L’“effetto Tenet” fra testo e tessuto
Chi ha visto l’ultima fatica di Christopher Nolan, Tenet (2020), che assieme a Inception (2010) e Interstellar (2014) costituisce il capitolo conclusivo di una specie di “trilogia del tempo” del regista inglese, è assai probabile abbia provato non poche perplessità. Non che le prove precedenti fossero esenti da grattacapi concettuali; Tenet, però, mette davvero a dura prova, perché i temi annunciati nelle altre due pellicole si moltiplicano, o per meglio dire si adulterano, si ingarbugliano in misura ben maggiore a partire dal titolo e dal motivo ispirazionale che lo alimenta. Come si può ben intuire, Tenet è un termine palindromico, allo stesso modo del suggestivo elemento da cui trae la sua fascinazione, ovvero il quadrato magico del Sator con l’enigmatica iscrizione “Sator Arepo Tenet Opera Rotas”, diffuso in varie versioni, compresa quella marmorea del duomo di Siena (Fig. 1). La traduzione della stringa suona più o meno come “il seminatore Arepo guida le ruote con cura”, ma a colpire è senza dubbio l’innesco a palindromo, di nuovo, dell’intera frase, nonché l’avanti-indietro di tutti gli altri termini del quadrato letti da destra a sinistra (e viceversa) e dall’alto al basso (e viceversa). Insomma, da qualsiasi parte lo si prenda il risultato fonetico e semantico non cambia, dando conferma del perno cruciale (pure qui, letteralmente, “a croce”), della parola “Tenet”, posta a fungere da chiave di volta in una logica di lettura che, al di là del significato, basa il suo magnetismo sulla costante idea di inversione. Il film di Nolan è infatti una complicata per quanto poderosa macchina narrativa lineare e controlineare, nel senso che buona parte dell’intreccio si svolge proprio con flusso invertito rispetto alla normale successione degli eventi, grazie a un manufatto, l’arepo per l’appunto, in grado di determinare una direzione opposta allo scorrere della realtà. Detto in altre parole, nelle vicende del film si viaggia a ritroso nel tempo, ma così facendo i protagonisti si ritrovano in condizione di “entropia inversa”, costretti ad abituarsi a eventi e situazioni estreme, dato che nella dimensione e contrario ogni attività avviene con modalità simmetricamente speculari, e quindi occorre ritarare qualsiasi attività motoria, come camminare con andatura rovesciata o servirsi di un apposito dispositivo che compensi la respirazione. I due regimi temporali fra l’altro si distinguono per una diversa colorazione, rosso in andamento normale, blu in assetto capovolto, secondo atmosfere che contribuiscono a disorientare la visione della trama, a indicare che qualcosa volutamente “non va” o “non fila dritto”, che la visionaria regia dell’autore genera situazioni fuori fase, stranianti e allucinogene (Fig. 2).
Ora, per quanto possa apparire azzardato, Nolan ha narrato su celluloide quanto la cultura in generale e la moda in prima linea testimoniano da sempre, certo con linguaggi diversi e caratteristiche proprie, ma ugualmente sdoppiate in una fenomenologia binomiale, in due vettori dalle direzioni opposte, tanto che appare tutt’altro che improprio riferirsi a un paradigma di interpretazione associabile a un nolaniano “effetto Tenet”. Esiste pertanto un intero filone di ricerca proiettato in avanti tutta, in una marcia a tratti violenta e irrefrenabile che spinge chi se ne fa portavoce a rincorrere il nuovo, a tallonare soluzioni inedite e inesplorate, con il corollario annesso di far fuori, travolgendolo, tutto ciò che appartiene alla tradizione e al “già visto”; un simile atteggiamento estetico-artistico è tipico dei movimenti di avanguardia, con il Futurismo di Marinetti in prima linea, accanto ai successivi prolungamenti nel secondo Novecento e negli anni Duemila. Ma il contemporaneo prevede anche l’alternanza di una seconda opzione, di un rinculo, di un ripiegamento, di una flessione tesa a rivalutare la forza della storia, quindi a impostare una rotta che nella sua inversione antioraria genera la necessità di voltarsi indietro, di rianimare la malia della memoria e di tutti i suoi prodotti culturali procedendo in retromarcia nel tempo, a rielaborare la sedimentazione dei saperi e a galvanizzarne l’accumulo; anche in questo caso è facile trovare un riscontro letterale nelle vicende della Metafisica dechirichiana e delle numerose riprese apparse a cicli in seno alla riscrittura e alla citazione, magari prendendo a paradigma l’insegna di The World’s End, il celebre negozio di Vivienne Westwood le cui lancette si muovono in rotazione contraria. In moda e in arte, la figura che incarna più di altri questo duplice andamento temporale, di un Giano voltato al contempo verso il passato e verso il futuro, è un personaggio che già nel suo pseudonimo contiene la valenza palindromica dell’“effetto Tenet”, cioè Thayaht, al secolo Ernesto Michaelles, celebre inventore della tuta nel 1920, ossia di una forma semplificata e minimale di nuovo conio, ma poco dopo, a fine decennio, divenuto eccellente banditore di una moda volta a rieditare pepli e tuniche (Fig. 3), elmi e sandali ellenici e romani (Fabbri 2019). Non per nulla il logo disegnato da Thayaht per Madeleine Vionnet è un perfetto esempio di grafica capace di mettere assieme vesti classiche, colonne e capitelli ionici, nel nome di un richiamo retrofilico tuttavia ben allineato allo spirito degli anni Venti e all’Art Déco. Infatti, meglio precisarlo, non si tratta di riproporre il passato così com’è. Per evitare il rischio di una sterile copiatura dei tempi trascorsi, ciascun atto di rivisitazione di materiali preesistenti, attinti dal museo o dal guardaroba tradizionale, impone una decisa presa di distanza, da individuare nell’utilizzo di un virgolettato che certifichi il prelievo passatista con i necessari indici di variazione se non con il dovuto distacco di ironia, magari trattando l’ammasso delle tradizioni sottoforma di stereotipo. Una simile condotta di pensiero la testimoniano con puntualità le indagini filosofiche di Gilles Deleuze con la sua Differenza e ripetizione, Jacques Derrida ne La scrittura e la differenza, non ultimo la notifica il vasto abbraccio esegetico messo a punto da Renato Barilli in Tra presenza e assenza. Ed è proprio su questo articolato sfondo teorico che prendono corpo le motivazioni di Eterotopia ed eterocronia. Sulle due nozioni evocate nel titolo si è misurato a più riprese anche un altro dei cosiddetti “nouveaux philosophes” francesi, Michel Foucault, che, quanto alle convergenze con ciò che si andrà ad analizzare fra poco, non solo ha il merito di aver coniato i termini, ma offre pure il vantaggio di averne racchiuso il valore in parole iconiche e assai efficaci. Intanto, Foucault individua molto bene il carattere di diversità dell’eterotopia, cioè la frequentazione di luoghi “altri”, di alibi, alla lettera, ravvisabile in una cultura sedotta dalla logica – o dalla illogica – del suo manifestarsi in via ubiquitaria, “Everything Everywhere All at Once”, per rubare il titolo del film diretto da Dan Kwan e Daniel Scheinert. “In generale l’eterotopia ha come regola quella di giustapporre in un luogo reale più spazi che normalmente sarebbero, dovrebbero essere incompatibili” (Foucault 2006: 18), scrive lo studioso, affrettandosi poi a integrare come “le eterotopie siano per lo più connesse a delle strane suddivisioni del tempo” e appaiano “affini, se volete, alle eterocronie” (Foucault 2006: 20). Foucault riepiloga infine la sua visione con parole chiare e ineccepibili:
[…] l’idea di accumulare tutto, l’idea di fermare in qualche modo il tempo o, piuttosto, di farlo depositare all’infinito in un certo spazio privilegiato, l’idea di costituire l’archivio generale di una cultura, la volontà di rinchiudere in un luogo ogni tempo, ogni epoca, ogni forma e ogni gusto, l’idea di costituire uno spazio per ogni tempo, come se questo spazio potesse essere definitivamente fuori del tempo, questa è un’idea tutta moderna: il museo e la biblioteca sono delle eterotopie proprie della nostra cultura (Foucault 2006: 20-21).
Volendo, ci si può rivolgere a un’ulteriore categoria di inversione passatista nella “retrotopia” di Zygmunt Bauman, anche se lo studioso polacco se ne avvale in termini per lo più negativi e piuttosto allarmistici (Bauman 2017). Del resto, l’ossessione verso il ricordo e il fissaggio memonico sta alla base di un altro film di Nolan, Memento (2000), dove il protagonista incide la propria pelle con tatuaggi che servono a rammentargli cosa è accaduto e cosa dovrà fare.
Posta la necessaria piattaforma teorica a cappello introduttivo di Eterotopia ed eterocronia, è l’ora di entrare nel vivo dell’armadio e delle collezioni per saggiarne a fondo la tenuta, non senza una precisazione supplementare. Naturalmente, l’avanti-indietro dell’“effetto Tenet”, o dell’“effetto Thayaht”, se lo si preferisce, implica il rinvenimento di soluzioni che tra di loro appaiono del tutto antitetiche e contrastanti, con rare eccezioni. Le differenze più tangibili tra questi due sensi di marcia riguardano lo scontro tra le dinamiche del “qui e ora” e le riesumazioni del “là e allora”, tra il tuffo immersivo nell’attimo presente con tutta la pienezza delle sue contingenze e della “carne del mondo”, si direbbe usando le parole di Merleau-Ponty, di contro ai salti d’orbita del remix cronologico, della virata continua e frenetica tra le epoche del passato compiute a “balzo di tigre”, stando alla bella metafora di Walter Benjamin. Con conseguenze verificabili sul campo. Da un lato, la linea “rossa” – quella della presenza, di ricerca di vita autentica, epifanica nella celebrazione del carpe diem – coglie la realtà al suo grado zero, in via immediata e senza orpelli, in base a una tendenza che in moda si enuncia spesso attraverso l’impiego di materiali poveri e primitivi di cui la terna Miyake-Kawakubo-Yamamoto rappresenta l’esemplificazione più convincente; dall’altro, la linea “blu” dell’escavazione temporale tende viceversa a esaltare miti e storie di un alibi distante e immaginato, stavolta ricco, perfino sontuoso nell’uso di ricami e stampe, sulla scia di stilisti che, partiti da lontano, includono nomi del calibro di Balmain, poi Valentino, Lagerfeld, Saint Laurent, su su fino alle generazioni più recenti. Detto in formula, il fronte dei “presenzialisti” incentra la sua visione sulla valenza del tessuto, osteggiando qualsiasi eccesso di decorazione e di ghirigori, rei di distrarre dallo scopo primario di liberare il corpo, di conferirgli una spinta di tipo performativo dentro il solco dell’attimo fuggente; viceversa, lo squadrone degli “assenzialisti” ama alla follia i sintagmi della narrazione, della storia, del mito, agguantati in una mescolanza fra l’attualità più spinta e i tempi remoti, e dunque preferisce pensare all’abito come una superficie pittorica o scultorea in grado di funzionare come un testo da riempire e variare all’infinito.1 Oltre a raccordarsi alle ragioni del titolo tra i due poli dell’eterotopia e l’eterocronia, quest’ultimo ramo di investigazione basato sul testo e l’intreccio rispecchia la fisionomia di contenuti di Fashion Tales e il relativo convegno organizzato da ModaCult, come del resto ricalca con fedeltà il panel Global Narratives on Fashion che vi ha preso parte.
Per contiguità di esposizione rispetto all’“effetto Tenet” e rimandando ad altre ricerche la lunga ricostruzione dei couturier e delle couturière sedotti dal passato (Fabbri 2019), nella vasta platea dei time travelers della moda contemporanea si è scelto di approfondire la collaborazione fra Givenchy e Riccardo Tisci (1974), il bravissimo direttore creativo al timone di Burberry dal 2018 al 2022, che esemplifica le tesi fin qui annunciate anche dal punto di vista della collocazione generazionale. Infatti, i designer venuti alla luce “attorno al 1970”, anno che peraltro vede la nascita dello stesso Nolan, rientrano in una costellazione generale di operatori culturali che include personaggi come Alexander McQueen (1969), Hussein Chalayan (1970), Nicolas Ghesquière (1971), Alessandro Michele (1972), Pier Paolo Piccioli (1967), Viktor & Rolf (entrambi del 1969), tutti già ampiamente affrontati in uno studio unitario (Fabbri 2021); analogamente, fanno parte di questa talentuosa pattuglia di stilisti Phoebe Philo (1973), Stella McCartney (1972), Haider Ackermann (1971), Hedi Slimane (1968), Julian MacDonald (1971), solo per citare i casi più rappresentativi, tutte e tutti prima o poi meritevoli di adeguati approfondimenti monografici.
The Time Warp
Il pezzo trainante di The Rocky Horror Picture Show, 1975, uno dei musical più osannati dal grande pubblico per la sua energia, per il suo carattere di artificiosità spinta, le mascherate, per le innumerevoli giravolte queer e i travestitismi folli, è The Time Warp. In anni ancora parecchio lontani dalle conferme della comunità scientifica, inneggiando a una danza magica tra un saltello a sinistra e un passetto a destra, il testo evoca situazioni demenziali che richiamano l’orizzonte degli eventi di un buco nero e adombra i deliri di un viaggio psichedelico: “I remember doing the Time Warp / Drinking those moments when / The blackness would hit me / And the void would be calling […] / With a bit of a mind flip / You’re into the time slip”. Distorsione e slittamento temporali, dunque. Ma non sono, quelli cantati nel brano, gli stessi ingredienti di una moda votata al culto dell’eterotopia e dell’eterocronia e dei loro viaggi spazio-temporali? Di queste parole d’ordine – nonché di ingiunzioni di stile – Riccardo Tisci dà testimonianza fin dalla sua prima collezione ufficiale, presentata a Milano per l’autunno-inverno 2004-05 (Fig. 4), dopo brevi parentesi da Puma, Coccapani e Ruffo Research. Tarantino di nascita e formatosi alla Central Saint Martins, dove per la verità aveva già realizzato una collezione / tesi di laurea molto apprezzata da Björk e da John Galliano, per la sua sfilata meneghina, l’unica eponima, e con l’aiuto prezioso di Mariacarla Boscono, Tisci sceglie un’ambientazione e una modalità piuttosto anomali per uno stilista emergente, cioè una fabbrica scalcagnata e derelitta, in tarda serata, lì per lì molto più adatta alle sfilate di un Helmut Lang o di un Rick Owens; poteva sembrare il luogo, anzi il non-luogo perfetto per abiti del tutto anti-glam, spogli e slabbrati, quindi ascrivibili a un armadio consono alle sperimentazioni sul tessuto e sulle forme, poco interessato a diffondere una filosofia indumentale densa di cascami ornamentali e di cristallizzazioni di posa. Tuttavia, a viso scoperto o sottotraccia, malgrado una certa componente di “informe”2 resti quasi inseparabile dalla poetica di Tisci, la grande croce allestita nella sala e il profumo di incenso asperso per l’aria venivano a spostare l’accento sul versante relativo al testo, all’affabulazione narrativa, stavolta giocata per intero sui miti e sulle rappresentazioni del cattolicesimo. Una scala di colori improntata alla monocromia, in nero, in bianco e in beige, in pratica il Dna della palette tisciana, mostra l’esecuzione di abiti lunghi e fluidi con grinze e tagli a vivo, in soluzioni che indurrebbero a pensare a un discepolo di Yamamoto, o di Rei Kawakubo, ma si coglie al volo, da parte di Tisci, l’immissione di elementi attinti da un guardaroba di impronta religiosa quali cuffie da suora, cocolle e veli monastici. In pratica, nella prima e unica prova a suo nome lo stilista ci mette dello stereotipo, dell’inautentico, mostrando di palleggiare con dei visibili spezzoni narrativi, con la storia e con miti di ascendenza cristologica come a suo tempo era accaduto a Versace con le spoglie della sua Magna Grecia. Oltre a interventi di tipo iconico e iconografico, Tisci eroga alla povertà apparente delle sue creazioni una non trascurabile quantità di elementi al “ricco”, di strass, di scaglie e di pizzi, questi ultimi non di rado sfibrati da un trattamento che tende a conferire all’insieme la visitazione di un soffio primario. Tuttavia, quella darkness destinata ad accompagnare gran parte della carriera dello stilista, al punto da indurre la critica a etichettarlo come gotico e – banalmente – romantico, non va verso l’“oblio”, ossia verso l’oscurità – come vuole l’etimo della parola; al contrario si dirige a passo sicuro dentro le grandi narrazioni e le “global tales” della memoria collettiva, rivisitandole in chiave di inautenticità e di assoluta finzione. Non può infatti sfuggire il catalogo posturale delle modelle, impegnate a mimare lo sdilinquimento di qualche santa o ad assumere la posa plastica di una madonna in carne e ossa.
Delle potenzialità espresse da Tisci con i pochi mezzi a disposizione di allora si accorge subito Marco Gobbetti, che lo chiama da Givenchy (e da Burberry, molto più avanti) al posto di MacDonald. A giudicare dalle prove d’esordio alla celebre maison francese, non si può affermare che il designer abbia esibito le proprie capacità in un sol un colpo. La sua è una progressione dosata verso un linguaggio maturo, pazzesco, inequivocabile, ma condotto passo dopo passo, senza il botto iniziale a fuochi d’artificio; lo stilista conquista il suo ruolo e la sua fama con ascesa graduale, scalare, per quanto inesorabilmente cadenzata da risultati in grado di consolidarsi grazie al ralenti della loro crescita, come avviene per i legni pregiati e duraturi. E di pregio, alla lettera, la vena di Tisci inizia a rivelarne sempre più, nell’aumento costante di una manipolazione atta a raffreddare, a porre un freno al vitalismo dei suoi tessuti, ora costellati di pietruzze, o coagulati in orlature di sangalli e merletti, vedi la haute couture primavera-estate 2006. Citazione, eterocronia e sospensione retrofilica trapelano inoltre dalla scelta degli scatti fotografici, spesso realizzati su uno sfondo di tele e cavalletti accatastati (Fig. 5): come a dire, concepisco i miei lavori a mo’ di elementi artistici, converto la silhouette femminile in corpo scultoreo, uso gli strumenti di un pittore per sottolineare la mia volontà di attingere dal museo, in tal modo incrociando a distanza il concettuale colto di Giulio Paolini. Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, si sa che pure l’artista torinese esponeva al rovescio gli attrezzi del mestiere delle Belle Arti, tra cui tele, pennelli e cornici, per l’appunto. Quanto a Tisci, il medesimo “effetto Tenet” ostenta tutta la forza gravitazionale della sua applicazione, accumula, assomma, affastella un numero consistente di altri richiami culturali, compresi quelli diretti alla storia della moda e in particolare a Yves Saint Laurent, tra i baluardi della sua formazione, confermandone la propensione a dimostrarsi generale esecutore di rapsodie eterocroniche. Nella primavera-estate haute couture 2007 e nel prêt-à-porter autunno-inverno 2007-08, finalmente la dirompenza di Tisci fa vedere cosa sa fare cogliendo anche a parole la certificazione di un cambio, di un’accelerata, visto che i temi sono incentrati, precisa, sulla “metamorfosi dei marinai in sirene”.3 Forse è bene aggiungere qualche fugace osservazione in merito ad affermazioni come queste, poiché il senso e la gittata raccordano la poetica dello stilista ai surrealismi altrettanto eterotopici di Elsa Schiaparelli e alle visioni di un compagno di strada e di generazione di Tisci, Alexander McQueen, alla guida di Givenchy fino a un decennio prima. Sta di fatto che il tarantino trova bene la sua quadra se non la quadratura del cerchio (Fig. 6); seppure con presupposti molto diversi, come Saint Laurent negli anni Sessanta Tisci ribalta al femminile il machismo tutto d’un pezzo suggerito dall’uniforme militare, nello specifico quella della marina, ma diversamente del suo illustre predecessore il tutto avviene con una poderosa alterazione dei capi e dei volumi, oramai rassegnati a subire un ingente intervento di riscrittura, di smontaggio e rimontaggio. Nel condurre la sua rivisitazione, Tisci sfrutta una tecnica molto cara all’arsenale espressivo della moda, l’ipertrofia, o l’ingigantimento di elementi figurali – da distinguere dall’oversize, inteso in via principale, come dice la parola stessa, con l’incremento delle consuete misure di un capo. Lo straniamento ipertrofico consiste nell’infliggere ai suoi oggetti di attenzione proporzioni grottesche, ben esemplificate dalle dimensioni dei berretti da ammiraglio, abnormi, geneticamente modificati, pronti a dispiegarsi al neutro – si fa per dire – o a offrire vaste superfici da ornare, da decorare a piacimento. Prendono sempre più piede, infatti, stampe ora colorate e sontuose, ora grafiche e controllate, attente tuttavia a evitare apparizioni facili e prevedibili, magari aiutate da un trattamento di ipertrofia già collaudato da Valentino negli anni Sessanta e ripreso da Tisci nella primavera-estate 2008; come con l’Ultimo Imperatore della moda (così è stato definito il couturier di Voghera), qui il motivo dei pois subisce l’ennesima adulterazione cromosomica e incorre in un marcato aumento di proporzioni, con i cerchi piccoli, poi medi, poi grandi e poi enormi (Fig. 7), oppure incavati nelle superfici e orlati di metallo così da squadernarsi in negativo, mentre sandali alla schiava e tagli sartoriali accompagnano coraggiosi innesti di eterotopia tessutale in corsetti ricavati da giacche monopetto. Toni identici per la collezione haute couture dello stesso anno, in cui spiccano l’alterazione e il congelamento dei volants, ora simili a incredibili spire o a elaborate catene di stoffa, ma arrotolate sul busto di un donna-transformer, magnifiche gorgiere fuori controllo pronte ad appallottolarsi in sfere o ad avvolgere parte della silhouette (Fig. 8). Trapela un fare da un Frankenstein “taglia e incolla” dall’estetica di Tisci, da chirurgo in vena di riuscitissimi coacervi fra elementi indumentali di varia origine e, sia chiaro, in un senso strettamente artistico-letterario, dato che il designer rientra per diritto di stile nella linea di soluzioni lanciate dalla Metafisica di de Chirico, dal desiderio di ritrovare le “origini”, come dichiarava l’artista per bocca del suo Ebdòmero, per ravvivarle con accostamenti azzardati fra i miraggi del tempo passato e gli articoli del tempo presente. Nel suo vortice onnivoro, questo micidiale quanto straordinario time warping risucchia altre suggestioni di un lontano consanguineo di Tisci, Karl Lagerfeld, il quale, come si ricorderà, alla testa di Chanel aveva sostituito i noti sei giri di perle di Mademoiselle con catenoni da rapper, smaccati, dorati e luccicanti, puntualmente ripresi e moltiplicati per dieci nell’autunno-inverno 2008-09 tisciana, in un diluvio di ori e di passamanerie (Fig. 9). Per fugare ogni titubanza circa l’adesione spontanea di Tisci ai contorni dell’eterotopia e dell’eterocronia, basta ascoltare le fonti ispirazionali per l’autunno-inverno 2009-10, “in effetti, volevo mettere in mostra una moltitudine di forme per ogni tipo di donna”, premettendo che la sfilata si incentra su “Schiaparelli, sensualità animale, gli anni Quaranta, gli anni Trenta”.4 Citando la madrina del Surrealismo in moda, Tisci cementa quindi i fondamentali della sua filosofia, l’erranza e il vagabondaggio dello spazio-tempo combinati in un look unitario, come Romeo Gigli negli anni Ottanta e Novanta, nelle raffinatezze che mescolano le vesti delle popolazioni berbere e gli ornamenti dei Mori ma con la solita mutazione genetica a introdurre note di effetti speciali.
Massimalismi e special effects di certo non vengono a mancare anche quando Tisci sostituisce Ozwald Boateng alle linee maschili di Givenchy. Il debutto avviene con la primavera-estate 2009, dove le abituali monocromie dello stilista, soprattutto in beige, vengono insediate da un colore oltremodo schiaparelliano, il fucsia (Fig. 10), che si presenta in tinta unita, in pizzi o decorazioni, e dunque – con l’immancabile somministrazione di straniamento del credo tisciano –, in tessuti solitamente ben poco associati alle collezioni da uomo. Forse le minori possibilità di variazione dei codici di abbigliamento maschile, nella persuasione comune che ne percepisce l’armadio come un insieme di morfologie meno duttili rispetto agli abiti pour femme, spinge lo stilista a darci dentro con l’inventiva e con gli accostamenti, a cominciare dalla primavera-estate 2010, perfetto esempio di rimodulazione totale di elementi tradizionali quali il kilt e lo scozzese (Fig. 11), vedi McQueen, mandati “su di giri” nel remix con ori e altre decorazioni stavolta pescate dal thesaurus del mondo greco-romano. Naturalmente, la lunga eco della prima sfilata a marchio Tisci torna e ritorna prepotente per appoggiarsi a una pratica molto amata dallo stilista, la stampa, risolta nientemeno che attraverso l’uso dell’icona delle icone, Gesù Cristo, “Jesus is Lord”, recita la T-shirt con il volto dell’Ecce Homo. Ma non si esaltino i fanatici del cattolicesimo, meno ancora si infervoriscano i tanti critici, soprattutto anglosassoni, ingannati dalla tiritera del designer cattolico ossessionato dal culto religioso. Casomai, messi da parte bibbie e vangeli, al pari di ogni compagno di strada Tisci si conferma formidabile cacciatore di miti, di cliché e di stereotipi del presente e del passato, di immagini dal forte impatto visivo e mediatico, per cui il Cristo non solo si riaffaccia di prepotenza nella primavera-estate uomo 2016, compare anche a preludio dei rottweiler e delle pantere che verranno di lì a poco; si tratta di mascherate che sono spesso impreziosite da uno styling capace di suggerire atmosfere tenebrose, da wrestler, costellate come sempre dagli spiazzamenti del filtro eterocronico. In altre parole, ciascuna soluzione operata da Tisci viene a innestarsi su materiali volti a sottolinearne gli aspetti di eclettismo e ludicità, di illustrazioni animalier usate in profusione ad esempio, o appunto di minacciosi caschi da lottatore tuttavia edulcorati da ornamenti a stucco e infarciti di altri addobbi, di altre bellurie. E se, per restare sulle collezioni uomo, per l’autunno-inverno 2011-12 le fauci aperte dei rottweiler di cui sopra annunciano latrati di intimidazione (Fig. 12), il molossoide abbaia ma non morde quando Tisci lo clona in decorazioni simili a fiammate nere e gialle incastonate da simil-incisioni lignee, quasi fossero metope, abbinate poi a giacche, a stivali sopra al ginocchio o, ancora, alla quadrettatura dello scozzese. Beninteso, le soluzioni di Tisci sanno essere anche molto più vivaci e colorate, in linea con l’approccio eterotopico da “effetto Tenet” di cui sono impeccabile concretizzazione tessutale. In tal senso la primavera-estate 2014 è probabilmente una delle sue collezioni da uomo più spettacolari e al tempo una delle più emblematiche, dato che agli occhi dello stilista lo spostamento geografico verso l’Africa corrisponde a una magistrale citazione di decorazioni e tribalismi, rivisitati da una campionatura legata al mondo della musica (Fig. 13). Ogni tassello grafico della sfilata richiama così svariati strumenti di registrazione sonora, su tutti mixer, stazioni audio, sequencer e multitraccia, cablaggi e workstation; note di colore piene e sature si riversano sulle bellissime stampe del designer usate come arabeschi del contemporaneo, degne di comparire sui tessuti allo stesso titolo di arazzi o di trame barocche, senza comunque dimenticare che un simile trattamento di grafie trasforma il portatore in una specie di robot, di creatura androide ostentatamente artificiale.
Ma infatti, tornando alle collezioni da donna, è proprio da questa prospettiva che Tisci certifica cosa sa fare, mostrando con padronanza di manomettere il corpo, di soppiantarlo, di riscriverne le forme naturali con intelaiature di materia inorganica; per ricondurre tali sintetizzazioni somatiche ai suoi vagiti storici, lo stilista attesta inoltre di rilanciare la “nuova umanità” teorizzata negli anni Cinquanta da Pierre Balmain e di simpatizzare a distanza con la “maestà superlativa delle forme artificiali” celebrate da Baudelaire oltre un secolo addietro. Sia come sia, il pizzo Chantilly e le piume di struzzo dell’autunno-inverno haute couture 2010-11 nulla conterebbero, in termini di inventiva e di sperimentazione, se lasciati a impolverare nella nobiltà di pur raffinate tradizioni, artigianali ed esecutive, ma sorprendono, incantano e rapiscono una volta rielaborati in direzione post-human, vale a dire una volta impastati alla pelle, alle ossa, ai tratti del corpo femminile, fino a sostituirli (Fig. 14). Detto diversamente, Tisci plasma una corporalità che in luogo di manifestarsi con piglio performativo si marmorizza in pose da cui essudano cristalli, perle, ori e brillanti, come se secreti da un derma totalmente mutato nel suo pool genetico per aderire alla silhouette con una guaina di preziosità simmetriche e per nulla scontate. Non a caso lo stilista le distribuisce in configurazioni impossibili, di una biologia alterata da un incantesimo volto a convertire l’anatomia naturale nel suo equivalente sintetico, di macchie di Rorschach fatte di luccicori e barbagli; in anticipo su taluni esiti di Iris van Herpen ma sempre attento a rispettare le escursioni eterocroniche dell’“effetto Tenet”, ben addentro il “là e allora” di ricami sontuosi, Tisci addomestica il cuoio per intagliarlo in linearismi spettacolari, stilizzati, come di stucchi felici di adagiarsi su boleri e corsetti purché tutto ciò avvenga dopo un bagno di grafie al digitale. Malgrado la volatilità di tanti tessuti, di veli e di piumaggi, Tisci si precipita a indurire, a calcificare le sue creazioni, comunque a strutturarle con la compattezza di incredibili ramificazioni ossee, talvolta così espanse da solidificarsi nella cupola di un carapace o da irrobustirsi nell’impenetrabilità di una corazza. Altrettanto fenomenale la primavera-estate haute couture 2011 (Fig. 15). Qui lo stilista mette in scena su abito uno dei tratti comuni alla sua piattaforma generazionale di nato “attorno al 1970”, cioè l’ispirazione dal mondo dei manga e degli anime giapponesi, in pieno accordo con certi esiti di Nicolas Ghesquière. Il punto focale della collezione è rappresentato dall’ipertrofia dei copricapi, elementi coriacei preannunciati dalle collezioni dedicate alla marina (primavera-estate haute couture 2007 e autunno-inverno 2007-08), ora resi, se possibile, ancora più grandi, rivisitazione in scala maggiore di altrettanti elmi di samurai, al solito geneticamente modificati anche grazie alla collaborazione con Philip Treacy, l’imbattibile cappellaio matto. Anche in questa occasione fa mostra di sé la dialettica tra materiali duri e morbidi, tra tessuti leggeri, trasparenti come veli e piume, a contrasto con carenature plastiche e strutturate; gli elementi figurativi subiscono il solito congelamento dello stilista, si stendono pertanto in schiacciamento bidimensionale, puntuti nelle sagome e perfino nell’estrusione in 3D, al punto da divenire vere e proprie armature. Queste creature tisciane sembrano depositarie di superpoteri secolari se non millenari, seppure da eroine da cartone animato per come l’eterocronia del designer ne sposta la silhouette sul piano dei riferimenti all’attualità più stringente. D’altronde, elementi duri e metallici compaiono anche nella collezione autunno-inverno haute couture 2016-17, dove la consistenza vetrosa di gemme luccicanti integra l’ennesima dimostrazione dell’“effetto Tenet” (Fig. 16). Sullo sfondo dichiarativo di busti in gesso, le immagini catturano modelle altrettanto gessificate, ma la preziosità di ricami e di savoir faire artigianale cui si ispira Tisci non se ne sta certo inerte a ripetere passivamente le glorie della tradizione e si configura in plissettature a colonna, vedi Mariano Fortuny, sebbene modulate a inseguire biologie mutanti, ricami sontuosi abbinati a cravatte, o trame e intrecci governati dalle forze di un campo magnetico.
Bibliografia
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Derrida, Jacques. La scrittura e la differenza. Torino: Einaudi 2002.
Evans, Caroline and Vaccari, Alessandra, a c. di. Il tempo della moda. Milano: Mimesis 2019.
Fabbri, Fabriano. L’orizzonte degli eventi. Gli stili della moda dagli anni Sessanta a oggi. Bologna: Atlante 2013.
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Vattimo, Gianni. La società trasparente. Milano: Garzanti 1989.
Vigarello, Georges. L’abito femminile. Torino: Einaudi 2018.
Perfette le osservazioni di Evans, Vaccari, 13: “Il concetto di tempo antilineare permette di comprendere il design della moda come un incessante processo di citazione, ricostruzione e ricombinazione di motivi nel quale sono in gioco nostalgia e revival”.↩︎
Cfr. l’accezione di “informe” indagata da Bois, Krauss (2003) nel saggio omonimo.↩︎
Citato da S. Mower su www.vogue.com in data 3 gennaio 2007.↩︎
Citato da S. Mower su www.vogue.com in data 8 marzo 2008.↩︎