Un po’ di storia: a.C. e d.C.
Fino a pochi mesi fa, se non fino a qualche giorno addietro, uno dei mantra più ricorrenti del panorama giornalistico di moda, a cui per la verità si accoda una lunga sequela di geremiadi provenienti da altri ambiti disciplinari, è stata l’influenza della pandemia sull’arte del vestire. Nell’immaginario comunicazionale dei media l’ombra lunga del Covid19 sembra essersi abbattuta come una scure inesorabile, falcidia capace di cambiare in toto le regole dell’abbigliamento, di mutarne il Dna nella sua struttura elementare, perfino al livello delle forme. Per quanto sarebbe assurdo sottostimare l’impatto di una simile tempesta epocale, tuttavia è necessario contenere l’inutile spargimento di false convinzioni e stabilire un distinguo fondamentale: la nefasta presenza del virus ha influito sul mondo della moda solo ed esclusivamente dal punto di vista della comunicazione, per giunta in meglio, o al massimo lo ha riconfigurato sotto il profilo della diffusione mediatica senza che ne venissero intaccate, neppure in minima misura, le identità di stile dei singoli marchi e dei singoli designer. Detto in altre parole, come ben sappiamo la moda si è dovuta riposizionare nei suoi canali di espressione rinunciando all’esibizione in passerella, per affidarsi a forme di divulgazione agili e smaterializzate, in sostanza riponendo tutta la sua forza sulle possibilità offerte dai fashion film e dai social network. Questo saggio si propone di indagare proprio sul prima e sul dopo, sull’utilizzo del video come medium espressivo autolegittimato da una sua veste linguistica, ravvisando una serrata continuità di contenuti di là e di qua dello spartiacque pandemico; crocevia di altri prestiti culturali, la videomoda — chiamiamola così — è fatta oggetto di una cura e di un’attenzione non di rado condotte dai grandi registi del cinema, o sfociate in soluzioni, effetti e ambientazioni passibili di gareggiare con i migliori videoclip della storia della musica. Ne nasce un quadro di estetica che mette assieme le caratteristiche più stringenti dell’arte contemporanea, cioè la performance e l’installazione, perfino certi estremismi della Body Art, in un amalgama di apporti votato al culto della diversità, dell’anomalia in grado di offrire i più opportuni assetti di straniamento. Oltretutto, per stare sulle medesime frequenze di cultura visuale, la videomoda, esattamente come la videoarte, acquisisce una sua ratifica estetica quando il cortometraggio smette di essere un semplice documento di registrazione e si fa opera a sé stante, ma con un tasso di appetibilità e di attrattiva ben più consistenti rispetto ai prodotti visibili in gallerie e musei. Le campagne e le presentazioni fruibili su YouTube1 o Instagram sono infatti confezionati con ritmo, musica e velocità ad altissimo impatto d’insieme — pur traendo non pochi spunti, poniamo, da un Bill Viola o un Matthew Barney. Ad aumentare la forza e la complessità crescenti della videomoda non va trascurata l’influenza sempre più incisiva di un altro spettacolare ambito di ricerca, quello a special effects dei videogiochi, attenti a loro volta a progettare costumi ‘al pixel’ in grado di competere con l’inventiva dei migliori stilisti del contemporaneo.
Naturalmente, non ha senso, in questa sede, provvedere a un regesto completo della storia del video legato alla comunicazione della moda2, ma per correttezza di trattazione è necessario gettare lo sguardo anche all’indietro, tra i primi esempi di registrazione di passerelle e collezioni; la scelta va orientata sui casi più significativi, per taluni versi anche meno noti, seppure forieri di una visibile forza poetica, dunque ben allineati al credo generale del designer che ne ha fatto uso e soprattutto all’estetica del periodo. Venendo invece a tempi meno lontani dai nostri, si analizzeranno, fra gli altri, gli esempi di Raf Simons, pronto a oscillare dalla registrazione di una vita a ‘grado zero’, neutra e prosaica, alla messa a punto di un sistema espressivo molto più gravido di finzione, di effettismi e di acrobazie narrative. Non saranno da meno i corti di Prada: la griffe milanese si è rivolta a nomi di prestigio, su tutti Steven Meisel (Fig. 1) e Wes Anderson, entrambi assai abili nell’evocare la pregnanza delle atmosfere pradiane. Un altro faro di riferimento nell’invenzione e nella produzione della videofashion è senza dubbio lo SHOWstudio di Nick Knight, artista-fotografo-videomaker a cui, fra gli altri, si sono rivolti Gareth Pugh e Walter Van Beirendonck per valorizzare le rispettive collezioni. Tutto ciò, per così dire, in regime di ‘a. C.’, manifestatosi nella lunga gittata, appunto, della moda ‘ante Covid’. Ma come si è già accennato, è in piena esplosione pandemica e relativo lockdown che la comunicazione della moda trova il suo spirito di riadattamento attraverso l’uso del video; il mezzo si rivela particolarmente efficace nel completare la visione creativa dei tanti designer che, giocoforza o per scelta compiaciuta, se ne avvalgono con spinta sempre maggiore, a partire dal caso emblematico di Alessandro Michele per Gucci, con la preziosa regia di Gus Van Sant per il noto Gucci Fest. Nello stesso frangente di tempo, Moschino, guidato da Jeremy Scott, scende in campo con geniali sfilate virtuali fatte di modelle-marionette o di oculate teatranti, preceduto nel 2008 dalla passerella in stile Lego di Jean-Charles De Castelbajac. Di diversa natura i video di Burberry, molto ben aderenti alla creatività taglia e cuci di Riccardo Tisci.
Gli iniziatori: Quant, Cardin, Courrèges
Nella preistoria del video di moda, in registrazioni pensate a scopo documentativo e quindi non ancora equipaggiate con il surplus di creatività che viceversa andrà a contraddistinguere gran parte delle produzioni successive, hanno un posto di diritto le presentazioni di Mary Quant degli anni Sessanta. La designer si era conquistata una poltrona in prima fila nel teatro internazionale del ready-to-wear gareggiando a distanza con due mostri sacri delle passerelle, Pierre Cardin e André Courrèges, spostando l’asse della moda che conta da Parigi a Londra, quest’ultima, oramai, città sempre più al centro dell’industria creativa anche grazie al successo inarrestabile della musica inglese, soprattutto dei Beatles e dei Rolling Stones. Le ragioni dell’impatto di Quant, potente, inesorabile, non risiedono tanto nella polemica che riguarda l’invenzione della minigonna, giocata appunto tra le due leggende francesi e la più giovane rappresentante della ‘swinging London’. Era semplicemente la logica dei tempi a imporre l’uso di forme ridotte al massimo, secondo la stessa spinta che, nell’industria automobilistica, aveva dato i natali alla 500 della Fiat e alla Mini della British Motor Corporation da cui, fra l’altro, il capo dei Sixties prende il nome. Analogamente, non si può avallare un’altra leggenda metropolitana, cioè l’insistenza, da parte degli storici, sul ruolo di Quant nella rivoluzione sessuale scoppiata di là dell’Atlantico, a San Francisco, per poi rifrangersi in tutto il globo. Sotto sotto, invece, le vere ragioni che collocano la stilista britannica sul podio della moda degli anni Sessanta sono le stesse che trapelano proprio dai — purtroppo — pochi fotogrammi dei suoi filmati. Uno dei più diffusi, girato nel 1967 e incentrato sulle sue celebri calzature in vinile, reversibili nella trasformazione da scarpa a stivale, cattura una moda scattante e dinamica pensata per le giovani e le giovanissime, comunque per un pubblico che fino ad allora non aveva avuto né voce né spazio nelle attenzioni del fashion system, ancora vincolate all’idea di capi ‘per signora’, come se appunto non esistesse un diverso profilo demografico con relativo volto indumentale. E se nel filmato in questione le modelle si trattengono in atteggiamenti contenuti, fermate nella limitazione di un’esibizione frontale, in altre riprese dello stesso anno girate ad Amburgo, città che, come si sa, è stata la piattaforma di partenza dei Fab Four prima del clamoroso successo globale, mostra in pieno il segreto della filosofia quantiana, da sempre tarata su un pubblico appassionato di musica (e di abiti, ovviamente). Dai suoi diari di bordo affiora l’urgenza di irrorare la moda con una baraonda inarrestabile di ritmi jazz e pop3, e di confezionare abiti altrettanto energici, capaci a loro volta di favorire nella portatrice un’eguale gittata di movenze corporali; nel filmato amburghese non solo si nota, in palese evidenza, la presenza di una band intenta a suonare musica dal vivo — pratica del tutto sconosciuta all’epoca, oltre a essere un unicum divenuto in seguito una consuetudine molto diffusa. Il punto focale del video sta infatti negli atteggiamenti assunti dalle modelle, felici e meglio ancora raggianti di scatenarsi in danze in linea con una società pronta, stavolta, ad abbracciare questa inedita manifestazione di slancio giovanile; allo stesso tempo, il video riporta anche un altro aspetto fondamentale della poetica di Quant, ovvero la restituzione di un immaginario fatto di moine e mossettine stereotipate, in perfetta sintonia con l’identità pop che qualifica la designer. Compaiono ‘la parigina’, la ‘body builder’, la ‘lolita’ e così via (Fig. 2), il tutto sottolineato da una specie di virgolettatura invisibile poiché tutto, in questo frangente riportato da altri contesti, deve apparire già visto, già sperimentato in un qualche modo, già vissuto e quindi rivisitabile alla seconda. Un mondo di luoghi comuni, di comportamentismi risolti, flessi, incurvati a raccogliere il florilegio dell’artificio e della plastica, del PVC si potrebbe dire, cioè di quelle dinamiche di produzione (e di impiego di materiali) tipici del dopoguerra, e che poi subirà un’ulteriore pressatura cristallizzando cliché comportamentali in veri e propri pupazzi, in burattini e in bambolotti.
Si pongono sul medesimo orizzonte di stile, invero con risultati piuttosto diversi pur nelle convergenze di molti aspetti, i video promossi da Cardin e Courrèges, già operativi da tempo anche nel discepolato che li ha visti in collaborazione, rispettivamente, con Christian Dior e Cristóbal Balenciaga. Cardin, come Quant, è lo splendido cantore di una moda orientata alla sfera del pop, in dichiarazioni, cruciali nel rovesciamento dalla haute couture al prêt-à-porter, volte a divulgare abiti così in linea con la contemporaneità da ispirarsi ai voli dei satelliti, delle navette spaziali, poi a tute da astronauta, per di più in una terminologia spettacolare nell’incorniciare questo spirito da Space Design nel nome, appunto, di stratosferici “cosmocorpi”. “Il cosmo, la scienza, i satelliti e l’universo mi entusiasmano”4, dichiara lo stilista, col che diventa quasi automatico ricavare il profilo delle sue morfologie futuristiche. Due presentazioni in video, del 1969 e del 1970, ne colgono molto bene lo spirito, con una novità lì per lì ininfluente rispetto alle riprese quantiane, eppure davvero sostanziale nel collocare un diaframma ideale tra un approccio e un altro. Laddove la camera di Quant cattura eventi e situazioni a puro scopo di documentazione inventariale, con una regia al minimo, ridotta a semplici schemi di funzione, e davanti a un pubblico presente alla parata della collezione, qui scatta un peso assai differente della registrazione nuda e cruda, impegnata a ottimizzare i dettagli, a zoomare sulla trama dei tessuti, secondo una modalità di impiego vicina a certi processi di certificazione del reale cui ci stava abituando da tempo l’arte contemporanea. Detto altrimenti, questa presentazione ha ben chiara la necessità di focalizzarsi sia sugli elementi centrali sia su quelli più carsici della collezione, magari concentrando lo sguardo sugli accessori, sulle geometrie delle collane, delle cinture, o sulla flessuosità dei baveri. Ma l’aspetto che di certo appare ancora più visibile risiede nell’attenzione della regia per le movenze eseguite dalle modelle, abili nel seguire alla lettera una filosofia indumentale che le porta a muoversi a passo studiato. C’è insomma in atto, in questo Cardin, il suggerimento di una moda preposta a instillare gesti e movimenti da performance5, parola intesa in senso artistico naturalmente, cioè associata ad atteggiamenti ‘fuori norma’. Dobbiamo oltretutto notare l’assenza totale di pubblico, segno di una scelta mirata a una fruizione rilanciabile in differita; girato su un tetto e stagliato sullo sfondo degli Champs-Élysées parigini, l’apparente semplicità di questo video ‘a.C.’ è senza partecipanti malgrado non sussistesse necessità alcuna di tenere gli eventuali invitati a distanza di sicurezza. Sulla stessa idea, sarà individuata un’ambientazione analoga per una sfilata di Alexander McQueen (a trazione Sarah Burton), benché con spostamento geografico: per la primavera-estate 2022, l’incedere delle modelle avrà per scenario lo spettacolare skyline della City, a Londra. Prima di accomiatarci da Cardin merita non poca considerazione un secondo filmato, del 1970. Altro paesaggio urbano, altro tetto (in gran parte): luoghi comunque adatti a incorniciare una moda pensata per l’esistenza su qualche esopianeta, tant’è che la collezione si apre con un cosmocorpo con addosso una tuta folgorante per design e fattura (Fig. 3), nel vinile di cui Cardin è tra i cultori più agguerriti.
Fuoriuscita da qualche serie tv a tema, da Star Trek magari, la modella indossa una tuta attillata e un casco con visiera, pronta a salpare su qualche navicella, a fluttuare in assenza di gravità, o a vestire i panni — letteralmente — di una supereroina con poteri sovrumani, da tanto appare evidente la spinta di Cardin nel riformulare la razza umana in una chiave pop-fantascientifica. E il filmato, tutt’altro che neutro, coglie molto bene questo slancio avveniristico, lasciando intuire le potenzialità di un mezzo che nella moda sarà sfruttato al meglio nelle sue capacità di provvedere a una congrua erogazione di effetti speciali. Neutro non è nemmeno il filmato del 1968 che espone diverse collezioni di André Courrèges, quasi un’antologia dei suoi essentials, anche se mancano i capolavori fotografati qualche anno prima da Willy Rizzo e da John French; si nota ugualmente, di prepotenza, la doppia ossessione del designer, quella per il bianco e per le forme geometriche, nella fattispecie per il rigore compositivo di Le Corbusier. In quel giro di anni la corrente che esprimeva al meglio la necessità di provvedere a una visibile mano di azzeramento, di bonifica contro il dilagare del pop da un lato e del citazionismo, in moda, dall’altro, era documentata dalla comparsa del Minimalismo, etichetta molto ben applicabile ai fotogrammi di questo video nel dispiegarsi in un ambiente limpidamente asettico. Una quinta di porte in total white fa da pertugio di accesso a una mezza dozzina di modelle; le prime uscite si accostano ai cosmocorpi di Cardin, ma in un assetto molto più ridotto a livello di cromie e morfologie, benché questa serie sia ispirata, anche per titolazione, ad altrettante “cosmonaute” di un’era del futuro, di nuovo in piena antitesi rispetto ai passatismi della haute couture del tempo, soprattutto di Valentino, Lagerfeld e Saint Laurent. Ciò che conta, tuttavia, è l’importanza del medium espressivo, quel filmato che per quanto statico e frontale rispetto alle uscite delle portatrici si dimostra parte fondativa del processo di registrazione, quasi che senza la cinepresa non si fosse potuta realizzare l’originale presentazione degli abiti di Courrèges. Non solo. Quelle immagini scarne viaggiano fino a noi e certificano, con cinquant’anni di anticipo, quanto si potesse ottenere con la cinepresa a livello di diffusione di poetica, per libera scelta e non per costrizioni sanitarie che non riguardassero una filosofia, quella appunto del Minimalismo, tesa per essenza a bonificare, a ridurre, a disinfettare.
Senza pretesa alcuna di ricostruire una storia precisa e meno ancora esauriente della videomoda, cronologica o sinottica che sia, da questa indagine proemiale data dalla terna Quant-Cardin-Courrèges si ricava una lezione pressoché didascalica: anche gli stilisti iniziano a rapportarsi con una forma espressiva relativamente nuova come il video, già inclusa da tempo nelle tecniche extra-pittoriche dell’arte contemporanea, e di certo lo fanno con risultati che sanno di test introduttivo, di verifica timida al limite della curiosità, comunque in gran parte colta a dovere nel suo potenziale, senz’altro foriera di sviluppi futuri assai promettenti. Al di là della semplice visura documentativa, la cinepresa si prestava fin da subito alla duplice ricognizione sulla pelle e sulla forma degli abiti, e al contempo alle opportunità di inserire un nucleo di narrazione, di storia e di rielaborazione di cliché — come abbiamo visto con Quant. È quindi sensato polarizzare queste prospettive di interpretazione su una linea di scorrimento giocata, da un lato, su riprese tissutali e morfologiche, da un lato su storie, su racconti, su una ars combinatoria felice di maneggiare stereotipi e figurine anche attraverso filmati a taglio breve. E si noti bene che pure i video delle ultimissime tendenze in moda ricalcano per intero questa stessa logica operativa.
Prima e dopo, ma è davvero così?
Gettate le basi embrionali e normative, per così dire, delle immagini in movimento in moda, è arrivato il momento di saggiarne una campionatura sui risultati noti e meno noti degli ultimi anni, sia chiaro, con il finto diaframma che un’incomprensibile tiritera di convinzioni per la verità scaturita da uno strano gregarismo di fake news più che da un’effettiva ricognizione sul campo, vorrebbe suddividere nel solito ‘prima’ e nel solito ‘dopo’ il Covid, con buona pace di chi ancora persevera in una simile lettura degli stili. Procediamo dunque con un’ampia falcata cronologica, tale da proiettarci direttamente in medias res o giù di lì, e magari da consentirci un trasloco temporale posto a ridosso dello ante e del post, con l’autolegittimazione di cogliere gli esiti più interessanti dei fashion film là dove questi si esplicano nella solida convinzione, da parte del committente, di caratterizzarne il volto come prodotti a sé stanti, curati dal principio alla fine come si farebbe con un videoclip musicale, o come un’opera da videoarte con tutti i suoi crismi e i suoi ingredienti. Con l’autunno-inverno 1995-96 (Fig. 4), Raf Simons è uno dei primi stilisti a cogliere la forza del video nel presentare una collezione, peraltro con l’intuizione di ridurre i costi di produzione tagliando la testa dei modelli, in sostanza usando pochissimi indossatori per uscite multiple. La camera è statica e frontale, mentre i capi, da osservare nella purezza di geometrie di cui Simons è un maestro, almeno nella sua prima fase, con l’avvertenza di ammirarne le linee dentro la parentesi di una performance ‘acqua e sapone’ appena accennata, su uno sfondo bianco che per contrasto esalta l’oscurità dei look. È, questo, un modo pratico e intelligente per visionare una sfilata nella semplicità delle morfologie e della scala cromatica, senza che vi sia alcuno sviluppo narrativo a distrarre dall’intento di ottimizzare la fruizione di volumi e colori. Molto diversa, invece, la struttura narrativa di un corto di Simons di poco posteriore, per la collezione primavera-estate 1997. Stavolta, quasi a suggellare un cambio di marcia e di stile comunicativo, le sequenze sono munite di titolo, How to Talk to Your Teen, e di un adeguato quanto azzeccatissimo accompagnamento musicale, Blasphemous Rumours dei Depeche Mode e Planet Telex dei Radiohead; e non si tratta di una semplice miglioria estetica, dato che i protagonisti della storia inanellano cornici situazionali capaci di registrare tipici momenti di vita giovanile, anzi ancora adolescenziale, salvo sforare in una dimensione di pura fantasia, dentro una struttura che prelude a qualche viaggio interplanetario. Dal punto di vista dei contenuti, si rivede Cardin con la filosofia dei cosmocorpi, sebbene il video prenda una direzione narrativa assai più marcata, senza — come spesso avviene — che gli abiti rappresentino alcuna stonatura visiva. Accade spesso, infatti, che nella durata di un video di moda vestiti e accessori appaiano come corpi estranei rispetto al fluire del racconto, sebbene non sia questo il caso di Simons.
Se i lavori appena commentati si inseriscono in un filone di produzione ancora relativamente pioneristico, celle pressoché sporadiche di nuove proposte di diffusione della moda, a partire dal 2000, dapprima in via sperimentale, poi con rapido incremento nella qualità e nella quantità anche per la forza esplosiva di un’Internet sempre più incipiente e capillare, nasce una delle realtà meglio prolifiche di produzione-ideazione video, lo SHOWstudio di Nick Knight. La linea temporale di questa nuova factory al digitale include la preziosa rimasterizzazione di un mostro sacro della fotografia di moda, Guy Bourdin, che già negli anni Settanta aveva realizzato qualche prova, ben riuscita, di cortometraggi legati al mondo dei designer; con colonna sonora perfetta, SHOWstudio rilancia le undici Compulsive Viewing del celebre fotografo francese mostrando innanzitutto di darsi un lignaggio d’alto bordo e dimostrando che i seppur rapidi tentativi di trent’anni prima avevano indicato la strada giusta. Ad esempio, Eat Lilo è la resultante di un gioco di prospettive dove un modello, in lontananza, fluttua in relax su un materassino gonfiabile, virtualmente inghiottito dalla bocca di una ragazza in primo piano. Se qui si apprezza l’apparizione di un lieve sviluppo aneddotico, in altri casi, vedi Lipstick o Water Girl, la camera coglie la pelle delle immagini, anche se va detto subito che Bourdin è artista ben poco incline alla certificazione di epifanie nude e crude, da “ritorno alla realtà fisica”, per stare alle note parole di Kracauer; come le sue fotografie, i frame di Bourdin si concentrano sempre su un immaginario erotico e feticista, tale da insistere sul rosso lucido e delle labbra femminili o su schizzi di acqua che si fanno brillanti, facile metonimia di sudore e di altre secrezioni corporee. Fra i tanti altri, alla corte di Knight e di SHOWstudio si forma Ruth Hogben, assistente del fondatore e regista lei stessa per la casa di produzione, dove dal 2009 realizza dei capolavori in video per Gareth Pugh (Fig. 5), stilista al tempo destinato a eguagliare il talento del mentore Rick Owens, senza però ricalcarne i successi. Fatto sta che in quel momento Pugh prometteva davvero cose egregie se non stupefacenti, in collezioni presentate attraverso i cortometraggi, appunto, della Hogben, che nella loro lontana collocazione ‘a.C.’ si prestano tutt’ora a ritmare il parametro di come dovrebbe essere un video per la moda. Per i capi al nero dell’autunno-inverno 2009-10 la regista concepisce una spettacolare sequenza di movimenti liquidi, con le modelle ora compatte nel contorno della loro silhouette, ora fluidificate in una bolla di inchiostro, nella nuvolaglia frastagliata di qualche cefalopode, ma intanto eseguono movimenti ‘altri’, da danza straniata e straniante, quindi da vera e propria performance di arte contemporanea o addirittura con qualche cenno di Body Art. Del resto, un fotografo esperto e navigato quale Peter Lindbergh già da parecchio si muoveva in questa direzione nelle immagini realizzate per Comme des Garçons e Jil Sander, immortalando le modelle in una gestualità fuori norma nel cui solco il duo Pugh-Hogben inserisce lo scarto differenziale di immancabili effetti speciali. Come a dire, la performance del terzo millennio non si dà mai a corpo neutro, chiede di essere accompagnata da un chiaro intervento di adulterazione, di sofisticazione anatomica e situazionale. Restano ascrivibili alla tendenza generale verso la performance gli altri lavori della Hogben per Pugh, in riprese che traslocate fra gli anni Sessanta e Settanta potrebbero catturare le movenze di un Bruce Nauman o di un Merce Cunningham, sincopate, differenti rispetto a qualsiasi movimento condotto nella sfera quotidiana, e proprio per questo volte a suggerire una parentesi di alterità, di riattivazione corporale, o di diversa percezione motoria, come si richiede da ogni intervento estetico degno di tale aggettivazione. La potenza della performance si fa ancora più palpabile nella serie MOVEment, coreografata nientemeno che da un professionista d’eccezione come Wayne McGregor. E sia chiaro, dentro queste cornici di stroboscopia optical e di straniamento gli abiti funzionano alla perfezione, poiché contrariamente ad altri — troppi — esempi di videomoda i vestiti non rappresentano una presenza forzata o male assortita rispetto alle immagini in movimento; ciò che conta in questo tipo di soluzioni è la celebrazione di un’umanità tesa a posizionarsi, costantemente, al di fuori di ogni prevedibilità comportamentale e a suggerirla alla portatrice/portatore, come d’altra parte si conferma nel video del 2011 ideato dalla Hogben per il make-up M.A.C., di nuovo a sigla Pugh. Stavolta la performance assume una caratterizzazione più aggressiva e si focalizza quasi in toto sul volto della modella, ferme restando, comunque, le solite movenze ‘altre’ del corpo e del suo potenziamento6. Nello stesso anno Nick Knight in persona, assieme all’art director Matt Williams, dirige Dream The World Awake per Walter Van Beirendonck. I toni cambiano, di parecchio, visto che lo stilista è uno dei maggiori rappresentanti del Neopop in moda, con la passione inevitabile per una tavolozza accesa e policroma, ben resa dalle folli uscite montate nel video, fatte di colori squillanti, di abiti artificiosi e cartooneschi mescolati a un repertorio di riferimenti sessuali onnipresente nell’identità di stile del designer belga. Eppure, anche in questo caso il video implementa le mosse di una coreografia performativa e perciò assai efficace nel proporre un insieme di operazioni poste al di fuori di schemi abitudinari, atte insomma a suggerire nuove possibilità espressive, anatomiche, con la conseguenza, voluta, di non inserire alcuno sviluppo narrativo e di non creare distrazioni rispetto ai gesti dei modelli.
Uno dei marchi più attenti alla videomoda e a un profilo di comunicazione volto a diffondere o a giocare con una certa scala di valori, connettibili, perché no, pure al cross-dressing, è Prada, che resta tutt’oggi una sorta di faro nel pionierismo e nel rafforzamento del video stesso come medium espressivo. A Therapy del 2012, con la regia nientemeno di Roman Polanski e la presenza attoriale di due pezzi da novanta, Helena Bonham Carter e Ben Kingsley, mostra la stanca confessione di una ricca e annoiata signora stesa sul classico lettino freudiano, mentre lo psicanalista, senza ascoltarne le paturnie, cede al desiderio di seduzione del cappotto appeso all’attaccapanni, fino a indossarlo con voluttà. “Prada suits everyone”, si legge a fine racconto. Come si intuisce, il breve arco di svolgimento del filmato si basa su una microstoria, su un rapido intreccio che ne sposta il focus “dal tessuto al testo”7. Tra gli altri, Prada affida svariate campagne a Steven Meisel, in un video (primavera-estate 2014) dove un gruppo di ragazze assiste a una serie di eventi genialmente tenuti fuori campo e che viviamo attraverso le reazioni del pubblico; ed è ancora Meisel dietro la camera per la campagna autunno-inverno 2012-13, in un casting dove si mescolano realtà e finzione nel prisma di ruoli incarnati dalle modelle, secondo l’insistenza — cercata e consapevole — su atteggiamenti di stereotipia già visti all’opera in Mary Quant. È un bellissimo trionfo di luoghi comuni all’italiana Castello Cavalcanti di Wes Anderson, con Jason Schwartzman e Giada Colagrande, rivisitazione liberamente interpretata di una sgangherata commediola degli anni Cinquanta con la ancor meno probabile gara automobilistica “Molte Miglia”. Per citare un altro ottimo lavoro ‘a.C.’, tra i tanti conviene spendere parole di elogio per Enter the Game, 2014, di Eliott Bliss per Dior (Fig. 6), con una Marion Cotillard pronta a seguire alla lettera il titolo del corto, a vivere momenti di ludicità e perciò di improvvisazione gestuale proprio come richiesto da un atteggiamento di tipo performativo, sennonché, con lo stupore inaspettato della protagonista, quelle bolle di ossigenazione quotidiana si imbevono di effetti speciali, ovviamente in linea con un provvidenziale aggiornamento sui tempi del contemporaneo: l’attrice fa balzi sull’acqua della piscina, ma senza mai affondare, oppure vi si immerge camminando sul fondo, senza che — ancora una volta — l’armadio Dior divenga invasivo e inopportuno nello sviluppo della vicenda. Qualcosa di analogo lo si vedrà con un video-capolavoro di Burberry, in regime di ‘d.C.’, a dimostrare che non c’è muro tra i due tempi, supposti, della moda. Con soluzioni non molto distanti da Enter the Game, vince nel 2014 il primo premio al Fashion Film Festival Milano The purgatory of monotony di Ace Norton, per Rhié, notevole esempio di performance aggiornata attraverso non pochi riferimenti a Erwin Wurm, già ispiratore di un videoclip dei Red Hot Chili Peppers, Can’t Stop, a conferma di un travaso assai agevole tra il mondo della moda e il mondo della musica nei prodotti a video. In The purgatory of monotony, la protagonista, chiusa, in solitaria come la Cotillard, dentro una lussuosa magione, assume pose sbilenche e compie azioni altrettanto anomale, come immergere la testa in un vaso di gesso, sdraiarsi — vestita — nei luoghi più insoliti della casa, legarsi addosso il mobilio, in performance degne di Fluxus, corrente artistica diffusasi tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, ma con una revisione ancora più giocosa ed effettistica, aperta ad accogliere intermezzi surreali, tra cui divertirsi a danzare con il proprio clone (annerito) o pescare pesci freschi freschi dalla piscina di casa. I due minuti di immagini Dear Louis, per Louis Vuitton autunno-inverno 2018-19, di Tamas Sabo con la direzione creativa di Vivienne Balla, sono girati sulla Queen Elizabeth 2, dove si è — fintamente — ritirata in pensione una giovanissima influencer che si può permettere di avere per sé l’intera imbarcazione, cornice navale per un sospiroso quanto impossibile invaghimento sentimentale per un tale Louis, Louis Vuitton naturalmente, con iperbole comica ben sottolineata dal tappeto musicale di Autodétruisez-vous di Tôle Froide. È dello stesso anno ed è degli stessi autori un corto realizzato per la rivista tedesca “Turnt” (Fig. 7). Questo breve filmato certifica di nuovo la presenza di un filone di ricerca basato sull’esecuzione di una gestualità performativa, da Body Art, stavolta mondato dalla liquefazione a effetti speciali di Gareth Pugh, ma sempre attento a evitare nuclei di narrazione e a porre l’accento sulle dinamiche legate alla corporalità. Ciò avviene anche con Emotion of Sound di Bottega Veneta, 2015, in questo caso visibilmente imperniato sull’arte della danza, ma con sconfinamenti che abbracciano i readymade gestuali, ancora, di Merce Cunningham, cui si aggiungono le proiezioni a muro delle ombre dei performer, con esiti che riconducono alla serie ORLAN dans avec son ombre della celebre artista francese. Ciò che, come la Body Art, agli occhi del grande pubblico appare come un fenomeno ostile e inspiegabile, a tratti funesto, qui è passibile di associarsi a un differente angolo di percezione, a farsi digeribile sia nell’intensità del suo messaggio sia dei suoi proponimenti.
Finalmente possiamo oltrepassare il guado fatidico e saltare piè pari il muro divisorio del ‘pre’ e del ‘post’, sempre in veloce campionatura, con la ferma convinzione, ribadita e sottoscritta con il sangue, che nulla, proprio nulla è cambiato al livello degli stili, ma stringi stringi anche sul piano delle forme comunicazionali. O meglio, come si accennava in apertura, dovendosi adattare ai dettami imposti dall’emergenza sanitaria la moda ha puntato sui mezzi smaterializzati delle riprese a video, ma così facendo, in luogo di ritrovarsi disorientata, persa e impreparata, di fatto si è avvalsa di tecniche e di narrazioni oramai collaudate da tempo e perfettamente inserite nelle eliche del suo Dna; se quindi la rimodulazione delle strategie di vendita e di pubblicità si è giocata quasi a senso unico sulla videofashion, i lavori che ne sono usciti rappresentano per filo e per segno la filosofia di ciascun brand in misura ben maggiore rispetto alla classica passerella, con risultati peraltro allineabili alla selezione di video esaminati in queste pagine. Azzoppato sotto il profilo economico, dal punto di vista della comunicazione il sistema della moda gode di ottima salute e ritrova nel pixel uno spazio di manovra ideale, se non altro dalla prospettiva della diffusione comunicazionale, con la possibilità di arricchire enormemente la portata dei suoi riferimenti artistici e culturali. (Fig. 8) Basterebbe il nome di Floria Sigismondi a risvegliare l’attenzione circa la qualità di Aria, 2021, concepito e co-diretto con Alessandro Michele in persona, stilista depositario di tutti i pezzi iconici di casa Gucci accumulati in questa sfilata sui generis, tributo ai cento anni della maison su uno sfondo di canzoni in cui il celebre marchio dalla doppia G è citato a più riprese. Ma appunto, la regia della Sigismondi è un avallo e una garanzia, data la sua provenienza dal mondo dei videoclip, campo di esercizio perfettamente consustanziale a quello della moda e delle relative possibilità di comunicazione. E c’è quasi da lanciare un guanto di sfida a chi si ostina a dire che qualcosa è cambiato, cambiato davvero, s’intende, nella forma e nella sostanza, quando Aria è un lavoro bellamente collocabile al di là e al di qua della frattura pandemica nell’inscenare una passerella non proprio passerella, quanto meno nell’indirizzarla a una diversa cadenza scenografica e coreografica. Modelle e modelli sfilano in un corridoio senza pubblico, infittito di una selva di fari e faretti, a controfirmare l’evidenza di una voluta artificialità poi sfociata in un finale col botto dove, usciti all’aperto ma in un paesaggio onirico, i protagonisti iniziano a fluttuare, sospesi in una colorata ascensione di volteggi antigravitazionali. Beninteso, sono gli stessi prilli e le stesse piroette che abbiamo già visto in Enter the Game di Dior. Per ragioni di continuità espositiva, luci accese anche su un’altra serie di invenzioni di Gucci, o meglio di Michele per Gucci, a sintetizzare la bellissima parabola in sette atti che il direttore creativo in carica ha assegnato a Gus Van Sant e sfociata nel Gucci Fest.
Stavolta non c’è dubbio, perfino le riprese hanno dovuto sottostare ai tempi del lockdown, intanto però capi nuovi e capi di altre collezioni non sfilano in una semplice passerella, vestono personaggi ‘altri’ intenti a seguire un filo narrativo denso di salti d’orbita, di aperture improvvise, di situazioni tenute su un registro surreale o comunque anti-realistico, con la presenza imperiosa di Silvia Calderoni a fare da tratto unificante fra i vari episodi. Altro regista di videoclip, altro mostro sacro della cinepresa. (Fig. 9) Per Alexander McQueen, brand ancora sotto la direzione creativa di Sarah Burton, Jonathan Glazer realizza First Light, primavera-estate 2021, cinque minuti senza colonna sonora se non un lieve sottofondo di rumori elettronici, in una Londra dall’atmosfera cupa, grigia, vista per lo più sulla sponde del Tamigi; se è quasi del tutto assente un vero e proprio nucleo narrativo, in compenso le immagini, suggestive nel contrasto tra l’ambientazione e gli abiti della collezione, forniscono non pochi spunti di straniamento nel mostrare una modella in organza sdraiata nel fango, o nel richiamare una manettiana Colazione sull’erba traslocata negli anni Duemila. C’è insomma della citazione, qui, c’è del museo e c’è della retrofilia. Ciò non vale per Lure, 2021, regia di Arice per Iceberg (Fig. 10), dagli accenti più performativi, ma con l’additivo, spettacolare, di effetti speciali degni di un videoclip d’autore o di un videogioco ad alto budget di produzione. Il regista aveva già realizzato gioielli di animazione che riprende anche in Lure, dove gli abiti di Arthur Arbesser ascendono roteando e avvitandosi come creature marine, ma in aria, in un’atmosfera da realtà virtuale; a vivere questa coreografia indumentale è una creatura post-human che esegue movenze ‘altre’ vestendosi e svestendosi con sciami di pixel. Suspense e intrigo da film giallo sono invece gli ingredienti di un altro regista di grido come Luca Guadagnino, per Ferragamo. Dopo Salvatore. Il calzolaio dei sogni, Guadagnino, in una Milano deserta, bella e assolata, quasi dechirichiana, omaggia i capolavori di Hitchcock, il che vuol dire percorrere un filone di tipo citazionistico e ovviamente narrativo, nonostante la trama sia volutamente tenuta fuori campo, stemperata nelle passeggiate dei look. Un simile gioco di rimandi a prodotti culturali ‘alla seconda’ — cinematografici e non — si presta a coagularsi sempre più in una parata di stereotipi, di figurine e di marionette, come avviene in No Strings Attached di Jeremy Scott per Moschino (Fig. 11), realizzato e presentato in pieno lockdown assieme alla squadra di The Creature Shop’s di Peter Brooke. Da revivalista navigato, Scott si rifà al Théâtre de la Mode, mostra itinerante di pupazzetti con abiti di haute couture in miniatura, on tour in Europa e Stati Uniti per rivitalizzare la moda francese nel dopoguerra; a versione lillipuziana, in No Strings Attached la sfilata ricalca al millimetro i capi della collezione primavera-estate 2021, solo che in passerella si muovono, per l’appunto, modelle-marionetta, davanti a un pubblico che nel pieno rispetto del cordone sanitario in vigore in tutto il mondo viene tramutato in un parterre di bambolotti. Figurine e stereotipi appaiono anche nel video di campagna autunno-inverno 2021-22 di Louis Vuitton, dove Tim Walker sfrutta il motivo “damier” della maison inscenando una partita a scacchi su scala umana, riprendendo allo stesso tempo una magistrale passerella di McQueen, It’s Only a Game (primavera-estate 2005).
Del resto, benché con filosofie assai differenti, sia il designer britannico sia Virgil Abloh hanno puntato su schemi di creatività basati su una miscellanea di apporti, dominati dallo streetwear nel compianto direttore creativo di Off-White e LV in un’articolata presentazione svoltasi al Carreau du Temple di Parigi e accompagnata da un video a firma Caleb Femi per l’autunno-inverno 2021-22 (Fig.12). Le visioni ablohiane — art director del corto — aprono al Surrealismo, con gli immancabili effetti speciali a piazzare nuvole dentro una stanza o a far volare una medusa al posto di un aquilone. ‘Visioni multiple’, possiamo dire, in parte agganciabili proprio a Multiple Vision di Prada, primavera-estate 2021, con sottotitolo The Show That Never Happened, in pratica una specie di summa compendiaria della carrellata di video visti fino ad ora. Diviso in cinque capitoli e affidati alla regia di altrettanti artisti, il video esibisce le immagini di Willy Vanderperre, a tratti a fuoco e a tratti sfumate, quasi una versione più allargata del primo corto di Raf Simons, dato che uno sfondo dapprima bianco ospita poi le silhouette ingrandite dei modelli; quasi a grado zero i fotogrammi di Jürgen Teller, ma inserite in un fondale da Precisionismo alla Sheeler, dentro i bagliori metallici di una fabbrica, con il palese effetto di spaesamento conferito da contesti così distanti fra di loro; si basa sulla performance la bella sezione curata da Joanna Piotrowska, attenta a suggerire la solita gestualità fuori norma, al contempo a catturare i volumi e le superfici dei capi nella neutralità di una visione monocroma; dai toni animati e sincopati, il capitolo realizzato dall’americana Martine Syms è una performance a più voci, corale nelle sequenze, o, meglio ancora, con i suoi inscatolamenti di video nel video l’esecuzione giunge alla complessità di uno happening, con osservazioni ripetibili per il contributo di Terence Nance. Anche in questo caso spezzoni di realtà si alternano a presenze leggere e volatili, rese ancora più evanescenti dai riflessi che evaporano dalle superfici a specchio dell’ambientazione.
Ora, considerando la pur breve disamina della videomoda ‘a.C.’, si può dire davvero che sussista una differenza abissale tra un prima e un dopo? I fattori di maggior peso presenti da Quant in avanti, inanellati e arricchiti dalle mille altre suggestioni della videoarte, dei videoclip e non ultimi dei videogiochi, molti dei quali riconducibili alle forme d’espressione dell’arte contemporanea, davvero subiscono una cesura effettiva dopo la disgrazia della pandemia? Oppure, come dimostra la qualità straordinaria dei fashion film, la moda può trarre un poderoso vantaggio comunicazionale e diffusionale dall’impiego sistematico del video? Certo, le visualizzazioni di Burberry Open Spaces, oltre sei milioni, con la direzione creativa di Riccardo Tisci con Megaforce, addita una prospettiva invitante e straordinaria per idea, per realizzazione, per risultato. Nella cornice paesaggistica della campagna inglese, quattro amici, manco a dirlo, eseguono una performance, ma i loro tuffi e piroette si intridono di effetti speciali, e così le giravolte si svolgono per aria, in volo libero e leggero, ispirato e sognante. Qualcuno — poeta mancato di notizie inutili, per nostra immensa fortuna — dirà che mai metafora di libertà fu più spiritualmente fedele ed efficace nel rappresentare il desiderio di sganciarsi dal dramma del Covid. Ma in fondo, non ne avevamo già incontrati, di slanci così, anche in Dior e in Gucci? (Fig. 13)
Bibliografia
Amaducci, Alessandro e Eleonora Manca. Fashion Film. Nuove visioni della moda. Torino: Kaplan 2021.
Bartlett, Djurdja, Cole Shaun e Agnes Rocamora. A cura di. Fashion Media. Past and Present. London: Bloomsbury, 2013.
Bartorelli, Guido. Art//Tube. Padova: Cleup 2010.
Bartorelli, Guido. Studi sull’immagine in movimento. Dalle avanguardie a YouTube. Padova: Cleup 2015.
Evans, Caroline e Alessandra Vaccari. A cura di. Il tempo della moda. Milano-Udine Mimesis: 2019.
Fabbri, Fabriano. Il buono il brutto il passivo. Le tecniche dell’arte contemporanea. Milano: Bruno Mondadori, 2011.
Fabbri, Fabriano. La moda contemporanea. I.Da Worth agli anni Cinquanta. Torino: Einaudi, 2019.
Fabbri, Fabriano. La moda contemporanea. II.Dagli anni Sessanta alle ultime tendenze. Torino: Einaudi, 2021.
Langle, Elizabeth. Pierre Cardin. Wien: Christian Brandstätter Edition, 2005.
Liggeri, Domenico. Musica per i nostri occhi. Storie e segreti dei videoclip. Milano, Bompiani, 2007.
Marra, Claudio. Nelle ombre di un sogno. Storie e idee della fotografia di moda. Milano: Bruno Mondadori, 2004.
Quant, Mary. Quant by Quant (1965). London: V&A Publications, 2018.
Rees-Roberts, Nick. Fashion Film. Art and Advertising in the Digital Age. London: Bloomsbury, 2018.
Come ben dimostrato da Guido Bartorelli, Art//Tube (Padova: Cleup 2010). Cfr. inoltre il suo Studi sull’immagine in movimento. Dalle avanguardie a YouTube (Padova: Cleup 2015).↩︎
Si rimanda all’ottimo volume di Alessandro Amaducci, Eleonora Manca, Fashion Film. Nuove visioni della moda (Torino: Kaplan 2021). Cfr. inoltre Nick Rees-Roberts, Fashion Film. Art and Advertising in the Digital Age (London: Bloomsbury, 2018).↩︎
Mary Quant, Quant by Quant (London: V&A Publications, 2018). La prima edizione del libro risale al 1965.↩︎
Elizabeth Langle, Pierre Cardin (Wien: Christian Brandstätter Edition, 2005), 25 [trad. mia].↩︎
Vedi Fabriano Fabbri, Il buono il brutto il passivo. Le tecniche dell’arte contemporanea (Milano: Bruno Mondadori, 2011).↩︎
Vedi. Amaducci, Manca, Fashion Film, 66: “La sospensione del corpo è un elemento molto utilizzato nei fashion film che utilizzano la danza: la leggerezza della figura umana testimonia una dinamica nuova fra corpo e spazio, quest’ultimo spesso rappresentato come luogo neutro, vuoto. Il corpo, grazie al vestito, vince la forza di gravità e acquista nuovi poteri […]”.↩︎
Vedi Fabriano Fabbri, La moda contemporanea. II.Dagli anni Sessanta alle ultime tendenze (Torino: Einaudi, 2021).↩︎