ZoneModa Journal. Vol.12 n.1 (2022)
ISSN 2611-0563

From “Out of fashion” to Upcycling. How Art and the Fashion Industry Have Resemantized the Word “Recycling”

Eleonora ChiaisUniversità di Torino (Italy)

She is a researcher at the University of Turin. She mainly deals with fashion studies and trend analysis starting from a semiotics approach. In the same university she obtained her PhD by discussing a thesis in fashion semiotics about Vogue. She teaches “Moda e Costume” (MA) and “Forme e Linguaggi della Moda” (BA). She combines journalistic activity with teaching and academic research.

Pubblicato: 2022-07-11

Abstract

Over the years, the idea of ​​“recycling” linked to the fashion sector has experienced a fluctuating fortune. The practice of “putting something old back into use, re-using, re-proposing” has passed from the fashionable stigma of the “so last year” to the fashionista thrill of the vintage total look reaching, today, an unprecedented success with the so called “upcycling”. This term, which literally refers to the creative recycling process capable of making the new object acquire a greater value than the original, is now an authentic must for many luxury brands and for as many beginners. Nowadays the attention to this “luxury recycling” characterizes the world of institutional fashion which looks at upcycling process substantially from two points of view. On the one hand the creative, commercial and communicative one; on the other hand, the more strictly artistic one. The following article, using the tools offered by the semiotics methodology, investigates the consequences of the resemantization of the term “recycling” in the fashion industry. Starting from the presentation of some case histories, the aim of the research will be to demonstrate that the synergistic relationship between fashion companies and artists has allowed a change of perspective that will have important repercussions on the production sector.

Keywords: Upcycling; Sustainability; Green Fashion; Recycling; Reuse.

Introduzione

Dice Tony Cragg, secondo quanto riporta Celant1, che “ogni elemento è magnifico, oppure brutto o qualsiasi altra cosa. Dipende dalla nostra gamma dei criteri”. L’analisi di un qualsiasi fenomeno legato al settore moda, attraverso i suoi molteplici possibili campi d’applicazione, non può prescindere da questa considerazione di partenza. Tanto la desiderabilità quanto la stessa percezione della bellezza di un qualsiasi oggetto di consumo sono infatti, per definizione, strettamente legate al tempo e a quella “modificazione obbligatoria del gusto” già intercettata da Simmel2 e poi definita da Volli3 come una certa regola del cambiamento sicché ciò che piace oggi domani sarà “superato”. Il concetto di “riciclo” non fa eccezione.

La stessa idea del riuso legato al settore della moda ha conosciuto, infatti, negli anni, una fortuna che si potrebbe eufemisticamente definire altalenante. La pratica del “rimettere in uso qualcosa di vecchio, reimpiegare, riproporre”, infatti, è passata — stagione dopo stagione — dallo stigma modaiolo del “so last year” al brivido fashionista del vintage total look fino a conoscere, oggi, un successo senza precedenti con l’upcycling. Questo termine, che letteralmente rimanda al processo di riciclo creativo capace di far acquisire al nuovo oggetto un valore maggiore rispetto a quello dell’originale, è ormai un must per molti brand di lusso (Miu Miu, Coach, Off-White) così come per tantissimi brillanti esordienti del settore moda (Priya Ahluwalia, Bethany Williams, Emily Bode). L’attenzione alla “riproposizione di lusso” caratterizza, ormai con prepotenza, il mondo della moda istituzionale che guarda all’upcycling sostanzialmente da due punti di vista: da una parte quello creativo, commerciale e comunicativo e, dall’altra parte, quello più strettamente artistico.

A partire da queste considerazioni iniziali ci si concentrerà, nell’analisi che segue, dapprima su una ricostruzione delle vicende che hanno portato all’imporsi di questo “nuovo” paradigma modaiolo (strettamente connesso al più ampio tema della sostenibilità) e, dopo una breve disamina di alcune case histories particolarmente rilevanti, si proporrà una modellizzazione delle tipologie di riciclo fashion attualmente in uso.

Dall’anti-consumismo all’estetica del “ri”

L’impiego massivo del termine “sostenibilità”4 nel contesto moda non è certamente una novità di stagione anche se la recente pandemia ha costretto le aziende del settore a prendere atto dell’urgenza di un intervento concreto in questa direzione. Se il futuro è “un fatto culturale”5 è ormai indispensabile che la fashion industry s’impegni in azioni tangibili, tanto a livello globale che a livello relazionale, orientate al rispetto ambientale. D’altra parte la stessa pratica del vestirsi è centrale rispetto al modo in cui gli esseri umani interagiscono e questa è, ormai, necessariamente interconnessa con la sostenibilità (a sua volta un processo vitale). È quindi evidente che il settore fashion può e deve proporsi come un tassello fondamentale nella relazione tra cultura umana e salute ecologica6.

La tensione ecologista nella moda affonda le sue radici nel passato. Antesignani di questo “trend” furono i primi pensieri antagonisti verso il consumo di massa che, emersi tra gli Anni ’60 e ’70 negli Stati Uniti, diedero vita alla cultura hippie incentrata appunto sul rifiuto del consumismo7.

L’evoluzione, seppur con alterne fortune nel corso della storia recente, di questa sensibilità a livello tanto di consumo quanto di effettivo utilizzo dei capi ha portato a una nuova definizione della stessa idea di sostenibilità che può essere definita oggi come un concetto complesso basato su un’indispensabile correlazione tra l’ambito ambientale, quello economico e quello sociale. Lo scopo dichiarato e ultimo della moda sostenibile contemporanea è infatti quello di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della popolazione attuale senza, però, compromettere le risorse destinate alle generazioni future. Per raggiungere un simile obiettivo è indispensabile un ripensamento all’intero settore produttivo che, a partire dal momento creativo vero e proprio, sia in grado di tenere fede a questo proclama fondativo, spesso tematizzato in fase di comunicazione del brand e del prodotto, anche nel coté più strettamente commerciale. L’attuale sistema di creazione, consumo e smaltimento degli oggetti legati all’industria tessile è infatti prevalentemente basato su un procedimento che consiste semplicemente nell’estrarre le risorse, trasformarle in prodotto, venderle e, dopo un breve periodo destinato al consumo vero e proprio8, gettarle semplicemente in discarica. Il momento dello smaltimento è particolarmente problematico9.

Dal punto di vista simbolico, infatti, gli “scarti” dell’industria tessile contemporanea appartengono

a una economia simbolica non riducibile alla logica ristretta della loro utilizzazione cui fa seguito lo smaltimento. Soprattutto nella nostra epoca, i rifiuti mostrano modalità del vivere e dell’essere del mondo delle cose, in quanto “rottami”, cioè oggetti che hanno perso il senso e i discorsi di cui erano caricati socialmente […]. Oggi i rifiuti sono così costituiti da oggetti che reclamano un posto incontenibile eppur necessario nel mondo, e sono spesso loro a “raccontare” il lusso e la moda quale dispendio simbolico10.

È possibile intervenire in questo dispendio tanto simbolico quanto economico nonché decisamente poco sostenibile a livello ambientale? Il ritardo con il quale il mondo della moda sembra essersi mosso rispetto al problema della sostenibilità è indubbio. Scriveva Frisa alcuni anni or sono:

Il mondo della moda non si è ancora mostrato particolarmente sensibile al nuovo paradigma della sostenibilità rispetto ad altri settori che più direttamente ne sono stati toccati, come ad esempio la produzione dell’energia, l’automobile, il design e l’edilizia: la situazione di ritardo dipende da due fattori. In primo luogo nella mappa competitiva dell’abbigliamento i valori ambientali sono più periferici, rispetto ai settori che ho appena citato. In secondo luogo il mondo della moda ha creato e adottato un potentissimo modello di relazione con il mercato basato sull’evocazione, sull’immagine e sul sogno piuttosto che sui processi reali di produzione11.

Recenti “buone pratiche”, però, parrebbero dimostrare che nemmeno questo settore può più esimersi da un intervento concreto sui processi produttivi anche perché se oggi la sostenibilità rappresenta un elemento di differenziazione e di vantaggio per un prodotto con ogni probabilità nell’arco di una ventina d’anni al massimo l’utilizzo di pratiche green in fase produttiva sarà “semplicemente” una caratteristica necessaria per l’accesso al mercato di ogni tipologia di manufatto. La tendenza contemporanea, certamente amplificata dalle conseguenze della crisi globale del 2008 e della recente pandemia, sembra infatti orientata a considerare il rifiuto e, in genere, l’importanza della sostenibilità12, come un fattore passibile di una nuova integrazione nel ciclo della produzione, della creatività e della successiva commercializzazione dei beni vestimentari. Questo interesse si declina, fondamentalmente, in tre forme che coinvolgono in prima battuta la fase di creazione e di commercializzazione delle collezioni.

In primo luogo nel riciclo vero e proprio, vale a dire quel processo di trasformazione dei materiali finalizzato a reinserirli, attraverso nuove lavorazioni, in un nuovo ciclo di vita13. In secondo luogo nel riuso cioè nella pratica che, prevedendo il riutilizzo di prodotti, allunga il loro ciclo di vita e li ri-valorizza a livello simbolico rendendoli desiderabili per nuove categorie di consumatori e di mercati. In terzo luogo nel risparmio vale a dire nella riduzione nei processi produttivi del consumo di risorse in modo da abbattere i costi di produzione riducendo le emissioni inquinanti.

Riciclo, riuso e risparmio — tre strategie facilmente classificabili come la punta dell’iceberg in un’estetica del “ri” — non rappresentano ovviamente tre pratiche mutuamente esclusive ma, anzi, possono trovarsi insieme o in combinazioni diverse rappresentando la strategia del fair trade, il commercio equo e solidale che negli ultimi tempi è diventato per alcune imprese di moda un interessante marketplace da esplorare e promuovere. La combinazione di queste tre modalità di intervento sul problema degli scarti rappresenta la base per il fenomeno dell’upcycling.

Upcycling o sovra-riciclo: una definizione

Per scongiurare il rischio di un esaurimento delle materie prime e intervenire, contemporaneamente, in modo concreto sulle problematiche legate allo smaltimento degli scarti tessili, molte aziende del settore si stanno, almeno parzialmente, allontanando dai dogmi imposti dall’economia lineare sposando l’idea dell’upcycling. Questo modello produttivo, che rientra a pieno titolo nell’economia circolare, consiste nell’utilizzo di materiale di scarto tessile14, pre o post consumo, per realizzare prodotti di un livello merceologico superiore, da cui il suffisso up-, rispetto a quello di partenza. Nella fase creativa, insomma, vecchi capi o materiali di scarto vengono rielaborati, riadattati e in ultima analisi risemantizzati perché la loro stessa presenza conferisca un valore aggiunto al nuovo manufatto rendendolo “più prezioso” (e di conseguenza maggiormente desiderabile) rispetto all’oggetto originario15. Questo processo, che in lingua italiana si potrebbe tradurre “sovra-riciclo”16 rappresenta, concretamente, un modo per prolungare la vita di un prodotto ma è ancora più interessante a livello simbolico perché permette di intervenire sullo status iniziale dell’oggetto risemantizzandolo. La risemantizzazione permette di attingere alla carica simbolica del pezzo originale scomponendo il testo iniziale in segmenti di senso più piccoli che potranno poi essere remixati ad hoc creando nuovi significati tramite un procedimento che potremmo definire di raffinazione. Alcuni esempi concreti di questo procedimento saranno utili per comprendere meglio.

La capsule collection Upcycled by Miu Miu

Nell’ottobre del 2020 il brand Miu Miu17 ha lanciato sulle passerelle, per questa edizione virtuali, del Green Carpet Fashion Awards la capsule collection Upcycled composta complessivamente da 80 pezzi. Tutti i capi erano unici perché costruiti artigianalmente nei laboratori della maison a partire da pezzi d’abbigliamento selezionati in negozi vintage di tutto il mondo con l’unico comun denominatore dell’epoca di origine, il periodo compreso tra gli Anni 30 e gli Anni 80. Tutti i pezzi di questa collezione, poi resa disponibile in nove boutique del marchio18, sono stati dunque realizzati a partire da capi esistenti poi rimodellati e decorati a mano nello stile della maison.

Il progetto Recicla di Maison Margiela

Il progetto Recicla, ideato dal direttore artistico di Maison Margiela John Galliano con l’obiettivo di diventare un progetto continuativo del brand, ha invece debuttato nella collezione Autunno/Inverno 2020–2021. Recicla si colloca sulla stessa linea creativa del precedente Replica che, avviato nel 1994, proponeva riproduzioni fedeli dei pezzi vintage delle collezioni della maison. Questo nuovo progetto (inaugurato nella linea Artisanal del brand ma ora entrato ufficialmente nella linea prêt-à-porter del marchio) propone, però, un passo in più. Sfruttando in toto il processo produttivo del sovra-riciclo, infatti, ogni pezzo è realizzato a partire da un articolo vintage selezionato direttamente dal direttore creativo del brand che immagina per lui una seconda vita restaurandolo e ricondizionandolo destinandolo alla commercializzazione. Ciascun capo e accessorio, poi, si distingue grazie a un’etichetta bianca che lo identifica in maniera univoca specificandone l’edizione limitata, la provenienza e il periodo.

Nella prima collezione Recicla (FW 2020–2021) sono protagonisti pezzi vintage rielaborati tra cappotti tagliati per diventare colli e abiti ottenuti dall’assemblamento di capi d’abbigliamento diversi. Non mancano nemmeno gli accessori come le borse in vimini vintage (datate tra gli Anni 30 e gli Anni 70) e proposte dopo una trasformazione all’insegna dell’upcycling affiancate alle bag Recicla 5AC creati a partire dal recupero e riutilizzo di pelli pregiate.

Stilisti esordienti e upcycling

Nemmeno gli stilisti esordienti sono estranei al fascino dell’upcycling. La francese Marine Serre, cresciuta creativamente tra Alexander McQueen, Maison Margiela e Dior, si è impegnata nel sovra-riciclo fin dal suo debutto in passerella nel 2018. Nella collezione Primavera/Estate 2021 ha inserito il 45% di pezzi rigenerati e riciclati e ha inaugurato un canale YouTube19 nel quale mostra al pubblico del web come utilizza, concretamente, diversi oggetti pre-esistenti (come tappeti, tovaglie, lenzuola, asciugamani) per dar vita alle sue nuove creazioni.

Sulla stessa linea la filosofia creativa anche i brand Yekaterina Ivankova e 1/off Paris (remade) che recuperano abiti vintage, stock di magazzino e scarti di produzione perlopiù provenienti da brand iconici (come YSL, Chanel, Burberry, Ralph Lauren) riutilizzandoli per dar vita a capi capaci, nella loro visione, di connettere passato e futuro.

Upcycling artigianale su misura (Made in Italy)

In Italia tra le più interessanti realtà dell’upcycling si collocano due progetti decisamente artigianali che lavorano nella direzione del bespoke vero e proprio. Il primo è Decontoured di Kristina Spirk che invita la clientela a presentarsi nel suo atelier milanese portando con sé abiti ai quali si è molto legati ma che, per svariate ragioni, sono diventati inutilizzabili. La designer, quindi, studia per questi pezzi una seconda vita, basata sul passato dell’abito e sul vissuto di chi li dovrà indossare, scomponendoli secondo una tecnica che s’ispira a Picasso.

Il secondo è invece il progetto Rebride di Annagemma Lascari che lavora, invece, a priori proponendo alle spose di progettare l’abito per il matrimonio immaginandone già, fin dalla primissima fase creativa, una seconda vita. La volontà della stilista è dichiaratamente quella di attribuire all’abito da sposa una forte carica simbolica che porti con sé valori legati alla sostenibilità e al rispetto dell’ambiente.

Casi concreti a confronto: quali conclusioni possibili?

Questa rapida carrellata di casi concreti di upcycling nell’industria moda è utile per tentare di proporre una prima modellizzazione.

La strategia creativa che attingendo all’esistente propone nuovi artefatti è interessante, in primo luogo, se viene letta come una forma di riuso simbolico. Questo è il caso, per esempio, della capsule collection Upcycled di Miu Miu così come del progetto Recicla di Maison Margiela. Qui i brand attingono al passato rileggendolo alla luce della filosofia creativa del brand contemporaneo e creando un “ponte” tra ieri e oggi. La decisione di selezionare i capi da riadattare attingendo a una selezione no-logo permette ai marchi di iniziare una nuova narrazione capace di prescindere dai valori immateriali legati ai brand. Una simile scelta stilistica permette, insomma, tanto a Miu Miu quanto a Maison Margiela di riproporre in modo piuttosto generale e certamente ampio, i valori “del tempo che fu” riscrivendoli secondo un linguaggio strettamente attuale e brandizzato. Questa strategia non nega una certa nostalgia verso ciò che, genericamente, “è stato” (secondo un meccanismo che è tipico del vintage tout court) ma affianca a questo sentimento “classico” una nuova, e innovativa, proattività intervenendo concretamente, a livello sartoriale, con modifiche capaci di rendere palese la seconda nascita del capo, la sua modernità e soprattutto il suo posizionamento finale all’interno delle linee stilistiche e della filosofia del marchio.

La seconda tipologia di recupero dell’esistente, quella vista con i casi di Yekaterina Ivankova e 1/off Paris (remade), utilizza una strategia simile ma, rielaborando capi caratterizzati dall’iconicità della griffe originale, sfrutta il valore simbolico del primo brand accostando a questo l’innovazione creativa del secondo brand nonché la carica comunicativa dello stesso percorso di upcycling. La narrazione dei nuovi capi, quindi, presenta due livelli di possibile interpretazione: in primo luogo pone i due marchi esordienti in relazione con i brand iconici dai quali i capi sono stati creati, favorendo una sovrapposizione valoriale, e, in secondo luogo, evidenzia la modernità e la ricercatezza della tecnica utilizzata.

Nella terza tipologia di casi presentati (Rebride di Annagemma Lascari, Decontoured di Kristina Spirk e il lavoro di Marine Serre) le forme di riuso appaiono, infine, più “casalinghe” nonché caratterizzate da un marcato “utilitarismo” del prodotto finale. Questi processi creativi sembrano da un lato ispirarsi a una filosofia più classica del vestire etico e sostenibile, fondata sull’idea di produrre abiti con materiali naturali20, ma dall’altro lato affiancano a questa idea la seconda grande tendenza della moda contemporanea, vale a dire il ritorno dell’interesse dei consumatori verso il “fatto su misura”. L’unicità, tanto simbolica quanto concreta, dei capi (realmente “vissuti” ed esperiti da chi sceglie di modificarli) è il vero plus di una simile strategia che sottolinea la carica valoriale immateriale dei pezzi d’abbigliamento personali reinterpretati dalla creatività esterna. In sostanza, quindi, questo genere d’intervento sottintende un programma narrativo complesso all’interno del quale il valore di base (la comunicazione identitaria resa possibile dalla reinterpretazione di un capo preesistente già significante) si sovrappone al valore d’uso (il capo stesso riattualizzato).

I meccanismi, concreti, di codifica e successiva decodifica dei capi rielaborati secondo questo meccanismo che abbiamo definito di “sovra-riciclo” sembrano dunque potersi ricondurre, in termini generali, a queste tre categorie. Esiste, però, una sotto-categoria della terza classe vista qui, vale a dire quella alla quale appartengono i processi creativi di upcycling che, partendo da un oggetto realmente esperito, intervengono sulla sua forma di modo da creare un nuovo oggetto arricchito dalla carica simbolica di quello di partenza collocando il risultato di questo percorso nell’ambito artistico. Questa sottocategoria, in parte preannunciata dall’ispirazione picassiana che guida il marchio Decontoured di Kristina Spirk sarà l’oggetto della seconda parte di questa riflessione.

Moda, sovra-riciclo e arte

“La moda è la disciplina della contemporaneità che, in un linguaggio comprensibile e affascinante, esprime la complessità della modernità, con cui condivide la radice”21.

Lo scambio creativo tra arte e moda rappresenta un legame antico, consolidato e indissolubile. Pur essendo espressione di due mondi differenti (anche se, come visto, non completamente estranei), arte e moda spesso operano specularmente percorrendo talvolta strade che portano queste due realtà a incontrarsi e altre volte a sovrapporsi, quasi confondendosi l’una con l’altra. Caratterizzata da un alto grado d’ibridazione, la relazione tra arte e moda spesso è data per scontata22 ma si presta, al contrario, a proporsi come un interessante oggetto d’analisi interdisciplinare.

Proprio un caso specifico di questa correlazione sarà l’oggetto della seconda parte della riflessione proposta qui. L’obiettivo sarà quindi quello di focalizzarsi ancora una volta sul procedimento dell’upcycling a partire, però, dall’esperienza artistica (ancorché connessa al settore vestimentario) con la finalità di concentrare l’attenzione sulla riproposizione “di pregio”23 più strettamente legata a questo settore creativo.

Il sovra-riciclo rappresenta infatti, storicamente, un topos nel mondo dell’arte che spesso attinge a oggetti pre-esistenti reinterpretandoli e modificandoli. Gli esempi sono numerosi. Si pensi, per esempio, al Merzbau di Kurt Schwitters o, in epoca decisamente più recente, ai lavori della britannica Jane Perkins che, fin dal debutto nel 2006, basa la sua filosofia artistica sulla considerazione che, in natura, non esiste il concetto di “rifiuto” e dunque utilizza oggetti di scarto per reinterpretare opere d’arte classiche24.

Enrica Borghi

All’interno di questo fortunato filone artistico si colloca anche l’esplorazione creativa dell’italiana Enrica Borghi che già nella sua fase d’esordio si è concentrata sull’uso di materiali riciclati raccolti in aree tradizionalmente considerate parte del mondo femminile e domestico. L’artista nel 1995 ha infatti esposto alla Galleria Alberto Peola di Torino abiti da donna creati a partire da borse della spesa, etichette e carta da pacco e, nel 1999, ha portato al Museo di Arte Contemporanea di Rivoli La Regina. Installazione per i bambini, un abito regale interamente realizzato con bottiglie di plastica riciclate. Una simile scelta dei materiali di partenza, così come la decisione di creare, a partire dagli scarti selezionati, abiti femminili ha un indubbio valore simbolico. L’obiettivo comunicativo sembra essere, in questo caso, quello di narrativizzare un nuovo sentimento della visione capace di riscrivere tanto il significato degli oggetti di partenza quanto quello degli oggetti di arrivo. Borse della spesa, etichette e bottiglie di plastica diventano così abiti scintillanti o originalissimi capaci di invitare l’osservatore a indovinare le molteplici “vite” quotidianamente e inesorabilmente inglobate dall’involucro vestimentario.

Antonella Berlen

Anche l’ecodesigner Antonella Berlen realizza le sue opere nobilitando i rifiuti. Tra le sue esposizioni più interessanti il progetto Abiti dAmare tramite il quale l’artista pugliese crea installazioni vestendo i suoi manichini con pezzi dei tessuti portati dal mare e, nella maggior parte dei casi, appartenuti a migranti che hanno trovato la morte al largo della costa.

Il progetto, precursore di una serie di iniziative affini25, ha un indubbio valore simbolico perché utilizzando brandelli di stoffe effettivamente parte, in passato, del vestiario individuale ricostruisce una corporeità che assume una valenza universale e risponde all’obiettivo di restituire una dignità.

Entrambi i casi qui presentati rientrano a pieno titolo nell’ambito dei processi di upcycling anche se per questi non si tratta tanto di un avanzamento di classe a livello merceologico bensì piuttosto di un upgrade simbolico. Tutte e due le artiste, infatti, utilizzano come punto di partenza creativo materiali apparentemente senza valore economico e dalla carica simbolica difficilmente decodificabile modificando questo status di partenza con un investimento che è in primo luogo narrativo. La dinamica che lega gli oggetti originari a quelli finali è quella dello scambio, uno scambio che si attualizza tramite lo slittamento di significati culturali e idee creative. Le artiste, qui, sembrano infatti essere mosse dal desiderio di con-fondere le performance identitarie per legittimare, agli occhi della società, la stessa esistenza degli oggetti proposti costringendo la stessa platea di interlocutori a una riflessione (e a un conseguente processo di successiva decodifica) che non può guardare al prodotto finale senza riflettere sull’oggetto iniziale.

Conclusioni

Le riflessioni proposte qui a proposito del fenomeno dell’upcycling e i casi concreti di iniziative legate alla pratica del sovra-riciclo, sembrano proporsi come indicatori per una, possibile, nuova direzione di tutto il comparto della moda. Un simile cambiamento di paradigma potrebbe avere conseguenze considerevoli tanto a livello culturale quando a livello strettamente economico. In particolare guardare al trend dell’upcycling costringe, già oggi, a ri-guardare al concetto stesso del lusso legato ai fenomeni fashion. Se, storicamente, questa etichetta è stata perlopiù utilizzata per indicare una categoria di prodotti costosi e intrinsecamente preziosi, è vero che gli esempi proposti in questa riflessione sembrano modificare questa definizione classica suggerendo per il lusso un nuovo campo di applicabilità. Negli oggetti trattati con il processo del sovra-riciclo, infatti, al valore intrinseco dei materiali impiegati si sostituisce il valore estrinseco giacché a motivare la preziosità dell’oggetto sono più i valori astratti e simbolici dell’oggetto originale che le qualità strettamente materiali dell’elaborato finale. Questo, unito all’unicità dei prodotti (sempre proposti in pezzi unici), rappresenta la vera origine della loro desiderabilità e costituisce l’ossatura della successiva narrazione con tutti i meccanismi di codifica e di decodifica attuati tanto dell’emittente quanto, poi, dai destinatari (o target) in fase di ricezione e di eventuale, successivo, acquisto.

La commercializzazione della dimensione immateriale degli oggetti e la possibilità di sottolinearne (in primo luogo dal punto di vista comunicativo) l’unicità, sono i veri punti di forza dell’intero fenomeno che, inserendosi tanto storicamente quando temporalmente in un momento orientato alla sua ricezione e al suo successo, sta davvero traghettando la moda consapevole nella tanto auspicata direzione della sostenibilità.

Il rischio sotteso a un simile “trend” (destinato, però, con ogni probabilità a durare ben oltre la singola stagione modaiola) è quello comune a tante altre pratiche del marketing postmoderno spesso orientato a produrre identità ricreando ex novo, secondo una modalità che si potrebbe definire s-passionalizzata, delle forme vissute come autentiche e distintive da chi le sceglie e spesso già le sceglieva prima del loro successo. Questa spinta identitaria, fondamentale per la stessa sopravvivenza della moda e sotto certi aspetti della stessa collettività, è evidentemente guidata dalle logiche di mercato ma rischia di diventare piuttosto controproducente in casi specifici come quello qui considerato. L’ingresso nel mercato mainstream di correnti modaiole nate in un contesto di nicchia permette infatti, da un lato, di valorizzarle promuovendone la bontà agli occhi di consumatori provenienti da target trasversali, ma dall’altro lato, non può sottovalutare il rischio di conservarne solo l’aspetto estetico svuotandole dai contenuti che ne hanno reso possibile il successo. Il pericolo al quale si fa riferimento qui, insomma, è che all’affacciarsi del sovra-riciclo nel mercato della moda dominante si accosti un impoverimento dei valori simbolici di base dai quali questo fenomeno modaiola origina e nei quali affonda le sue radici. In questo senso, quindi, è importante, in ottica di un (auspicabile) crescente successo nell’immediato futuro della moda del sovra-riciclo, non sottovalutare il potenziale rischio di una s-passionalizzazione, intesa come la minaccia di un impoverimento valoriale, in fase produttiva.

Essendo quello dell’upcycling un fenomeno in pieno svolgimento, le previsioni sulle possibili derive future appaiono, però, irrimediabilmente sterili. Per il momento, data la quantità di buone pratiche e dato il grande interesse che questo fenomeno sta suscitando, tutto lascia infatti intendere che il settore moda potrebbe aver trovato una sua nuova dimensione nel macro-contesto della sostenibilità. Una dimensione destinata, tra l’altro, a proporsi come modellizzante anche rispetto ad altre pratiche culturali nella nostra modernità.

Bibliografia

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  1. Germano Celant, Tony Cragg (London: Thames & Hudson Ltd, 1996), 41.↩︎

  2. Georg Simmel, La moda, trad. Anna Maria Curcio (Milano: Mimesis, 2015).↩︎

  3. Ugo Volli, Contro la moda (Milano: Feltrinelli, 1989).↩︎

  4. Negli ultimi anni, sostanzialmente a partire dal 2013 dopo il disastro del Rana Plaza di Dacca in Bangladesh, si è parlato molto delle molteplici problematiche e dei danni provocati dal successo della fast fashion. In particolare si è discusso sulle responsabilità legate alla tutela dei diritti sul lavoro e a quelle legate all’inquinamento del pianeta. Mediamente il consumatore occidentale acquista circa 20 chili di vestiti ogni anno e il fabbisogno di abbigliamento continuerà a crescere, passando, stando alle stime, dalle 62 milioni di tonnellate nel 2015 a 102 milioni nel 2030. Le soluzioni per fermare, o quantomeno rallentare, questo meccanismo coinvolgono da un lato il consumatore e dall’altro lato l’azienda e si possono raccogliere all’interno della categoria della sostenibilità. https://www.wwf.ch/it/i-nostri-obiettivi/rating-wwf-industria-tessile-e-dellabbigliamento, consultato il 25/04/2022.↩︎

  5. Arjun Appadurai, Il futuro come fatto culturale, trad. Marco Moneta, Maria Pace Ottieri (Milano: Raffaello Cortina, 2014).↩︎

  6. Kate Fletcher, Moda, design e sostenibilità, trad. Antonella Bergamin (Milano: Postemedia Srl, 2018), 14.↩︎

  7. “A questo ostracismo si accompagnava, fin dal principio, la questione dalla sostenibilità legata, in origine, al concetto di privazione che poneva l’accento sul rispetto della natura e sul valore del lavoro mettendo in secondo piano l’originalità creativa accompagnata all’idea estetica, uno dei tratti considerati fino a quel momento come tra i più caratteristici dell’industria fashion”. Tartaglione, Clemente e Fabrizio Gallante “Il processo creativo nel sistema Moda”, 2012. https://issuu.com/gallante/docs/il_processo_creativo_nel_sistema_moda↩︎

  8. L’utilizzo fast degli oggetti di moda parrebbe rientrare nella dinamica di quelle élite economiche e sociali definite dalla sociologa Saskia Sassen come “formazioni predatorie”. Per un approfondimento si rimanda a Saskia Sassen, Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, Traduzione italiana di Nanni Negro (Bologna: Il Mulino, 2018).↩︎

  9. Fece un gran clamore il ritrovamento nel dicembre del 2009 a Manhattan, nei cassonetti collocati di fronte alle porte di servizio di due importanti catene di abbigliamento multinazionali, di alcuni borsoni e pacchi pieni di capi di vestiario nuovi (volontariamente lacerati di modo da risultare inservibili) destinati a diventare spazzatura. Lo scandalo che si generò dopo l’articolo pubblicato dal New York Times per ripercorrere l’intera vicenda fece emergere con chiarezza l’inconsapevolezza rispetto al valore del “rifiuto”, comune a svariate aziende di fast fashion (ma diffusa in molte realtà industriali contemporanee).↩︎

  10. Patrizia Calefato, La moda e il corpo. Teorie, concetti, prospettive critiche (Roma: Carocci, 2021), 137.↩︎

  11. Maria Luisa Frisa, Le forme della moda (Bologna: il Mulino, 2015), 91.↩︎

  12. Stando alle indicazioni rivolte all’industria tessile e dell’abbigliamento orientata verso un mondo ecosostenibile diffuse dal WWF i principali ambiti di intervento per il settore sono tre: efficienza ecologica (interventi mirati nella catena di creazione a livello di consumo di acqua, inquinamento idrico, protezione del clima e prodotti chimici), innovazione e trasformazione (tramite l’attivazione di nuovi modelli di business e l’impiego di tecnologie innovative per ridurre al minimo il consumo di risorse e l’impatto negativo sull’ambiente); consumo sostenibile (grazie alla scelta di modalità alternative come la condivisione, lo scambio o il riciclaggio dei capi di abbigliamento orientate a una riduzione del consumo). https://www.wwf.ch/it/i-nostri-obiettivi/rating-wwf-industria-tessile-e-dellabbigliamento, consultato il 24/04/2022.↩︎

  13. L’esempio classico di riciclo legato all’industria della moda è quello delle bottiglie in Pet che vengono trasformate in filati e poi utilizzati per fare tessuti come il pile, imbottiture o materiali compositi. A questa prassi “storica” si sono affiancate negli ultimi anni molte nuove forme di riciclo creativo che verranno brevemente presentate nel prosieguo di questa riflessione.↩︎

  14. Per quanto alcuni casi nel passato appaiano oggi come precursori di questa tendenza nel passato (si pensi per esempio all’azienda svizzera Freitag che, fondata dal designer Markus Freitag, ha debuttato nel mondo della moda producendo borse ricavate da vecchi teloni di camion) nel successo, strettamente attuale, di questa pratica ha certamente avuto un’importante influenza la recente pandemia globale. Questa, da un lato, ha reso difficile il reperimento di nuovi tessuti e, dall’altro lato, ha causato scorte in eccesso — provenienti dalle collezioni Primavera/Estate 2020 — più che doppie rispetto alla media. La fashion industry si è trovata così, inevitabilmente, a dover esplorare il mondo del “riciclo creativo” e, subodoratene la bontà a diversi livelli, l’ha reso un autentico trend di stagione. Alcuni esempi “concreti” di questa tendenza che non ci sarà modo di approfondire in questa sede sono, per esempio, l’eco-pelliccia fatta con i lacci di scarpe da Balenciaga, la collezione di capi outdoor di Marni realizzati con la tecnica del patchwork da vecchi indumenti del brand, la capsule collection Made in Britain di JW Anderson interamente realizzata con tessuti e finiture eccedenti delle passate stagioni o, ancora, la collezione SS 2021 di Gabriela Hearst con un 60% di pezzi riciclati.↩︎

  15. Ci si concentra qui, e nelle analisi che seguono, sulle strategie di upcycling attuate dalle aziende del settore ma resta inteso che una simile tattica può essere adottata anche in versione “home Made”. Il consumatore, infatti, può optare per un’opzione socialmente ed ecologicamente consapevole decidendo di modificare artigianalmente i propri indumenti usati trasformandoli in qualcosa di diverso. L’obiettivo resta il medesimo: favorire e incentivare il riuso di quello che è già stato realizzato per arginare la sovrapproduzione.↩︎

  16. La più comune traduzione italiana del termine upcycling è “riciclo creativo”. Questa perifrasi, a mio parere, non rende però conto del valore aggiunto (tanto simbolico quanto espressamente commerciale) che l’oggetto originario acquisisce proprio grazie a questa trasformazione. Per questo, ipoteticamente, propongo qui di parlare piuttosto di “sovra-riciclo”.↩︎

  17. Questa iniziativa si inserisce all’interno di una più ampia strategia orientata alla sostenibilità del marchio Prada che già nel 2019 aveva lanciato la linea Re-Nylon creata riciclando reti da pesca e altri elementi di scarto.↩︎

  18. Precisamente nei flagship store di Milano, Londra, Parigi, Mosca, New York, Shanghai, Hong Kong, Tokyo e St. Moritz.↩︎

  19. Marine Serre YouTube Channel, accessed January 29, 2022, https://www.youtube.com/channel/UCy2NRkQOETUmw8QKFw1zfhQ/videos.↩︎

  20. In primo luogo cotone, cashmere riciclato, lana, bambù e soia. Per un approfondimento si rimanda a Patrizia Calefato, La moda e il corpo. Teorie, concetti, prospettive critiche (Roma: Carocci, 2021).↩︎

  21. Maria Luisa Frisa, Le forme della moda (Bologna: il Mulino, 2015), 73.↩︎

  22. Gli eventi artistici rappresentano un caso emblematico di questa sinergia: premiazioni e festival culturali di vario genere, soprattutto se di grandi dimensioni, devono infatti spesso la loro fortuna mediatica non solo all’interesse generato dalla forma d’arte che celebrano, ma anche al loro proporsi (letteralmente) come ri-vestiti dai fenomeni di moda.↩︎

  23. Il termine “pregio” va inteso qui nel senso proposto da Calefato (2021, 140) come qualcosa che “ha a che vedere con una dimensione più intima, più legata alla qualità di un oggetto o di un bene naturale, svincolata, per quanto possibile, dalla natura di merce che questo ha”.↩︎

  24. Tra le sue interpretazioni più apprezzate la riproposizione de La Gioconda di Leonardo da Vinci, Notte stellata di Van Gogh, Bacio di Gustav Klimt e, ancora, della Grande Onda di Hokusai.↩︎

  25. Nel mese di febbraio 2022, per esempio, è stato presentato il “Violino del Mare” che fa parte del progetto “Metamorfosi” ed è il primo violino al mondo interamente ricavato a partire dal legno dei barconi usati dai migranti per i viaggi della speranza.↩︎