, esotizzando nel frattempo in maniera problematica le maestranze straniere con le quali il marchio collabora,12 facendo risultare il femminismo di Chiuri un’operazione di brand activism e di acritico multiculturalismo.
Quella tra moda e femminismo è una relazione così complicata da risultare fondamentalmente irrisolvibile: se da una parte la moda è sempre stata considerata dalle femministe uno strumento attraverso il quale il patriarcato capitalista assoggetta le donne, “ideali soggetti di consumo”,13 vendendo loro tipizzazioni rassicuranti e inoffensive di femminilità (basti pensare all’emblematica dichiarazione contenuta nel Manifesto di Rivolta Femminile del 1970: “L’immagine femminile con cui l’uomo ha interpretato la donna è stata una sua invenzione”,14 e la moda degli stilisti uomini lo ha spesso dimostrato), dall’altra parte è innegabile che l’abbigliamento sia un linguaggio che in più occasioni ha espresso istanze di emancipazione e liberazione, com’è innegabile il contributo di molte designers di moda nel rappresentare incarnazioni del femminile ben lontane dallo sguardo e dal desiderio maschili (alcuni esempi sono l’estetica perturbante e surrealista di Elsa Schiaparelli, le sperimentazioni tessili e architettoniche di Cinzia Ruggeri e Nanni Strada, il femminile nevrotico e pasoliniano dell’ugly chic di Miuccia Prada, e il métissage etnico e politico di Stella Jean).
Tuttavia, è proprio la matrice capitalistica della moda, secondo il femminismo di seconda ondata, la questione più problematica: ne è un esempio il dibattito sulla minigonna di Mary Quant, che da capo par excellence della liberazione sessuale, rapidamente finisce per essere criticata in quanto mistificazione dell’istanza liberatoria cooptata dal mercato. Non è un caso che la “midi” degli anni Settanta, ideata dalle case di moda americane come risposta all’ormai troppo polarizzata discussione sulla minigonna, non abbia conosciuto fortuna migliore proprio perché recepita dai movimenti femministi come un ulteriore esempio di politica trasformata in prodotto,15 dove le donne continuano ad essere concepite soltanto come target market privilegiato di un’industria che continuamente sostituisce il vecchio con il nuovo in nome della vanità. Inoltre, come nota Annemarie Strassel, troppo spesso e in maniera fin troppo indulgente la moda di determinate designers ed epoche è stata letta e interpretata come istanza femminista sul versante visivo e simbolico, ovvero sulla sua capacità di approfondire il lessico del femminile, mancando invece di riflettere sulla questione in chiave materialistica per cercare di capire l’impatto che la moda ha avuto sulle vite e sui corpi delle donne.16
Per di più, a partire dagli anni Novanta, in un regime feroce di neoliberismo globalizzato, proprio nel periodo in cui i gender studies e la queer theory si impongono sempre di più nelle aule e nei dipartimenti delle università, il femminismo viene progressivamente cancellato dal dibattito pubblico attraverso l’applicazione del prefisso “post-”, segnalandone il superamento operato attraverso una cultura del consumo che si rivolge in maniera crescente alle ragazze e alle giovani donne (e dove la moda, come la musica e il cinema, gioca un ruolo sostanziale), promuovendo messaggi di successo e di empowerment di stampo individualista.17
In fin dei conti, quello dell’appropriazione delle battaglie politiche da parte del capitale è un problema che le sottoculture giovanili e i movimenti politici degli anni Sessanta e Settanta hanno sofferto fin da subito: come chiaramente esposto da Angela McRobbie, nonostante le sottoculture esprimessero dei modi alternativi di pensare il sé rispetto all’ideologia dominante (soprattutto di pensare il femminile,18 nonostante la partecipazione delle ragazze alle sottoculture sia passata a lungo inosservata19), esse hanno sin dall’inizio costituito un modello di consumo attraverso il quale sentire e manifestare l’appartenenza a un gruppo. A differenziarle però dalla cultura dominante (che non ha sprecato troppo tempo a massificarle e addomesticarle in semplici trend per adolescenti) non erano soltanto i riferimenti simbolici o l’estetica, ma anche le modalità attraverso le quali fare moda, abbigliamento e mercato, basandosi sui principi dell’autoproduzione e della seconda mano rivolti a un pubblico solitamente piuttosto circoscritto.20 In aggiunta, spesso le pratiche del riciclo e del riuso, così come quelle del ricamo, del cucito e dell’uncinetto, convenzionalmente legate alla sfera domestica e riemerse con il diffondersi delle sottoculture, sono state risemantizzate in chiave femminista come pratiche artistico-politiche e modalità alternative di produzione dell’abbigliamento al di fuori dei ritmi incalzanti e coercitivi della macchina capitalistica,21 fino a diventare immagini, simboli e metafore utilizzate dalla teoria femminista per esprimere un modo diverso di pensare il sé, l’alterità e la relazionalità. Ne sono un esempio Maglia o uncinetto di Luisa Muraro,22 dove si esplora il complesso legame fra piacere e sapere che si manifesta nel linguaggio, e la suggestiva immagine dell’“armadio della memoria” evocata da Emma Baeri, attraverso la quale si affronta il travagliato rapporto con la figura della madre per le femministe della sua generazione: “Mia madre: cucire insieme frammenti di un suo vecchio vestito con alcuni miei indumenti di neonata e di bambina, con un filo di seta. Costruire un armadio della memoria” .23 Non è un caso che la stessa opera di Carla Lonzi sia spesso raccontata attraverso la metafora tessile: Maria Luisa Boccia ha definito la sua scrittura come “il filo con cui tesse pazientemente ‘i brandelli’ della sua vita”;24 Giovanna Zapperi ha descritto l’apparato iconografico dei suoi libri come “un testo parallelo, intessuto di affettività, di relazioni e di memorie soggettive”;25 infine, secondo Laura Iamurri, Autoritratto è una “tessitura”26 fra le voci degli artisti che sono entrati in dialogo con Carla Lonzi.
La sua è infatti una filosofia della relazionalità, che prende le distanze da qualunque progetto politico esterno al femminismo, in un’ottica separatista che rifiuta ogni forma di negoziazione con l’esterno, come risuona in dichiarazioni quali “La mia avventura sono io”27 e “Comunichiamo solo con donne”.28 Il femminismo al quale Carla Lonzi appartiene è in fin dei conti la risposta ad una certa cultura della Sinistra italiana sugli strascichi del Sessantotto, sia quella istituzionale del Pci, sia quella extraparlamentare dei vari gruppi e collettivi studenteschi ed operai, che vedono nella questione femminile una preoccupazione infima e piccoloborghese che si risolverà automaticamente con l’instaurazione della dittatura del proletariato e successivamente del regime comunista, e che perciò non ha bisogno di approfondimenti specifici che anzi frammentano i gruppi e le loro visioni di mondo. Il radicale testo Sputiamo su Hegel29 è un vero e proprio atto di sfiducia verso la lotta operaia e studentesca, che ancora una volta evita di occuparsi delle problematiche di genere reiterando la norma sociale patriarcale: un testo che critica tutti i presupposti di rivoluzione, emancipazione e liberazione sui quali si basa la politica marxista-leninista del periodo.30 Nel Manifesto di Rivolta Femminile, Lonzi scrive: “La civiltà ci ha definite inferiori, la Chiesa ci ha chiamate sesso, la psicanalisi ci ha tradite, il marxismo ci ha vendute alla rivoluzione ipotetica”,31 esplicitando in maniera inequivocabile l’ostilità verso qualunque ideologia esterna al femminismo, e abbracciando la differenza sessuale come unico orizzonte politico possibile.
In La donna clitoridea e la donna vaginale,32 l’autrice afferma la subalternizzazione della donna da parte della cultura patriarcale attraverso il mito dell’orgasmo vaginale. Proprio negli anni in cui il dibattito sull’aborto si intensifica, Lonzi ne prende fermamente le distanze preferendo invece la demistificazione del coito procreativo in favore di un modello di sessualità che non schiavizzi le donne alla penetrazione e alla maternità obbligatoria, ma che invece le liberi nel piacere e, per esteso, nell’espressione di sé:
La clitoridea è la femminile da scoprire, anzi quella che si scopre da sé, che non appare disponibile all’identificazione da parte di altri, quella che non serve al mondo maschile, quella che parla ma non si sente, quella che sfugge alla presa, l’essenza della femminilità che non ha posto in un mondo dove sono gli uomini a dare il diritto di esistenza, quella che sta nascendo alla coscienza delle donne, lentamente e faticosamente nell’autenticità di se stessa riflessa nell’altra, mentre tutti la stanno aspettando sul versante culturale del godimento o di un altro analogo destino.33
L’essere clitoridea è dunque una ricerca, un’energia potenziale che parte dal rifiuto di sé per come è stato previsto dalla cultura patriarcale. Uno dei termini-chiave della filosofia di Lonzi è proprio “autenticità”: nel suo lavoro di critica d’arte è lo stabilire un rapporto pari con l’artista, e per questo la registrazione al magnetofono, nel montaggio di una conversazione a più voci che quasi sembra un’autocoscienza fra artisti circa il proprio ruolo nella società, prova a restituire l’immediatezza e la fluidità della comunicazione senza speculazioni filosofiche; nel femminismo, significa invece ripensarsi al di fuori della logica patriarcale, e dunque disimparare il sé visto e interpretato da lenti maschili, per impararne uno nuovo e autentico grazie all’autocoscienza e il separatismo.
La peculiarità di questa filosofia è la dimensione totalizzante che assume nella vita di Carla Lonzi: infatti, nel lungo diario che scrive tra il 1972 e il 1977, si può notare come i concetti di relazionalità e di autenticità vadano al di là della stretta pratica femminista investendo la vita quotidiana, fino a caratterizzare anche il rapporto con l’abbigliamento, attraverso il quale si sugellano delle dinamiche personali e politiche che hanno a che fare con la relazione tra sé e la propria immagine, la relazione con il maschile rappresentato dal compagno Pietro Consagra, la relazione con i genitori e soprattutto con la madre, la relazione con il femminismo e con le compagne di Rivolta Femminile, e la relazione con il figlio Battista.
L’armadio di Carla Lonzi
Aprendo l’armadio di Carla Lonzi, da una parte si delinea un guardaroba narrato nei suoi testi che verrà studiato concentrandosi sulle proprietà retoriche dei vestiti e il loro significato nell’economia della narrazione;34 dall’altra parte, vi sono numerose fotografie della pensatrice che verranno analizzate proprio facendo un serrato raffronto con i suoi scritti. L’esplorazione dell’armadio di Carla Lonzi non sarà condotta attraverso una temporalità lineare, bensì proverà a mettere in pratica il suo pensiero nello stabilire un legame relazionale fra le cose, lasciando che i vestiti, le persone, le situazioni, le parole e i tempi si attraggano e si respingano a vicenda, si sovrappongano per poi disgiungersi, formando una vera e propria tessitura.
Nonostante la sostanziale maggioranza delle fotografie pervenute sia in bianco e nero, da Taci, anzi parla si può dedurre un rigetto di Lonzi per le tonalità sbiadite: in un sogno che ha come protagoniste delle bambine, scrive “Vedo dei vestitini colorati, trasparenti, bucherellati appesi fuori di un negozio. Quelli mi piacciono” contro invece il “modello all’americana, pesante, borghese, con colletto, taschina, bottoni” ,35 che viene proposto loro. In un altro sogno, oltre all’avversione per i colori pastello, si evince la natura per lei profondamente relazionale dell’abbigliamento:
Invece arriva Lucia, vestita in un modo molto carino: ha un bolero su una camicetta che fa tutto un gioco di trasparenze, nello stesso tempo è alla moda perché finisce per avere un vestito fatto di tre balze colorate. Anch’io voglio qualcosa di spiritoso, mi guardo allo specchio, ho una specie di camiciona con quei colori pastello che odio — color carne, verdino, giallino, azzurrino. Non mi dona affatto […].36
La fotografia più famosa di Carla Lonzi, oltre a quella del momento fondativo di Rivolta Femminile, è scattata da Pietro Consagra nel 1968 (Fig. 2): è all’Hemisfair di San Antonio in Texas, ha dietro di sé una ruota panoramica che le circonda la testa come un’aureola, effetto probabilmente voluto da Consagra che la eleva a santa. Indossa un cappotto di lana color fragola, dal quale spunta il colletto bianco arricciato di una blusa (o una camicia?) visibile anche in una fotografia scattata a giugno dello stesso anno a Granada.37 A braccia conserte, tiene in mano un cappello di paglia con scritte ricamate (illeggibili) e la falda bordata di rosso. Sul capo ha inforcati un paio di occhiali da sole dal taglio probabilmente maschile. Del periodo negli Stati Uniti, in compagnia di Consagra, emergono altre fotografie, come quella con il figlio Battista a New York,38 dove Lonzi indossa un cappotto in montone, e un’altra a Minneapolis, in cui saltella sorridente indossando una lunga giacca con il fondo svasato a formare una balza e dei pantaloni che sembrano in denim.39
La prima volta in cui l’abbigliamento compare nel diario è quantomeno emblematica di una certa percezione di sé durante i grandi cambiamenti esistenziali: “Ho trascurato molti aspetti del mio confort con il femminismo: per esempio, sono due anni che vesto malissimo sempre con quattro stracci, pantaloni e pullover”.40 Sono molte le fotografie in cui Lonzi indossa un abbigliamento sobrio e votato alla comodità, come pantaloni, camicia e maglia con lo scollo a V, oppure un semplice dolcevita (Fig. 3): è la mise che indossa in una foto con Consagra, colti in una conversazione;41 in una vacanza all’Isola d’Elba nel 1979 indossa una maglia a mezze maniche bianca con righe orizzontali sottili e larghe sui toni del rosso, dell’arancio e del marrone42 (negli stessi giorni possiamo invece vederla con una tuta con pantaloni larghi a motivi floreali, radicalmente diversi rispetto al suo vestire usuale43); in una conversazione con Maria Delfino a Roma del 1974, ha un dolcevita scuro decorato da una collana scultorea di forma quadrata.44
La relazione con le compagne, spesso conflittuale a causa di problemi di comunicazione, passa nella dimensione del sogno sotto forma di confronto del guardaroba. Quando le sogna, sono sempre più belle e meglio vestite di lei. Parte di questo problema è dato dal non sentirsi particolarmente adatta ad un certo tipo di vestiti e, per metonimia, un certo tipo di ruoli:
Provo dei vestiti, ma non vanno bene: l’ultimo è un fondo di magazzino, del ’62 mi pare, molto fuori moda, così strano: la vita di serpente, la gonna di pelle rigida e arricciata. Mi guardo allo specchio: c’è una illuminazione da quadro del ’600. Sembro un’altra.45
Io non sono una donna forte, anzi mi sono sempre appoggiata a chi lo era come carattere o come forma di cecità. Sia uomini che donne. Ho camminato tutta la mattina, ma non sono riuscita a trovare un vestito adatto a me: o fa troppo signora o troppo Fiorucci. A quarantatré anni è sempre più difficile scovare qualcosa da mettersi addosso. Devo anche smettere di tenere i capelli tirati all’indietro: mi piacerebbe sentirli un po’ muoversi attorno al viso che non ha più l’ovale fermo di una volta.46
Nel 1975, quando il rapporto con Carla Accardi ed Elvira Banotti è finito da tempo, le sogna a distanza di alcuni mesi: Banotti “vuole da me un vestito in prestito: già questo mi secca, non sa stare senza chiedere. Comincio a mostrarle abiti e gonne da un armadio, ma non le vanno, lei è più grassa e grossa di me”,47 mentre Accardi “è lì davanti a me, carina: ha gonnellina, camicina, borsina il cui manico tiene stretto nelle manine. Ha uno stile di abbigliamento molto diverso dal mio”.48
A causa delle divergenze ideologiche circa la doppia militanza (Banotti vuole mantenere il legame con il marxismo, mentre Lonzi si chiama fuori da ogni progetto politico oltre a quello del femminismo), Banotti esce da Rivolta Femminile poco dopo la diffusione del primo Manifesto. Con Accardi, invece, il distacco è più sofferto: l’artista infatti sceglie di distanziarsi da Rivolta Femminile per dedicarsi completamente all’arte, fondando la Cooperativa del Beato Angelico a Roma, un collettivo di arte femminista.49 Taci, anzi parla si apre proprio nell’estate del 1973 a Macari, spiaggia del trapanese, quando la loro amicizia inizia a sfilacciarsi. Accardi ricorre anche in un altro sogno:
Mostro dei riquadri significativi a delle amiche: stoffe tessute con colori e disegni su una trama molto trasparente. Sono tutti collegati tra di loro per un lato come le cartoline dei turisti. Fanno delle serie di vari tipi, potrebbero sembrare dei quadri, ma in sostanza sono così veri, motivati e in funzione della mia vita, colgono un punto di autenticità vissuta così preciso che sono tutt’altra cosa. Ester mi sta osservando tutta compresa. Quando li ripongo sono così pentita di averli mostrati anche a lei, di averne parlato in sua presenza.50
Lonzi rimprovera ad Accardi di aver sfruttato il femminismo e l’autocoscienza delle compagne arricchendosi sul piano esperienziale, per poi abbandonarle tornando nel mondo dell’arte. Inoltre, la accusa di aver rubato un’idea a Consagra: dei lenzuoli dipinti inizialmente da lui, poi in collaborazione con Accardi, e che quest’ultima successivamente presenta ad una mostra come propri.51 In entrambi i casi, il tessuto e i vestiti segnalano un atto di espropriazione, il furto della propria identità e dei propri ideali, il furto del femminismo e il suo ricollocamento al di fuori di esso, nella cultura patriarcale, in una forma più conciliante. Il tema del furto emerge anche in altri sogni, dove a Lonzi viene rubata la borsa o il suo contenuto: “Sono in Sicilia e, avendo vantato la preziosità degli scritti contenuti nella mia borsa, degli operai di un ristorante mi hanno rubato tutto”;52 “Per quanto abbia tenuto la borsa ben in vista davanti a me sul treno, pure devo essermi distratta se frugandoci dentro all’arrivo, non trovo né portafogli né passaporto”.53