ZoneModa Journal. Vol.12 n.1 (2022)
ISSN 2611-0563

Italian Women’s Publishing: A Journey between Aesthetics and Politics

Antonio MancinelliIULM (Italy); Accademia di Costume Moda (Italy); Journalist

He is a professional journalist since 1991, he was deputy Editor in Italian of Marie Claire for over 15 years. Now he collaborates for various magazines and newspapers. He has written and conducted broadcasts on National Radio Tre and published various books: of these, the latest is The Art of Styling (Vallardi), with Susanna Ausoni. Always attentive to fashion as a reflection of society and political device capable of explaining cultural mutations, he teaches in public and private universities: the Academy of Costume and Fashion in Rome, the Polytechnic University of Milan, the Alma Studiorum University of Bologna, the Polimoda of Florence, the Catholic University of Milan. In 2018, he was called by the Ministry of Culture to be part of the Fashion Commission as an Italian cultural heritage. Born in Rome, he lives and works in Milan.

Pubblicato: 2022-07-11

Abstract

From the birth of the first magazines of a post-unification Italy up to the 1980s, publications aimed at women, generally considered part of a “minor” publishing, have proved to be laboratories of linguistic and visual experimentation not only of considerable importance in the evolution of journalism, but also in the ethical and political formation of both progressive and conservative readers. And this was paradoxically made possible precisely by the gaze of sufficiency addressed to them by power, which in some cases, however, wanted them as allies. A more in-depth investigation is then conducted on the weekly Grazia which, more than the others, in the progress of its articles and fashion services, proved to be the guide and accomplice of a woman who was slowly finding a place in society and struggling to conquer the rights that were due to her.

Keywords: Women’s Magazines; Women History; Feminism; Fashion Politics; Italian Women’s Magazines.

Non solo gli uomini hanno fatto la guerra. Come loro noi abbiamo sofferto, lottato, resistito, difeso i nostri figli, i nostri vecchi e noi stesse fino all’estremo limite delle nostre forze morali e materiali. È stata una terribile prova, ma anche una cura i cui effetti devono mostrarsi benefici. Ed è per questo che oggi, possiamo pretendere di essere considerate non solo sorelle, spose e madri, ma compagne, amiche dei nostri uomini […]. Noi donne abbiamo compiti nuovi e importati da assolvere e oggi lo sappiamo meglio di prima […]. Vogliamo essere compagne dell’uomo perché abbiamo dimostrato di essergli uguali nel rischio e oltre il rischio. Siamo entrate nella lotta, ne abbiamo fatto parte e vogliamo rimanerci, continuare a offrire il nostro aiuto dove e fin dove è possibile. Ci sentiamo capaci di affrontare la più dura realtà e sappiamo che respingendola ci sentiremmo colpevoli verso noi stesse, i nostri figli e la società. Abbiamo raggiunto un gradino dal quale ci è dato di vedere e comprendere cose che non avevamo mai visto e compreso. E da quel gradino non possiamo più scendere. Non possiamo e non vogliamo.

(Editoriale di Grazia, 9 febbraio 19461)

Tra il 1861 e il 1920 nascono 75 giornali a Milano, 13 a Torino, 11 a Roma, 11 a Genova, 5 a Firenze e 1 a Napoli.

Pur considerando il carattere effimero di una buona parte di queste riviste, si tratta comunque di un fenomeno editoriale di notevole entità sul piano sia della quantità di testate che delle tirature, le cui ragioni vanno ricercate nel nuovo clima sociale e culturale dell’Italia post-unitaria e nello sviluppo tecnologico che investe in questi anni il mondo dell’editoria. Per le stesse ragioni, a fronte dell’incremento quantitativo, si verifica un’evoluzione della struttura e del linguaggio delle riviste rispetto a quelle nate nella prima metà del secolo, che pone le premesse per gli sviluppi della stampa femminile nel corso del Novecento fino al momento attuale2.

In Italia il rapporto tra la stampa femminile e la condizione della donna è alquanto complesso e non può essere limitato agli aspetti “negativi”, ovvero quelli che contribuiscono alla creazione del prototipo della donna rinchiusa nei limiti della Women’s Sphere. Nell’Europa dell’Illuminismo, le donne che avevano avuto accesso alla cultura scritta erano un’esigua minoranza a causa della scarsa alfabetizzazione femminile e della ridotta autonomia economica. Comunque, le lettrici erano sicuramente più numerose che nel passato. Per loro, in Italia avevano fatto la loro comparsa già perlomeno tre esempi di pubblicazioni che, oltre a informare avevano l’intenzione di formare una coscienza che andava ad agire sul doppio binario dell’estetica e della politica, alternando vaste indicazioni di moda ad ampie note rivolte all’emancipazione femminile. Il Giornale delle dame e delle mode di Francia (pubblicato a Milano tra il 1786 e il 1794), il Giornale delle nuove mode di Francia e d'Inghilterra (1786–1794), e soprattutto il Corriere delle dame (1804–1874) che si sviluppa soprattutto dopo l’Unità d’Italia, mettono in luce la felice ambiguità in cui si dipana l’editoria rivolta alle donne, dove la moda — proprio perché concepita, diffusa e distribuita in seno a una società patriarcale, viene giudicata frivola, superficiale e disutile dalla stampa generalista. Questo però conserva il vantaggio di permettere a questi giornali di lanciare messaggi che oggi, con una certa approssimazione, potremmo genericamente definire “femministi”. Il Corriere delle Dame, nato nel 1804 a Milano, nasce da un’idea di Carolina Lattanzi, moglie del giornalista romano Giuseppe Lattanzi.

Figura 1: Copertina de Il Corriere delle Dame, 1845.

Rappresenta un caso quasi unico nel suo genere: oltre ai consueti figurini ispirati alle fogge d’Oltralpe, c’è una serie di notizie di tipo commerciale riguardanti botteghe artigiane e sartorie meneghine, cosa che permette una cosa mai osata prima di allora: trarre guadagno dalle inserzioni pubblicitarie di tutti coloro i quali intendono mettere in vista la loro attività. Inoltre, un altro elemento di novità è rappresentato dalla possibilità per le lettrici abbonate di usufruire di un servizio di vendita di abiti per corrispondenza. Il Corriere delle Dame è un giornale rivoluzionario anche per il modo in cui affronta i temi trattati: il suo contributo maggiore è infatti quello di aver appoggiato le donne attraverso la spinta di una maggior libertà morale, materiale e intellettuale. Nonostante la grande importanza della moda, sin dai suoi primi numeri il giornale sembra deciso ad affrontare non solo i generi di lettura femminili tradizionalmente accettati — moda, brevi notizie di carattere igienico e sanitario, racconti e poesie sentimentali, cronache teatrali, consigli su come comportarsi in società ed allevare figli, sciarade, aneddoti — ma anche quelli ritenuti di esclusivo interesse maschile come la politica con la rubrica Termometro politico in cui si trattavano argomenti sino ad allora ritenuti di esclusiva pertinenza maschile. Molte delle illustrazioni contenute nel giornale incentivano le donne a muoversi con più carattere nella vita di ogni giorno ritraendole lontane dallo stereotipo di donna casalinga.

Figura 2: La donna emancipata, xilografia di Pietro Saporetti, da L’illustrazione popolare, Fratelli Treves Editori–Milano, 1885.

Anche gli articoli sostengono con tenacia la loro causa invocando l’uguaglianza davanti alla legge:

Più istruzione, più competenza politica, maggiore libertà nei confronti dei mariti. Senza le donne», si può leggere in un editoriale dell’aprile 1797, «gli uomini sarebbero rudi nello spirito, duri nel carattere, e trascurati nella persona. Stando tra sé, gli uomini possono sicuramente illuminare il proprio spirito, ma oso affermare che la compagnia e la conversazione delle donne sono l’unica scuola in grado di formare il loro cuore3.

Analogamente a quanto era già successo in Francia, dove l’affermarsi dei primi grandi magazzini nel XIX secolo — secondo quanto scrive Philippe Perrot ne Il sopra e il sotto della borghesia — aveva dato una spinta propulsiva alla proliferazione di riviste e giornali destinati alle donne imponendo anche la regola della “novità” che doveva essere trasmessa attraverso i media, anche in Italia l’affermarsi dell’industria tessile, sia pure con qualche decennio di ritardo, imprime a queste pubblicazioni una potente e forte velocizzazione dei meccanismi socioculturali, accelerata dalla frammentazione del target delle lettrici, dalla ricca borghese e/o aristocratica fino alle modiste, alle sartine e alle ricamatrici: protagoniste indispensabili per l’omologazione dei ceti inferiori a quelli più agiati attraverso l’abbigliamento, un’attitudine tradotta anche da immagini e testi rivolti “a tutte quelle signore che hanno la lodevole abitudine di allestire i propri abiti e le proprie toelette in casa, pur mantenendosi al corrente delle novità che la moda va adottando”4.

Del resto, nel corso del secondo decennio del Novecento nascono i primi grandi magazzini italiani a prezzo fisso. Nel 1917 viene fondata La Rinascente, nome ideato da Gabriele d’Annunzio, per opera della famiglia Borletti, che aveva rilevato i vecchi magazzini Bocconi. Nel 1919 nasce la UPIM (Unico Prezzo Italiano Milano) finanziata con capitali della Rinascente. E nel 1931 vedono la luce i magazzini Standard che divennero “Standa” nel 1937 durante la campagna di italianizzazione intrapresa dal regime fascista. I grandi magazzini italiani furono rivolti meno alla clientela più altolocata, ma ebbero più successo tra i ceti medi5.

Nel Novecento l’affluenza dell’editoria designata “di consumo” è ormai un fatto definitivo: le riviste di moda non si mostrano più solo sotto forma di rotocalco popolare anche se questo indubbiamente rimane il genere più diffuso. La rottura con il secolo precedente è rintracciabile nella figura dei nuovi fruitori di contenuti: non più solo un pubblico d’élite bensì una più ampia cerchia di persone. Ed è per questo che gli editori sono straordinariamente attenti alle esigenze di un mercato che va man mano ampliandosi. A conferma di ciò si pone il divario tra riviste di moda di stampo popolare e riviste di lusso in merito ai contenuti, allo stile e alla forma rispetto a quelli reperibili nelle riviste dell’Ottocento: le prime più cospicue e, fin dagli anni Trenta, determinate a dominare diventando un esempio anche per i giornali femminili del secondo Novecento; le altre costituiscono un particolare un mezzo di divulgazione dell’alta moda riferendosi ad un collettivo di persone il cui tenore di vita è assai differente da quello promosso dalla propaganda di regime.

Le pubblicazioni più rappresentative sono La Donna (1905) e Lidel. La prima si indirizza ad un pubblico femminile borghese con una sequenza di rubriche fisse attinenti alla gestione della casa, alla bellezza e igiene del corpo, considerevoli sono gli aggiornamenti sulle questioni culturali e di attualità; una novità importante all’interno del giornale è la rubrica Piccola posta attraverso cui si da invece voce alle lettrici.

Figura 3: Copertina de La donna, maggio 1910. Ritratto di Amalia Guglielminetti disegnato da Edoardo Rubino.

La Donna vantava collaboratori di prestigio come Ugo Ojetti, Ada Negri, Mario Sironi, Sergio Tofano. La rivista femminile Lidel (1919–1935) compare in un contesto prospero per l’editoria italiana che ha fatto di Milano la sua effettiva capitale. Il giornale è fondato e diretto da Lydia De Liguoro, che ne rimane a capo fino al 1923. Il nome del giornale è un acronimo dei contenuti che i lettori avrebbero effettivamente trovato al suo interno: Letture, Illustrazioni, Disegni, Eleganze, Lavoro.

Figura 4: Copertina di Lidel, agosto 1920. Un ritratto di bimba di Lino Selvatico.

La moda rappresenta quindi soltanto una delle differenti questioni illustrate e approfondite nelle pagine del giornale, che vuole dare voce anche a contenuti estremamente seri: il suo obiettivo è quello di rivolgersi a una categoria sociale medio-alta. Notevole è anche qui la posizione politica che il giornale, il cui prototipo ideale è quello della donna raffinata ma contemporaneamente consacrata all’accudimento del nucleo familiare e della casa6, sviluppa ed elabora nel corso del tempo. Paradigmatica, infatti, è la sua parabola politica: nato come pubblicazione destinato a una classe intellettuale e progressista (vi scrivono autori importanti come Amalia Guglielminetti, Grazia Deledda e Luigi Pirandello, le copertine sono illustrate da firme notevoli dell’arte e del disegno) ai suoi inizi propone una moda sofisticata attraverso figurini slanciati e snelli. Ma l’adesione al fascismo da parte della direttrice lo trasforma in una cassa di risonanza dei “valori” espressi da Mussolini in relazione non solo a un’estetica autarchica ma addirittura alla diffusione dell’immagine di un corpo più opulento, più generoso nelle forme, simbolico di capacità generative destinate a fornire soldati per le truppe nazionali. Inoltre, acquistano sempre più rilievo la campagna per la moda italiana e il suo artigianato, approvata apertamente dal duce, e quella contro il “lusso da importazione”. Prendiamo in considerazione un articolo firmato da Lydia De Liguoro, La donna nelle nuove opere di rivendicazione nazionale, che compare sul numero 8 di Lidel, nell’agosto del 1920. Vi si legge: “Le rivendicazioni di cui ci occupiamo riguardano la questione economica dal punto di vista dell’industria nazionale, messe in relazione con il risveglio della nuova coscienza femminile”. Una nuova coscienza femminile significa andare incontro a una vera e propria alleanza tra potere politico e rappresentazione della donna, unione che si stabilizza intorno a una progressiva identificazione con lo Zeitgeist del ventennio. La De Liguoro (Carrarini, pagina 812) dirige qualche anno più tardi un mensile prestigioso finanziato dagli industriali della moda, Fantasie d’Italia (1925–1948), il cui titolo è coniato da Gabriele D’Annunzio. Nel corso degli anni Trenta, le riviste di lusso perdono progressivamente terreno; alcune cessano le pubblicazioni: è quanto avviene a La donna nel passaggio da Mondadori a Rizzoli, così come a Dea (1933–1948) e a Sovrana nel momento in cui si trasforma in Grazia (Mondadori, 1938).

Figura 5: La prima copertina di Grazia, 1938.

Quest’ultima rivista merita un approfondimento particolare: negli ultimi anni del regime, i rotocalchi femminili italiani fecero propri e riproposero modelli di femminilità provenienti dall’estero, i quali trovarono ampio spazio accanto all’ideale fascista della donna come angelo del focolare. La presenza di modelli di femminilità moderni e tradizionali risulta proprio evidente in Grazia dove diversi modelli di femminilità coesistevano spesso in contraddizione tra loro, offrendo un punto di vista privilegiato sulle preoccupazioni, ideali, e interessi delle donne dell’epoca, nonché sul loro ruolo nella società: uno specchio sulla loro vita di tutti i giorni alle prese sia con valori tradizionali sia con un inarrestabile processo di modernizzazione ed emancipazione femminile. La donna vive in una società che sta cambiando, dove le donne preferiscono il ruolo di moglie piuttosto che quello di madre, ma non hanno un riscontro giornalistico adatto nel quale rispecchiarsi.

Ed è proprio qui il problema, in quanto la stampa femminile ha una funzione ambigua e contraddittoria di uno specchio che riflette sé stesso. Da un lato forma l’immagine della donna, dall’altro la riflette. Ma quale immagine di donna ci viene fornita da questi giornali? Forse esistono due tipi di donne: una che vuole essere madre e moglie per cui si riflette e riflette l’immagine dei giornali popolari, e un’altra che vorrebbe essere moglie e compagna ma che non ha ancora un’immagine nitida dallo specchio in cui si guarda, ovvero la società, e di conseguenza non ha ancora un giornale che rifletta se stessa, perché quelli maschili la escludono e quelli femminili non la rappresentano7.

Małgorzata J Lewandowska8 scrive che “inizialmente, la creazione di Grazia doveva non solo rispondere ai bisogni delle donne medio-borghesi, ma anche fungere da concorrenza a Marie Claire e altre riviste d’Oltralpe che, in modo diretto o indiretto, promuovevano mode e prodotti francesi. Tuttavia, il contributo di Grazia nel promuovere la produzione nazionale era tanto evidente quanto il fatto che la rivista non poteva essere considerata allineata alle posizioni del regime”. La rivista divenne dunque la rivista delle nuove italiane, donne che a partire dall’immediato dopoguerra andavano a votare, donne desiderose non solo di vestirsi alla moda e di accudire la casa, ma anche di essere al passo con i tempi e di muoversi con agilità tra i sempre più numerosi aspetti della quotidianità. All’epoca le lettrici italiane avevano bisogno di un nuovo approccio alla femminilità: occorreva rivedere il ruolo della donna in famiglia e nella società, il che implicava anche discutere di quale modello dovesse essere proposto sulle pagine delle riviste.

Pur rivolgendosi a un lettorato d’estrazione alto-borghese, fino ad allora le riviste di lusso tradizionalmente non includevano rubriche di consigli, laddove lo “stile Grazia” si sostanzia essenzialmente di informare non solo le innamorate della moda, ma le donne tout court nella loro infinita varietà, e quindi l’introduzione dell’appuntamento con varie rubriche firmate da professionisti ed esperti contribuiscono non solo a dissipare i dubbi relativi a ogni momento della vita (è la prima rivista che inaugurerà, per esempio, un appuntamento con il sessuologo, ma anche con un teologo), in modo da facilitarne il suo svolgimento. Terminata la guerra, infatti, Grazia si dovette impegnare per riconquistare le proprie lettrici. L’arricchimento dei contenuti e la nascita di una nuova era economica e letteraria hanno permesso la crescita dei consumi e la conseguente nascita di un rapporto nuovo tra lettore e giornale: il pubblico di Grazia inizia a scrivere alla redazione per chiedere nuovi consigli su come intrattenere gli ospiti, dove far sedere la segretaria del marito in macchina o addirittura per avere informazioni e dettagli sulle nuove professioni in voga. Molto ambite, infatti, erano la posizione di hostess e di annunciatrice televisiva, nonché quella di indossatrice. A questo proposito Grazia rispose indicendo un concorso per aspiranti modelle nel 1959. Ma è molto forte anche la sua capacità di incidere sul tessuto sociale: A seguito del crollo della diga del Vajont (9 ottobre 1963) e dell’alluvione di Firenze (4 novembre 1966), Mondadori organizza interventi mirati di assistenza.

Per il primo, Grazia, insieme alle riviste EpocaConfidenze e Topolino, organizza manifestazioni, raccolte fondi e invia colonne di automezzi per far fronte alle necessità della gente di Longarone. Per l’alluvione di Firenze, invece, vengono inviate colonne di automezzi in soccorso. In un articolo del direttore Renato Olivieri del 15/11/1964, si parla di “una delle riviste di cultura che qualche anno prima aveva scritto, a proposito di Grazia, che aveva fatto sparire il buffet e il controbuffet dalle camere di soggiorno degli italiani, influendo con i servizi dei suoi esperti in maniera positiva sul gusto nazionale”9. La donna è il punto di partenza del periodico, nonché fulcro della sua stessa evoluzione: le prime figure descritte dalla stampa femminile erano immagine concreta di donne dedite alla famiglia e alla ricerca del marito, per le quali la bellezza era il più grande pregio. Già dai primi anni dopo la ripresa delle stampe si fecero avanti, in successione, immagini di femminilità diverse, passando per una figura sensuale (dettata dai nuovi canoni di Sofia Loren e Gina Lollobrigida), sino ad arrivare alla donna indipendente, che cerca e chiede consigli sul mondo del lavoro. La prerogativa di Grazia è stata, fin da subito, assecondare le necessità delle sue lettrici: è così che ha accompagnato il successo del cinema e dell’immagine di reginetta di bellezza, per poi ampliare i propri orizzonti al di là della dimensione domestica ed estetica, guidando le nuove donne nel mondo moderno, fatto di cultura americana, televisione e innovazioni tecniche.

A quei tempi le italiane sentivano un forte bisogno di tornare alla normalità, ma accontentarle non era un compito facile visto che le esigenze e i gusti erano cambiati durante la guerra. La rivista riuscì ad adattarsi alla nuova realtà, offrendo alle donne un’ingente porzione di consigli casalinghi, di cucina, di giardinaggio (le rubriche prima uscivano a turno e poi parallelamente), curate da tre redattrici dette le Tre Melarance. Il periodo in questione è di capitale importanza per il processo di formazione del consiglio che, con la nascita di rubriche dalla tematica ben definita, diventa non solo più accessibile e chiaro per le potenziali lettrici, ma anche più uniforme e definito come genere testuale. All’incirca in quel periodo cominciò a collaborare con “Grazia” anche la storica consigliera del settimanale, Donna Letizia. Con la sua apparizione iniziò una nuova epoca nella storia del consiglio della piccola posta: quella delle rubrichiste celebri. L’iniziativa conosce un successo enorme. Il numero 1351 esordisce con un ringraziamento alle lettrici e alle abbonate che sono, nel 1967, 100.000 in tutto il mondo, e dal sommario si leggono le seguenti rubriche: Saper vivere, Gioielli e pietre preziose, Il mio bambino, Vetrina, Risponde la Signora Quickly, Andar per quadri, Letti per voi, Ascoltati per voi, L’angolo delle canzoni, Colloqui con padre Rotondi, L’architetto risponde, Donne e motori, I consigli del medico, La posta di Elena Melik, Voi e il grafologo, I giochi di Grazia, Piccoli annunci. Questa prima parte di rubriche è generalmente dedicata alle risposte per le lettrici. La pubblicità, situata all’interno del giornale a lato della pagina o a pagina intera, tratta soprattutto di prodotti specificatamente femminili come creme, rossetti, biancheria intima, prodotti per la casa, ma si trovano anche pubblicità di automobili, di cucine ed elettrodomestici e di prodotti per bambini. E pubblicità di libri in uscita, ovviamente delle edizioni Mondadori, dato che la rivista è edita proprio da quest’ultima casa editrice. Interessante è notare, a proposito di pubblicità, che queste spingono le donne, attraverso i loro messaggi, ad avere sempre un aspetto e un comportamento elegante e attraente per i mariti o i fidanzati, andando a sottolineare come l’aspetto esteriore della persona sia una parte fondamentale della vita di tutti i giorni, come anche quello della casa, per cui, in qualche modo, potremmo definire la perfezione della casa come il riflesso della perfezione della famiglia10. A partire dagli anni Ottanta “Grazia” dà la precedenza più all’attualità e a rubriche tematiche (ad es. Droga: parliamone insieme) che non ai consigli.

In una mia lunga chiacchierata avuta con Carla Vanni11, direttore della rivista dal 1978 al 2005, anno in cui diviene direttore di Grazia International Network, sistema multicanale globale creato dal Gruppo Mondadori per il lancio del brand Grazia nel mondo — con, attualmente, oltre venti edizioni nel mondo, dall’Europa alla Cina, raggiungendo ogni mese una community complessiva di 15 milioni di lettori, con oltre 10 milioni di copie diffuse ogni mese, 35 milioni di utenti unici e circa 20 milioni di follower sui social media — la giornalista rivela che proprio questa completezza nell’informazione su ogni argomento si è rivela la ricetta vincente. E, benché le faccia orrore la parola “femminismo”, ricorda con molto piacere le pagine dedicate agli incontri fissi “con colleghe e colleghi che stimavo molto, pur non sempre condividendo le loro opinioni, ma che avevo fortemente voluto per stabilire un dialogo con le lettrici. Per esempio: Le donne parlano, la rubrica che avevo affidato a Miriam Mafai, è stata per anni la più letta del giornale, anche se il suo orientamento politico non rispecchiava quello della casa editrice”, continua Vanni. In un’intervista a Teresa Serrao de La Repubblica nel 199312, Miriam Mafai racconta: “Leggere queste lettere mi dà l’opportunità di entrare in contatto con un mondo e con dei problemi che non raggiungerei altrimenti. […]. Ognuna è un pezzo di vita. Molte migliaia di lettere. E poi questo mondo di sentimenti mi rilassa. A volte ci sono spunti interessanti, come la ragazza che dopo la morte di Falcone mi scrive che ha deciso di studiare Giurisprudenza”. Carla Vanni ricorda come lo stesso approccio di informazione/conversazione si riflettesse anche negli articoli — “abbiamo preso posizioni molto nette su battaglie per i diritti come l’aborto, o quando abbiamo documentato la condizione femminile elle fabbriche dove le operaie venivano e vengono pagate di meno rispetto agli uomini” — ma anche nei servizi di moda, “come quando, a metà degli anni Ottanta, Oliviero Toscani allestiva studi itineranti nelle piazze d’Italia per fotografare la moda, anche d’autore, sulla gente vera: si creava così un link, molto prima che esistesse Internet, tra lettrice e giornale, con la possibilità per quest’ultimo di diventare un interlocutore presente e fisico come in un dialogo”. In questa chiave di svolgimento del settimanale, l’interazione con il pubblico (numerosissimo, nei primi anni Novanta Grazia arriva a vendere una media di 800mila/ un milione di copie a settimana) è un punto di forza molto preciso e irrinunciabile. Ogni numero viene chiamato un componente della redazione che, nell’ambito della propria specializzazione, ha uno spazio di riflessione e di approfondimento, intervenendo in prima persona dispensando opinioni, pareri, consigli. Del resto era un’attitudine che aveva già radici nello stesso dna della rivista: ricorda Giulia Basilei nella tesi in Sociologia della Moda presso l’Università di Milano, L’influenza sociale della moda. La costruzione dell’identità personale e sociale della donna, attraverso l’abbigliamento, nella seconda metà del Novecento che:

Il numero 1358 del 1967 già dalla copertina esordisce con il servizio dedicato alla moda, più precisamente all’Alta Moda Italiana. Il servizio mostra una foto della troupe al lavoro, dalla quale si può evincere che il mondo lavorativo della moda era già, per la maggior parte, delle donne, nel senso che oltre alle modelle, pronte a posare per i servizi fotografici, ci sono anche le due redattrici della rivista, Carla Vanni e Laura Mulassano, che stanno scegliendo le foto scattate. Le modelle della foto, alcune in attesa, altre in posa o al trucco, non suscitano l’attenzione di chi osserva questa immagine; interessanti invece risultano proprio le redattrici che sembrano dirigere la scena: hanno in mano delle foto precedentemente scattate e il fotografo, uomo, si rivolge a loro con lo sguardo come in attesa di un verdetto o per chiedere un consiglio13.

Figura 6: Copertina di Grazia, n° 1260, 1965.

“Proprio per questo, esisteva una concordanza estetica e argomentativa tra linguaggio e immagini: ognuna doveva corrispondere all’altra sia in termini di facile fruibilità, sia in termini di coerenza intellettuale”, insiste Vanni.

Avevo chiesto alle redattrici moda di Grazia, per esempio, di scattare solo servizi in cui abiti e accessori, anche se d’autore e ascrivibili nella categoria dei beni di lusso, fossero sempre portabili, concreti, mai troppo stravaganti né inutilmente bizzarri: la donna, nel mondo, tra gli anni Ottanta e Novanta, occupa un posto nuovo nella società: finalmente ci sono signore che ricoprono posizioni di potere e di grandi responsabilità professionali, e che necessitano di un guardaroba versatile, funzionale, “realistico” anche se firmato dai più grandi nomi dello stilismo internazionale. E, per raggiungere questo obiettivo, talvolta anche sfidando le richieste degli inserzionisti che avrebbero preferito ritratti di modelle in total look di loro creazioni, invitavo le colleghe della redazione moda a mischiare, mescolare, combinare insieme elementi di origine e di estrazione estetica differenti: ciò, soprattutto nei primi tempi, causò notevoli malumori tra i grandi nomi dello stile, che avrebbero preferito non vedere “inquinate” le loro creazioni con elementi di altri o addirittura vintage, ma poi si rivelò una strategia vincente, tanto che venimmo copiati da quasi tutte le altre riviste in quanto a gestione dello styling. Nello stesso modo, ho pregato i giornalisti scriventi, compresi i titolari delle rubriche fisse, di fare grande attenzione al linguaggio: ho per esempio caldamente invitato tutti a non abusare di citazioni, perché la lettrice non si sentisse abbastanza colta e dunque intimidita dalla lettura dell’articolo. “Se si è persone colte e intellettuali”, dicevo ai miei giornalisti, “non c’è alcun bisogno di sfoggiare la vostra cultura, quanto invece è necessario renderla comprensibile al maggior numero di persone, che volendo vi risponderanno”14.

La rivista si candida dunque a rappresentare il primo modello italiano di stampa “di servizio” dove, oltre a dispensare suggerimenti e indicazioni pratiche, vengono coinvolti scrittori, intellettuali, reporter. “Per esempio, per il magazine Grazia Casa ho chiamato Antonio Tabucchi, un autore refrattario a scrivere sui giornali, ma dopo qualche insistenza ha accettato di firmare una rubrica in cui descriveva una città, raccontando le sue impressioni e la sua relazione con quei luoghi”, racconta Vanni15. Nel gennaio del 1988, ad esempio, il settimanale non pubblica più neanche una rubrica di consigli. Si può supporre che all’epoca alla redazione giungessero sempre meno lettere, la popolarità di questo genere testuale era quindi in calo. Gli anni Novanta e i primi anni Duemila, quando nasce il portale grazia.it, possono essere considerati un decennio di passaggio soprattutto a livello tecnologico. Basti ricordare che proprio nel 1992 la parola “Internet” entra per la prima volta nei giornali italiani.

Conclude Rita Carrarini:

il fenomeno editoriale degli anni Novanta nel settore della stampa femminile è costituito dai settimanali Io Donna e D La Repubblica delle donne, nati entrambi nel 1996 come supplementi del Corriere della Sera e La Repubblica, diretti rispettivamente da Fiorenza Vallino e Daniela Hamaui: un’operazione dettata dall’esigenza di promuovere le vendite dei due quotidiani, raccogliendo allo stesso tempo una grande quantità di introiti pubblicitari, che viene reali in entrambi i casi con notevole abilità, sia sul piano della grafica che nella scelta degli argomenti, tanto che le vendite degli altri settimanali subiscono un calo. Nell’editoriale del primo numero, la direttrice di Io Donna descrive lo spirito dell’iniziativa con espressioni che potrebbero essere usate anche per il giornale concorrente: “Abbiamo coniugato l’anima pratica, quella del servizio, che oggi è una delle esigenze più sentite, con un’immagine raffinata e un’attualità di ampio respiro”. Nel settore delle due riviste dedicato alla moda, tuttavia, rispetto alla funzione di servizio prevale la ricerca di raffinatezza16.

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  1. Ada Gigli Marchetti, “Le risorse del repertorio dei periodici femminili lombardi,” in Donne e giornalismo. Percorsi e presenza di una storia di genere, a cura di Silvia Franchini e Simonetta Soldani (Milano: FrancoAngeli, 2004), 308.↩︎

  2. Rita Carrarini, “La stampa di moda dall’Unità a oggi,” in Storia d’Italia. La moda, a cura di Carlo Marco Belfanti e Fabio Giusberti (Torino: Giulio Einaudi Editore, 2003), 797.↩︎

  3. Silvia Franchini e Simonetta Soldani, Donne e giornalismo. Percorsi e presenze di una storia di genere (Milano: FrancoAngeli, 2003), 44. Citazione ripresa anche da L’influenza sociale della moda. La costruzione dell'identità personale e sociale della donna, attraverso l'abbigliamento, nella seconda meta del Novecento, tesi di laurea magistrale di Giulia Basilei, Dipartimento Civiltà e forme del sapere, Università di Pisa, 201, consultato il 18/3/2022, https://etd.adm.unipi.it/theses/available/etd-09102013-203726/unrestricted/Tesi_Magistrale_corretta.pdf.↩︎

  4. “Catalogo generale della casa editrice Sonzogno, (Milano: 1911),” in Rita Carrarini, Michele Giordano, Bibliografia dei periodici femminili lombardi (1786–1945), (Milano: Lampi di Stampa, 2003).↩︎

  5. Benedetta Del Romano, Storia della moda, lezione tenuta all’Università La Sapienza di Roma, Facoltà di Lettere e Filosofia, 2021, consultato il 19/3/2022 https://www.lettere.uniroma1.it/sites/default/files/2550/Lezione%2014_0.pdf.↩︎

  6. Alessandra Zauli, “Le riviste di moda femminile negli anni Venti: il caso di Lidel,” in Storia e futuro, rivista di storia e storiografia online, consultato il 20/3/2022, http://storiaefuturo.eu/le-riviste-di-moda-femminili-negli-anni-venti-il-caso-di-lidel.↩︎

  7. Giuliana Dal Pozzo, Laura Lilli, Luigi Meschieri, Perché la stampa femminile? (Bologna: Italo Bovolenta editore, 1977), 111–12.↩︎

  8. Małgorzata J. Lewandowska, Grazia — Consigli che hanno formato le italiane, (Varsavia: Wydawnictwa Uniwersytetu Warszawskiego, 2021). Consultato il 25/03/22, https://wuw.pl/data/include/cms//Grazia_Lewandowska_Malgorzata_2021.pdf.↩︎

  9. Małgorzata J. Lewandowska, ivi, 53.↩︎

  10. Giulia Basilei, “L’influenza sociale della moda, la costruzione dell’identità personale e sociale della donna, attraverso l’abbigliamento, nella seconda metà del Novecento,” consultato il 13/3/2022, https://etd.adm.unipi.it/t/etd-09102013-203726/.↩︎

  11. Conversazione con Carla Vanni, avvenuta a Milano il 5/03/2022.↩︎

  12. Teresa Serrao, “A cuore aperto,” La Repubblica, Dicembre, 19, 1993, consultato il 21/3/2022, https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/12/19/cuore-aperto.html.↩︎

  13. Vedi Basilei, “L’influenza sociale della moda,” 75.↩︎

  14. Conversazione con Carla Vanni, avvenuta a Milano il 5/3/2022.↩︎

  15. Conversazione con Carla Vanni.↩︎

  16. Rita Carrarini, “La stampa di moda dall’Unità a oggi,” in Storia d’Italia. La moda, a cura di Carlo Marco Belfanti e Fabio Giusberti (Torino: Giulio Einaudi Editore, 2003), 828.↩︎