“Non solo Kimono, come il Giappone ha influenzato la moda italiana” è il libro di Laura Dimitrio pubblicato da Skira nel 2022, nella collana “Moda e costume”.
Con questa pubblicazione l’autrice porta a conclusione una serie di approfonditi studi relativi alla cultura del paese del Sol Levante, per rivelare le relazioni culturali, politiche e artistiche che legano i due mondi prima di trovare un esito evidente nella forma degli abiti e nei pattern figurativi dei tessuti. Il libro, infatti, corredato da un ricco apparato iconografico tratto da riviste, pubblicazioni e bozzetti reperiti in archivi di aziende di moda, mette in risalto aspetti e tangenze tra la cultura giapponese e molti protagonisti del fashion system italiano mai analiticamente esplorati finora, nonostante la recente attenzione al giapponismo dimostrata in occasione di mostre rivolte genericamente al fenomeno. A introdurre il racconto è Akiko Fukai, storica e massima esperta di moda e arti tessili giapponesi, nonché direttrice emerita del Kyoto Fashion Institute, la quale afferma che:
La cultura giapponese, profondamente diversa da quella dell’Occidente, giungendo in Italia è divenuta una sorta di “nuova sorgente” […] Tale sorgente è stata fonte di ispirazione per la moda italiana e dà vita ancora oggi a nuove e meravigliose creazioni. È una storia destinata a continuare nel tempo.
Diviso in tre parti, il volume si apre con un’indagine sulla fortuna del kimono a partire dalla scoperta del Giappone e dalle prime notizie sul suo abbigliamento giunte in Europa e in Italia dopo il 1543. Segue, poi, un lungo viaggio che arriva fino agli inizi del XXI secolo, declinando le diverse fasi di influenza giapponese sulla moda occidentale, secondo un’articolazione che vede sostanzialmente susseguirsi una prima fase legata all’introduzione del kimono come segno di gusto esotico (tra Seicento e tardo Ottocento); una successiva di replica di motivi figurativi e tecniche di stampa sui tessuti secondo il modello nipponico; una terza stagione di «presa di coscienza della plastica del kimono» nella moda occidentale; e, infine, un periodo più recente di «libera interpretazione dell’estetica giapponese», manifestatosi nella variegata declinazione di forme e tagli del modello originale dell’indumento.
L’affondo sui vari tematismi, dopo un incipit riferito alla stagione pionieristica di conoscenza di questo volto del costume orientale e quella barocca di indagine sugli intrecci di reminiscenze giapponesi e mediorientali nei tessuti “bizarres” prodotti in Italia per confezionare pregiatissimi capi di abbigliamento — sintomo di una percezione allora ancora vaga del paese del Sol Levante — e una sorprendente scoperta degli effetti della kimono-mania, il libro entra nel vivo della storia italiana più vivace, addentrandosi in una disanima puntuale dei riferimenti, velati o diretti, assunti dalla couture nazionale alla metà del Novecento.
Ma l’esplosione della passione per il Japan Look, come noto, segue l’Expo di Osaka del 1970 e molte collezioni di Mila Schön, Irene Galitzine, Ken Scott ne sono la dimostrazione più evidente. Analogamente nei primissimi anni ’80 la pubblicistica, la cinematografia, i successi economici e finanziari nipponici, i kolossal televisivi su Marco Polo, catturano in un magnetismo senza uguali l’interesse di designer, artisti e creativi, con un conseguente dilagare del successo della moda ispirata ai colori, alle armature, ai costumi, alle maschere di quel mondo. Le collezioni degli anni 1981 e 1982 di Pino Lancetti, Giorgio Armani, Gianfranco Ferrè, Krizia, Mario Valentino ne hanno risentito fortemente.
Negli ultimi tempi, i manga, gli anime e i videogames hanno contribuito alla nascita di una nuova forma di giapponismo che si protrae fino ai nostri giorni, il cosiddetto pop-giapponismo, cultura popolare che si distingue da quella tardo-ottocentesca e dal neo-giapponismo proprio per il coinvolgimento delle generazioni più giovani; questi dimostrano un forte trasporto verso la moda proposta dagli stilisti d’avanguardia mantenendo comunque alto l’interesse per i costumi tradizionali.
In questi scambi di suggestioni e modelli il Giappone ha continuato a esercitare la sua influenza non tanto per il kimono — che resta comunque presente nelle collezioni di abbigliamento di Gian Marco Venturi e Dolce & Gabbana, per citarne alcuni — quanto piuttosto per le forme d’avanguardia dei fashion designer Yohji Yamamoto e Rei Kawakubo. Sono stati molti i designer orientali, infatti, che attraverso il loro stile, caratterizzato da abiti destrutturati, forme fluide e da una forte propensione per la sperimentazione, hanno contaminato la moda italiana. Agli albori degli anni ’70 Kenzo Takada, Issey Miyake, Yohji Yamamoto, Rei Kawakubo e Comme des Garçon hanno anticipato la globalizzazione e attinto identità da culture diverse, proponendo abiti unisex e adatti a tutte le stagioni. La produzione di questi anni, distinta da una linea minimalista, pertanto, è stata figlia del loro insegnamento e le collezioni di Romeo Gigli, Prada e Giorgio Armani ne sono le più chiare testimonianze.
Dopo la parabola storica, l’autrice chiude il racconto guardando ai fenomeni più attuali offrendo interessanti affondi sulle subculture Kawaii, Lolita e Cosplayers, forme di ribellione giovanile — nate per sottrarsi a una società uniformante — che continuano a esercitare una forte attrazione sull’immaginario artistico e creativo italiano. Queste, anche se accomunate dallo stesso scopo, hanno uno stile completamente diverso: quello Kawaii rappresenta il mondo infantile, è asessuato e dolce; quello Lolita, invece, prende ispirazione dagli abiti delle bambole dell’Ottocento e si distingue in Gothic Lolita, in cui si prediligono abiti neri, Classic Lolita che, al contrario, adotta colori più sobri e Sweet Lolita che privilegia colori pastello e decorazioni a base di caramelle, fiocchetti e fragole. Infine, persiste il mondo dei Cosplayers, persone che si divertono a imitare i costumi dei loro manga o anime preferiti. Tra tutti, come evidenzia la studiosa, il repertorio figurativo Kawaii negli anni più recenti ha riscosso più successo e diversi marchi di moda hanno incluso questo stile nelle loro collezioni: Fiorucci con la linea Love Therapy; Fornarina nella stagione 2008/2009 con le t-shirt decorate con i fumetti dell’artista Junko Mizuno; Tokidoki di Simone Legno, che basa il suo linguaggio figurativo sullo stile Kawaii; così come la gattina antropomorfa di Hello Kitty — definita l’emblema del fenomeno — contamina abiti e accessori di Furla, Tezenis e GCDS.
Dunque, 253 pagine ben scritte e stampate e un repertorio iconografico di 232 immagini accompagnano il lettore in un racconto molto chiaro e suggestivo della osmosi che nel tempo si è compiuta tra le culture di questi due mondi solo apparentemente molto lontani.