Chi ha familiarità con il lavoro di ricerca di Simona Segre-Reinach, nel campo disciplinare dei fashion studies in Italia e nel consesso internazionale, sa bene che la sua cifra speculativa, da antropologa culturale e studiosa di moda, si caratterizza per la compostezza di un pensiero sempre in equilibrio tra un’attenta ricognizione dei processi culturali e dei cambiamenti paradigmatici che attraversano il sistema della moda, e il sentimento di una militanza solida, mai ideologica. Questa consapevolezza si rafforza ancor di più con la lettura di Per un vestire gentile. Moda e liberazione animale, che raccoglie un’articolata riflessione critica sul ruolo e il destino che gli animali hanno nella produzione di abiti e accessori. Il tono coinvolgente e determinato del titolo potrebbe per un istante dare la sensazione di annunciare una forma di manifesto, quasi a echeggiare l’eloquio delle prime lotte animaliste degli anni Settanta — si ricorda che la formula “liberazione animale” si riferisce all’omonimo libro del filosofo Peter Singer pubblicato nel 1975. Per contro, fin dalle primissime pagine comprendiamo che la studiosa non ha alcuna intenzione di cedere a un discorso di natura programmatica, e l’appello lanciato dal titolo semmai plana alla fine del saggio dove la prefigurazione di una moda finalmente libera dalla crudeltà nei confronti degli animali viene enunciata col tono posato di chi sente che, oggi, i tempi sono maturi perché quell’aspirazione etica, a lungo nutrita, si traduca in realtà.
Prima di affrontare il tema della presenza degli animali nella moda nel capitolo “Critica di moda e animalismo”, Segre-Reinach apre il saggio con una ricognizione di ordine storico-critico sulla “Teoria di moda nel vecchio e nel nuovo secolo”. L’intento è di sottolineare l’incidenza della riflessione teorico-critica dei fashion studies sulle politiche esistenziali. Basti pensare al valore esemplare che la decostruzione del paradigma moda-donna-frivolo ha rappresentato per altre e successive forme di liberazione. Da questa angolatura, l’autrice coglie la pregnanza di concetti quali “agency e immaginazione creativa” sulla scena sempre più variegata della configurazione dell’apparire. Che si tratti delle istanze espressive affiorate con l’emersione di altri modelli estetici e produttivi nella dimensione globale del vestire — grazie alla svolta impressa dagli studi post-coloniali e, più recentemente, dalla proposta di ripensare la moda da una prospettiva decoloniale, avanzata dal Research Collective for Decoloniality and Fashion (2012) — oppure di quelle etico-politiche correlate alla rappresentazione di genere o alla ricerca della sostenibilità, quel che si fa vieppiù evidente è che “nel ventunesimo secolo il sistema della moda comincia a esondare dal suo perimetro originario e permea di sé altre aree nevralgiche della vita sociale, culturale e politica. […] I fashion studies si sono trasformati in critical fashion studies. […] La teoria critica della moda consiste nell’acquisita e riconosciuta capacità del sistema nel suo complesso (produzione, rappresentazione, consumo) di affiancarsi ad altre più considerate forze propulsive, come la politica e perfino di superarle per trasmettere messaggi di tipo sociale, rappresentando perciò una forma di pensiero che va ben oltre l’apprezzamento estetico di un abito” (pp.10; 15).
È all’interno di questa cornice concettuale e militante che Segre-Reinach colloca con tempestività (la pubblicazione del libro si distanzia di poco dall’introduzione della tutela degli animali nella Costituzione della Repubblica nel febbraio 2022) e acribia il tema del rispetto che va portato agli animali non umani e ai loro diritti, argomento poco trattato e approfondito nel sistema della moda. Persino irrilevanti, fino a qualche anno fa, sono stati i contatti tra la critica di moda e l’animalismo che, ad eccezione delle campagne svolte contro l’uccisione degli animali per utilizzarne la pelliccia, si è mostrato per lo più orientato a impegnarsi nei settori dell’industria alimentare, della cosmetica e della sperimentazione animale. Non credo si possa parlare di una forma di indifferenza nei confronti della moda, ma della difficoltà di immaginare buona parte del settore come scena di un capillare eccidio. L’autrice ci ricorda, infatti, quanto gli animali abbiano sempre rappresentato una straordinaria fonte di ispirazione per la moda pur essendo allo stesso tempo materia prima dello stile: “Nella moda, rappresentazione e sfruttamento degli animali sono correlati in modo sui generis. Gli animali hanno sempre fatto parte tanto della produzione (pelle, pellicce, lana, piume, penne, seta) quanto dell’immaginario della moda come fonte di fascinazione e di imitazione, nella pubblicità, nei redazionali e nelle tendenze di stile” (p. 26). E, ancora, a questa constatazione va aggiunto che la moda mette in atto un’opera di frammentazione e trasfigurazione immateriale degli animali che “scompaiono nella loro realtà ontologica di esseri viventi, per ritornare sotto altri registri più consoni al settore, come il lusso estremo della sua lavorazione” (p.21). Ecco che perfino la riflessione degli stessi teorici della moda, almeno nel periodo antecedente all’ultimo decennio, ha tendenzialmente ignorato ogni sorta di preoccupazione etica riguardo allo sfruttamento, agli abusi e alle crudeltà inflitti agli animali non umani per la produzione di abbigliamento e accessori. A denunciare questa indifferenza un numero pioneristico della rivista Critical Studies in Fashion and Beauty, pubblicato nel 2011, in cui si distinguono le posizioni assunte dal teorico di moda John Sorensen per il quale l’industria dell’abbigliamento rappresenta un autentico “teatro della crudeltà”, e le argomentazioni della studiosa Efrat Tseëlon che riflette sulle analogie tra lo sterminio degli animali su scala industriale e i crimini dell’Olocausto. Quel che emerge è un vulnus della nostra civiltà che Segre-Reinach indaga con rigore storico-critico tenendo insieme riflessioni, testimonianze, ricerche di studiosi, filosofi e attivisti, scienziati, designer. Vasto e fitto è il territorio che l’autrice attraversa giustapponendo argomenti e teorie che si rincorrono e si intrecciano tra le pieghe della storia, delle tradizioni, degli immaginari, delle pratiche di consumo, dei patrimoni immateriali, delle sperimentazioni.
Particolare attenzione viene rivolta ai settori della sostenibilità e della ricerca dei materiali di nuova generazione chiamati a sostituire quelli animali. Entrambi rappresentano nuovi modelli produttivi e culturali capaci di modificare quelli precedenti e di orientare l’intero sistema della moda verso i valori della cura, della protezione e del rispetto nei confronti di persone e lavoratori, della vita animale e dell’ambiente. E, ancora, entrambi puntano sulla sinergia tra nuovi modi di coltivazione e allevamento per l’approvvigionamento delle materie prime, oltre a promuovere attività di recupero e di riciclo. Non si tratta solo di pratiche virtuose e materiali alternativi necessari a ridurre il consumo vistoso, l’inquinamento, la distruzione delle risorse naturali e delle varietà animali e vegetali, ma anche di individuare “alleati preziosi per la costruzione di un nuovo paradigma della qualità del vestire” a partire da “una reinvenzione del lusso in chiave di etica e di responsabilità” (p.65). A questo scenario di re-immaginazione etico-estetica della moda, terreno di un cambiamento radicale degli stili di vita individuali e collettivi, l’autrice guarda dalle posizioni filosofiche del postumano e del neomaterialismo. Entrambi condividono “la decostruzione di ogni forma di dualismo in quanto vi ravvisano un’espressione di gerarchia escludente, come materiale vs immateriale, umano vs non umano, maschile vs femminile, mentre lo scopo odierno consiste nel valorizzare la relazione tra questi elementi un tempo contrapposti” (p.52). Questo paradigma interpretativo imperniato sulla centralità della relazione innerva tutta la riflessione di Segre-Reinach e si configura come possibilità di scongiurare forme di sopraffazione e sfruttamento: “Le cose non sono solo oggetti inanimati, ma forme di relazione che abbracciano e attraversano organico e inorganico, collegando animali umani, animali non umani e tutto quanto ci circonda” (p.53).
Il compito di trattare le riflessioni e le implicazioni antropologico-filosofiche della relazione tra le soggettività di animali umani e non umani, come pure gli aspetti etico-politici riferiti alla liberazione animale è affidato all’imprescindibile contributo di Stefano Marino a complemento del volume.
Il libro si rivolge a chi studia la moda nei corsi universitari, a chi la insegna, e idealmente alla vasta, diversificata platea dei fruitori di moda sempre più desiderosi di scelte consapevoli.