ZoneModa Journal. Vol.12 n.1 (2022)
ISSN 2611-0563

Breaking Point: The Unchangeable Men’s Fashion and a Magazine Born to Destroy the Machismo’s Stereotype

Michele CiavarellaGiornalista e critico di moda

He began working very young as a journalist at the political newspaper il manifesto and at the same time graduated in Law with a thesis about the imprisonment abolition following the Michel Faucault book Surveiller et punir. Naissance de la prison. Fashion has arrived in his life at the end of the 1980s: a case leads him to Paris as editorial coordination of the Italian, French and Japanese editions of the international trend monthly magazine G.A.P. Back in Italy, he first worked in Mondadori for Panorama and then moved to Rizzoli where for 12 years ago as chief of editorial board in Amica who left to move as fashion direction for Leiweb, the first online website by RCS Mediagroup. Now he is the Deputy Editor and Fashion Critic for Style Magazine Corriere della Sera and author of the online fashion reviews of the fashion shows channel for style.corriere.it Among his publications: ManiFashion. ManiFashion. Manifesto critico per la moda del XXI secolo (Amazon, e-book); Dizionario della Moda (ed. Baldini & Castoldi, 1999) curated by Guido Vergani, 99 items; Total Living (ed. Charta 2002), with Maria Luisa Frisa, Stefano Tonchi, Paola Antonelli, Francesco Bonami, the essay Necessario, non superfluo. Riflessioni sul lusso inevitabile… Participation with voices and comments in Excess (ed. Charta 2004), with Francesco Bonami, Daniele Brolli, Alix Browne, Mariuccia Casadio and others.

Pubblicato: 2022-07-11

Abstract

At the end of the 1960s, the arrival of L’Uomo Vogue on Italian newsstands caused a disruption with the dominant male culture. Despite being a magazine designed for a man of average culture and bourgeois extraction, the magazine manages to link fashion to the avant-garde cultures of the times by mixing fashion references with cinema, music, literature… And it becomes a medium through the which to build a different awareness that frees males from the prison of gender clichés that keep them prisoners of a retrograde and conservative mentality so difficult to change. A historical hint on the birth and cultural nourishment of patriarchal stereotypes leads to the example of an attempt at change in the second half of the XX Century that comes through the first Italian men’s fashion monthly in a historical moment in which our country has not yet done modern achievements of social civilization, such as the divorce law, while the world is about to discover the demands for social modernity of 1968. An excursus closed by the unpublished memories of Flavio Lucchini, the founder and the first editor in chief of the magazine.

Keywords: Men’s Fashion; Patriarchy; L’Uomo Vogue; Flavio Lucchini; Stereotype.

Figura 1: La copertina di L’Uomo Vogue del settembre 1998; la foto è di Paolo Roversi, il modello indossa abiti di Gianfranco Ferré. La foto della prima copertina del settembre 1967 è di Oliviero Toscani. “Era solo una prova, non avevamo ancora una redazione”, ricorda Flavio Lucchini, il fondatore e primo direttore del magazine. L’immagine non è riproducibile perché è in vendita su ebay.

Se si fa attenzione agli stereotipi che tutt’ora governano la cultura maschile, è molto alto il rischio che l’espressione “moda maschile” rappresenti una contraddizione in termini. Eppure, nella sua apparente indisposizione ad accettare i cambiamenti, e quindi uno dei significati fondanti della moda, è proprio la moda maschile che restituisce molte informazioni sul faticoso percorso di mutazione della cultura del maschio. È questo il motivo per cui è sempre stata difficile raccontarla, soprattutto quando si utilizza la formula del magazine, cioè la rivista periodica. Ma attraverso l’osservazione delle “riviste maschili”, però, si possono trarre numerose informazioni su una cultura che, nonostante i progressi degli ultimi anni, appare arroccata sui privilegi di genere ben custoditi da una cultura che rimane retrograda e reazionaria perfino quando tenta di aprirsi al confronto e al recepimento di istanze progressiste. Eppure, da quando lo sconvolgimento della Seconda guerra mondiale voluta dai totalitarismi europei (fascismo e nazismo in prima linea) ha sconvolto molte certezze culturali maschili e femminili, si nota che la nascita di un “periodico maschile” porta sempre con sé la speranza del rinnovamento tanto richiesto quanto, e purtroppo alla fine, disatteso.

In questo intervento, facendo una breve premessa storico-culturale sulla nascita degli stereotipi maschili tutt’oggi molto in voga, mi concentrerò sulla nascita, nell’Italia del 1967 alla vigilia del Sessantotto, di L’Uomo Vogue, nella speranza di indicare in quel momento un punto di rottura significativo che ha contribuito a una mutazione della percezione della cultura maschile — non solo italiana — attraverso una rivista che, vedremo in seguito, sarà fondamentale anche per il cambiamento della mentalità maschile in rapporto alla moda. In questo percorso mi ha aiutato l’incontro che, per l’occasione, ho avuto con Flavio Lucchini, l’uomo che ha inventato L’Uomo Vogue. Il perché di questa scelta è semplice: mentre altri magazine — italiani e soprattutto inglesi — nati nella seconda parte del Novecento hanno raccontato per lo più nicchie culturali, legandosi alle esperienze ondivaghe delle tante culture giovanili nate tra gli anni Cinquanta e gli anni Novanta del Novecento e molto corrispondenti alle mode musicali (per esempio mod, rock, punk), la rivista italiana della Condé Nast ha imboccato la strada della cultura generalista nella dichiarata volontà di raccontare un “maschio comune” con una scolarizzazione e una disponibilità economica medio-alta (diremmo, un esponente della medio-borghesia) che richiedeva un cambiamento, che quasi implorava di essere sprovincializzato, che avvertiva la necessità di confrontarsi con culture differenti e altre dalla propria. Alla fine, vedremo anche che la colpa della mancata realizzazione di quel cambiamento progettato non può essere addebitata al magazine.

Figura 2: Con un pullover di Dolce & Gabbana, Matt Damon è sulla copertina di marzo 1998 fotografato da Bruce Weber. L’attore americano era sugli schermi con Saving Private Ryan di Steven Spielberg e impegnato nelle riprese di The Talented Mr. Ripley, regia di Anthony Minghella.

Una premessa: perché la moda maschile è una prigione

La moda maschile è sempre stata prigioniera degli stereotipi di genere e della manifestazione didascalica del potere ed è questo il motivo per cui si è trasformata in una gabbia per la mascolinità. Anche quando la storia ci offre delle eccezioni, il risultato finale gioca sempre a favore del cliché precostituito dalla cultura patriarcale. È il caso del Settecento, per esempio. Visto dai nostri tempi appare un secolo di sfarzose libertà nell’abbigliamento maschile. Ma è proprio in quel secolo che i merletti, le piume, i colori e le esuberanze estetiche hanno finito per confermare un altro cliché della superiorità del mondo maschile rispetto a quello femminile. Infatti, in quel secolo è successo che, spostata la corte a Versailles, Louis XIV abbia richiesto a suo fratello minore, Filippo di Francia duca di Orléans, e al compagno morganatico di questi, Filippo di Lorena, di stabilire nuove regole dell’abbigliamento che corrispondessero alla nuova vita di corte. Per il Roi Soleil era essenziale costruire uno Stato “à la moderne” tanto che quell’espressione divenne il suo mantra fino al punto che, ripetendolo in continuazione, lui stesso e i suoi ministri la troncarono e divenne “à la mode”, cioè “alla moda”. E quindi dall’esigenza di trasformare la Francia da un Paese arcaico a uno Stato moderno è nata perfino la parola moda (ma questa è un’altra storia).

Nelle regole studiate da Monsieur (il titolo del fratello del re) e dal suo amante ufficiale c’era anche altro, però. C’era la necessità di sottolineare, attraverso l’abito, il ruolo e, soprattutto, l’importanza di chi l’indossava. Ecco, allora, che proprio in quel secolo che finirà con l’affermazione della cultura dei Lumi e con la Rivoluzione Francese, si forma il più grande pregiudizio culturale a favore del maschilismo: l’abbigliamento maschile deve essere più vistoso ed emanare più potere visibile perché corrisponde a quanto succede nella natura. È nella flamboyante sensazione di libertà dell’abito, tra le ricchezze estetiche inventate da Monsieur e raccontate da pizzi, gioielli, scarpe con i tacchi, pantaloni sbuffanti e tessuti preziosi che si afferma un pregiudizio estetico che si giustifica con quanto si osserva nella natura (e quindi incontestabile) dove il leone maschio ha la criniera che manca alla femmina, come è solo il maschio del fagiano che ha la coda ed è il pappagallo maschio quello che ha le piume dai colori più sgargianti, per non parlare del pavone… va da sé.

È in questo contesto culturale che si propagano e che si riprendono antiche leggende legate alla superiorità maschile espressa dall’abbigliamento, come la tunica corta per i maschi greci e romani (antenate delle gonne) che sono più sexy del peplo femminile che serve solo a coprire un corpo adatto alla riproduzione e non certo alla battaglia eroica, o delle corazze dei guerrieri potenti per definizione; e non importa se (forse) furono rubate alle Amazzoni.

È quindi da sempre che la moda maschile dimostra di essere in perenne lotta autodifensiva e, in uno studio e una ricerca continua di auto giustificazioni, si asserraglia nel fortino della superbia e della pretesa superiorità di genere della figura culturale che deve vestire: un essere così superiore che ha sempre dimostrato che per conservare il potere che si è auto assegnato deve vincere le guerre con le armi. E non certo con quelle del pensiero.

Questa premessa mi serve per spiegare perché periodicamente ci sono dei punti di rottura. Sono quei punti in cui si raggiunge un apice da cui non si può che scendere, come nel point break delle onde, e sono i momenti storici in cui sembra che accadano dei cambiamenti, sembra che la presa di coscienza stia finalmente per produrre una svolta culturale, sembra che… Appunto: sembra. Perché poi tutto riprende il suo posto e la conservazione prende il sopravvento sulla speranza evolutiva.

Al di là delle immagini e delle forme degli abiti, questi punti di rottura sono spesso segnalati dagli strumenti che la moda, maschile ma anche femminile, la raccontano e la promuovono. Non sono pochi i casi in cui il cambiamento della moda si verifica quando viene incoraggiato dai magazines che la raccontano, con le parole e con le immagini e che nascono proprio in concomitanza con i grandi cambiamenti socio-culturali. O forse proprio perché quei cambiamenti giungono a maturazione.

Figura 3: Chloë Sevigny sulla copertina del dicembre 2004 fotografata da Steven Klein sul set del film Melinda e Melinda di Woody Allen. Non è la prima donna in abiti maschili ad arrivare sulla cover del magazine: è stata preceduta da Chiara Mastroianni nel dicembre 2000 fotografata da Paolo Roversi.

Le fake news del potere e la grande rinuncia

Prima di arrivare al punto, però, occorre fare un’altra premessa. Il mondo maschile si è formato molti secoli fa e lì si è fermato, tanto che quando sembra che si muova in realtà è per regredire. La cultura patriarcale è una prigione in cui il maschio si è rinchiuso da secoli e viene guardato a vista da quel Cerbero a nove teste che si chiama bramosia di potere, alimentata dalla stessa cultura maschile che gli impedisce di cambiare la sua posizione perfino sotto gli scossoni dei terremoti sociali, culturali, fisici e morali. Ecco perché l’abito del potere è la rappresentazione materiale di un’immutabile volontà di possesso che costruisce le bugie a cui i maschi hanno finito per credere costruendo il più grande sistema di fake news mai costruito su altri argomenti nella storia dell’umanità. E, paradossalmente, la più grande vittima delle fake news inventate dai maschi è proprio il maschio. Perfino la più grande bugia della storia, come quella che pretende una predisposizione della natura che giustifica la disparità tra il maschio e la femmina a vantaggio del primo, ha prodotto tanti danni culturali e sociali fino a inventare il modello predominante della mascolinità tossica: come la bugia che vuole il maschio dell’essere umano più forte, più rude, più sicuro, più capace, naturalmente più intelligente e, ovviamente, più portato a possedere il sapere. Caratteristiche vissute come attributi del potere. Si tratta di una grande bugia che da sola ha costruito una miriade di stereotipi imbattibili studiati a tavolino quando il cambio del regime religioso ha sostituito la varietà delle sembianze e delle personalità mutevoli della Dea Bianca con la severità del Dio Potente saettante, punitivo e seducente, multiforme aspetto di un solo significato, il potere appunto. Rudezza, severità, predominio, forza: se non sono questi i canoni che deve raccontare la moda maschile, soprattutto quella che è nata dalla Rivoluzione industriale dell’Ottocento, quali altre parole possono spiegarla?

E già… Occorre proprio partire da qui, da quel momento storico che un’altra fake news ha definito “la grande rinuncia” per capire come alla fine degli anni Sessanta un giornale di moda maschile potesse mettere in discussione molte sicurezze. Si pretende, infatti, che la Rivoluzione industriale, quella che ha portato alla costruzione del completo maschile a tre pezzi, giacca-gilet-pantaloni, da portare con la camicia, la cravatta e il cappello, abbia costretto gli uomini ad abbandonare le camicie con i pizzi e i merletti, i cappelli con le piume, i gioielli vistosi che dalla fine del Seicento e per tutto il Settecento avevano caratterizzato il guardaroba maschile. È questa quella che passa sotto la definizione di “grande rinuncia”: con gli orpelli e i falpalà, si dice, i maschi avevano rinunciato anche all’esuberanza estetica costruendo, in sostituzione, una sorta di “divisa rispettabile” che avrebbe dovuto denunciare autorevolezza e integrità (perfino morale), carattere sobrio, assenza di frivolezza, eterosessualità radicale volta alla procreazione e al trasferimento dello status sociale (leggi: ricchezza di capitale) alla prole che da lì in poi prenderà la qualifica di “erede”.

Possiamo presumere che alla fine degli anni Sessanta tutti questi discorsi fossero ben vivi anche se sottotraccia. La Seconda guerra mondiale era finita nel 1945, la ricostruzione dell’Italia era iniziata da pochissimi anni e aveva già prodotto il così detto “miracolo economico”. Ma la cultura italiana era stata tenuta isolata dal resto del mondo dal ventennio fascista che aveva vietato perfino lo studio delle lingue straniere. Alla fine di quel decennio, però, si iniziava a parlare di diritti civili, di femminismo, di modernità. Arrivavano gli echi degli hippy americani e della Swinging London. Dev’essere stato un periodo effervescente. E fu proprio il timido affacciarsi nella quotidianità delle tematiche del femminismo che diede una sveglia alla cultura maschile, rimasta maschilista anche nelle fila degli intellettuali più progressisti. E qui occorre dare un riferimento preciso sulla società italiana del periodo attraverso due leggi che rappresentano due conquiste civili molto determinanti per lo svecchiamento della vita sociale e culturale nel nostro Paese. Per capire qual era la situazione socio-culturale italiana va ricordato che alla fine degli anni Sessanta in Italia non esisteva ancora né il divorzio né una legge che regolasse l’aborto. La “legge per la disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio” detta legge Fortuna-Baslini, è entrata in vigore l’1 dicembre 1970. Fu poi sottoposta a referendum abrogativo: si votò il 12 maggio 1974 e, fortunatamente, fu confermata con il voto contrario all’abrogazione del 59 per cento dei votanti. Occorre aspettare molti anni perché fosse approvata la legge 194 che consente l’interruzione di gravidanza che è del 1978 (e purtroppo va anche ricordato che si può senz’altro affermare che non ha ancora avuto piena applicazione ed è periodicamente sottoposta ad attacchi moralistici soprattutto da parte di politici maschi). Questi due riferimenti servono a capire in quale tipo di società, diremmo ancora arretrata e su posizioni conservatrici, e in un confuso periodo di tensioni culturali nasce nel 1967 l’esperienza de L’Uomo Vogue, rivista generalista di moda, costume e attualità al maschile.

Figura 4: Il campione di surf John John Florence fotografato da Bruce Weber per la copertina del numero di marzo 2016. È l’ultimo anno della decennale direzione di Franca Sozzani che scompare prematuramente il 22 dicembre dello stesso anno mettendo fine anche alla sua direzione di Vogue Italia dov’era dal 1988.

La rivista maschile nasce da una costola di un femminile

E quindi siamo finalmente nel settembre del 1967, il momento in cui, ribaltando un assunto biblico, arriva in edicola il primo numero di L’Uomo Vogue che nasce da una costola di Vogue Italia, mensile femminile fondato a Milano nel 1965 quando la casa editrice americana Condé Nast trasforma il periodico Novità che aveva acquistato già nel 1962. L’operazione prende avvio da un’intuizione di Flavio Lucchini, una figura di creativo molto atipica per l’epoca. Che nel nostro incontro, nato per analizzare la nascita di quell’esperienza, si racconta così: “Nel 1946, non ancora 18enne, arrivo a Milano da Mantova e mi presento all’Accademia di Brera per l’esame di maturità per poi iscrivermi all’università alla facoltà di Architettura. Sono un giovane provinciale infatuato dall’arte moderna. Futuristi, cubisti, dadaisti, surrealisti, Picasso e tutti gli altri. Frequento i primi Cineclub. Scopro la grafica svizzera e la pubblicità. Mi attrae tutto quello che è nuovo. Mi trasferisco a Milano perché lì succede tutto quello che dovrebbe cambiare l’Italia. Vinco un concorso statale per l’insegnamento ma ci rinuncio per seguire la Grafica e l’Architettura. Provengo da una famiglia modestissima. Sono iscritto al PCI, che lascerò dopo l’invasione russa in Ungheria (1956, ndr). A Milano conosco artisti, giornalisti e architetti. Apro un piccolo studio di grafica. Progetto Amica per il Corriere della Sera (il settimanale femminile nasce nel 1962 da una richiesta dell’allora proprietaria del quotidiano, Giulia Maria Crespi, che voleva dare alle lettrici un’opportunità di informazione con le stesse regole del quotidiano, ndr) e in seguito convinco la Condé Nast in America a fare Vogue in Italia. Considero Alexander Liberman (il responsabile della filosofia di Vogue America) il mio maestro ispiratore. Vogue deve essere il meglio del meglio (la stampa, le fotografie, i giornalisti, i personaggi, la moda, la bellezza: insomma tutto). La prima redazione è in via Brera di fronte all’Accademia. Sono gli anni Sessanta, anni di boom e di speranza, e il successo di Vogue Italia è immediato”.

Da questo profilo autobiografico si capisce come Lucchini fosse un atipico per la cultura del suo tempo, certamente un “non allineato”. Ecco perché avverte che rispetto all’evoluzione della moda femminile, quella maschile soffre di pregiudizi, gli stessi che nascono dalla sommatoria delle premesse che ho descritto sopra. Infatti, oggi ricorda: “La moda maschile era fatta soltanto da espressioni sartoriali e sfilava a Roma in presentazioni che avevano delle caratteristiche molto simili all’avanspettacolo. Del tutto avulsa dalla realtà e dal mondo che cambiava. Così, ho iniziato a documentare la moda maschile con una rubrica su Vogue cogliendo i primi segnali di novità. In quel periodo frequentavo Londra e Kings Road. Anche l’edizione inglese di Vogue pubblicava ogni tanto delle foto di moda maschile. A Londra ho capito che l’uomo voleva e poteva uscire dai vecchi cliché. Lì i giovani stavano rompendo con la tradizione. Dovevamo anche noi documentare questo cambiamento. Ma una rivista femminile era un mezzo troppo limitato per l’uragano che si stava preparando nel costume e che dilagò nel mondo con il 1968. Ci voleva un mezzo nuovo, dedicato. Proposi L’Uomo Vogue, prima bimensile, poi mensile. Era il 1967. Con un giovanissimo Oliviero Toscani (che poi diventerà un guru del rinnovamento della fotografia, ndr) incominciammo a prendere in considerazione la moda maschile come specchio della società in trasformazione. La prima copertina era solo una prova, non avevamo ancora una redazione”.

Ed era una copertina di moda, cioè ritraeva un modello con un abito: era lo specchio di una trasformazione in fieri, più sperata che programmata, più incitata che richiesta (ora quella copertina è in vendita su ebay e non è possibile riprodurla; mentre scrivo ha un prezzo di 262,40 euro). Tutto si reggeva sulla forte volontà di cambiamento, una spinta a immaginare un mondo diverso in cui il maschio potesse raccontare la propria trasformazione sorretto dalla spinta delle pulsioni che arrivavano dall’estero. Infatti, ricorda Lucchini, “non c’era un programma editoriale. Facevamo tutto d’istinto. Io con Toscani e poi Gisella Borioli e un gruppo di ragazzi poco più che ventenni che abbiamo assunto come redattori. In seguito, chiamai a collaborare Francesco Alberoni e Giampaolo Fabris (due sociologi e divulgatori, ndr), Alberto Moravia (scrittore in odore di Nobel, ndr), Roland Barthes (saggista, linguista, semiologo e critico letterario, ndr) e tanti altri intellettuali. Architetti, artisti ma anche amici di amici che ci venivano segnalati. Nessuno diceva di no, perché sentivano l’entusiasmo e la seria volontà di cambiamento che c’erano dietro”.

Quindi, non solo moda, non solo abiti, non solo fotografia. Il nuovo mensile si proponeva di raccontare, attraverso gli articoli che in realtà avevano uno spazio superiore ai servizi fotografici, una cultura in cambiamento. Quella che era la sezione “Attualità” diventa in realtà una palestra di riflessione culturale: libri, musica, cinema, arte, costume, società.

Fin dall’inizio, ricorda Lucchini, “non volevamo indossatori. Dovevamo fotografare ‘gente vera’. È così che con l’aiuto di Ugo Mulas abbiamo fotografato Giangiacomo Feltrinelli (l’editore rivoluzionario che pubblicò in Italia Il dottor Zivago di Boris Pasternak, ndr), Ettore Sottsass (il designer che inventò il gruppo Memphis, ndr)” che si prestarono a fare i modelli, per giunta indossando cappotti in pelliccia. E poi sulle copertine e anche nelle pagine interne arrivarono, con foto e interviste, Luchino Visconti, Federico Fellini, Woody Allen, Orson Welles (1972). Fotografando registi, attori, cantanti, sportivi, ma anche studenti e operai L’Uomo Vogue stava rompendo un tabù: la moda non era un’astrazione riservata alle donne: la rudezza maschile poteva confrontarsi con l’estetica che stava cambiando. E che poteva essere il seme di un cambiamento di mentalità.

“La moda stava cambiando anche dietro la nostra spinta. I giovani si divertivano a cambiare la loro immagine, anzi volevano e dovevano sentirsi diversi dai loro padri. Si doveva assumere un comportamento nuovo, un nuovo modo di pensare: tutti desideravamo un mondo nuovo. Non solo vestiti, che erano però lo specchio del cambiamento. Infatti, è arrivato il Sessantotto, il femminismo, la libertà sessuale e molto altro” ricorda Lucchini. Che non si è mai arreso alle difficoltà né si è fermato davanti agli ostacoli. Basta scorrere, anche velocemente, gli annali per capire che costruiva ogni numero attorno a un’idea forte, un programma che fosse capace di scuotere chi lo guardava. Si era negli anni Settanta e molti argomenti erano ancora un tabù. Ma la rivista non esista a dedicare un numero intero alla cultura black con le foto di Oliviero Toscani scattate ad Harlem, o un numero speciale dedicato a Mao Zedong e un altro all’abbigliamento militare tutto realizzato fotografando i soldati di carriera nelle caserme. Ma non erano solo le fotografie a dare il tratto del cambiamento. Erano gli articoli che parlavano di arte, di musica, di politica perfino che hanno contribuito a quel grande progetto editoriale che si è rivelato un progetto di rivoluzione culturale pensato per cambiare la mentalità maschile e ricavare una cultura nuova.

Dopo quel punto di rottura, gli uomini italiani cambiarono il loro atteggiamento in rapporto alla moda. Che fossero lettori o solo fruitori passivi delle proposte del magazine, in molti si sentirono giustificati a “seguire la moda” senza per questo sentirsi sminuiti nella rappresentazione della propria mascolinità. Certo, per molto tempo il pregiudizio che fossero gli uomini omosessuali a recarsi nelle edicole a comprarlo fu difficile da abbattere. Personalmente ricordo un articolo degli anni Ottanta di un giornalista importante come Giorgio Bocca (anche lui tra i collaboratori di L’Uomo Vogue ai tempi della direzione di Cristina Brigidini — altra “anomalia”, una donna alla direzione dal 1979 al 1992) che sulle pagine culturali di La Repubblica informava i suoi lettori che esisteva un mensile di moda che parlava anche di cultura e che non c’era da vergognarsi a leggerlo o a compralo in edicola, tanto che lui ci scriveva degli articoli. E, al di là delle buone intenzioni di Bocca, anche questo è un metro involontario per capire di quanti pregiudizi è prigioniero il maschilismo. Ma quel punto di rottura certificato dalla nascita del magazine è stato possibile perché “le cose erano in continuo cambiamento, ci guardavamo attorno e per noi era semplice trovare idee e fare il giornale. Ero completamente libero in tutte le mie scelte”, ricorda Lucchini.

Dopo Lucchini, che lascia la Condé Nast nel 1979 per fondare l’anno successivo la sua casa editrice, Edimoda, con due nuovi magazine, Donna e Mondo Uomo, L’Uomo Vogue viene diretto per 13 anni da Cristina Brigidini, come accennato sopra, e diventa un mensile di cultura varia, sempre attento al nuovo che gli si muove attorno e spesso anche anticipando discussioni sociali. Sulle copertine si alternano stilisti (Giorgio Armani), attori (River Phoenix, Kyle McLachlan, Mel Gibson), artisti (Jeff Koons), registi di teatro (Luca Ronconi) intervistati da giornalisti che spesso sono critici cinematografici e teatrali. Poi sarà il turno di Aldo Premoli che sostanzialmente prosegue sulla scia precedente, a cui segue Anna Dello Russo che tenta una virata tutta modaiola che non riesce appieno ma che viene compiuta pienamente con la direzione di Franca Sozzani che per dieci anni (2006 al 2016) ne farà la succursale maschile di Vogue Italia. Con la morte di Sozzani, il giornale resta agganciato a Vogue e viene diretto da Emanuele Farneti. In nessun caso, però, si ripete un altro punto di rottura come quello della nascita perché tanto i contenuti quanto i lettori hanno superato la barriera della curiosità e si sono adagiati su una normalizzazione che non richiede grandi sbalzi creativi.

E però, a questo punto dobbiamo chiederci se è possibile che quel punto di rottura del 1976 abbia aiutato a produrre il cambiamento della mentalità maschile che possiamo osservare oggi. La risposta è sì. Anche se dobbiamo arrenderci davanti all’evidenza che la cultura maschile ha modificato la sua facciata ma non la sua sostanza. “Con i miei giornali, ho raccontato l’uomo nuovo, contro gli stereotipi. Sono stati dei periodi speciali, unici e irripetibili”, dice oggi Lucchini che per abbattere gli stereotipi che tutt’ora vivono e lottano per la propria sopravvivenza 55 anni fa fondò un magazine. E ci mette in guardia: infatti dice che quegli anni sono irripetibili…

Non serve essere pessimisti per osservare che molti di quegli stereotipi continuano a influenzare la vita di oggi. Non ce ne siamo liberati. Forse attualmente la cultura femminile è più libera dai cliché di quanto lo sia quella maschile. Ma il potere è ancora saldamente in mano ai maschi. Allora è stato tutto inutile? Non credo: chissà quanto terreno in più avrebbero conquistato i conservatori e quanti cambiamenti in meno ci sarebbero stati nella moda e nella cultura maschile, soprattutto in Italia, senza quel tentativo di riflessione e di elaborazione. Se non ci fosse stato, staremmo peggio sicuramente. E quindi oggi non resta che lavorare per costruire un altro punto di rottura. Per il momento, né il digitale né i social network mostrano di essere sedi di elaborazioni del nuovo. Anzi, proprio si quei media la spinta all’omologazione e alla nostalgia del passato appare molto forte e ancora più pericolosa perché è più diffusa e senza confini. Forse il racconto di una radicalità che in alcuni casi la moda sta mostrando, soprattutto con l’attualissimo tema del guardaroba condiviso, può dare qualche speranza. Ma perché possa essere raccontata da un mezzo di informazione ci vorrebbe un altro visionario come Flavio Lucchini. E tanti mezzi economici a sua disposizione.