ZoneModa Journal. Vol.12 n.1 (2022)
ISSN 2611-0563

The Fortune of the Ancient World’s Heritage Within the Context of Fashion Museums’ Communication in Italy

Virginia SpadacciniUniversità di Chieti-Pescara (Italy)

Former fashion and costume designer graduated at IED Rome, then graduated with Honours in LM-89 Art History with a thesis in Fashion Museology at “Gabriele D’Annunzio” University, Virginia Spadaccini is currently a Ph.D. student in Cultural Heritage Studies. Texts, Writings, Images at “Gabriele D’Annunzio” University, Department of Humanities, Art, and Social Science (Chieti, Italy). She has collaborated with museums, universities, fashion consultant curators for luxury brands’ heritage departments, international designers. Her main areas of interest are decorative arts with a special focus on textiles and fashion industry.

Pubblicato: 2022-07-11

Abstract

Demonstrating the contribution and the communicative potential of classics to the history of Italian art and, as a consequence, to the history of Italian fashion is the aim of this paper. In support of this thesis, some museological and museographical cases studies will be highlighted. The Museo Salvatore Ferragamo and the Gucci Garden, for example, are both strategically located in historical and well-known Florentine palaces such as Palazzo Spini Feroni and the Tribunale della Mercanzia. The Valentino Garavani Museum, the pioneering virtual fashion museum launched in 2011, recalls the imagery of a modern temple such as the Ara Pacis Museum in Rome with its exquisite “marbles” decorating the walls, the large interior spaces marked by staircases and skylights. Some iconic exhibitions and fashion shows organized by luxury brands in cultural venues will be also presented as a general expression of this trend about the use of the Ancient world’s heritage as a tool in the narration of Italian fashion.

Keywords: Ancient Cultural Heritage; Art History; Fashion; Communication; Museology.

Introduzione: la simbologia dell’antico e la sua sopravvivenza

Un carattere peculiare dell’arte italiana è la presenza dell’elemento “Antico” le cui origini sono da ricercare nella traduzione dell’arte ellenica operata dai romani e nelle invenzioni di quest’ultimi quali ad esempio, in campo architettonico, gli archi e le volte. Da tale imprinting è caratterizzata l’arte e di conseguenza la narrazione della storia dell’arte italiana ed europea costellata da momenti di apparente rinascita di motivi antichi diventati dal secolo XIX sinonimo di “classici”: basti pensare a correnti stilistiche note come le varie “rinascenze” costantiniana, teodosiana e giuliana, carolingia e ottoniana, o ancora al Rinascimento, ai diversi “classicismi” fino al Neoclassicismo e oltre1. Posto che l’“Antico” inteso come “classico” non sia un concetto affatto esaustivo, in questa sede si è assunto uno dei significati che ne dà Salvatore Settis in Futuro del “classico”2 quale sinonimo di “antico greco-romano” benché egli stesso chiarisca le numerose contraddizioni insite nel sostantivo e riconducibili al fatto che ogni epoca abbia inventato una tradizione quindi una nozione diversa di “classico”. Tralasciando la vexhata questio terminologica, alla storiografia artistica è spettato il compito di ridefinire le modalità di sopravvivenza dell’antico nel tempo: fondamentale fu il contributo di Aby Warburg che rintracciò nell’energia creativa di certe formule espressive il motivo della loro reiterazione nei secoli3. Fritz Saxl, Erwin Panofsky, Rudolf Wittkover, Edgar Wind, Ernst H. Gombrich proseguirono lungo il percorso tracciato dal maestro contribuendo al perfezionamento e alla diffusione e del metodo warburghiano da Amburgo a Londra e da qui al mondo4. In Studi di Iconologia5 e Rinascimento e rinascenze nell’arte occidentale6, Panofsky si interrogò sul senso delle immagini e sulla loro circolazione: il concetto di “rinascenza” venne quindi dapprima applicato al Rinascimento e poi, in maniera retroattiva, ad altri processi e contesti culturali7. Anche Johan Huizinga si dedicò agli studi sulla cultura medievale e moderna rifiutando la categorizzazione dei periodi storici e quindi l’equazione del Rinascimento con una svolta rispetto al Medioevo. Egli pensò ad esso come a “un cambiamento di marea […] come una lunga serie di onde che vengono ad infrangersi sulla spiaggia”8, superando con ciò approcci di stampo positivisti o evoluzionisti nonché la visione burckhardtiana che pur aveva dato un contributo essenziale all’“invenzione” del Rinascimento9. Successivi contributi hanno evidenziato la lezione dell’esperienza dell’antico nell’arte italiana10: tra questi ancora Settis che, riprendendo in parte le parole di Orietta Rossi Pinelli, ha superato quel vischioso ricorso degli studiosi all’esaltazione delle varie rinascite dell’antico per dimostrare, al contrario, la sua presenza costante11. Rifacendosi a Ernst Howald per il concetto di “forma ritmica”12, Settis ha individuato nel patrimonio materiale rappresentato dalle rovine la linfa vitale della storia della cultura europea caratterizzata da una tensione ideale tra la frattura col passato e la sua sopravvivenza diversamente dalle altre dove prevale un “eccesso di continuità” o di “discontinuità”13. Pensare alla fenomenologia degli stili come a un eterno ritorno di revivalismi è perciò riduttivo oltre che inesatto per via delle infinite risignificazioni che i “classici” di volta in volta assumono.

Ciò premesso, appropriarsi dei segni e dei simboli della cultura greco-romana è stato pure uno strumento assai utilizzato da generazioni di sovrani desiderosi di legittimare la propria autorità richiamando in modo diretto o subliminale nobili natali. È sufficiente pensare all’evergetismo di Napoleone Bonaparte il quale si rifece alla cultura imperiale romana per porsi quale suo ideale erede tanto da lanciare la moda del cosiddetto “stile Impero”: nell’architettura come nella moda, tutte le forme espressive dell’arte “ufficiale” dovevano riportare agli antichi fasti in nome dell’aspirazione alla renovatio imperii14. Due maniere precedettero lo stile Impero che si affermò dal 1804: lo stile “del Direttorio” (1575–79) e “del Consolato” (1800–04)15. Durante la prima fase emersero gli Incroyables, giovani contestatari che utilizzavano gli abiti in funzione sovversiva: in aperta polemica contro le generazioni dei “vecchi” rivoluzionari solevano indossare completi eccentrici, redingote all’inglese con proporzioni over16. Accanto ad essi le Merveilleuses, già influenzate da Marie Antoinette che si era fatta ritrarre da Élisabeth-Louise Vigée Le Brun con la robe en chemise17, finirono per identificarsi ora con le vestali18 ora con le donne dell’Atene periclea19. A simboleggiare la liberazione dall’Ancien Régime fu il ritorno dell’abito a tunica che restituì alle donne la libertà del corpo non più costretto in crinoline o busti. Questi vestiti lasciavano scoperte le spalle, presentavano scollature assai generose ed erano praticamente trasparenti confezionati in mussola leggera20. A lanciare questa moda furono le tre icone del Direttorio: Madame Récamier, Thérèse Tallien e Joséphine de Beauharnais, prima moglie di Napoleone21. Nel passaggio dallo stile del Consolato all’Impero vi fu una mitigazione degli eccessi, della nudità, il riuso del corsetto e nello stile Impero aspetti guerreschi coesistevano assieme ad aspetti vezzosi, rococò tradotti in forma neoclassica22. Napoleone comprese l’importanza delle arti come strumento per il consenso e collante sociale perciò ridiede nuova vita alle manifatture creando nel campo dell’abbigliamento una sorta di prêt-à-porter ante litteram: nella lotta contro le importazioni degli scialli dal Kashmir, sorsero industrie locali che tuttora costituiscono la spina dorsale della filiera tessile francese come Lione. Se da un lato l’imperatore, assistito da Louis-Hippolyte Leroy, il couturier dell’Impero, e Pierre De La Mésangère, l’editore del Journal de Dames et des Modes, creò il “made in France”, dall’altro fece imporre una certa omologazione23. Il ruolo delle arti applicate fu dunque fondamentale per la propaganda data anche la facilità della loro diffusione garantita dal costo accessibile24. L’elemento di continuità fra le varie fasi fu la passione per il classicismo citazionista, benché sul crinale del Settecento questo trend penetrò nella società come una moda per diventare prima un simbolo di rottura col passato e infine di ritorno all’ordine prima dell’inevitabile, preannunciato, declino25. Dunque archi di trionfo, colonne coclidi e monumenti ravvivarono le strade come a palazzo si imponevano arredi e decorazioni “all’antica”26. Napoleone venne ritratto ora come un generale vittorioso al passo del Gran San Bernardo, ora come Mars pacificator, sua sorella minore Paolina come Venus vincitrix e così via27. In sintesi, ai simboli del potere eretti a Parigi come nelle province doveva corrispondere l’ideale del “nuovo Augusto” e della sua gloriosa stirpe. All’interno di questa cornice si collocarono pure le spoliazioni di beni archeologici e storico-artistici successivamente esposti al Louvre, allora ribattezzato Musée Napoléon (1802)28.

Consapevole del fatto che le conquiste militari portarono espansione e potere ma non consenso, Napoleone intuisce che la Francia avrebbe avuto nel mondo l’egemonia politica solo se avesse contestualmente acquisito quella culturale29.

Da questa breve disamina già si intuisce il potenziale dell’antico e del lusso antico quale strumento per comunicare messaggi di prestigio e potere. Analogamente i musei non sono rimasti impermeabili a tale tendenza: del resto il termine stesso “museo” deriva dal greco mouseion, letteralmente la “casa delle Muse”, le divinità delle Arti protette da Apollo, perciò non sorprende che l’adozione della forma architettonica del tempio sia stata tanto praticata. La storia dei primi musei è peraltro strettamente correlata a quella del collezionismo, in particolare antiquario30, basti pensare alle campagne di scavo finanziate dai papi a cui seguirono ritrovamenti leggendari come quello del Lacoonte (1506)31 che tuttora arricchisce i Musei Vaticani: una ragione in più per sacralizzare quanto tesaurizzato attraverso la citazione dei classici. In epoca contemporanea, dalla fine del Settecento come nell’Ottocento fino a oggi, l’identificazione del museo col tempio è sopravvissuta, di qui la scelta di architetti e interior designer museografi di rifarsi al linguaggio degli antichi: così si spiega la nascita dei “musei-tempio”32 settecenteschi dalle architetture ideali sulla scorta del pensiero illuminista o ancora dei musei ottocenteschi di matrice positivista dallo stile neorinascimentale o neogotico in adesione all’Istorismo dell’epoca33. Ancora oggi, accanto alle strutture più avveniristiche ideate da “archistar” internazionali come la Fondation Louis Vuitton inaugurata a Parigi nel 2014 e progettata dall’architetto Frank Gehry, ve ne sono altre, magari costruite in tempi recenti, che si rifanno esplicitamente alla tradizione dell’antico. Nei paragrafi che seguono verranno presi in esame alcuni “musei-tempio” della moda come il Gucci Garden, il Museo Salvatore Ferragamo, il Valentino Garavani Museum. I primi due, aperti al pubblico rispettivamente nel 2011 e nel 1995, rappresentano degli status symbol in virtù del legame già radicato con il contesto culturale fiorentino nel quale si collocano: infatti il primo è situato all’interno del Tribunale della Mercanzia in piazza della Signoria, mentre il secondo sorge sul basamento di Palazzo Spini Feroni presso il ponte Santa Trìnita. Un altro caso interessante è, ad avviso di chi scrive, il Valentino Garavani Museum lanciato nel 2011: pur essendo un museo virtuale, esso è stato concepito secondo un’estetica purista ma che tuttavia riporta all’immaginario dei “musei-tempio” per via dello squisito pallore “marmoreo” delle pareti, dei grandi spazi interni scanditi da scalinate e dei lucernai. Verrà inoltre mostrato un ulteriore esempio di lessico condiviso tra linguaggio dell’arte e della moda quindi, per osmosi, tra lo spazio dell’arte e della moda, ossia le sfilate organizzate dalle aziende del lusso all’interno dei musei e più in generale sui luoghi della cultura. Tale fenomeno, in linea con lo stile dei brand che si ispirano all’arte per le loro collezioni, risulta molto praticato anche perché incentivato dalla legislazione dei beni culturali aperta agli interventi dei privati34.

La citazione dell’antico nella comunicazione della moda

Come illustrato nell’introduzione, riprendere in chiave attuale la produzione artistica dell’antichità è stato un modus operandi perseguito con costanza nel tempo e a più livelli: nell’arte come nell’architettura o nel costume. In generale, appropriarsi dei segni identitari di una cultura può leggersi sia come un tentativo di integrazione, sia come un allusivo riferimento alla sottomissione di quest’ultima. È quanto è avvenuto nelle dinamiche del potere di cui un esempio è stato riportato poc’anzi. Facendo un balzo nella società contemporanea in cui il potere si misura in capitale economico, non sorprende che in molti tra i “nuovi re”, i magnati del lusso e della moda, abbiano scelto di rifarsi all’iconografia dei classici: un’operazione giustificata da un’eventuale compatibilità con l’identità di marca, ma, soprattutto, strategica per comunicare autorevolezza e prestigio. Nel novero delle imprese che hanno scelto quale segno di stile caratteristico il riferimento all’antico si collocano infatti grandi fashion companies romane e fiorentine: Brioni, Bulgari, Gucci, Valentino sono solo alcuni esempi di eccellenza italiana che vantano quale comun denominatore l’ispirarsi alla tradizione.

Brioni è l’azienda specializzata nel bespoke maschile fin dalla sua fondazione a Roma negli anni Quaranta per opera di Nazareno Fonticoli e Gaetano Savini. Fonticoli, in particolare, fu il fautore dello stile perché era un sarto assai capace. Originario di Penne (Pe), un comune collocato a metà strada tra l’Appennino centrale e l’Adriatico, si trasferì prima a Milano e all’inizio degli anni Trenta a Roma dove lavorava come maestro tagliatore da Satos, ma il suo apprendistato era avvenuto nella sua terra natale. A quei tempi in Abruzzo si era già affermata una scuola sartoriale che combinava una tecnica “antica” tramandata oralmente e di ascendenza borbonica alla lectio magistralis londinese di Savile Row35, allora capitale della confezione su misura per l’uomo. Accanto ai sarti che operavano sul territorio, ve ne erano molti che si trasferivano fuori regione: dalla Seconda Guerra Mondiale si verificò una notevole migrazione della manodopera soprattutto lungo l’asse viario tiburtino sia in virtù della vicinanza con la capitale sia dell’importanza che questa ricopriva quale nuova “Hollywood sul Tevere” e nuova mecca del vestire à la page36. Dunque a Roma l’heritage sartoriale abruzzese raccolse i frutti più fecondi tanto da poter considerare la scuola romana come figlia di quella abruzzese. Il laboratorio Brioni si inserì in questo contesto e riscosse un successo pressoché immediato. Negli anni Sessanta, per distinguersi dall’atelier di via Barberini delle origini, la novella fabbrica sita in Penne fu chiamata Roman Style per legare a doppia mandata il proprio nome alla città che ne decretò il successo37 e che garantì vita futura al patrimonio materiale e immateriale di origine vestina. Ancora oggi, a fronte del passaggio di proprietà dell’azienda nelle mani del colosso francese del lusso Kering (2012), la memoria della “tradizione”, dell’“art of tailoring" quindi dei”settant’anni di stile romano" sopravvive come testimoniato dalle parole chiave virgolettate e riprese dal sitoweb38.

Nel panorama dei brand capitolini, Bulgari vanta una storia dalla “doppia cittadinanza” sia romana che greca: la gioielleria fu fondata infatti alla fine del XIX secolo da Sotirios Voulgaris, il capostipite della dinastia “Bulgari” di origine epirota giunto in Italia per cercare fortuna. Uno dei prodotti di culto più noti e nei quali questa “doppia anima” prese forma furono i gioielli della collezione Monete: anelli, collane, orecchini e altri oggetti di design impreziositi da reali monete e medaglie antiche greche e romane39. A promuoverne il recupero e la produzione fu dagli anni Sessanta uno dei nipoti di Sotirio, Nicola, appassionato di numismatica e forse erede del buon gusto da parte dello zio Costantino, già collezionista d’arte e studioso dell’arte orafa40. Nei vari esemplari, tutti naturalmente pezzi unici e ancora in commercio, si coglie il fascino senza tempo della tradizione delle medaglie e monete recanti le effigi dei sovrani: nel 1231 Federico II di Svevia, solo per citarne uno, introdusse un nuovo conio, l’augustale41, che si rifaceva completamente ai modelli romani. E ancora nel Quattrocento fu di nuovo un imperatore “straniero”, bizantino, Giovanni VIII Paleologo a essere ritratto su conio bronzeo da Pisanello, l’artista che affiancò alla sua attività di pittore quella di medaglista per una straordinaria committenza di personaggi famosi42. Più numerosi, comunque, furono ora come allora i prestiti mutuati dai classici da parte di Bulgari: in questa sede ci si limiterà ad osservare il carattere grafico utilizzato dalla Maison “BVLGARI” che richiama, appunto, nel font come nella “V” lo stile delle epigrafi latine.

Ultimo ma non ultimo, tra i romani, Valentino. Alla guida della sua impresa per oltre quarantacinque anni, Valentino Garavani è stato l’“ultimo imperatore” della moda come titolava il documentario di Matt Tyrnauer43. Lo sguardo all’arte e a Roma, la capitale del suo impero, già sede dei primi atelier dove ancora si collocano gli uffici stile di Piazza Mignanelli, è stato ricorrente nell’ispirazione dello stilista e dei suoi successori. Dopo il ritiro dalle scene avvenuto nel 2007, la direzione creativa della linea donna è stata affidata ad Alessandra Facchinetti, al duo Maria Grazia Chiuri e Pierpaolo Piccioli infine a Pierpaolo Piccioli (dal 2016)44. Chiuri e Piccioli, nello specifico, hanno dato vita al grande rinnovamento del brand che ha saputo adeguarsi alle richieste del mercato “2.0” attraverso l’offerta di prodotti in linea con lo stile del suo fondatore e al contempo al passo con le tendenze pop del momento. Un esempio è rintracciabile nella collezione Rockstud di cui una delle possibili declinazioni sono le borse modello Roman Stud disponibili per l’acquisto in negozio e online: realizzate in diverse nuance e materiali, sono decorate con delle borchie di forma quadrata e cruciforme, minuterie diventate simbolo caratteristico della linea di accessori del marchio e, per estensione, del marchio stesso dal primo lancio avvenuto circa dieci anni fa (vedi collezione w-rtw AI 2010/11)45. Tra tradizione — l’ispirazione alle tecniche di decorazione muraria come il bugnato (Roman) — e innovazione — la rivisitazione in forma attuale (stud).

Ancora peculiare è il caso di Gucci, brand fiorentino alle cui vicende si è ispirato Ridley Scott per la sua pellicola The House of Gucci uscita nelle sale italiane lo scorso dicembre46. Sebbene una delle stampe più celebri, Flora, disegnata nel 1966 dall’artista Vittorio Accornero e ispirata a La Primavera di Botticelli47 si ponga in un rapporto di continuità con la cultura del territorio, il riferimento al patrimonio artistico fiorentino non è stato sempre filologico come attestato dall’avvicendamento dei vari direttori. Tuttavia con Alessandro Michele, Direttore Creativo di tutte le linee dal 2015, il marchio è tornato a recuperare tale heritage per ridargli una nuova linfa: il brand è ad oggi uno dei più ricercati dopo il radicale cambiamento stilistico targato Michele certamente diverso da Gucci disegnato da Tom Ford e Frida Giannini ma molto in linea con il patrimonio mediceo (e non solo) che fa talora da cornice alle collezioni. La presentazione della collezione Cruise 2018, ad esempio, si è svolta sul suggestivo sfondo della Galleria Palatina di Palazzo Pitti proponendo in questo modo un’ideale congiunzione tra presente e passato, arte e moda. Solo due anni dopo, la collezione Cruise 2020 ha sfilato presso i Musei Capitolini. Il discorso di Michele è dunque ancora più ampio, interregionale, oltre ogni confine o barriera fisica, storica, artistica, sfaccettato come l’uomo contemporaneo. I riferimenti tra Roma e Firenze si sono ricombinati dando vita a contaminazioni inedite e che hanno riconnesso la storia dell’arte a quella del brand che ha trovato origine in una città e fortuna anche nell’altra, secondo l’interpretazione postmoderna del suo creatore.

I brand romani o fiorentini riportati quali casi di studio per la moda maschile, femminile e l’alta gioielleria, sono stati scelti quali esemplificativi ma non esaustivi di un rifarsi a una strategia di comunicazione “all’antica” che si realizza in primo luogo nella dimensione del prodotto-stile ma che può applicarsi anche alla dimensione dello spazio in cui marca e arte si fondono: il museo d’impresa.

I “musei-tempio” della moda italiana

Nel comparto dei musei della moda si collocano le istituzioni risultanti dalla musealizzazione del materiale d’archivio di imprese talora non più in attività, fondate al fine di convertire la fonte delle proprie entrate da produttive a turistiche48 e, soprattutto, di collocare i brand su una dimensione “superiore”, ovvero quella dell’arte, secondo la dinamica dell’artificazione49. Di “artificazione”50, “artistizzazione”51 e “aurizzazione”52 si è nutrita gran parte della letteratura artistica contemporanea a descrizione del fenomeno per cui anche un oggetto d’uso quotidiano può “trasformarsi” in opera d’arte: è quanto è accaduto ai barattoli di zuppa Campbell firmati Andy Warhol, allo squalo tigre sotto formaldeide di Damien Hirst, ai “palloncini” di Jeff Koons53. Ai fini della presente trattazione, al di là della vexata quaestio circa il discrimine tra ciò che è un’opera d’arte e ciò che non lo è, appare opportuno collegare questi fenomeni alla teoria istituzionale di George Dickie secondo cui è arte tutto ciò che musei e gallerie legittimano come tale54. Partendo da tale assunto, infatti, una volta che dei comuni oggetti come degli abiti entrano nel museo, acquisiscono un plus valore e risignificano: l’aura sacrale propria dello spazio dell’arte discende sull’oggetto esposto e lo trasforma, per dirla con Campagnolo, in “arti-ficio”55. È proprio in questo che lo spazio della vendita, la boutique, si differenzia dallo spazio museale: nel primo il prodotto è presentato in quanto merce infatti su di esso è affisso il cartellino recante il prezzo, mentre nel secondo viene privato dell’etichetta, perde il suo status di merce e assurge a opera d’arte. Nel caso dei musei d’impresa si aggiunge un tassello ulteriore in quanto tutto, dall’architettura all’allestimento alle luci, diventa strumento concorrenziale alla mitopoiesi attraverso il richiamo a una tradizione condivisa56. Si tratta comunque di un rapporto dialettico e non passivo poiché è sia lo spazio a veicolare lo storytelling sia il contrario57. Le attività del museo aziendale sono disciplinate dalle leggi del profitto, sebbene il profitto non sia misurabile secondo parametri materiali bensì immateriali: tali istituti, di norma legalmente inquadrabili come fondazioni senza scopo di lucro, debbono sostenere costi di manutenzione nettamente maggiori delle entrate. Dunque i vantaggi si misurano in termini squisitamente comunicativi: attraverso il ritorno d’immagine di cui beneficiano le aziende quando si dotano di un museo, le imprese guadagnano autorevolezza e maggiore engagement58. In questo modo è il museo stesso a configurarsi come una risorsa per fare il cosiddetto brand heritage marketing: i musei aziendali sono infatti delle brand extension, letteralmente “estensioni del brand”, regolamentati dalle leggi del marketing mix applicate al patrimonio storico del brand59. Dagli anni Duemila la tendenza al recupero degli archivi storici e con essi dei musei è cresciuta60 e pare che questa “moda” sia molto seguita dalle aziende che hanno posto le basi del made in Italy come verificabile dal sito di Museimpresa, l’Associazione Italiana Archivi e Musei d’Impresa che dal 2001 raccoglie oltre cento aderenti di cui fanno parte, tra gli altri, il già citato Museo Salvatore Ferragamo, l’Archivio Benetton, la Fondazione FILA Museum61. Accade infatti che le case di moda sprovviste di un proprio museo non di rado sponsorizzino mostre o eventi temporanei all’interno di musei pubblici ma i vantaggi sono differenti poiché lo spazio designato non è appunto una brand extension. Armani/Silos di Milano, Gucci Garden di Firenze, la Fondazione Roberto Capucci sita in Villa Manin (Passariano di Codroipo), il Museo virtuale del costume Luisa Spagnoli, il Museo Salvatore Ferragamo di Firenze, il Valentino Garavani Museum sono alcuni dei più noti. Se è vero che anche il museo aziendale si configura come “tempio” del brand è sembrato opportuno prendere a esame il caso dei musei che hanno adottato uno stile architettonico aulico che si rifà alla tradizione come Ferragamo, Gucci, Valentino.

Fondato nel 1995 dalla famiglia Ferragamo dal particolare impegno di Wanda e Fiamma Ferragamo, rispettivamente la vedova del “calzolaio dei sogni”62 Salvatore e la loro prima figlia, è diretto sin dalla sua apertura da Stefania Ricci. Il museo ha intessuto una rete di relazioni sia, com’è ovvio, con le altre unità afferenti al brand come l’archivio storico e gli uffici stile, sia con associazioni nazionali e internazionali come Museimpresa (vedi supra) e l’ICOM International Council of Museums63. La mission del museo è quella di raccontare la storia del suo straordinario fondatore al fine di tramandarne al pubblico la memoria ma anche di esprimere apertura e interesse verso temi di più ampio respiro riguardanti il panorama contemporaneo, dall’arte al design, dallo spettacolo al costume etc. Ogni anno a partire dal 2006, le sale del museo si rinnovano a seconda del tema di ricerca che disciplina l’attività espositiva. Sustainable Thinking, per esempio, ha permesso di indagare un aspetto già caro all’azienda, la sostenibilità (infatti nel 2015 il museo è diventato il primo “museo green” d’Italia), in modalità trasversale attraverso l’installazione di opere eterogenee su un progetto espositivo articolato in più sedi (Museo Salvatore Ferragamo, Museo di Palazzo Vecchio, Museo Novecento)64. Sinergie tra passato, presente e futuro caratterizzano le attività museali come i suoi spazi: il museo si colloca nel basamento medievale di Palazzo Spini Feroni, un edificio storico sito in piazza di Santa Trìnita a Firenze. Il palazzo fu fatto edificare nel 1289 dal banchiere del papa e dei re di Francia e d’Inghilterra, Geri Spini, al fine di manifestare il potere della sua famiglia. Tale era infatti la “prassi” perseguita dai potenti con l’affermazione dei liberi comuni e poi delle signorie: torri e castra urbani diventarono i simboli dell’incastellamento e delle famiglie che non di rado si scontravano proprio in queste aree. Palazzo Spini Feroni si inserì precisamente in questo contesto, essendo la residenza di uno degli uomini più facoltosi di Firenze. Esso divenne col tempo dimora dei Guasconi, dei Da Bagnano, dei Feroni, stirpi nobiliari a cui si debbono le decorazioni artistiche che tuttora ne arricchiscono le stanze. Dal XIX secolo il palazzo fu adibito ad albergo di lusso, poi a sede del Comune di Firenze, del Gabinetto Scientifico e Letterario G. P. Viesseux, galleria d’arte e di nuovo abitazione. Dal 1939 mutò ancora la sua funzione diventando sede del laboratorio di calzature di Salvatore Ferragamo, poi dell’head quarter aziendale e del punto vendita. Tra i capolavori d’arte fiorentina si segnalano: gli stemmi medievali delle Arti fiorentine e del Quartiere di Santo Spirito, gli affreschi seicenteschi di Bernardino Poccetti (1609-1612), l’altorilievo settecentesco in marmo eseguito da Giuseppe Piamontini e avente come soggetto la caduta dei Giganti (1705). Il basamento, sede attuale del museo, si snoda dunque su un’area che è già portatrice di una storia che peraltro è stata raccontata in occasione della mostra Un palazzo e la sua città ideata e curata da Stefania Ricci e da Riccardo Spinelli nel 201565. Simbolo di Firenze e poi del marchio, il palazzo è stato scelto quale motivo di stampa dell’omonimo foulard in seta prodotto nel 1961 su disegno dell’artista Alvaro Monnini. Disponibile ancora oggi per l’acquisto in quattro fogge differenti, è diventato un prodotto continuativo66. L’idea che soggiace dietro tali operazioni sembra essere quella della storia del luogo che garantisce vita futura al marchio ovvero della bellezza dell’antico che genera la bellezza del moderno secondo la lectio vasariana.

A pochi minuti a piedi dal Museo Ferragamo si trova il museo Gucci inaugurato nel 2011. Nel 2018 il Gucci Museo è stato investito da una massiccia operazione di rinnovamento contestuale alla designazione di Alessandro Michele quale Direttore Creativo e demiurgo della nuova immagine del brand: completamente riallestito e incluso nel progetto del Gucci Garden, una struttura comprendente una boutique con prodotti esclusivi, un bookstore e il ristorante Gucci Osteria, lo spazio espositivo si è trasferito su due piani del Tribunale della Mercanzia, è stato ribattezzato Gucci Garden Galleria e la sua curatela affidata a Maria Luisa Frisa.67 Oggi la galleria è stata nuovamente riallestita secondo il progetto Gucci Garden Archetypes68 dedicato all’operato di Alessandro Michele e si configura come uno spazio espositivo unico nel suo genere: il discorso museografico comunicato dall’unione tra gli oggetti e l’allestimento scenografico, danno luogo a un museo poliedrico nelle cui singole facce è possibile cogliere un riflesso della camaleontica anima di Gucci. La traduzione dall’antico operata nel Gucci Museo appariva dunque più testuale nel precedente Gucci Museo: per esempio il logo adottato nello stendardo e in generale nell’immagine coordinata nelle brochure era quello ideato negli anni Cinquanta con il cavaliere recante una borsa e una valigia affiancato da un timone e una rosa, il tutto all’interno di uno stemma araldico dal sapore medievale. Nel nuovo progetto, invece, non solo il logo è stato sostituito con il Gucci Eye ma il riferimento alla tradizione è avvenuto su un piano più concettuale: già dal nome si intuisce il richiamo a un giardino (delle delizie) ideale ove reale e immaginario si fondono come in una Wunderkammer contemporanea. Il segno di continuità maggiore con il Gucci Museo si coglie dunque nel suo “scheletro”, il Tribunale della Mercanzia che ora come allora costituisce la sua ossatura. Esso rappresenta un altro edificio simbolo di Firenze in quanto fu costruito nel Trecento sulle spoglie di un teatro romano nel cuore della città in piazza della Signoria. Sebbene il Gucci Garden sia vicinissimo a tanti luoghi della cultura come il Museo Nazionale del Bargello, il pensiero più immediato va agli Uffizi con cui il brand ha più volte stabilito delle connessioni ora ispirandosi ai suoi capolavori ora utilizzandolo quale ideale cornice per le stesse (vedi supra).

Infine il Valentino Garavani Museum, il “tempio” virtuale creato da Giancarlo Giammetti e progettato da Novacom Associés di Parigi in collaborazione con Kinmonth-Monfreda Design Project di Londra dedicato all’opera dell’ultimo imperatore della moda. Il “3D Palazzo”, aperto al pubblico nel 2011, è accessibile tramite app o da browser69. Anche se oggi molti musei, inclusi i precedenti, mettono a disposizione dell’utenza da remoto tour virtuali, il Valentino Garavani rappresenta un esempio pionieristico per questo genere di esperienza. Nel ricordato studio di Campagnolo è segnalato che nessuno, tra i musei dell’impresa moda, sia stato costruito ex novo70. Il Valentino Garavani rappresenta quindi un’eccezione in quanto è stato progettato come se lo fosse: esso si articola infatti su un’area complessiva di 10.000 metri quadrati e si compone di sette gallerie secondo una suddivisione tematica. Vi è la sala Very Valentino Exhibition & Friends dedicata alle cinque decadi di stile 00, 90, 80, 70 e 60, la sala Themes & Variations con gli abiti raggruppati per cromia “White” o per stampa “Animal Print” e così via. In aggiunta alle aree espositive è presente una biblioteca virtuale con oltre 5.000 immagini, centinaia di vestiti e 180 video di sfilate. L’utente può accedere a insight e visionare ulteriori video, foto, disegni, un regesto (parziale) di mostre e retrospettive dedicate all’opera del maestro. Di particolare interesse sono le registrazioni di interviste che permettono di avere contezza anche di un patrimonio immateriale quale quello orale. In questo modo il museo si configura come un centro di documentazione aperto e inclusivo consentendo a chiunque la fruizione di tale capitale culturale secondo percorsi liberi. Al visitatore è data la facoltà di muoversi agevolmente all’interno delle enormi sale bianche che riportano al nitore del Museo dell’Ara Pacis. Ristrutturato nel 2006 da Richard Meier & Partners Architects, l’anno successivo ospitò l’iconica retrospettiva dedicata ai quarantacinque anni di attività del couturier71 e fu di fatto curata dal duo Kinmonth-Monfreda a cui si deve il progetto del museo virtuale (vedi supra). Sebbene l’interior design del museo si rifaccia a un’estetica purista, può cogliersi un’eco dei “musei-tempio” nello squisito pallore “marmoreo” delle pareti, nei grandi spazi interni scanditi da scalinate e nei lucernai72. La chiarezza dei volumi e le proporzioni richiamano la perizia tecnica delle strutture antiche di Roma. Nonostante il progetto di un reale Museo Valentino sia caduto nel vuoto73, Roma Capitale, già proprietaria con Mayhoola del marchio, ha avviato un dialogo in prospettiva dell’apertura di un museo della moda dove gli abiti del couturier troveranno spazio assieme a quelli dei brand storici della città come Bulgari, Fendi e Gucci74.

Diversamente dai già citati musei fiorentini, Roma non vanta musei espressamente dedicati alla cultura di un’impresa se si escludono archivi di Maison storiche non più in attività (per esempio la Fondazione Micol Fontana) o le mostre temporanee organizzate dalle aziende presso i loro punti vendita (Bulgari) o presso il loro quartier generale (Fendi). Gli uffici e l’archivio Fendi, in particolare, si sono trasferiti dal 2015 in un altro monumento romano simbolo, il “Colosseo Quadrato” dell’Eur ovvero il Palazzo della Civiltà Italiana, mentre il piano terra è stato destinato alle esposizioni per la pubblica fruizione75.

Alla luce di quanto esposto, si è vista l’applicazione alla museografia contemporanea del “classico” inteso come “rinascimentale” o “antico” o ancora “puro”. L’efficacia del fare ricorso a un linguaggio aulico, nello stile del prodotto come nell’architettura del museo, quale strumento concorrenziale alla veicolazione di un messaggio che richiami prestigio e potere, è dimostrata tra le altre cose dalla longevità dei brand presi in esame. Quello che non si è ancora forse sottolineato abbastanza è il perché si faccia così tanto ricorso ai classici. Ad avviso di chi scrive vi sono almeno altre due ragioni: la prima risiede nel fatto che l’Italia una tradizione dell’Antico ce l’ha e dunque se da un lato appare una scelta quasi obbligata rifarsi ad esso, dall’altro è pure una scelta opportuna in quanto è proprio questo patrimonio ad assicurare vita futura al “classico” (vedi supra) e di conseguenza ai marchi che se fanno garanti. La seconda risiede in una ragione più profonda ma che pure ha a che fare con un “potere”, quello “sociale sul tempo”. Per dirla con Pierre Bordieu:

Il valore delle maniere legittime dipende dal fatto che esse rendono manifeste le condizioni di apprendimento più rare, vale a dire un potere sociale sul tempo che tacitamente si riconosce essere la forma dell’eccellenza per eccellenza: avere dell’‘antico’, cioè delle cose del presente che appartengono al passato, della storia accumulata, tesaurizzata, cristallizzata, dei titoli di nobiltà e dei nomi nobili, dei castelli o delle ‘dimore storiche’, dei quadri e delle collezioni, dei vini vecchi e dei mobili antichi, significa dominare il tempo, ciò che si sottrae maggiormente alla presa […]76

Comunicare di possedere il tempo equivale a dichiarare la propria immortalità, ciò che “si sottrae maggiormente alla presa” soprattutto nel campo della moda che per sua natura impone un rinnovamento cicliclo. I “musei-tempio” della moda permettono di superare tale impasse e di proiettarsi al futuro.

Defilé e mostre nelle “case delle muse” e nei luoghi della cultura

Di pari passo con le operazioni di brand heritage marketing messe in atto dai musei d’impresa al fine di artificare il prodotto cannibalizzando i segni e i simboli dell’arte attraverso mirate operazioni museologiche e museografiche, vi sono altre modalità d’ingresso della moda al museo e in generale nei luoghi della cultura come le sfilate e le mostre temporanee. Il defilé più importante per la storia della moda italiana si tenne durante l’Italian High Fashion Show, l’evento organizzato da Giovan Battista Giorgini nella Sala Bianca di Palazzo Pitti di Firenze il 22 luglio 195277. Sebbene la sfilata al museo fosse una pratica consolidata in altre nazioni come ad esempio nel Regno Unito al Victoria and Albert Museum o come negli Stati Uniti al Costume Institute del Metropolitan Museum of Art, in Italia l’evento non ebbe precedenti altrettanto celebri. Giorgini, già buyer per alcuni grandi magazzini americani, lavorò al progetto di lancio della moda italiana almeno dall’anno prima, infatti al 1951 risale l’accordo con l’allora direttore del Brooklyn Museum di New York, Charles Nagel, perché la sfilata fosse ospitata in quegli spazi78. Il progetto naufragò ma l’evento si tenne ugualmente presso la sua abitazione (Firenze, febbraio 1951) e al Grand Hotel di Borgo Ognissanti (Firenze, luglio 1951) fino a quando, nel luglio del 1952, si tenne l’avvenimento che segna i natali della moda italiana. Uomo acuto e attento alle tendenze, certamente Giorgini dovette tener conto di un altro evento iconico ovvero il defilé di modelle organizzato da Christian Dior sul Partenone di Atene per immortalare la collezione Haute Couture del 1951: Giorgini, come forse Monsieur Dior, aveva individuato dei valori condivisi tra l’heritage rappresentato dalla scuola sartoriale italiana e gli spazi dell’arte scelti per farne da suggestiva cornice. Dunque musei e luoghi della cultura vennero utilizzati già da allora quali strumenti per comunicare la moda. Tali iniziative, oggi incentivate dalla legislazione dei beni culturali sempre più aperta agli interventi dei privati come il mecenatismo e la sponsorizzazione79, hanno costellato la storia di molti brand: per esempio Tod’s ha finanziato il restauro del Colosseo (2013-16); Versace e Prada il restauro degli affreschi della Galleria Vittorio Emanuele II di Milano (2014-15); ancora Bulgari il restauro della scalinata di Trinità dei Monti, di un mosaico alle Terme di Caracalla e dell’area sacra di Largo Argentina a Roma (2016-2019); etc. Ciò premesso, in Italia questi eventi entrano sistematicamente nel mirino delle critiche a causa di varie ragioni: forse per il retaggio maschilista nei confronti della moda identificatasi con le attività sartoriali e nello specifico domestiche quindi con il genere femminile80 e, per estensione, l’effimero e il frivolo; la resistenza dell’Accademia al riconoscimento del valore artistico della moda; l’accusa alla mercificazione della cultura al servizio del privato da cui deriverebbe la mistificazione della moda81. Un altro motivo potrebbe rintracciarsi anche nel fatto che in Italia manchi un museo della moda “vero e proprio”82: infatti mentre nel Regno Unito, in Francia e negli Stati Uniti vi sono il Victoria and Albert Museum, il Musée des Arts Décoratifs e il Costume Institute del Metropolitan Museum of Art che sin dalla loro fondazione si sono posti quali centri di documentazione ma anche di ispirazione per l’industria tessile che più volte si è servita di tali spazi per ambientare fashion show, in Italia non ci sono realtà che possano competere con essi, di qui la mancata “normalizzazione” di esperienze di questo tipo. Dopo il precedente di Palazzo Pitti, un’altra sfilata fu ospitata negli interni di un altro tempio dell’arte, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma (1961): non sorprende che a promuoverla fu la celeberrima sovrintendente e direttrice della GNAM, Palma Bucarelli, già avvezza alle interrogazioni parlamentari (1959, 1971, 1975) e assai pratica del success à scandal, poiché per la direttrice la fusione tra arte e moda era di grande significato83. Passando a tempi più recenti, tra le ultime iniziative di sfilate al museo e, in generale, sui luoghi dell’arte si ricorda la presentazione della collezione Haute Couture PE 2022 di Dolce&Gabbana tenuta sul meraviglioso sfondo di piazza San Marco a Venezia, l’indimenticabile defilé Haute Couture AI 2020 che sempre Dolce&Gabbana aveva ambientato presso la Valle dei Templi di Agrigento… Analogamente, tra le mostre temporanee tenute all’interno di siti archeologici si ricorda L’eleganza del cibo. Tales about food and fashion curata da Stefano Dominella e da Bonizza Giordani Aragno a Roma presso i Mercati di Traiano Museo dei Fori Imperiali (18 maggio – 31 ottobre 2015).

Una storia che si ripete dagli anni Cinquanta.

Conclusioni

Dimostrare la fortuna e il potenziale dell’antico per la storia dell’arte italiana e di conseguenza per la storia della moda italiana è stato l’obiettivo del saggio. A supporto di tale tesi sono stati portati dei casi museologici e museografici esemplificativi quali: i musei Gucci e Ferragamo collocati strategicamente in palazzi storici fiorentini; il Valentino Garavani Museum, un museo virtuale progettato come un “museo-tempio” moderno; le mostre e le sfilate organizzate dai brand del lusso nei luoghi della cultura come espressione generale di una tendenza all'uso del patrimonio dei classici come strumento di narrazione della moda italiana. È stato evidenziato come tali strategie siano utilizzate a vantaggio dei brand in termini di ritorno d’immagine ma anche come vi siano dei benefici per le istituzioni che, potendo contare su fattori quali la disponibilità economica o la risonanza mediatica garantita dal giornalismo di moda, riescono a risollevare le proprie finanze e a uscire dall’oblio al quale sembrerebbero talvolta condannate. Questa appare dunque la chiave da cui partire per comunicare e valorizzare la moda nei musei italiani che si lega indissolubilmente all’artigianato e all’arte, marchio di fabbrica tipicamente italiano.

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  1. Il presente contributo è nato a partire dalla raccolta dati condotta nell’ambito delle mie ricerche per la tesi di laurea magistrale dal titolo Museologia di moda. I musei della moda e del costume in Italia che costituisce pertanto la documentazione preliminare. A tal proposito desidero ringraziare la prof.ssa Ilaria Miarelli Mariani, già mia relatrice e oggi docente tutor per il corso di dottorato, per la competenza e i preziosi consigli di cui ho potuto beneficiare nel corso degli anni.↩︎

  2. Salvatore Settis, Futuro del “classico” (Torino: Einaudi, 2004).↩︎

  3. A tal proposito Warburg coniò il termine di Pathosformel (“formula di pathos”) presentato per la prima volta in Dürer e l’antichità italiana (conferenza del 1905) ma già presente in Sandro Botticellis “Geburt der Venus” und “Frühling”. Eine Untersuchung über die Vortstellungen von der Antike in der Italenischen Frührenaissance (Amburgo-Lipsia: Leopold Voss, 1893), l’unico scritto monografico di Warburg. Tra le sue opere fondamentali, per lo più saggi pubblicati in una serie di periodici e atti di convegni, si ricorda La Rinascita del paganesimo antico e altri scritti (1889-1914), a cura di Maurizio Ghelardi (Torino: Aragno, 2004).↩︎

  4. Aby Warburg fu tra padri fondatori dell’Iconologia. Dalla sua nutrita collezione di volumi si originò la celebre biblioteca che fu trasferita negli anni Trenta da Amburgo a Londra dove ancora oggi si colloca. Alla morte di Warburg, Saxl ne diventò il direttore seguito da Henry Frankfort, Gertrud Bing e altri. Wittkover e Wind furono i curatori del primo numero del Journal of the Warburg Institute mentre Gombrich fu direttore dell’Istituto dal 1964 al 1976. Il Warburg Institute con la sua biblioteca rappresenta uno dei maggiori centri di ricerca al mondo specializzati sulla sopravvivenza e la trasmissione della cultura con uno special focus sulla tradizione dell’antico.↩︎

  5. Erwin Panofsky, Studi di Iconologia, i temi umanistici dell’arte del Rinascimento, trad. it. Renato Pedio, introduzione di Giovanni Previtali (Torino: Einaudi, 1975).↩︎

  6. Erwin Panofsky, Rinascimento e rinascenze nell’arte occidentale, trad. it. Maurizio Taddei (Milano: Feltrinelli, 1971).↩︎

  7. Vedi Settis, Futuro del …, 83.↩︎

  8. Johan Huizinga, La mia via alla storia e altri saggi, a cura di Piero Bernardini Marzolla, introduzione di Ovidio Capitani (Bari: Laterza, 1967), 265.↩︎

  9. Vedi Susanne Adina Meyer, “Epoche, nazioni, stili (1815-1873)”, in La storia delle storie dell’arte, a cura di Orietta Rossi Pinelli, (Torino: Einaudi, 2014), 180-238 (212).↩︎

  10. Vedi Nicole Dacos, “Arte italiana e arte antica”, in Storia dell’arte italiana, III, a cura di Giovanni Previtali (Torino: Einaudi, 1979), 5-68.↩︎

  11. Orietta Rossi Pinelli ne parla in “Le storie dell’arte dopo il ’69”, in La storia delle storie dell’arte, a cura di Orietta Rossi Pinelli (Torino: Einaudi, 2014), 452-490 (481) riferendosi a Memoria dell’antico nell’arte italiana, a cura di Salvatore Settis, I-III (Torino: Einaudi, 1984-86).↩︎

  12. Ernst Howald, Die Kultur der Antike (Potsdam: Akademische Verlagsgesellschaft Athenaion, 1934-36).↩︎

  13. Vedi Settis, Futuro del…, 90.↩︎

  14. Locuzione latina che sta a designare l’ideale, più volte perseguito nel corso della storia, di restaurare l’impero.↩︎

  15. Marco Fabio Apolloni, Napoleone e le arti (Firenze-Milano: Giunti, 2004), 6.↩︎

  16. Annamaria Sbisà, “Lusso minimal: la moda nell’era napoleonica”, in Napoleone e l’Impero della moda: 1795-1815, a cura di Cristina Barreto e Martin Lancaster, catalogo della mostra, Triennale di Milano, 16 giugno-12 settembre 2010 (Milano: Skira 2010), 17-24; Gabriella Gregorietti, “Incroyables” e “Merveilleuse”, in Dizionario della moda, a cura di Guido Vergani, caporedattore Biba Merlo (Milano: Baldini Castoldi Dalai, edizione 2010), 585, 781.↩︎

  17. Élisabeth-Louise Vigée Le Brun, Marie-Antoinette (post 1783), Washington, National Gallery of Art.↩︎

  18. Vedi Sbisà, “Lusso minimal…”, 17–24.↩︎

  19. Cfr. Apolloni, Napoleone…, 6. A proposito dello stile Impero Apolloni scrive: “con l’ammirazione per le forme antiche si cominciavano a vagheggiare anche quelle politiche dell’antica Grecia democratica e della Roma repubblicana”. Da ciò deriva l’affermazione formulata circa l’identificazione delle donne dell’epoca con le “antenate” ateniesi e i loro costumi.↩︎

  20. Vedi Sbisà, “Lusso minimal…”, 17–24. Queste mode arrivarono anche in Italia seppure in forma più mitigata: lo sconvolgimento causato dai provocatori esempi francesi portò a interruzioni nell’invio dei figurini. Tuttavia permaneva l’ispirazione classica nell’abbigliamento delle dame, in questo caso di derivazione pompeiana, e degli uomini che portavano acconciature alla Brutus o alla Titus. Vedi anche Rosita Levi Pisetzky, “Storia del costume in Italia”, in Enciclopedia della moda, II (Roma: Istituto Enciclopedico Treccani, 2005), 369-371.↩︎

  21. Vedi Sbisà, “Lusso minimal…”, 17–24.↩︎

  22. Cfr. Apolloni, Napoleone…, 9: “L’influenza di Joséphine è sempre presente nello stile Impero, che pur aulico e monumentale, presenta due anime: l’una marziale e guerresca […]; l’altra, a cui presiede Venere, accompagnata da cigni e colombe […] Un Rococò in forma neoclassica […]”.↩︎

  23. Cristina Barreto e Martin Lancaster, a cura di, Napoleone e l’Impero della moda: 1795-1815, catalogo della mostra, Triennale di Milano, 16 giugno-12 settembre 2010 (Milano: Skira, 2010), 139-186; Vedi Apolloni, Napoleone↩︎

  24. Vedi Apolloni, Napoleone…, 8.↩︎

  25. Apolloni, 6.↩︎

  26. Si vedano le opere architettoniche come l’Arc du Carrousel di Parigi (1806-10) o le illustrazioni tratte dal Recueil des décorations intérieurs di Charles Percier e Pierre-François Fontaine (1802-12), gli scenografi del nuovo stile.↩︎

  27. Jacques-Louis David, Bonaparte franchissant le Grand-Saint-Bernard (1801), Parigi, Musée National de la Malmaison; Antonio Canova, Napoleone come Marte pacificatore (1803-1806), Londra, Aspley House; Antonio Canova, Paolina Bonaparte Borghese come Venere Vincitrice (1804-1808), Roma, Galleria Borghese.↩︎

  28. Vedi Alessandra Mottola Molfino, Il libro dei musei (Torino: Allemandi, 1998).↩︎

  29. Demetrio Paparoni, “Napoleone, l’arte dei dittatori e la destituzione artistica di Parigi”, in Napoleone e l’Impero della moda: 1795-1815, a cura di Cristina Barreto e Martin Lancaster, catalogo della mostra, Triennale di Milano, 16 giugno-12 settembre 2010 (Milano: Skira, 2010), 197-205 (197).↩︎

  30. Vedi Mottola Molfino, Il libro dei….↩︎

  31. Athanodoro, Agesandro e Polidoro di Rodi, Laocoonte (40-20 a.C.), Città del Vaticano, Musei Vaticani.↩︎

  32. “Musei-tempio” è il titolo di un paragrafo tratto da Il libro dei musei di Alessandra Mottola Molfino (175): sebbene l’autrice applichi la definizione ai musei americani costruiti tra Otto e Novecento, si ritiene opportuno prendere a prestito la citazione estendendola in generale ai musei che si rifanno alla tradizione dell’antico. Peraltro la stessa autrice accosta diffusamente il termine “museo” a quello di “tempio” e ancora “capolavoro”.↩︎

  33. Mottola Molfino.↩︎

  34. Vedi Sara Mazzotta, “Le fondazioni culturali delle corporate del lusso. Collezioni d’arte aziendali, mecenatismo e sponsorizzazione”, ZoneModa Journal, Vol. 8/1 (2018): 43-61.↩︎

  35. Guido Vergani, Sarti d’Abruzzo. Le botteghe di ieri e di oggi protagoniste del vestire maschile (Milano: Skira, 2004).↩︎

  36. Vergani.↩︎

  37. Vergani.↩︎

  38. Brioni, consultato il 7 febbraio 2022, https://www.brioni.com/it/it↩︎

  39. Alessandra Quattordio, “Bulgari”, in Dizionario della moda, a cura di Guido Vergani, caporedattore Biba Merlo (Milano: Baldini Castoldi Dalai, edizione 2010), 177-179.↩︎

  40. Quattordio; Bulgari, “Heritage Icons”, consultato il 7 febbraio 2022, https://www.bulgari.com/it-it/bulgari-heritage-icons.html↩︎

  41. Augustale di Federico II (1231), Milano, Castello Sforzesco.↩︎

  42. Antonio di Puccio Pisano detto Pisanello. Medaglia di Giovanni VIII Paleologo (1438), Modena, Galleria Estense; Id., Medaglia con il profilo di Cecilia Gonzaga (1447), Parigi, Biblioteca Nazionale di Francia; etc.↩︎

  43. Matt Tyrnauer, Valentino The Last Emperor, U.S.A., 2008.↩︎

  44. Pier Paolo Piccioli è in realtà responsabile di tutte le linee, unico Direttore Creativo della Maison.↩︎

  45. Valentino, “Roman Stud”, consultato il 7 febbraio 2022, https://www.valentino.com/it-it/experience/valentino-garavani-roman-stud↩︎

  46. Ridley Scott, The House of Gucci, Italia-U.S.A., 2021.↩︎

  47. Sandro Botticelli, La primavera (1478 circa), Firenze, Galleria degli Uffizi; Gucci, “Flora”, consultato il 7 febbraio 2022, https://www.gucci.com/it/it/pr/women/accessories-for-women/silks-and-scarves-for-women/silk-square-scarves-for-women/gg-flora-print-silk-scarf-p-6025853G0019769?gclsrc=aw.ds&gclid=CjwKCAiArOqOBhBmEiwAsgeLmZVlUvZ7wbVrslAZLUoK7gjBpsYMNUzyeTICVLfxv_GnEgRlvPZCfRoCMjQQAvD_BwE.↩︎

  48. Caterina Chiarelli, “Istituzioni”, in Enciclopedia della moda, III (Roma: Istituto Enciclopedico Treccani, 2005), 859–869.↩︎

  49. Alberto Campagnolo, Bellezze crudeli: tradizione, traduzione e tradimento del mito della moda negli spazi museali permanenti (Torino: L’Harmattan Italia, 2017), 42.↩︎

  50. Natalie Heinich e Roberta Shapiro, a cura di, De l’artification. Enquête sur le passage à l’art (Parigi: Editions Ehees, 2012).↩︎

  51. Mario Perniola, L’arte espansa (Torino: Einaudi, 2015), 45.↩︎

  52. Alessandro Del Lago e Serena Giordano, Mercanti d’aura. Logiche dell’arte contemporanea (Bologna: Società editrice il Mulino, 2006), 140.↩︎

  53. Andy Warhol, Campbell's Soup Cans (1962), New York, Museum of Modern Art; Damien Hirst, The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living (1991), collezione privata; tra le opere di Jeff Koons ispirate al tema “balloon” si ricordano i Balloon Dogs (1994) realizzati in cinque colori diversi e facenti parte del gruppo Celebration.↩︎

  54. George Dickie, Aesthetics. An introduction (New York: Pegasus, 1971).↩︎

  55. Vedi Campagnolo, Bellezze crudeli…, 42.↩︎

  56. Campagnolo, 53-54.↩︎

  57. Vedi Luca Marchetti, “Il curating della moda nella cultura del consumo: lo spazio della marca”, in Exhibit! La moda esposta: lo spazio della mostra e lo spazio della marca, a cura di Luca Marchetti e Simona Segre Reinach (Milano: Mondadori, 2017), 83-104.↩︎

  58. Vedi Campagnolo, Bellezze crudeli…, 80-81.↩︎

  59. Campagnolo, 22, 29; vedi Simona Politini, “Brand heritage marketing: il legame col passato che dà valore al Made in Italy”, Forbes (3 giugno 2019), https://forbes.it/2019/06/03/brand-heritage-marketing-il-legame-col-passato-che-da-valore-al-made-in-italy/.↩︎

  60. Cfr. Sofia Gnoli, Moda. Dalla nascita della haute couture a oggi (Roma: Carocci Editore, 2012), 324. Gnoli scrive: “Un altro aspetto del revival della tradizione è dato anche dalla tendenza al recupero degli archivi storici che, nei primi anni del Duemila, si sono moltiplicati”. Anche se l’autrice si riferisce agli archivi, occorre rammentare che è proprio a partire da tali archivi che si originano i musei d’impresa (vedi supra), pertanto si è ritenuto di poter estendere l’affermazione ai musei.↩︎

  61. Museimpresa, consultato il 7 febbraio 2022, https://museimpresa.com/↩︎

  62. Il calzolaio dei sogni è il titolo dell’autobiografia pubblicata per la prima volta da Sansoni nel 1971, poi riedita da Skira nel 2010 e infine da Electa nel 2020. Il libro ha ispirato il film Salvatore — Shoemaker of Dreams diretto da Luca Guadagnino e prodotto in Italia nel 2020.↩︎

  63. Il museo è socio fondatore di Museimpresa ed è inoltre associato dal 2016 con l’ICOM. Le informazioni sul museo sono state reperite attraverso il sito (Salvatore Ferragamo, consultato il 7 febbraio 2022, https://www.ferragamo.com/museo/it) e vari sopralluoghi.↩︎

  64. Sustainable Thinking. A cura di Giusy Bettoni, Arabella S. Natalini, Stefania Ricci, Sara Sozzani Maino e Marina Spadafora, Firenze, Museo Salvatore Ferragamo, 12 aprile 2019-marzo 2020. Ulteriori dettagli circa la curatela e le date nelle altre sedi sono reperibili sui comunicati stampa accessibili alla sezione “archivio mostre” del sito (vedi supra).↩︎

  65. Un palazzo e la città. Dagli Spini a Ferragamo. A cura di Stefania Ricci e Riccardo Spinelli, Firenze, Museo Salvatore Ferragamo, 7 maggio 2015–3 aprile 2016.↩︎

  66. Salvatore Ferragamo, “Foulard Palazzo”, consultato il 7 febbraio 2022, https://www.ferragamo.com/shop/ita/it/donna/accessori-in-seta-donna/foulard-donna/fo-palazzo-t-746279--4.↩︎

  67. Le informazioni sono state reperite attraverso il sito e vari sopralluoghi; Gucci, “Gucci Garden”, consultato il 7 febbraio 2022, https://www.gucci.com/it/it/st/stories/inspirations-and-codes/article/gucci_garden; https://www.gucci.com/it/it/st/capsule/gucci-garden. In piazza della Signoria si colloca inoltre il caffè e cocktail bar Giardino 25 che va ad aggiungersi all’offerta del Gucci Garden; Vedi Gucci, “Gucci Garden Giardino 25”, consultato il 9 giugno 2022, https://guccigarden.gucci.com/#/it/gucci-giardino-25/.↩︎

  68. Gucci, “Gucci Garden Archetypes”, consultato il 7 febbraio 2022, https://www.gucci.com/it/it/st/stories/inspirations-and-codes/article/gucci-garden-archetypes.↩︎

  69. Valentino Garavani Museum, consultato il 7 febbraio 2022, http://www.valentinogaravanimuseum.com/.↩︎

  70. Vedi Campagnolo, Bellezze crudeli…, 44.↩︎

  71. Valentino in Rome. 45 Years of Style. A cura di Patrick Kinmonth e Antonio Monfreda. Roma, Museo dell'Ara Pacis, 8 luglio-28 ottobre 2007.↩︎

  72. Vedi Julia Petrov, “The New Look: Contemporary Trends in Fashion Exhibitions”, in Fashion, History, Museums: Inventing the Display of Dress (Londra: Bloomsbury Visual Arts, 2019), 185–198 (197). Riferendosi allo stile del museo Valentino, Petrov scrive: “In a digital environment, there is no real need to choose this particular aesthetic […] The decision to digitally duplicate a stereotypical museum suggests that for Valentino, the medium is the message: the display style supports the brand’s claims to heritage, authenticity, and value”.↩︎

  73. Nel 2007 venne concepita l’idea di un Museo Valentino che avrebbe dovuto situarsi nell’ex mercato del Pesce in via di San Teodoro. L’allora sindaco di Roma Walter Veltroni accolse il progetto che tuttavia non ebbe seguito.↩︎

  74. Flavia Fiorentino, “Nascerà il museo della moda, eventi tutto l’anno: ‘Roma deve tornare protagonista’”, Corriere della sera, (13 febbraio 2022), https://roma.corriere.it/notizie/cronaca/22_febbraio_13/nascera-museo-moda-eventi-tutto-l-anno-roma-deve-tornare-protagonista-2ae790ce-8c50-11ec-a14e-5fea75909720.shtml.↩︎

  75. Sebbene il parallelismo con Palazzo Spini Feroni sia inevitabile, è opportuno sottolineare che mentre Ferragamo ha acquistato l’immobile, il gruppo LVMH corrisponde regolare canone d’affitto all’ente proprietario del Colosseo Quadrato, Eur Spa.↩︎

  76. Pierre Bordieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, trad. it. Guido Viale (Bologna: Società editrice il Mulino, 1983), 72.↩︎

  77. Vedi Neri Fadigati, “Giovanni Battista Giorgini, la famiglia, il contributo alla nascita del Made in Italy, le fonti archivistiche”, ZoneModa Journal, Vol. 8/1 (2018): 1-15.↩︎

  78. Vedi Gnoli, Moda…, 167.↩︎

  79. Vedi Mazzotta, “Le fondazioni…”, 43–61.↩︎

  80. Julia Petrov, “Gender Considerations in Fashion History Exhibitions”, in Fashion and Museums. Theory and Practice, a cura di Marie Riegels Melchior e Birgitta Svensson (Londra e New York: Bloomsbury, 2014), 77–90.↩︎

  81. Tale preoccupazione è ripresa nell’articolo di Nigel Lezama, “Re Thinking Luxury in Fashion Museum Exhibitions”, Luxury, Vol. 6/1 (2019): 83-104: citando studiosi quali N. J. Stevenson e V. Steele, egli collega il fenomeno alle mostre monografiche le quali, essendo appunto incentrate sul lavoro di un designer, potrebbero rafforzare questa funzione mistificante nel campo della moda. È tuttavia lo stesso autore ad asserire che le mostre dei musei della moda offrono un riparo dall’“iper-mercificazione” nella misura in cui permettono al visitatore di apprezzare e quindi ripensare il lusso da una giusta distanza.↩︎

  82. Vedi Simona Segre Reinach, “In Italia”, in Exhibit! La moda esposta: lo spazio della mostra e lo spazio della marca, a cura di Luca Marchetti e Simona Segre Reinach (Milano: Mondadori, 2017), 51–82.↩︎

  83. Flora Ferrara, “Moda e costume al Museo Boncompagni Ludovisi”, in Museo Boncompagni Ludovisi per le Arti decorative, il Costume e la Moda dei secoli XIX e XX, guida breve a cura di Matilde Amaturo (Roma: Artemide Editore, 2018), 53–59 (58).↩︎