ZoneModa Journal. Vol.12 n.1 (2022)
ISSN 2611-0563

How Digital Technology Influences Information about Fashion

Paolo LandiIndependent Writer

He is the author of various books on the conscious use of the media (published by Lupetti, Sperling & Kupfer, Einaudi, Bompiani, La Scuola). His latest essay is Instagram al tramonto (La Nave di Teseo, 2019). Contributor of online magazines Doppiozero, Minima&Moralia, Limina

Pubblicato: 2022-07-11

Abstract

Fashion is experiencing the same pioneering phase as many other sectors of the economy and society. The digital age raises many questions while the crisis of understanding the “fashion phenomenon” continues to concern the sphere of the surface, thus discouraging the conceptual approach. Its pervasiveness in the media does not seem to allow problematic investigations, stopping at product information, arousing a critical reflection before it studies objective. Paolo Landi analyzes the change in information on fashion in a media universe where social networks prevail and outlines the main new elements.

Keywords: Influencer; Individualism; Social Network; Brand; Digital.

Secondo Roland Barthes1: “[…] La Moda dovrebbe la sua euforia al fatto di produrre un romanzo rudimentale, amorfo, senza temporalità; il tempo non è presente nella retorica di Moda: per ritrovare il tempo e il suo dramma bisogna lasciare la retorica del significato e affrontare la retorica del segno di Moda”. Per registrare i cambiamenti verificatisi nel modo di informare sulla moda è necessario dunque affidarsi alla “retorica del segno”, per “ritrovare il tempo”, e vedere come il romanzo “rudimentale, amorfo, senza temporalità” evocato da Barthes stia evolvendo in questa era digitale.

Facciamo un passo indietro, al principio degli anni '90 del secolo scorso, quando il “logo”, inteso come segno grafico che veniva apposto su un prodotto, assumeva una diversa identità: le cosidette “griffes” di moda iniziavano il percorso per diventare “brand”. Nel linguaggio della moda del vocabolario Treccani la griffe è il “nome del fabbricante, dello stilista, dell'ideatore o disegnatore, ecc che, tessuto su un rettangolino di stoffa o altrimenti impresso, viene applicato su un capo di abbigliamento”2. Il passaggio da un universo prettamente fisico-commerciale verso una densità simbolica e immaginifica più importante3: due libri che approfondiscono la centralità delle marche e la loro critica nella società contemporanea caratterizza l'evoluzione delle griffes di moda verso l'idea di “brand”, il “marchio” inteso come produttore di senso, costruzione intorno a un prodotto di un mondo possibile fatto di valori e di immaterialità. Fu in quegli anni che la moda esplorò l'alternativa del “valore aggiunto” che il passaggio da griffe a brand sembrava assicurare: la trasformazione da etichetta cucita su un capo a marchio vero e proprio poteva essere foriera di una evoluzione su più livelli, anche e soprattutto finanziaria, con lo sbarco successivo di alcuni marchi di moda nelle Borse di Milano, di New York, di Hong Kong (Benetton si era quotato addirittura nel 1986 alla Borsa di Milano, Prada all'Hong Kong Stock Exchange nel 2011). Si era agli albori del processo di smaterializzazione, che oggi ha raggiunto stadi elevati, anche se non definitivi4. In questo saggio il filosofo coreano parla del prevalere dei dati e delle informazioni sulla realtà concreta Parallelamente a questo cambio di prospettiva mutava la comunicazione: il prodotto non poteva più sopravvivere da solo, affidandosi alla sola evidenza della sua oggettività commerciale (qualità, prezzo, distribuzione), al contrario doveva arricchirsi di un supplemento di “personalità” che doveva derivargli dal comunicare valori che si astraevano dal prodotto puro. Iniziava qui il processo di astrazione dal reale che la rivoluzione digitale porterà a compimento. Benetton, un antesignano della politica del “branding”, lo fece attraverso le pubblicità di Oliviero Toscani: smise di parlare dei maglioni e dei loro colori e cominciò a parlare dei colori della pelle che, nel messaggio degli United Colors, diventava metafora unificante, nell'obiettivo da raggiungere dell'inclusione e della tolleranza di ogni etnia. Prada iniziò la costruzione della sua Fondazione, suggerendo ai suoi clienti che il valore dei suoi abiti era contenuto anche nella sua collezione d'arte. Comunicare una visione del mondo: le griffe di moda capirono per prime che raccontare storie avrebbe contribuito a imprimere il loro marchio nella mente dei clienti, cui ci si doveva rivolgere considerandoli prima di tutto donne e uomini, ridefinendo quindi il concetto tradizionale di marketing che vedeva indebolirsi le tradizionali suddivisioni in target, dove contava il sesso, l'età, la provenienza geografica, la capacità di spesa. Essere brand voleva dire entrare a far parte di un universo trasversale dove l'età e la condizione sociale passavano in second'ordine: chi poteva permettersi Prada acquistava anche Benetton e chi era cliente di Benetton poteva acquistare realisticamente un accessorio di Prada, poteva cioè appropriarsi di quel marchio esclusivo attraverso l'intangibilità del suo profumo, oppure visitando il suo spazio espositivo. Nei mondi possibili evocati dai brand il “prezzo” non era più la variabile divisiva, era invece la porzione di sogno che ogni marchio proponeva: la nuova soglia della desiderabilità di un prodotto. Gli anni 2000 vedono un'accelerazione tecnologica che imprime un forte movimento alla comunicazione in generale, e a quella della moda in particolare. Nel 1999 escono negli Stati Uniti le 95 tesi di The Cluetrain Manifesto 5 di Rick Levine, Christopher Locke, Doc Searls, David Weinberger (che avranno una edizione cartacea americana nel 2000, pubblicata da Perseus Book e saranno tradotte online in italiano nel 2001). L'avvento di Internet ha in quegli anni un impatto destabilizzante sui mercati e sulle imprese, gli autori lo hanno analizzato sintetizzando in 95 brevi paragrafi quella che loro decretano essere “the end of business as usual”. La prima di queste tesi dice: “I mercati sono conversazioni”. E parte da qui l'analisi su come il web abbia profondamente mutato la comunicazione in ogni sua forma (dai contenuti corporate alla pubblicità): con Internet le persone scoprono e inventano nuovi modi di condividere conoscenze e informazioni, con una rapidità sconosciuta prima. Inoltre le persone diventano attori di questa comunicazione, come non lo erano mai stati in passato: dalle mail alle chat, dalle caption sotto ai post nei social ai commenti agli stessi, un mondo e un modo nuovo di comunicare si rivelano in tutta la loro potenza sovvertitrice. Nel 2004 nasce Facebook, nel 2006 Twitter, nel 2010 Instagram. La comunicazione di moda, tradizionalmente affidata a testate cartacee di prestigio e diffusione internazionale (VogueHarper's BazaarElleMarie Claire) scopre la velocità dei social network, e la loro capacità di raggiungere cifre di condivisione che moltiplicano all'ennesima potenza le tirature dei magazine tradizionali. Alla base di questo cambiamento c'è un filo conduttore che collega il percorso di emancipazione della moda da griffe a brand, e quello della comunicazione di moda da immagine fotografica riprodotta su supporti analogici a “conversazione”: è l'individualismo, postura diventata centrale nella cultura digitale e ossimoro in una società massificata che tenta di assegnargli una posizione di dominio, attribuendogli competenze e valori. Sui social siamo tutti attori, il nostro “io” prevale, secondo le previsioni del Cluetrain Manifesto, che aveva visto nel potere dell'individuo il nuovo paradigma dell'informazione e della critica. “Autenticità” è, secondo il sociologo francese Gilles Lipovetsky che ha pubblicato recentemente Le sacre de l'authenticité6, il nuovo valore del nostro tempo, rivendicato dagli individui-attori e dai soggetti politici, desiderato dai consumatori, ripetuto dai guru del marketing. Come influisce l'individualismo sulla comunicazione in era digitale?

Le nuove tecnologie digitali consentono all'informazione di propagarsi in tempo reale tra utenti, macchine e sistemi di gestione. Peter Lacy, Jacob Rutqvist, Beatrice Lamonica, le hanno classificate in un saggio7. Le principali sono:

L'economia si sta spostando rapidamente verso la digitalizzazione e il processo di branding ormai compiuto dalle principali imprese della moda le porta verso processi finanziari che hanno, come corollario, l'attenzione verso la smaterializzazione consentita dalle catene blockchain: attraverso gli NFT (non fungible token) permettono la registrazione di manufatti come “unici e autentici”, aprendo un mercato parallelo nel mondo ancora scarsamente evoluto delle cryptovalute (ma che avrà sicuramente un futuro con l'evoluzione del metaverso, il grado successivo dei social network, la realtà virtuale dove il nostro avatar potrà incontrare altri avatar, creare oggetti o proprietà, partecipare in teletrasporto e contemporaneamente ad azioni ed eventi lontani). La fantascienza evocata trova un riscontro reale nella rapidità con cui lo sportello bancario, con le sue code e le sue operazioni tecniche, è emigrato, smaterializzandosi, sul nostro smartphone; non sarà perciò difficile immaginare che anche il denaro diventi astratto, decretando la fine della carta di credito (l'oggetto obsoleto della “plastic revolution”), verso i pagamenti con un click e verso un nuovo capitalismo digitale (e soprattutto finanziario), totalmente diverso dal capitalismo industriale che ancora domina l'economia. Ecco che la saldatura con l'individualismo e la ricerca di autenticità si sostanzia di questo nuovo approccio alla comunicazione: la moda è stata tra i primi a sfruttare le possibilità fornite dai social e, attraverso le conversazioni prefigurate dal Cluetrain Manifesto, approfittare di una penetrazione profonda in un pubblico nuovo. È stata anche tra i primi a registrare una borsa o un vestito come NFT8, per dimostrare che non esiste processo evolutivo che non sia immediatamente esperito dalla moda. Non si può parlare dell'attuale stadio evolutivo dell'informazione sulla moda senza fare riferimento alla figura dell'influencer9.

L'influencer ha un profilo sui social (soprattutto su Instagram), attraverso il quale “influenza” i comportamenti e le scelte del pubblico dei suoi follower. Il compito che prima era della stampa di moda è passato ora a queste figure, che possono essere Instagrammer, Youtuber, Tiktoker, avere un loro Blog o una pagina su Facebook (attualmente in declino per questo genere di informazione), dove condividono foto e altri contenuti. Su Instagram un influencer è una persona che ha scelto di farsi brand: nel mondo dei social, parallelo alla vita reale, le persone smettono di essere tali e diventano brand, mettendo loro stessi, il loro corpo e il loro volto al servizio di aziende10. Lo status di influencer — vista la proliferazione di queste figure — è ancora pervaso di incertezza: chi può definirsi tale? Chi supera i 10k follower: sembra questo il numero minimo per accedere alla qualifica, per altro non stabilita da alcuna regola scritta. Anche un personaggio noto, un calciatore, un attore, un cantante può fregiarsi del titolo, pur avendo meno di 10k follower, dato il suo potere di seduzione. C'è differenza tuttavia tra influencer e testimonial (cui sembrano appartenere personaggi dello spettacolo e dello sport). Il testimonial deve essere famoso mentre l'influencer sarà ricercato dai brand di moda anche se non è famoso, basta che assicuri un “engagement”, un dialogo con i suoi follower. Il testimonial “mette la faccia” su un solo prodotto e reclamizza solo quello, l'influencer può pubblicizzare in un post anche più marchi insieme. Il testimonial diventa una sorta di attore, anche quando interpreta se stesso, nei commercial girati dalle grandi agenzie o nelle campagne dei fotografi di moda famosi. L'influencer fa tutto da solo: si veste, si “situa”, e si fa un selfie. Non succede mai che più aziende scelgano il medesimo testimonial per una campagna pubblicitaria, almeno non in contemporanea, mentre questa è la norma nel caso degli influencer (che, nel loro accogliere marchi diversi, hanno le stesse prerogative di una testata giornalistica, che vende i propri spazi pubblicitari a chi li paga). Il testimonial promuove una marca, l'influencer – mentre comunica più marche – pubblicizza se stesso (anche il testimonial, ovviamente, pubblicizza se stesso ma di lui si presuppone una notorietà a monte, mentre l'influencer può essere sconosciuto ai più ed essersi ugualmente conquistato la legittimità di influenzare le scelte degli altri11. Il sistema di informazione della moda risulta profondamente modificato da queste nuove modalità di trasmissione dell'informazione e, a ruota, la definizione di status symbol subisce un aggiornamento. Nell'universo immateriale dell'informazione anche la moda abita sempre di più Google Earth e il cloud12 “Le nostre ossessioni non sono più indirizzate alle cose. Ci inebriamo con la comunicazione. Le energie libidiche abbandonano le cose e si lanciano sulle non-cose (…). Il feticismo degli oggetti appartiene probabilmente al passato. Siamo diventati feticisti delle informazioni e dei dati”.

Le fasi del processo di smaterializzazione della moda, dal segno della griffe al brand, dalle sfilate on stage a quelle online, ci parlano del momento pionieristico che stiamo vivendo, a tutti i livelli della nostra esperienza. Il capitalismo dei consumi, dei prodotti standardizzati, lascia il posto a un'economia di reattività, dove i criteri di competitività abbandonano le caratteristiche analogiche per spiegarsi ricorrendo a termini come qualità, innovazione, brandizzazione, immaterialità.

Il materialismo della vecchia società dei consumi è in fase di profonda mutazione: ci saranno sempre cose da comprare nei nuovi social che le grandi corporation stanno allestendo per noi, ma la corsa non sarà a procurarsi più merci, bensì ad assicurarsi una vita migliore. La moda deve ritrovare il passo della sua narrazione, per continuare a scrivere il romanzo barthesiano ed essere di nuovo testimone del suo tempo, invece di tentare di inseguirlo, come è costretta a fare oggi, quando gli abiti, come tutte le altre merci, sembrano degradati a derivati materiali di un'informazione frammentata e fuori controllo.

Bibliografia

Barthes, Roland. Sistema della Moda. Torino: Einaudi, 1970.

Han, Byung-Chul. Le non cose – Come abbiamo smesso di vivere il reale. Torino: Einaudi, 2022.

Landi, Paolo. Instagram al tramonto. Milano: La Nave di Teseo, 2019.

Landi, Paolo. “Il capitale secondo Chiara”. Il Foglio, 18 agosto 2021.

Levine, Rick, Christopher Locke, Doc Searls e David Weinberger. The Cluetrain Manifesto. Cambridge: Perseus Book, 2000.

Lipovetsky, Gilles. Le sacre de l’authenticité. Parigi: Gallimard, 2021.

Semprini, Andrea. Marche e mondi possibili. Milano: FrancoAngeli, 1993.

Semprini, Andrea. La marca postmoderna. Milano: FrancoAngeli, 2005.

Lacy, Peter, Jakob Rutvist and Beatrice Lamonica. Circular Economy - Dallo spreco al valore. Milano: Egea, 2016.


  1. Roland Barthes, Sistema della Moda (Torino: Einaudi, 1970), 264.↩︎

  2. https://treccani.it/vocabolario/griffe.↩︎

  3. Cfr. Andrea Semprini, Marche e mondi possibili (Milano: Franco Angeli, 1993) e La marca postmoderna (Milano: Franco Angeli, 2005).↩︎

  4. Byung Chul Han, Le non cose – Come abbiamo smesso di vivere il reale (Torino: Einaudi, 2022).↩︎

  5. https://www.cluetrain.com.↩︎

  6. Gilles Lipotvesky, Le sacre de l’authenticité (Parigi: Gallimard, 2021).↩︎

  7. Lacy, Rutqvist, Lamonica, Circular Economy, dallo spreco al valore (Milano: Egea, 2016).↩︎

  8. https://www.vogue.it/news/article/nft-cosa-sono-utilizzo-mondo-arte-valore-primo-tweet.↩︎

  9. https://en.wikipedia.org/wiki/Influencer_marketing.↩︎

  10. Su come l’influencer ribalti l’economia di produzione cfr. Paolo Landi, Il capitale secondo Chiara, Il Foglio, 18 agosto 2021.↩︎

  11. Per un approfondimento sulla figura dell'influencer nel socialnetwork Instagram cfr. Paolo Landi, Instagram al tramonto, (Milano: La Nave di Teseo, 2019).↩︎

  12. Cfr. Byung Chul Han, 6–7.↩︎