Un’analisi in-between: per un’antropologia postcoloniale dell’abito
A inaugurare il XXI secolo, nel gennaio del 2000 comparve sulla
rivista The Journal of the Costume Society of America un
articolo a firma di Joanne B. Eicher dal titolo The Anthropology of
Dress, nel quale l’autrice ripercorse le direttrici
storico-metodologiche lungo le quali furono formulate tra la seconda
metà dell’Ottocento e la fine del Novecento riflessioni antropologiche
sul corpo vestito nel mondo anglosassone.1
Nonostante non sia il primo lavoro a presentare diacronicamente il
problema del rapporto tra scrittura etnografica e “ornamento”,2 l’enfasi posta dall’antropologa sul
coinvolgimento delle donne a cavallo tra i due secoli nella ricerca sul
campo e sul ruolo avuto nello sviluppo dei fashion studies
suscita interrogativi in chi oggi si accinge a ripercorrere un
itinerario storico-antropologico che miri a definire come il genere sia
diventato una categoria concettuale utile alle scienze umane e sociali:
“il ruolo delle donne in antropologia, la loro attenzione ai problemi di
genere e il loro interesse per il tema dell’abbigliamento ha stimolato
maggiori ricerche e pubblicazioni sull’argomento sia da parte di donne
che di uomini”.3 La studiosa individuò nei movimenti
femministi degli anni Settanta la matrice socioculturale che portò
all’accesso ugualitario e libero agli spazi e agli interessi di ricerca,
con l’ulteriore merito di aver posto sotto la lente di indagine il modo
attraverso cui l’identità, maschile o femminile che fosse, potesse
risultare determinante nelle analisi compiute.
Uno dei risultati più brillanti delle riflessioni elaborate da questi
movimenti fu il saggio di Joan W. Scott Il “genere”: un’utile
categoria di analisi storica.4 All’autrice va
riconosciuto il merito di aver messo in luce come l’applicazione di una
“prospettiva di genere” nell’analisi storiografica — che a suo dire si
doveva intersecare con quelle di razza e di classe — fosse necessaria
per far emergere le relazioni di esercizio del potere, di costruzione
delle differenze e di legittimazione o delegittimazione dei ruoli
sociali di gruppi subalterni.
È però doveroso sottolineare come l’impianto concettuale e le proposte
metodologiche suggerite dalla storica americana non abbiano convinto
alcuni intellettuali. Infatti, soprattutto nell’analisi dei contesti
coloniali, l’applicazione della categoria “genere”, intesa come
struttura socioculturale universale, rischia di risultare problematica.
Il suo impiego a-critico nell’indagine di realtà extra-europee
genererebbe un cortocircuito nell’interpretazione di processi di
significazione e di socializzazione di pratiche e corpi.5 In
particolare, gli antropologi si sono chiesti come gli strumenti
riflessivi prodotti dai gender studies potessero essere
applicati a “situazioni”6 come quelle coloniali, in cui il
confine tra definizione delle identità,7
costruzione delle “soggettività”8 ed organizzazione e
gestione degli apparati di controllo dei corpi9 è
decisamente sfumato.
Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del Duemila alcuni
studiosi, tra i quali noti esponenti dei postcolonial studies,
hanno cercato di proporre il passaggio da un paradigma che assumeva “i
concetti di ‘classe’ e di ‘genere’ come particolari e fondamentali
categorie […] [epistemologiche] organizzative” a un modello che
prendesse invece “consapevolezza delle specificità del soggetto
intrinseche ad ogni rivendicazione identitaria nel mondo moderno”.10 Percorrendo il solco di un nuovo
“umanesimo”, Homi K. Bhabha in I luoghi della cultura mise per
la prima volta al centro dell’analisi dei contesti coloniali “il bisogno
di pensare al di là delle tradizionali narrazioni relative a
soggettività originarie e aurorali, focalizzandosi invece su quei
momenti o processi che si producono negli interstizi,
nell’articolarsi delle differenze culturali”.11 È
in questi spazi inter-medi (in-beetween) che si articolerebbero
strategie di elaborazione del Sé, dando vita a “culture coloniali”,12 capaci di negoziare “le esperienze
intersoggettive e collettive di appartenenza a una nazione, di
interesse della comunità di valore culturale”.13
Si verrebbe a delineare dunque un progetto decostruzionista con lo scopo
di mostrare come “l’agire storico venga trasformato attraverso il
processo di significazione, come l’evento storico venga
rappresentato in un discorso che è in qualche modo incontrollabile”.14
Questa incontrollabilità rende le culture coloniali dispositivi di
ri-significazione e ibridazione semiautonomi di pratiche occidentali
esportate nell’Oltremare: “le culture coloniali non sono mai state una
traduzione diretta della società europea trapiantata nelle colonie, ma
configurazioni culturali uniche, creazioni spurie nelle quali
cibo, vestiti, abitazioni e moralità europee ricevevano un nuovo
significato politico nel particolare ordine sociale del potere
coloniale”.15 La forza generatrice e quella
creativa della Cultura, che aristotelicamente potremmo definire come
attributi accidentali, hanno una complessità che va colta nella sua
processualità.16 Le traiettorie socio-antropologiche
attraverso cui si vengono a costruire le identità di genere si
configurano come terreni all’interno dei quali indagare proficuamente
gli spazi di frontiera dell’umano e i processi antropopoietici
attraverso cui i corpi prendono forma.17
Emerge dunque la necessità di dare corpo alle differenze e alla
“frontiera” affinché spazi che vanno oltre i “limiti epistemologici” da
noi sperimentati possano essere esplorati. Per Homi Bhabha postulare un
modello di indagine in-between non vuol dire solamente cogliere
quanto di più oscuro ancora risiede negli interstizi del mondo
coloniale, ma anche e forse soprattutto interrogarsi su cosa abbia
voluto, e voglia tutt’ora dire, abitare nell’“oltre”: “essere parte di
un tempo di re-visione, di un ritorno al presente per ri-descrivere la
nostra contemporaneità e ri-scrivere la nostra vita comune umana e
storica: significa toccare il futuro nel suo lato più
vicino”.18
Una delle strategie per indagare “ciò che sta dall’altra parte” è il
mezzo fotografico, il quale “si pone allo studioso come un prodotto
sociale, uno strumento che è insieme di comunicazione e di
trasformazione e che […] non è mai neutro, ma, al contrario sempre
fortemente connotato, racchiudendo una stratificazione di nessi che
vanno decodificati”.19 La decodifica dei segni visivi di
un’immagine permette, in un’analisi che assuma la prospettiva di genere
come centrale, di cogliere la natura dinamica di una categoria in grado
di restituire e far interpretare profili identitari articolati e spesso
sfumati. L’immediatezza con la quale un prodotto audiovisivo condivide
con chi lo osserva o lo ascolta linguaggi e codici propri di realtà
socioculturali distanti o vicine alle proprie20 —
offrendo all’osservatore un ampio insieme di segni dal valore
comunicativo estremamente “denso” — ricorda il modo in cui l’abito, con
la stessa immediatezza che i segni visivi possiedono, è in grado di
comunicare elementi costitutivi e interni di una cultura. Francesco
Remotti ricorda come “anche abiti-vestiti present[ino] un alcunché di
ripetitivo, e [come] questa stessa ripetizione rinvii in qualche modo a
una foggia, a uno stile […], e [come] si [possa] probabilmente arguire
che, come gli abiti-abitudini foggiano il comportamento, così gli
abiti-vestiti danno una foggia al corpo”.21
Traspare una certa contiguità tra la nozione di “abito”, così come
presentata dall’antropologo torinese, e la celebre formulazione di
Bourdieu di “habitus”. Non si può dunque dar conto del “furore
antropopoietico”22 che viene ascritto al rivestimento
di cui il corpo si serve, né attraverso un’interpretazione ecologica, la
quale pone l’accento sulla necessità che l’organismo umano avverte di
ripararsi dalle intemperie naturali, e per questo di fabbricare oggetti
esterni capaci di proteggerlo;23 né tantomeno
servendosi del paradigma evoluzionista, che proverebbe una correlazione
tra la raffinatezza dei processi di estetizzazione delle pratiche
quotidiane e l’indice di sviluppo di un gruppo socioculturale.24 Il senso va ricercato piuttosto
nella stratificazione storica e culturale che l’abito trattiene in sé:
nella molteplicità di processi di significazione a cui una foggia è
andata incontro; nella pluralità di usi e funzioni che uno stesso
vestito ha sperimentato; nelle moltitudini di soggettività che sono
state veicolate attraverso l’atto dell’indossare e del trattenere
quell’oggetto su di sé.
Il fondo fotografico “Carlo Vittorio Musso” del Museo di Antropologia culturale ed Etnografia dell’Università di Torino (MAET)
Questa indagine prende avvio dal patrimonio visivo custodito al Museo
di Antropologia culturale ed Etnografia dell’Università di Torino
(MAET). Di particolare interesse è il fondo “Carlo Vittorio Musso”,
costituito da 111 fotografie coloniali (alcune delle quali
successivamente “cartolinizzate”25) scattate tra il 1920
e il 1923 nella Somalia italiana. Come sottolinea Gabriele Proglio
“l’immagine è solamente l’elemento di superficie […]. Attorno
ad essa si muove un sistema complesso e a tratti ambiguo, con una forte
capacità documentativa ma, al tempo stesso, in grado di
rimandare ad altri elementi, ad esempio all’immaginario”.26
È sull’immaginario27 intorno al quale si sono prodotte
le fotografie in esame, nonché sulle strategie di costruzione del genere
e delle identità in colonia, che intendiamo sviluppare l’analisi,
individuando e analizzando i livelli di stratificazione che le
fotografie, i soggetti e gli abiti trattengono. Per fare questo è
necessario tratteggiare il profilo della “biografia”28
dell’immagine su tre livelli: a) l’Istituto museale che oggi le
conserva; b) il funzionario che le ha scattate; c) le donne e gli uomini
rappresentati. L’intersezione tra questi elementi è in grado di
restituire la complessità di quelle che Adolfo Mignemi ha definito come
“tecnologie dell’immaginario”,29 ossia tutti quegli
strumenti che avrebbero caratterizzato le diverse fasi della
colonizzazione e contribuito a costruire l’immagine delle colonie
stesse. È in questo dialogo continuo tra rappresentazione e realtà, tra
finzione e verità che si definiscono quelle zone in-between in
cui condurre l’analisi vestimentaria e di genere.
Per quanto riguarda il primo livello di indagine, il Museo di
Antropologia culturale ed Etnografia fu fondato nel 1926 da Giovanni
Marro, medico presso il Regio Ospedale Psichiatrico di Collegno.30 Dopo aver ottenuto nel 1923
l’incarico di libero docente di Antropologia per le Scienze Naturali,
Marro decise di allestire presso gli ammezzati di Palazzo Carignano un
luogo all’interno del quale poter condurre le sue ricerche
antropologiche, mediche e psichiatriche di stampo positivista.31 Negli anni Trenta il patrimonio del
Museo era principalmente di natura primatologica e antropologica,
comprendente crani, ossa e mummie egizie. Infatti, nel 1911 Marro
partecipò per la prima volta alla Missione Archeologica Italiana in
Egitto con Ernesto Schiaparelli, direttore del Museo Egizio di Torino.
Successivamente, tra il 1930 e il 1935, affiancò Giulio Farina,
egittologo che successe a Schiaparelli alla direzione del Museo, negli
scavi a Heliopolis, Assiut, Elephantina, Valle delle Regine e
Gebelein.32 Quelle missioni ebbero una duplice
funzione: prelevare e ottenere materiale osteologico proveniente dal
Medio Oriente da offrire al polo di studi torinese; studiare in
loco le popolazioni autoctone che vivevano ai margini dei siti
indagati.
Con lo scoppio del secondo conflitto mondiale — e il trasferimento in
una nuova sede, presso il Palazzo dell’Antico ospedale San Giovanni
Battista, avvenuto già nel 1936 — le collezioni vennero trasportate
lontane dalla città per paura che potessero essere danneggiate, facendo
ritorno nel capoluogo piemontese solo nel 1945.33
L’anno successivo Marro venne epurato per i ruoli ricoperti durante il
regime fascista ma fece causa e, dopo aver vinto, nel 1949 venne
reintegrato per essere immediatamente collocato a riposo. Morì nel 1952
e gli successe nell’insegnamento la sua assistente, Sabina Fumagalli,
che si dedicò alla classificazione e alla sistemazione delle collezioni
etnografiche e ai fondi fotografici. Dopo la dipartita di Fumagalli, per
circa sette anni, dal 1962 al 1968, la direzione del MAET venne affidata
a Brunetto Chiarelli, il quale ne rafforzò l’impronta naturalistica,
così da renderlo a tutti gli effetti un Museo di Storia Naturale
dell’Uomo.34 Nel 1962 il Museo di Antropologia
ed Etnografia venne finalmente riaperto al pubblico con un allestimento
che rimase lo stesso fino a 1984, anno della sua chiusura. È soltanto
dal 2017, anno in cui Cecilia Pennacini ne ha assunto la direzione, che
il MAET ha ricominciato a studiare le sue collezioni materiali e
fotografiche, nonostante non sia ancora riaperto al pubblico.35
Le articolate vicende della storia del Museo ci consentono di
individuare tre temi fondamentali, che problematizzano e complessificano
il patrimonio custodito al suo interno: “la natura ‘coloniale’ delle
collezioni; l’adesione convinta del fondatore del MAET al Fascismo; […]
la gestione e l’eventuale esposizione di una raccolta di resti umani per
consistenza e valore scientifico”.36 Questi elementi
gettano luce sulle modalità con le quali le immagini e gli oggetti sono
stati impiegati e studiati, tratteggiando da subito un primo livello di
quella stratificazione socioculturale a cui si è accennato, ossia
l’utilizzo strumentale del patrimonio nel percorso di conquista,
assoggettamento e razzializzazione delle colonie italiane. Come ricorda
Palma, infatti, soprattutto la fotografia divenne un “nuovo medium [che]
[…] accompagn[ò] le tappe principali dell’esplorazione e della conquista
del continente, diventando, anche per il pubblico metropolitano, il
mezzo privilegiato di ‘appropriazione’ del territorio africano
e di organizzazione del sapere, riempiendo visivamente i vuoti che sulle
carte dell’epoca ancora permangono sulla ‘terra incognita’”.37
Le modalità di appropriazione e costruzione di quell’immaginario
emergono chiaramente dall’analisi del fondo fotografico “Carlo Vittorio
Musso”, in particolare nell’ambiguità della figura del funzionario
italiano e nei silenzi che hanno per molto tempo accompagnato queste
fotografie.38 Benché non sia stata trovata alcuna
documentazione, privata o istituzionale, inerente alla donazione del
fondo fotografico al Museo, né rapporti epistolari tra Marro e Musso,
possiamo ipotizzare che la donazione sia stata effettuata a seguito
dell’epurazione del direttore dall’Università (1946). Abbiamo però
diverse informazioni sulla biografia di Carlo Vittorio, che si trovò
nella sua lunga carriera — conclusa a seguito della nomina a Generale di
Corpo d’Armata a titolo onorifico, ottenuta nel 1969 — a viaggiare
spesso per il mondo, ricoprendo ruoli di altissimo prestigio
nell’esercito, prima in Somalia e poi in Montenegro. Egli si trovò a
viaggiare quasi ininterrottamente dal 1920 al 1945, anno in cui cessò di
essere a disposizione del Ministero della Guerra, rientrando dai
Balcani. Musso terminò la sua carriera all’estero, ricoprendo incarichi
di rappresentanza nelle istituzioni militari.
Di particolare interesse è il periodo in cui Musso soggiornò nella Somalia italiana — territorio conquistato nel 1885 e decolonizzato nel 1960, anno in cui l’amministrazione fiduciaria concessa all’Italia dieci anni prima terminò39 — precisamente nella località di Lugh, piccola città nella regione del Ghedo. Inviato con incarichi civili, vi rimase dal 1920 al 1923, diventando testimone delle brutture e delle violenze che la Somalia in quegli anni stava conoscendo. Carlo Vittorio infatti assistette a un periodo di profondo cambiamento nei territori d’Oltremare poiché si stava compiendo la transizione da un’amministrazione indiretta delle colonie, tratto distintivo delle politiche estere dei governi crispini, a quella diretta, che culminò con la fascistizzazione dell’apparato burocratico amministrativo da parte di Cesare Maria De Vecchi (giunto a Mogadiscio nel 1923 e sostituito da Guido Corni nel 1928).40 Nel triennio trascorso in Corno d’Africa Musso sperimentò l’amministrazione di Carlo Riveri, il quale si trovò di fronte una situazione problematica: a seguito del primo conflitto mondiale le comunicazioni marittime vennero ridotte ai minimi termini e il modesto sviluppo del Benadir rese ancor più evidente la non autosufficienza della colonia, anche considerato il fallimento delle aziende presenti sul territorio, le esportazioni ridotte all’osso e la stasi economica dell’impero coloniale durante la guerra.41 Di questi elementi nel fondo però non vi è traccia, mentre rimangono impresse sulla carta vedute dal sapore orientalistico, nonché ritratti di donne e uomini.42
L’abito come machine à mimétiser: costruzione e funzione del genere nella Somalia italiana
Per quanto riguarda l’ultimo livello di analisi si ritiene necessario partire dalle riflessioni proposte da Homi K. Bhabha nel suo articolo Of Mimicry and Man: The Ambivalence of Colonial Discourse, comparso per la prima volta a metà degli Ottanta del Novecento sulla rivista October. Al centro dello studio condotto dall’intellettuale indiano vi è l’idea che la mimesi sia stata una delle “più elusive ed efficienti strategie [per la gestione] del potere e delle conoscenze in colonia”.43 In particolare, si postula l’assunto secondo il quale
La visibilità del mimetismo si produc[a] sempre nel luogo dell’interdizione. È una forma di discorso coloniale che si pronuncia inter dicta: un discorso all’incrocio tra ciò che è noto e lecito e ciò che, sebbene noto, deve essere tenuto nascosto; un discorso pronunciato tra le righe e come tale sia contro le regole che dentro di esse.44
L’analisi delle “grammatiche sartoriali”45 proprie delle fogge e dei monili indossati dai soggetti ritratti nelle fotografie rivela il complesso processo di ibridazione e trasformazione della cultura locale a seguito dell’arrivo delle truppe italiane sul territorio a fine Ottocento.46 In particolare, le immagini veicolano l’ambivalenza nella costruzione delle soggettività e delle identità in contesti dove registri comportamentali, estetici e linguistici differenti, spesso in contrasto tra loro, dovevano trovare una sintesi originale.
La tesi che si intende sviluppare è che i processi di costruzione di
genere, nonché l’assunzione di canoni genderizzati dell’abito (inteso
come veicolo primario nella trasmissione e incorporazione di pratiche e
identità), siano forme di mimesi culturale. Il vestito, dunque, si
configurerebbe come una machine à mimétiser, capace,
nell’immediatezza nei suoi registri e nella mutevolezza delle sue fogge,
di rendere la differenziazione di genere uno strumento utile alla
rielaborazione e all’incorporazione delle differenze indotte dai
colonizzatori.
È bene specificare però che la Somalia è stata fino agli anni Cinquanta
del Novecento suddivisa in domini distinti: quello britannico (1884),
quello italiano (1889) e quello francese (1896).47
Ogni nazione adottò politiche di acculturazione e “conversione del
selvaggio” differenti, che di conseguenza innescarono cambiamenti nel
modo di vestire, acconciarsi, fabbricare e utilizzare i propri
rivestimenti. La natura processuale di questo fenomeno trasformativo non
va relegata al mero cambiamento dell’estetica di un gruppo umano, quanto
piuttosto considerato come il più immediato indicatore di un sistema di
radicale spersonalizzazione e risemantizzazione delle identità:
Il meccanismo che permette la conversione del selvaggio […] al moderno e civilizzato mondo della cristianità, sembra passare attraverso l’incorporazione della cultura degli evangelizzatori ma […] anche attraverso l’innesto, fra le figure e gli eroi dei propri miti, dei miti e delle figure dei conquistatori […] stessi, delle loro genti, delle loro verità e del loro stile di pensiero, non meno […] delle loro mode e dei loro abiti.48
L’analisi del processo di incorporazione richiamato dai Comaroff non
può prescindere dalla messa in discussione delle modalità con le quali
si è proceduto nei territori d’Oltremare a una differenziazione
marcata di genere (che all’epoca coincideva con il sesso). Questa fu uno
dei primi strumenti utilizzati per l’“ordinamento” e
l’“addomesticamento” dell’Altro, in quanto la costruzione di categorie
rigide e determinate su base sessuale permetteva di determinare modelli
socio-comportamentali ed estetici a cui i locali dovevano
attenersi.
Prima dell’arrivo degli italiani erano presenti regimi vestimentari
differenti: uno tipico dello spazio urbano e un altro delle aree rurali.
Il primo era caratterizzato da materiali di importazione
medio-orientale, le cui fattezze erano influenzate dai commerci che fin
dal I secolo avevano messo in relazione India, Nord Africa e le terre
asiatiche. Il secondo, invece, si componeva per lo più di sandali,
monili in finta pelle e toghe di colori chiari, scambiati durante i
momenti di incontro delle popolazioni nomadi pastorali nei mercati.49 Nel fondo Musso ritroviamo
principalmente caratteristiche assimilabili all’area urbana, che si
vennero a radicare in modo sempre più capillare a partire dalla seconda
metà dell’Ottocento. Si assistette inoltre a un processo di
risemantizzazione dell’abito, che se prima era per forma e materiale
simile tra uomini e donne, successivamente divenne terreno di
differenziazione tra gli abitanti in colonia.50
In particolare, si osservò quello che Rigby nel suo On the Origins
of Somali Race definiva come un passaggio da una situazione in cui
“la donna somala [si vestiva con] pelli di capra legate alla spalla
sinistra e fermata sul avanti”, a un momento in cui “si incominciar[ono]
a vergognare di quei costumi primitivi, e i loro vestiti [divennero]
stoffe colorate o bianche avvolte nel girovita, con entrambe le
estremità fissate al collo intorno al seno”.51
Abbandonate le pelli, dunque, gli uomini e le donne formularono, anche
attraverso l’influenza del governatorato italiano, modelli vestimentari
differenziati che non portarono però alla dissoluzione delle grammatiche
vestimentarie tradizionali, quanto piuttosto alla formulazione di nuove
fogge, colori, utilizzi e funzioni dell’abito.
Il caso della moda femminile in Somalia esemplifica efficacemente come
l’elaborazione delle identità di genere in contesti come quelli
dell’Oltremare, più che essere una reale pratica di socializzazione e
incorporazione delle differenze, sarebbe veicolo di produzione di
ambiguità. L’uso strumentale che è stato fatto di questa categoria
e dei suoi processi di costruzione la rende inadatta nel cogliere la
complessità dei fenomeni trasformativi nella Somalia italiana di quegli
anni. Decisamente più utile invece, è la proposta teorica di Homi K.
Bhabha, che invita gli studiosi a rintracciare le soggettività,
piuttosto che pattern socioculturali organizzati in categorie
come quelle di razza e genere.52
L’abito nella Somalia coloniale italiana
Nelle fotografie del fondo “Carlo Vittorio Musso” l’immagine della
donna non viene eroticizzata,53 così come era comune
fare nelle cartoline o nei materiali audiovisivi provenienti
dall’Oltremare europeo, i quali proponevano immaginari che McClintock
aveva definito efficacemente come pornotropici (pornotropics),
la cui espressione richiama il saggio a carattere etnografico di
levistrussiana memoria.54 Nel caso in esame quello che emerge
è invece un ritratto nitido e articolato dei processi trasformativi del
ruolo che l’abito ha avuto nella formazione della colonia e delle sue
differenze.
Abbandonate le pelli che Rigby richiamava, si incominciò a diffondere
l’utilizzo di lunghe vesti bianche che coprivano i corpi delle donne. Il
loro nome era futa, ed erano costituite da un lungo drappo di
colore chiaro o scuro di circa due metri che, a partire dal collo,
avvolgevano la donna. Un altro vestito che spesso veniva indossato era
l’ambur, una camicetta di colore chiaro che, se unita alla
futa, poteva formare un abito chiamato garbasaar.55 Il rivestimento dell’uomo56 invece, nonostante potesse sembrare
identico a quello della donna, segnava una distinzione, sia nel
materiale che lo componeva tanto nel modo in cui veniva portato. La
linea chiara di demarcazione tra le grammatiche sartoriali maschili e
quelle femminili rinvia alle zone del corpo che venivano lasciate
scoperte. Se la donna, come si osserva nella figura 1,57
poteva abbassare la spallina della futa, girare a piedi nudi,
coprendo le gambe e il petto; l’uomo, invece, scopriva parte del petto,
lasciava intravedere le gambe e portava dei sandali di pelle, chiamati
kabo (Fig. 2). Le zone di visibilità e invisibilità del corpo,
la possibilità o meno di esibire parti di sé, divennero elementi che
nella tradizione andavano a definire l’appartenenza ad un gruppo
maschile piuttosto che a uno femminile. L’ambivalenza risiede, in questo
caso, nel passaggio che, in epoca coloniale, portò ad un radicale
nascondimento del corpo delle donne, lasciando invece gli uomini più
liberi di scoprire le zone superiori del busto o le gambe, almeno
durante il lavoro.
Un altro elemento importante nel processo di vestizione, che segna una zona di ambivalenza, è quello degli accessori e i gioielli, che rientrano in un sistema di comunicazione non verbale che costituisce un sistema sensoriale codificato. Va però sottolineato come, secondo Akou, per gli uomini, le armi facessero parte del sistema vestimentario. Non riferibili esclusivamente ad attività di guerriglia, erano utilizzate anche nei momenti di caccia o di scontro diretti con altri gruppi umani. Compaiono spesso, come nella figura 3, lance alzate in aria (chiamate bilawi o baydhabow), oppure grandi scudi in pelle (Gaashaan).58 Il fatto che siano solamente gli uomini somali ad “imbracciare le armi” e a venire rappresentati come belligeranti porta colui che osserva le fotografie a pensare che il tratto definitorio delle identità maschili sia quello della belligeranza, aspetto che richiama una certa animalità (elemento che diverrà centrale nell’elaborazione delle teorie razziste). Ciò che però va sottolineato è che dal fondo fotografico emergono due modalità distinte di “esercitare” la maschilità: da una parte, attraverso la violenza, la cui massima espressione è lo scontro armato; dall’altra, grazie all’attività di pascolo e di cura dei cammelli. Come è possibile che due immagini così distanti possano coesistere nello stesso gruppo? La risposta la fornisce Homi K. Bhabha, il quale afferma che
il discorso coloniale crea un’immagine del colonizzato come realtà sociale “altra” e allo stesso tempo perfettamente conoscibile e visibile. Nel far ciò esso finisce per l’assomigliare a una forma di narrazione in cui la produttività e la circolazione di soggetti e segni viene ricondotta a una totalità coesa, emendata e riconoscibile, utilizzando un sistema di rappresentazione un regime di verità strutturalmente simili a quella del realismo.59
Nell’analisi degli accessori altri due sono gli elementi di cui tener conto: il significato degli oggetti e il luogo nel quale sono posizionati sul corpo. Nelle figure 4 e 5, le donne portano delle collane fatte di sfere di metallo o oro di media grandezza (chiamate audulli), di derivazione indiana.60 Allo stesso tempo, bracciali sottili avvolgono i polsi di queste giovani donne. L’uomo nella figura 5 porta al collo una particolare collana, composta da pezzi quadrati in ambra o in cuoio, tenuti insieme da un filo sottile in pelle. Chiamati hardas, se fatti in cuoio, o makkawi se invece realizzati in ambra, avevano la funzione di sconfiggere il male e di portare serenità e gioia in famiglia.61 Prima della colonizzazione italo-britannica in Somalia, questi ornamenti avevano una funzione tanto estetica quando propiziatoria o rituale. Dopo il 1900 essi diventarono dei veri e propri portable wealth, ovvero dei beni che davano sicurezza finanziaria (potevano essere venduti all’occorrenza), che definivano il prestigio di chi li possedeva (la cui grandezza, il cui materiale e la cui quantità rappresentavano un buono o meno status economico).62 Il collo e le braccia dei nativi erano dunque uno spazio di affermazione di sé, di costruzione del potere, anche economico, nelle società somale colonizzate. In un’analisi archeologica del monile emerge come due significati, che possono sembrare antinomici fra loro, si stratifichino uno sopra l’altro: da una parte si ha la funzione estetica che l’ornamento assume, spesso relegata ai margini dell’esame delle soggettività perché vista come frivola; dall’altra, la possibilità di utilizzare una manifattura come garanzia di sopravvivenza o di autoaffermazione in spazi come quelli d’Oltremare racconta di contesti dominati dalla violenza, dall’incertezza e dal sopruso. Queste dimensioni, proprio perché sovrapposte, non possono più essere scisse e tenute separate, quanto piuttosto analizzate nell’ambivalenza che la loro sovrapposizione produce.