1 Introduzione
Fino a un paio di anni fa, parlare di mostre virtuali in Italia significava fare riferimento a un’opportunità di valorizzazione del patrimonio culturale di cui si intendevano le potenzialità ma che risultava difficile far conoscere ad un vasto pubblico di visitatori. Poi il Covid ha cambiato tutto: i vari lockdown succedutisi nel corso della pandemia, dal più duro dei primi mesi del 2020 a quelli più moderati imposti dalle successive ondate, hanno spinto il pubblico verso l’esplorazione di nuove modalità di fruizione del patrimonio legate, in modi estremamente eterogenei, alle piattaforme digitali. E così le mostre virtuali, insieme allo storytelling sui social media, alle attività didattiche sui canali dedicati, ai vari contest fotografici, e via dicendo con gli esempi che ognuno potrebbe proporre, sono diventate per le istituzioni museali uno strumento sempre più abituale su cui puntare per mantenere vivo l’interesse nei confronti delle proprie collezioni e delle attività ad esse collegate. I vantaggi delle mostre virtuali sono noti da tempo: è trascorso un quarto di secolo quando, agli albori del web, David Silver in un articolo pionieristico sul tema1, ne tracciava un quadro sommario indicando nella loro ipertestualità e dinamicità gli elementi più significativi che caratterizzano la loro ragione di esistere non come mere appendici di mostre reali per un indefinito pubblico remoto, ma come soluzioni innovative in grado di proporsi con un proprio specifico linguaggio forgiato su pratiche curatoriali capaci di mettere a frutto le possibilità offerte dall’incessante evoluzione delle tecnologie.
Da allora abbiamo assistito a due fatti: in primo luogo un notevole sviluppo di soluzioni software — commerciali e non, con differenti gradi di complessità e interoperabilità — per creare e mantenere mostre virtuali; in secondo luogo l’implementazione di un numero veramente significativo di esposizioni sviluppate non solo nell’ambito delle istituzioni della memoria (includendo in questa dicitura musei, archivi e biblioteche) ma anche in contesti privati (per esempio aziendali) o pensate e messe online da singoli appassionati capaci di reperire in Rete i materiali utili ai fini dei loro allestimenti. Due fatti significativi, senza dubbio, ma non di portata tale da far uscire questo tipo di offerta culturale da una nicchia visitata per lo più dagli addetti ai lavori e, se vogliamo, da un pubblico estremamente mirato2. In merito alla questione, il MIBACT nel suo Piano Triennale per la Digitalizzazione e l’Innovazione dei Musei pubblicato pochi mesi prima dello scoppio dell’epidemia, rilevava come sebbene “le tecnologie siano utilizzate da molti anni, è solo di recente che lo sviluppo hardware e software ha permesso di realizzare delle esperienze accessibili al grande pubblico”3; tuttavia, è bene rammentarlo ancora, questo “grande pubblico”, prima della pandemia, non si era quasi mai visto tra le sale delle mostre virtuali.
Complice la chiusura forzata dei luoghi della cultura a causa del Covid, i visitatori online si sono moltiplicati: anche se non è sempre agevole tracciare un quadro plausibile della situazione interpretando dati talora contraddittori4, ci pare possibile affermare come al di là delle proposte veicolate sulle piattaforme social che hanno fuor di dubbio riscontrato un clamoroso successo di pubblico, anche i percorsi di visita virtuale abbiano suscitato un certo interesse sia nei confronti di chi non ne conosceva l’esistenza, sia verso coloro che, pur conoscendoli, non li avevano mai esperiti.
Occorrerà tempo ulteriore e ulteriori indagini rispetto a quelle già realizzate per capire in quali termini la pandemia avrà modificato le modalità di fruizione museale5; quello che però già ora ci appare come un dato acquisito è il seguente: l’investimento sulle mostre virtuali rappresenterà una voce sempre più importante nei capitoli di spesa destinati alla digitalizzazione, non solo in relazione a pubblici particolari, di appassionati e di ricercatori, come già avveniva nel passato, ma anche verso nuove e più ampie fasce di utenza.
Sullo sfondo di queste considerazioni generali si articolano i contenuti di questo intervento che prende in esame un caso particolare, ovvero la mostra virtuale intitolata 1972. Moda, design, storia, realizzata presso il Centro Studi Archivio della Comunicazione (CSAC) dell’Università di Parma6. Tre gli scopi che ci prefiggiamo: a) in primo luogo sottolineare il ruolo che le mostre virtuali hanno avuto nell’ambito della comunicazione riferibile alla moda e al design; b) in secondo luogo illustrare con un esempio concreto come le opere di un’istituzione volta alla conservazione, opere abitualmente invisibili, possano non solo essere portate alla luce ma valorizzate in un percorso narrativo multimediale; c) infine presentare — attraverso questo caso di studio — alcune soluzioni tecniche innovative sul piano dell’implementazione delle mostre online, in specifico Omeka e IIIF.
2 Comunicare la moda con le mostre virtuali
Come abbiamo già evidenziato, la pandemia ha mostrato un processo che era già in atto da alcuni anni. Difatti la dimensione digitale, che per quanto riguarda l’ambito della moda, del design e dell’arte sta arrivando a sfiorare la soglia del virtuale7, già da più di un decennio si è dimostrata una strada percorsa da buona parte delle istituzioni italiane e internazionali8. Possiamo distinguere diverse modalità di utilizzo del digitale adottate da istituzioni e brand dedite alla conservazione e alla valorizzazione del patrimonio culturale legato alla moda e al design: in questa sede ci concentreremo su due specifiche soluzioni di fruizione.
Innanzitutto, le mostre virtuali: tra i casi di studio sicuramente più celebri non possiamo non menzionare il Victoria & Albert Museum che, attraverso soluzioni di implementazione sviluppate in house, propone mostre online attingendo dalle proprie sterminate collezioni. Un’alternativa sempre più diffusa rispetto a questa modalità sviluppata in autonomia dalle singole istituzioni è l’utilizzo di aggregatori quali Google Arts & Culture e Europeana Fashion Heritage9, una strada percorsa, per esempio, dalla Fondazione Zegna o dalla Fondazione Micol Fontana. In particolare, la Fondazione Micol Fontana, i cui figurini sono in parte significativa conservati presso CSAC, mantiene un sito ancora statico e non particolarmente performativo, ma si presenta con esposizioni decisamente più accattivanti proprio grazie all’utilizzo di Google Arts & Culture dove si possono visualizzare immagini in HD10 oltre ad approfondimenti legati alla storia dell’Atelier quali “Sorelle Fontana: vestire le star” e “Il sapere artigiano delle Sorelle Fontana: i ricami”11. Su Google Arts & Culture confluiscono anche molte realtà museali e archivistiche quali il Cristóbal Balenciaga Museoa, presente con quasi una decina di esposizioni online che restituiscono la ricchezza di un archivio costituito da materiale eterogeneo come figurini, abiti, fotografie e video, fruibili anche dal loro canale YouTube. Anche musei come il già citato Victoria & Albert mostrano parte del loro patrimonio sulla piattaforma di Google. Se sul sito del museo le attività e funzioni museali sono maggiormente approfondite e l’offerta digitale ricade anche nella sfera della didattica, sull’aggregatore di Google sono comunque presenti 5.092 beni fruibili attraverso le modalità delle virtual exhibition, ma anche tramite un'ulteriore categorizzazione fornita da Google stesso, per il quale è possibile organizzarli attraverso tre differenti criteri: cronologico, cromatico e per popolarità. Tutto questo materiale è inoltre condivisibile sui principali canali social come Facebook, Twitter, Pinterest, Tumblr, Vkontakte e Classroom.
Un’altra modalità espositiva che sfrutta il digitale è quella che consiste in una vera e propria visita guidata agli ambienti espositivi: ci riferiamo ai virtual tour prodotti sia da case di moda che da musei. Un esempio illustre è il Gucci Garden, aperto nel 2011 sotto la direzione di Frida Giannini e ripensato nel 2018 da Alessandro Michele, nuovo direttore artistico della Maison, che approda alla dimensione digitale proprio nel 2020 offrendo un vero e proprio tour delle sale. La piattaforma in questo caso è configurata in modo da rendere virtualmente fruibili gli ambienti realmente allestiti a Palazzo della Mercanzia di Firenze; la navigazione è possibile attraverso le planimetrie dei tre piani dell’edificio sulle quali vengono trascritti i contenuti delle stanze. Tramite un click l’utente accede a una serie di immagini fotografiche a 360 gradi che gli permettono di visualizzare i contenuti delle sale: al piano terra è predisposto lo shop, e al primo e al secondo piano vengono enunciati gli “Archetypes” di Gucci12 esplicitati anche da un’audioguida che evidenzia come l’oralità si sia riaffermata come modello di comunicazione anche su web13.
Queste due modalità espositive sono emblematiche di un intenso dibattito riferibile alla contestualizzazione delle opere su web14, la questione è inerente la capacità di fruizione dell’utente finale di un’opera nel suo contesto espositivo (attraverso appunto il tour o la tecnica dello street view) oppure del tutto ricontestualizzata in un nuovo ambiente digitale come, ad esempio, il nostro caso di studio.
La questione però dovrebbe prendere in considerazione anche un altro dato, ovvero il fatto che nella maggior parte dei casi i materiali proposti in queste mostre virtuali non sono realmente esposti in uno spazio fisico reale, ma spesso sono conservati in archivi o depositi in quanto le stesse strutture non hanno la possibilità di renderli fruibili dal vivo per problemi di spazio, di conservazione, economici o, non da ultimo, per la ricchezza dell’archivio stesso (come il caso di CSAC che raccoglie oltre dodici milioni di pezzi): in questo caso la mostra virtuale si pone come uno strumento fondamentale per rendere visibile il non esposto e/o il difficilmente esponibile.
In questo contesto l’esposizione presentata da CSAC, 1972. Moda, design, storia15 offre al visitatore la possibilità di apprezzare un materiale difficilmente fruibile attraverso una contestualizzazione che non è più dettata dalla semplice collocazione fisica in una struttura museale, ma dal progetto espositivo che indaga e formalizza la storia stessa della istituzione e che enfatizza la relazione e le connessioni tra i differenti elementi digitalizzati, esponendoli insieme — per la prima volta — con altro materiale proveniente da diverse fonti online. Il progetto curatoriale, in altre parole, sfruttando le tecniche dello storytelling digitale, si assume il compito di riattualizzare i contenuti archivistici, spesso poco accessibili, attraverso un processo di contestualizzazione critica, rendendo quindi a una istituzione come l’archivio, tradizionalmente considerata chiusa e inaccessibile, la possibilità di essere comunicata e condivisa attraverso il web. In questo modo il bene viene inserito in un inusitato contesto storico e teorico16.
3 Il caso di studio: la mostra 1972. Moda, design, storia: dall’idea originaria alla descrizione delle sezioni
Gli anni Settanta si pongono come un momento centrale per quanto riguarda la progettualità legata all’arte, alla moda e al design. Se è vero, come afferma Cristina Casero, che il 1968 può essere visto come “un punto di rottura, di svolta, per molti aspetti di non ritorno”17, questa esposizione nasce dall’analisi di alcune tendenze sviluppatesi dopo quel fatidico anno, inerenti alla dimensione progettuale legata al design e alla moda, di cui CSAC (fondato proprio in quell’anno) si è fatto testimone nel corso dell’ultimo mezzo secolo. In particolare, i due momenti critici che il nostro progetto vuole indagare sono la mostra Italy: The New Domestic Landscape curata da Emilio Ambasz al MoMA di New York18 nel 1972, e la nascita del prêt-à-porter grazie a Walter Albini che sposta le sfilate da Firenze, patria della moda, al Circolo del Giardino di Milano, presentando il 27 aprile del 1971 la collezione donna e uomo per l’Autunno-Inverno 1971-1972 e fornendo la propria opera di disegnatore per cinque differenti case di moda al fine di creare uno stile unitario19. Con questa operazione Albini getta le basi per l’avvio di un processo di industrializzazione che caratterizzerà tutta la filiera italiana della moda, una filiera che vede imporsi il capoluogo lombardo come vera e propria capitale di questo settore manifatturiero.
Oltre a questi due momenti fondanti per il design e la moda italiana, accomunati dalla data 1972, il titolo di questa mostra virtuale richiama, come una sorta di citazione, un importante studio di Gloria Bianchino e Arturo Carlo Quintavalle: Moda Media Storia, volume uscito solo nel 1989 ma frutto di alcuni incontri di lavoro avvenuti in CSAC nel novembre del 198420. Nelle pagine introduttive del libro Quintavalle scrive:
Così cerchiamo di chiarire il titolo dell’incontro, il titolo del convegno, che è appunto Moda, Media, Storia. Moda naturalmente è il nodo da chiarire, per cui sarà meglio muovere dalle contrapposizioni fra media e storia, dove media intendono il taglio orizzontale, sincronico della comunicazione, mentre storia vuole puntare su quello che il passato, l’immagine del passato, ma anche la incidenza di questa immagine sull’oggi. Discorso storico e discorso sincronico, dunque, ecco i due assi su cui potrà, se mi è consentito, dovrà, leggersi la vicenda della moda e dei suoi stessi modelli21.
Quintavalle fa emergere quali sono i nodi critici nell’approccio metodologico dello studio della moda: egli scrive che la moda non è semplicemente la produzione di oggetti, ma è anche un complesso di comportamenti, è programmazione del personaggio dell'intero contesto, e quindi è anche autoanalisi, di un discorso tra il singolo e il contesto, di integrazione o di conflitto22. Le parole espresse da Quintavalle testimoniano come CSAC sia sempre stato un attento promotore del dibattito legato all’ambito della moda e del design; nel corso degli anni si sono susseguiti altri momenti di confronto ed esposizioni che hanno approfondito queste dinamiche progettuali: in circa un ventennio di attività il Centro ha condotto vari studi monografici su figure cardine quali Enzo Mari, Alberto Rosselli, Walter Albini, Brunetta, Ettore Sottsass e Marcello Nizzoli23, ma anche ricerche e approfondimenti sulla propria raccolta e sulla propria metodologia di ricerca come per la mostra e il catalogo Il Rosso e il Nero. Figure e ideologie in Italia 1945–1980 e il volume Italian fashion designing 1945-1980.
Come abbiamo già anticipato, nel 1972 ebbe luogo la mostra Italy: The New Domestic Landscape curata da Emilio Ambasz al MoMA di New York24. L’esposizione rappresentava il massimo riconoscimento del valore internazionale del design italiano e, allo stesso tempo, diveniva strumento di promozione negli Stati Uniti del progetto industriale del nostro Paese. Nella mostra si distinguevano gli oggetti, esposti all’esterno, e gli ambienti, ricostruiti all’interno del museo25 (l’unico vincolo era quello di essere costruiti in un modulo di 480×480 cm), e venivano utilizzate alcune categorie interpretative diverse per ogni sezione: gli oggetti erano suddivisi in riformisti, conformisti e di contestazione, mentre gli ambienti erano divisi a loro volta in design as a postulation, design as commentary e counterdesign as postulation26.
Nell’archivio CSAC si conservano alcuni progetti inerenti ai lavori in mostra, tra i quali: i mobili in Fiberglass Kartell di Ettore Sottsass Jr, gli ambienti di Archizoom Associati, la Casa Mobile di Alberto Rosselli e gli schizzi progettuali della Kar-a-sutra di Mario Bellini27. Degli altri designer presenti nella mostra newyorkese non si conservano le opere esposte al MoMA ma un vasto patrimonio documentario che contribuisce comunque a restituire le dinamiche degli anni presi in esame con figure importanti quali Ugo La Pietra, Gae Aulenti, Zanuso e Sapper di cui, ad esempio, si conservano molti prodotti Brionvega come l’iconica TS 502 portable radio28.
Nel comunicato stampa della mostra di New York si affermavano alcuni concetti fondamentali inerenti alle dinamiche legate alla circolazione della produzione italiana e della nascente etichetta — legata sia alla moda che al design — del “Made in Italy”. Si legge infatti:
Made in Italy and shipped to New York, the environments are intended for two modes of contemporary living — the permanent home and the mobile unit. Four illustrate the counter-design approach of designers who believe no more objects should be added to our cluttered consumer-dominated culture and that social and political changes are needed before we can change the physical aspects of our society. Seven pro-design environments were made by designers who believe it is possible to improve the quality of life by improving our physical environment.29
L’importanza della mostra fu tale che nel 2009 ne venne fatta una riesamina dalla Columbia University, a cui collaborò anche CSAC:30 Environments and Counter Environments è stata una esposizione che ha riunito, per la prima volta, tutti i filmati prodotti dagli artisti per la mostra del 1972 e alcuni materiali progettuali31. A differenza del nostro progetto, il lavoro condotto dai curatori Peter Lang, Luca Molinari e Mark Wasiuta puntò a restituire tutti gli elementi progettuali della curatela di Ambasz, attraverso la documentazione inerente il lavoro del critico e i progetti dei designer.
Lo scopo che invece è sotteso all’esposizione virtuale che qui presentiamo consiste nell’evidenziare come gli anni Settanta siano stati centrali per la produzione italiana legata alla nascente etichetta del “Made in Italy”, come il progetto di moda possa essere equiparato a quello del design e, infine, come queste premesse trovino una base sia sul piano teorico che su quello pragmatico nelle funzioni museali di valorizzazione e promozione non solo dei beni conservati dall’istituzione, ma della istituzione stessa che, dalla fine di quel decennio, produsse un’attenta ricerca su questi temi.
La mostra progettata da CSAC è strutturata in modo da poter essere fruita tramite due livelli di lettura così da coinvolgere utenze differenti, spaziando dalla divulgazione all’approfondimento scientifico, mentre per quanto concerne i nodi cardini della ricerca, essi sono identificabili nelle macroaree Moda, design, storia.
Due livelli di lettura in quanto l’utente può decidere di: a) visualizzare solo le tre macroaree tematiche attraverso testi di natura didattica che permettono al fruitore di comprendere la natura dell’esposizione oppure b) di percorrere le stanze monografiche dedicate ai singoli autori in una sorta di approfondimento in cui la progettualità di ogni personaggio è esaminata attraverso vari focus tematici che ripercorrono la sua carriera, in primo luogo tramite i materiali conservati presso CSAC, ma sfruttando anche, se disponibili, ulteriori fonti archivistiche digitali.
Per quanto concerne il primo livello è possibile accedere alle tre macroaree con due differenti modalità: dal menu orizzontale dove sono appunto evidenziati i tre percorsi, oppure attraverso un disegno autografo di Versace del 1973 che attraverso una stilizzazione grafica in tre elementi simbolici permette all’utente di cliccarci sopra per immettersi nelle diverse sezioni della mostra. La sezione Moda è dedicata alla nascita del prêt-à-porter32: si accede ad essa partendo da una scheda critica generale per poi passare ad alcuni approfondimenti provenienti sempre da CSAC come le immagini della sfilata di Ferrè e Krizia scattate da Chiara Samugheo (presente nella sezione Fotografia); la sezione Design presenta il focus relativo alla mostra newyorkese e fornisce altresì una serie di link di approfondimento ad altre risorse presenti in Internet, infine la sezione Storia si sviluppa attraverso una timeline che restituisce i momenti centrali della moda e design dal 1972 al 2000, momenti che si intrecciano con gli avvenimenti di ambito storico/sociale più significativi di quei tempi, in modo da contestualizzare in maniera opportuna i cambiamenti più significativi nella trasformazione dell’industria creativa.
Per quanto concerne il secondo livello, le stanze monografiche dedicate ad ogni autore sono state arricchite da differenti contributi recuperabili in Rete, come mostre di Google Arts & Culture, materiali digitalizzati su Europeana, Podcast, interviste e video YouTube, pagine Wikipedia e articoli su riviste specializzate come Vogue e Abitare. In altri termini, tutte le monografiche presentano una silloge documentaria estremamente eterogenea e soprattutto permettono all’utente di fruire non solo dei beni conservati nell’archivio dell’Università di Parma, ma anche di altri materiali provenienti da fonti reperibili online33.
4 La mostra: caratteristiche tecniche
La creazione di una mostra virtuale passa inevitabilmente attraverso lo studio e l’applicazione di tecnologie che sono in continua evoluzione e che possono rappresentare una sfida e, talora, un ostacolo per chi non ha piena dimestichezza con gli strumenti informatici. Questo ostacolo, a ben guardare, si rivela in realtà sempre più facilmente aggirabile di fronte a un costante miglioramento nella semplicità d’uso degli strumenti disponibili per la creazione di percorsi espositivi online.
Uno degli obiettivi di questa mostra è, insieme ad altri, quello di esemplificare le potenzialità di alcune soluzioni open source; quindi, parliamo di software liberamente scaricabili e installabili da chiunque. I motivi che ci hanno orientato verso questa scelta sono essenzialmente due: da un lato l’open source permette di avere un maggiore controllo sugli strumenti (a volte questo vuol dire anche una “vita” più lunga)34, dall’altro un minore peso economico da parte delle istituzioni culturali che ne fanno uso35. La presenza di un’ampia comunità di utilizzatori, inoltre, permette non solo di avere feedback immediati, sia per quel che riguarda dubbi e consigli, che per la risoluzione dei problemi, ma anche la possibilità di una condivisione e uno scambio di idee non sempre possibile in contesti di utilizzo commerciale.
4.1 Il concept generale della mostra: struttura e grafica
Una mostra digitale ed una in situ si differenziano enormemente nella loro ideazione: mentre una mostra reale viene pensata partendo da uno spazio fisico già esistente, quella digitale invece deve prendere in considerazione anche la creazione stessa dello spazio entro cui si potrà muovere l’utente/visitatore. Questo spazio però non è uno spazio totalmente astratto e a-contestualizzato, ma deve tenere conto delle regole del web design e delle buone pratiche nella gestione delle collezioni digitali museali. Strategico, inoltre, si rivela il tema della curatela in rapporto alla comunicazione del contenuto all’utente/visitatore: diventa quindi centrale la necessità di un concept generale che possa mediare tra il testo curatoriale e l’esperienza del fruitore.
Nel nostro caso si sono delineate tre macro-sezioni principali, più una decina di schede monografiche dedicate ai singoli artisti. Successivamente si è provveduto a redigere i contenuti dando loro maggiore risalto e costruendo uno spazio espositivo partendo da zero. Questa costruzione dello spazio espositivo si è declinata in tre fasi:
implementazione della struttura del sito web;
definizione di una grafica ben identificabile;
possibilità di inserire elementi più dinamici tramite strumenti avanzati.
Per quanto concerne l’implementazione del sito la scelta è caduta su Omeka-S, un CMS sviluppato nel 2008 presso il Roy Rosenzweig Center for History and New Media della George Mason
University e pensato specificamente per gestire collezioni di documenti digitali rendendole accessibili tramite web36.
I vantaggi di questa piattaforma, oltre a quelli già menzionati tipici del mondo open source, sono diversi: fra i più importanti possono essere annoverati l’ampia scalabilità e la ricchissima dotazione di temi grafici e di componenti aggiuntivi che possono essere installati al fine di ottenere specifiche funzionalità in termini di soluzioni di navigazione, interscambio dati, import/export, metadatazione, gestione di documentazione multimediale e via discorrendo.
Tramite Omeka-S, oltre alla Home, si sono create delle pagine dedicate per le tre macro-sezioni, più una pagina-contenitore per le diverse monografiche. In più si è deciso di inserire una pagina di elenco delle opere inserite in mostra e un Chi siamo.
Omeka-S ha già una tipologia di pagina (Search) che gestisce la visualizzazione di tutti i contenuti associati al sito. Questa pagina permette una ricerca avanzata per valore — ad esempio autore o data — che non sono altro che i metadati definiti dal Modello di risorsa. Oltre ai valori di metadazione è possibile ricercare per Collezione (le collezioni create e applicate al sito).
Strategica si è rivelata la scelta e l’adattamento di un tema grafico in grado di rendere identificabile in modo immediato l’ambiente espositivo. Si è partiti dal tema di base The daily37 perché offriva già un buon layout responsivo, oltre ad avere alcuni elementi interessanti (come la forte evidenziazione dei link: nel testo curatoriale i link esterni hanno, come si è detto, una grande importanza). Da qui si è decisa una diversa visualizzazione per ogni pagina.
La Home è suddivisa in tre parti a scorrimento verticale con i testi di presentazione della mostra. Se la parte centrale non presenta particolarità, nelle altre due si è pensato di utilizzare due immagini (una di Sottsass e una di Versace) per caratterizzare maggiormente la mostra: il primo blocco (Fig. 1) presenta un’immagine a tutto schermo dello studio di Sottsass sul progetto per l'Environment esposto al MoMA, mentre per il terzo blocco (Fig. 2) si è destrutturato un figurino di Versace associando una parte della figura alla sezione Moda, una a Design e una a Storia, identificando così — con questa particolare soluzione iconica — le differenti sezioni dell’esposizione.
Questo può sembrare un vezzo, ma in realtà è un modo per rendere più caratterizzato lo spazio espositivo e per richiamare l’attenzione dell’utente/visitatore sul tema della mostra: quello del design e della moda.
Un lavoro particolarmente accurato è stato svolto nelle sezioni monografiche, sia a livello di ideazione grafica che di modulazione del testo curatoriale. Nelle sezioni monografiche (Fig. 3) soprattutto ci si è trovati a fare i conti con la necessità del “less text” nel web: il testo è stato suddiviso in paragrafi tematici per poi inserirlo, in blocchi dimensionalmente ridotti, all’interno di uno slideshow. Alcuni di questi paragrafi sono associati alle risorse dello CSAC, altri a citazioni o link esterni. Si è quindi deciso, per le risorse dello CSAC, di permettere all’utente di visualizzarne una alla volta, con la possibilità di cambiare figura autonomamente: questo non solo offre la possibilità di fruire autonomamente dei contenuti, ma permette anche una maggiore responsiveness del sito (quindi la possibilità di vedere la mostra in modo ottimale su qualunque tipo di dispositivo).
Sempre per offrire all’utente/visitatore la possibilità di saltare rapidamente da un contenuto all’altro, si è ritenuto utile inserire un Menu con i paragrafi presenti in ogni monografica: cliccando sull’uno o sull’altro si scorre nel paragrafo prescelto.
Le tre macro-sezioni principali della mostra sono quelle a cui è stata dedicata più attenzione nella comunione tra testo e strumenti delle digital humanities. È infatti nella sezione Moda e nella sezione Design che si è deciso di sfruttare lo standard IIIF38 e fare affidamento al software Exhibit39, sviluppato dalla St. Andrews University, così da creare un ambiente in cui l’utente/visitatore potesse trovarsi contemporaneamente lettore e spettatore della sezione. Se da un lato è stato possibile suddividere il testo in tanti paragrafi, dall’altro — tramite appunto Exhibit — si è resa possibile la visione contemporanea di alcune immagini-chiave legate al testo. Per esempio, nella sezione Design si è deciso di inserire foto della mostra avvenuta al MoMA nel 1972, avendo di fianco un testo che racconta proprio la peculiarità e l’importanza di questa mostra per il design italiano.
La possibilità, prevista nel trattamento delle immagini con IIIF, di spostarsi attraverso di esse e di ingrandirle a piacimento, fa sì che la mostra digitale abbia una valenza più partecipativa: l’utente/visitatore non è soltanto un soggetto passivo che “vede” ciò che il curatore ha scelto per lui, ma ha anche la possibilità di spostarsi e decidere in quale modo fruire del prodotto curatoriale, passando da un elemento all’altro, avanzando o tornando indietro, ingrandendo un particolare, eccetera.
Per l’utilizzo di immagini in modalità IIIF è stato necessario innanzitutto installare sul server Apache (lo stesso su cui è stato installato Omeka-S) Cantaloupe40: un image server open source. Successivamente le immagini sono state montate attraverso l’interfaccia di Exhibit, con la possibilità di fruire di più modalità di visualizzazione del risultato finale (scorrimento orizzontale o verticale), di vedere un’anteprima e di avere il link di condivisione sia puro che embedded.
Un altro utilizzo di IIIF su cui è bene spendere qualche parola è la parte didattica della mostra. Grazie a IIIF è infatti stato possibile sviluppare da zero un quiz-game interattivo: il quiz è stato costruito partendo da un’immagine presente in mostra suddivisa “a puzzle”, in modo da sollecitare l’utente a ricomporre la medesima con i pezzi guadagnati dopo ogni risposta corretta. Val la pena notare come la comunità delle digital humanities ha manifestato molto interesse verso il IIIF proprio per la sua versatilità e sull’interattività dello standard: un’intera sezione della comunità IIIF sta proprio studiando la possibilità di sviluppare dei giochi con esso41. Questo concetto, sebbene molto semplice da descrivere, sarebbe stato estremamente più complicato senza le possibilità offerte da IIIF, che ha invece permesso una modifica immediata dell’immagine: in definitiva, tramite IIIF le possibilità sono limitate solo dalla fantasia di chi si occupa dello sviluppo, mettendo a disposizione dei curatori uno strumento che permette un’interazione estremamente ricca di soluzioni accattivanti.
La terza macroarea, Storia, è stata costruita grazie a TimelineJS42, un software sviluppato da Knight Lab ed utilizzato anche dai maggiori quotidiani mondiali (il Times e Le Monde per citarne alcuni). Questo strumento è estremamente semplice nel suo utilizzo, ma permette un risultato ricco a livello visivo ed efficace in termini di user experience in quanto consente di realizzare una timeline e di arricchirla di risorse prelevabili da una gran varietà di fonti43.
TimelineJS è inoltre particolarmente semplice da usare, perché si avvale di un template creato con Google Spreadsheet, il che fa sì che non ci si debba preoccupare né della grafica, né della responsiveness né della condivisione, perché sono tutte già gestite in modo automatico da questa utilità.
Un’ultima nota riguardo alla costruzione della mostra possiamo dedicarla alla metadatazione delle risorse digitalizzate per le quali si è utilizzato lo standard Dublin Core previsto di default in Omeka-S. Attraverso un elemento di tale standard (DC:Relation) sono stati creati dei link dalle opere in mostra alle relative schede di catalogo presenti sul sito di CSAC. Altri link, inoltre, sono stati implementati verso alcune voci di Wikidata grazie al modulo Wikidata di Omeka-S44. Questi collegamenti esterni (catalogo dello CSAC e Wikidata) vogliono offrire una dimensione ulteriore ai metadati della mostra, arricchendola con la filosofia dei Linked Data secondo quanto prescritto dal gruppo di lavoro di OCLC su questo tema, il quale suggerisce, come primo step, di “mapping textual metadata to entities”45.
5 Conclusioni
Il caso di studio che abbiamo esaminato nelle pagine precedenti riteniamo possa essere significativo di una modalità di valorizzazione delle collezioni museali che, verosimilmente, vedrà nei prossimi anni un ulteriore sviluppo rispetto a quanto si è sperimentato in passato. Come rimarcato in un recente report prodotto dall’ICOM, è del tutto evidente come la pandemia abbia mutato in modo irreversibile la percezione dei musei verso le tecnologie digitali, accelerando un processo che era già in corso: “Although the resulting economic crisis will obviously be a major obstacle in terms of the economic and human resources that museums will be able to invest, more and more institutions are now aware of the fundamental importance of digitization”46.
E il fatto che — sempre in riferimento a questo report — le mostre virtuali risultino tra i servizi su cui i musei più diffusamente hanno puntato durante il lockdown, testimonia l’interesse sempre più diffuso verso questa tipologia di esposizioni, in grado di avvicinare pubblici diversi che vengono messi nelle condizioni di percorrere collezioni documentarie spesso difficilmente proponibili in allestimenti fisici, per esempio a causa di specifiche esigenze conservative.
La mostra 1972. Moda, Design, Storia allestita in CSAC dimostra come, anche con budget limitati, sia possibile realizzare in modo efficace un percorso espositivo di questa natura.
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David Silver, “Interfacing American Culture: The Perils and Potentials of Virtual Exhibitions”, American Quarterly, Vol. 49 (1997): 825-850, https://www.jstor.org/stable/30041813.↩︎
Ancora nel 2014 il MIBACT nelle Raccomandazioni in tema di patrimonio culturale digitale e turismo, trattava delle mostre virtuali in ipotesi, spiegando come “Le istituzioni culturali dovrebbero valutare le opportunità offerte dalla tecnologia per realizzare mostre digitali e itinerari tematici stimolanti, sfruttando le potenzialità offerte dal digital storytelling e dal transmedia storytelling”, cfr. MIBACT, Patrimonio culturale digitale e turismo. Raccomandazioni per le istituzioni culturali. (2014), http://www.otebac.it/index.php?it/21/archivio-news/207/bozza-raccomandazioni-per-le-istituzioni-culturali-su-patrimonio-culturale-digitale-e-turismo.↩︎
MIBACT, Piano Triennale per la Digitalizzazione e l’Innovazione dei Musei. (2019), p. 65, http://musei.beniculturali.it/wp-content/uploads/2019/08/Piano-Triennale-per-la-Digitalizzazione-e-l%E2%80%99Innovazione-dei-Musei.pdf.↩︎
Per esempio, secondo quanto riportato in un’indagine realizzata per conto del Ministero della Cultura (MIC, E ora…? Primi risultati dell’indagine condotta sui pubblici dei musei italiani durante il lockdown. (luglio 2020), http://musei.beniculturali.it/wp-content/uploads/2020/12/Primi-risultati-dellindagine-condotta-sui-pubblici-dei-musei-italiani-durante-il-lockdown.pdf, le visite e i tour virtuali sembrano aver riscosso il maggior consenso tra le modalità di offerta di contenuti digitali, mentre nell’indagine commissionata nello stesso periodo da Impresa Cultura Italia-Confcommercio a Swg https://www.confcommercio.it/-/comunicato-97-2020-impresa-cultura-italia-covid-19-cultura-sposta-su-digitale solo il 4% dei rispondenti dichiara di aver effettuato una visita virtuale completa. Due osservazioni: la prima è relativa al campione preso in considerazione che, nel primo caso, è relativo a un pubblico che conosce e abitualmente frequenta i musei. Il gradimento verso le mostre virtuali si innesta, insomma, su una cultura della visita museale già consolidata. Il campione della rilevazione di Swg è invece indifferenziato, rivolgendosi in senso lato ai consumi culturali degli italiani. Si può comprendere come sia più complicato, in questo caso, fare breccia con una proposta di visita che, rispetto all’offerta culturale museale veicolata attraverso i social, richiede un impegno maggiore in termini di attenzione e di interazione. Rimane comunque, anche in questa indagine, l’elemento positivo rappresentato da un 28% dei rispondenti che non conosceva questa opportunità di visita, un potenziale nuovo pubblico che, evidentemente, potrebbe essere successivamente coinvolto e fidelizzato.↩︎
Fra i report redatti praticamente in tempo reale per valutare l’impatto della pandemia sull’attività museale e per iniziare a delineare alcune immediate prospettive di sviluppo, segnaliamo Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali, Musei In_visibili. Visioni di futuro per i musei italiani per il dopo emergenza Covid-19. (2021). https://doi.org/10.53125/RICERCA202105IT.↩︎
Il Centro Studi e Archivio della Comunicazione (CSAC) è un centro di ricerca dell’Università di Parma fondato da Arturo Carlo Quintavalle nel 1968. Fin dai suoi primi anni l’attività è volta alla costituzione di una raccolta di arte, fotografie, disegni di architettura, design, moda e grafica, e all’organizzazione di numerose esposizioni e alla pubblicazione dei cataloghi. Dal 2007 ha sede presso l’Abbazia di Valserena, conosciuta anche come “Certosa di Paradigna”, a pochi chilometri da Parma. È strutturato in cinque sezioni — Arte, Fotografia, Media, Progetto, Spettacolo – nelle quali sono conservati circa dodici milioni di pezzi. Il sito web è: https://www.csacparma.it/.↩︎
Ci riferiamo a tutta la progettazione riguardante l’Augmented Reality e la Virtual reality. Per un approfondimento si rimanda a Alessandra Vaccari, Paolo Franzo, Giulia Tonucci, “Mise en abyme. L’esperienza espansa della moda nell’età della mixed reality”, ZoneModa Journal, Vol. 10 (2020): 75–89, https://doi.org/10.6092/issn.2611-0563/11804. Selma Pereira, Adérito Fernandes ‐ Marcos, “Post‐Digital Fashion: The Evolution and Creation Cycle”, ZoneModa Journal. Vol. 11 (2021), https://doi.org/10.6092/issn.2611-0563/13121.↩︎
Per un approfondimento su alcune di queste dinamiche si rimanda a Chiara Pompa, “La memoria ‘estesa’ della moda. Come valorizzare l’heritage aziendale con la tecnologia”, ZoneModa Journal, Vol. 10 (2020): 27–41, https://doi.org/10.6092/issn.2611-0563/11911.↩︎
Cfr., in particolare, Valentina Rossi, “Moda e Digital Humanities”, ZoneModa Journal, Vol. 10 (2020): 43–59, https://doi.org/10.6092/issn.2611-0563/11838.↩︎
La piattaforma di Google si avvale anche della tecnologia Street view che permette di trasportare lo spazio del museo reale all’interno del sistema digitale. Per un approfondimento si rimanda a Isabella Pezzini, “I nuovi musei immaginari. A partire da Google Art Project”, Reti, saperi, linguaggi, Vol. 2 (2013): 40-43, http://www.coriscoedizioni.it/wp-content/uploads/2013/12/Pezzini.pdf.↩︎
“Fondazione Micol Fontana”, Google Arts & Culture, visualizzato gennaio 2022, https://artsandculture.google.com/partner/fondazione-micol-fontana.↩︎
Marta Saladino, “Divin giardino: benvenute nel mondo fanta-esoterico di Gucci e della sua mostra caleidoscopica”, Elle, visualizzato gennaio 2022, https://www.elle.com/it/moda/ultime-notizie/a36519145/mostra-gucci-garden-firenze-archetypes/; Carolina Davalli, “Gucci Garden Archetypes: dentro l’iperuranio giocoso di Alessandro Michele”, I-D, visualizzato gennaio 2022, https://i-d.vice.com/it/article/k78wz9/gucci-garden-archetype-2021-mostra-firenze.↩︎
Ann Burdick, Johanna Drucker, Peter Lunenfeld, Todd Presner e Jeffrey Schnapp, Umanistica_digitale (Milano: Mondadori, 2014).↩︎
Nel volume Rethinking Curating di Beryl Graham e Sarah Cook vengono individuati due differenti approcci di curatela sul web: “virtual gallery” e “digital collection”. Secondo gli autori la differenza tra i due approcci dipende dal ruolo del curatore, più che del pubblico e dall’evoluzione del web. Pertanto scrivono: “The difference between the virtual gallery and the digital collection mirrors the technological move from Web sites being hand edited and presorted in a sequence of pages (like a book) to being”database driven" (single screens may contain text and images that the computer program selects from files of information)" Beryl Graham e Sarah Cook (eds.), Rethinking Curating. Art After New Media (Cambridge, London: The MIT press, 2010), 176.↩︎
La mostra è visitabile al sito: https://mostra1972.unipr.it.↩︎
Per un approfondimento dedicato al concetto di contesto in ambienti digitali si rimanda a Daniela Calanca, “Archivi digitali della moda e patrimonio culturale tra descrizione e integrazione”, ZoneModa Journal, vol. 10 (2020), 11–25. https://doi.org/10.6092/issn.2611-0563/11793.↩︎
Cristina Casero, “Nel ’68: i nuovi linguaggi tra arte e politica”, in Francesca Zanella (a cura di), 1968. Un anno (Milano: Silvana, 2021), 11.↩︎
Il MoMA negli anni ha intrapreso un progetto di digitalizzazione delle mostre, cataloghi, comunicati stampa e in parte delle rassegne stampa delle mostre dal 1929 ad oggi. In particolare, di Italy: New Domestic Italian Landscape sono pubblicate le foto dell’allestimento, il catalogo, il comunicato stampa e la monografica Kar-a-sutra di Mario Bellini, https://www.moma.org/calendar/exhibitions/1783, visualizzato gennaio 2022.↩︎
Per un approfondimento su Walter Albini si rimanda a Gloria Bianchino, Walter Albini (Parma: CSAC Centro Studi Archivio Comunicazione, Università di Parma, 1988); Maria Luisa Frisa, Stefano Tonchi, (a cura di), Walter Albini e il suo tempo. L’immaginazione al potere (Venezia: Marsilio, 2010); Carla Sozzani (a cura di), Walter Albini (Milano: Carla Sozzani Editore, 1990).↩︎
Il convegno “Moda Media Storia. Incontri di lavoro” venne realizzato nel 1984, mentre gli atti furono pubblicati solo nel 1989. Parteciparono numerosi protagonisti del mondo della moda e del design come ad esempio Franco Moschino, Ottavio e Rosita Missoni, Micol Fontana, Giovanni Anceschi, Rossana Bossaglia, Bonizza Giordani Aragno, Egidio Mucci e ovviamente Krizia.↩︎
Arturo Carlo Quintavalle, Moda Media Storia. Incontri di lavoro. Parma 3/4 novembre 1984 (Parma: CSAC, 1989), 13.↩︎
Quintavalle inoltre scrive: “La moda ha quindi un suo spazio, una dimensione che deve essere restituita e le doppie prospettive, sincronica e diacronica non possono che essere determinanti per la comprensione di questi fatti”. Arturo Carlo Quintavalle, Moda Media Storia. Incontri di lavoro. Parma 3/4 novembre 1984 (Parma: CSAC, 1989), 13.↩︎
In particolare, si fa riferimento alle mostre e ai volumi: Arturo Carlo Quintavalle, (a cura di), Enzo Mari (Parma: CSAC, Università di Parma, 1983); Amalia Fracassi, Simona Riva (a cura di), Alberto Rosselli (Parma: CSAC, Università di Parma, 1981); Arturo Carlo Quintavalle (a cura di), Brunetta : moda, critica, storia (Parma: CSAC, Università di Parma, 1981); Arturo Carlo Quintavalle (a cura di), Marcello Nizzoli (Milano: Electa, 1989); Francesca Zanella (a cura di), Ettore Sottsass: catalogo ragionato dell'archivio 1922-1978 (Cinisello Balsamo: Silvana – Parma: Università di Parma, 2017).↩︎
## MoMA negli anni ha intrapreso un progetto di digitalizzazione delle mostre, cataloghi, comunicati stampa e in parte delle rassegne stampa delle mostre dal 1929 ad oggi. In particolare, di Italy: New Domestic Italian Landscape sono pubblicate le foto dell’allestimento, il catalogo, il comunicato stampa e la monografica Kar-a-sutra di Mario Bellini. I materiali sono fruibili al link https://www.moma.org/calendar/exhibitions/1783 (visualizzato gennaio 2022). Per un ulteriore approfondimento sulla mostra si rimanda a Imma Forino, “Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee [Domestic landscapes, between modern utopias and contemporary visions]”, Op. cit., i. 125 (gennaio 2006): 35-48, https://opcit.it/cms/?p=1699 e Dario Scodeller, “Exhibition, Anti – Exhibition: su alcune questioni espositive del pop e del radical design italiano , 1966 – 1981”, AIS/Design, Vol. 3 (2014).↩︎
Come l’esposizione newyorkese creava un cortocircuito degli ambienti espositivi, mostrando gli oggetti all’esterno in appositi dispositivi espositivi e gli ambienti all’interno, questa mostra si muove su un altro differente ambiente, quello digitale che potrebbe allinearsi con la questione dei media esplicitata da Quintavalle nel volume Moda Media Storia.↩︎
Nella sezione Environment erano presenti in Design as postulation: Gae Aulenti, Ettore Sottsass, Jr., Joe Colombo, Alberto Rosselli, Marco Zanuso, Richard Sapper, Mario Bellini; nella sezione Design as commentary: Gaetano Pesce; in Counterdesign as postulation: Ugo La Pietra, Archizoom, Superstudio, Gruppo Strum, Enzo Mari. Gli ambienti vennero costruiti da aziende italiane come Cassina, Fiat, Olivetti, Pirelli, Kartell, Boffi, Ideal Standard, ABET-Print, Artemide e ANIC-Lanerossi.↩︎
In riferimento ai fondo: Ettore Sottsass Jr (CSAC Università di Parma, sezione Progetto, cassettiere: 427, 428, 429, 430, 431, 432, 433, 434, 435/1-3); Archizoom Associati (CSAC Università di Parma, sezione Progetto, cassettiere: 31/2-6, 32, 33/1-3); Alberto Rosselli (CSAC Università di Parma, sezione Progetto, cassettiere: 384, 385, 386, 387, 388/1-5); Mario Bellini (CSAC Università di Parma, sezione Progetto, cassettiere: 52, 53, 54/1-3).↩︎
I beni di CSAC sono solo in una piccola percentuale fruibili (attraverso schede e fotografie) anche sulla piattaforma Samira che consente di rintracciare i materiali attraverso delle schede OA, come in questo caso di Zanuso e Sapper: http://samha207.unipr.it/samirafe/loadcard.do?id_card=23987, visualizzato gennaio 2022.↩︎
Comunicato stampa Italy: The New Domestic Landscape, May 26, 1972, https://assets.moma.org/documents/moma_press-release_326797.pdf?_ga=2.93460445.1153067467.1637006430-1071552347.1636640745w.↩︎
Il Progetto di ricerca venne stilato da GSAPP. Graduate School of Architecture, Planning and Preservation della Columbia University e fu accompagnato da un simposio, Revisiting The New Domestic Landscape.↩︎
Tra il 2009 e il 2013 l’esposizione viaggia tra New York, Basilea, Barcellona, Stoccolma, Chicago.↩︎
Inerente alla sezione moda l’oggetto di ricerca sono stati i fondi di: Giorgio Armani (CSAC, Università di Parma, sezione Moda, cassettiere: 33/4-6, 34, 35, 36/1-3; Krizia (CSAC, Università di Parma, sezione Moda, cassettiere:176, 177, 178, 179, 180, 181, 182, 183, 184, 185/1-3); Gianni Versace (CSAC, Università di Parma, sezione Moda, cassettiere: 472, 473/1); Franco Moschino (CSAC, Università di Parma, sezione Moda, cassettiere: 225/6); Cinzia Ruggeri Gianni Versace (CSAC, Università di Parma, sezione Moda, cassettiere:392/2); Gianfranco Ferré (CSAC, Università di Parma, sezione Moda, cassettiere:129/5-6, 130, 131/1-2) ↩︎
Ad titolo di esempio, oltre al materiale CSAC, nella monografica dedicata a Giorgio Armani sono fruibili materiali provenienti dall’archivio digitale del Times e della rivista GQ, un'intervista del 1983 condotta da Enzo Biagi e riversata su YouTube e tutti i trailer dei film con cui Armani ha collaborato.↩︎
È un problema estremamente importante per le istituzioni poter contare su software che non modifichino i costi delle licenze nel tempo, rendendo necessario il passaggio ad altre soluzioni. In generale l’utilizzo dei software open source permette anche un livello di sperimentazione maggiore. Un esempio di questo, sempre in ambito museale, è il progetto GIFT Box, https://gifting.digital, realizzato grazie al programma Horizon 2020, con numerosi partner e musei partecipanti.↩︎
Una riflessione interessante sui costi e i benefici delle strategie digitali per le istituzioni museali si può ritrovare in Enrico Bertacchini, Walter Santagata e Giovanni Signorello, “Individual Giving to Support Cultural Heritage”, International Journal of Arts Management, Vol. 13 (2011), 41–55, http://hdl.handle.net/2318/105581.↩︎
Per un approfondimento sulle caratteristiche e potenzialità di Omeka si rinvia a Alberto Salarelli, “Gestire piccole collezioni digitali con Omeka: l’esperienza di MoRE (A Museum of REfused and unrealised art projects)”, Bibliothecae.it, Vol. 5 (2016): 177–200, https://doi.org/10.6092/issn.2283-9364/6393.↩︎
Tema: https://github.com/omeka-s-themes/thedaily. La scelta dei colori e dei font non è stata casuale. Oltre ai colori di base bianco e nero, come colore primario si è deciso di utilizzare un rosa ciclamino (#fa648f), che è tra i colori della stagione Autunno-Inverno 2021, mentre come colore secondario si è deciso di utilizzare un giallo che sia di contrasto al rosa e che rimanda al colore della carta su cui sono stati disegnati i figurini. I font utilizzati (presi da Google Fonts) si sono voluti il più vicini possibili alla font grafica degli anni Settanta.↩︎
IIIF (International Image Interoperability Framework) è un set di standard aperti che offrono la possibilità di usufruire di un ambiente interoperabile in grado di permettere ai diversi software applicativi con cui si gestiscono le immagini digitali via web di poter dialogare reciprocamente con un alto livello di interattività per visualizzare, manipolare, comparare e annotare le immagini digitali. Sito IIIF, https://iiif.io/, visualizzato gennaio 2022. Si veda anche, per una introduzione all’argomento, Alberto Salarelli, “International Image Interoperability Framework (IIIF): una panoramica”, JLIS.it, Vol. 8 (2017): 50–66, https://doi.org/10.4403/jlis.it-12090.↩︎
Exhibit, https://exhibit.so/, visualizzato gennaio 2022.↩︎
Progetto Cantaloupe, https://cantaloupe-project.github.io/, visualizzato gennaio 2022.↩︎
Per la nostra mostra si è partiti da un concetto di puzzle, già sviluppato da Mike Appleby, software engineer alla biblioteca della Yale University http://puzzle.mikeapps.me/. Da qui si è deciso di sviluppare il quiz tramite VueJS (un framework javascript molto più maneggevole e versatile di Omeka S) creando delle domande per cui – come si diceva – ad ogni risposta corretta si compone un pezzo del puzzle. Il gioco è stato sviluppato tramite VueJS, creando un applicativo slegato da Omeka-S (perché troppo poco maneggiabile in questo contesto), che si può ritrovare a questo link: https://github.com/marlara/Quiz-Fashion-IIIF.↩︎
Twitter, Flickr, YouTube, Vimeo, Vine, Dailymotion, Google Maps, Wikipedia, SoundCloud, Document Cloud e molto altro.↩︎
Plugin Wikidata: https://github.com/nishad/omeka-s-wikidata.↩︎
Greta Bahnemann, Michael Carroll, Paul Clough, Mario Einaudi, Chatham Ewing, Jeff Mixter, Jason Roy, Holly Tomren, Bruce Washburn, and Elliot Williams, Transforming Metadata into Linked Data to Improve Digital Collection Discoverability: A CONTENTdm Pilot Project (Dublin: OH: OCLC Research, 2021), https://doi.org/10.25333/fzcv-0851, 15.↩︎
ICOM – International Council of Museums, Museums, museum professionals and COVID-19: follow-up survey. November 23, 2020, https://icom.museum/wp-content/uploads/2020/11/FINAL-EN_Follow-up-survey.pdf, 18.↩︎