ZoneModa Journal. Vol.11 n.2 (2021)
ISSN 2611-0563

Il Museo della Moda di Napoli: fuori e dentro i depositi

Lucia De MartinoUniversità della Campania “Luigi Vanvitelli” (Italy)

Pubblicato: 2021-12-16

Introduzione

In Italia la presenza in città di musei dedicati alla moda è ormai un fenomeno diffuso e ciò interessa anche Napoli, che dal 2003 ha il suo polo espositivo dedicato al tessile e all’abbigliamento, in una zona al margine del centro storico, tra i quartieri spagnoli e il corso Vittorio Emanuele.

Il “Museo della Moda di Napoli”, ubicato in piazzetta Mondragone, in un sito a mezza costa poco connesso ai comuni transiti turistici, occupa una struttura che sin dal 1655 accoglieva nobildonne senza dote, ragazze bisognose e vedove sole, togliendole dalla condizione di povertà attraverso l’insegnamento del cucito e del ricamo. Il “Ritiro per matrone vergini e oblate” era un’istituzione autonoma dal punto di vista economico, poiché retto dalle sole rendite della fondatrice, la duchessa Elena Aldobrandini (1589–1663), e dalle donazioni di molteplici signore della nobiltà napoletana. Le attività del Ritiro subirono, però, ben presto un’interruzione: agli inizi dell’Ottocento l’effetto delle leggi di soppressione di Giuseppe Bonaparte, lo portarono in uno stato di profonda crisi di identità, travolto dai processi di laicizzazione avviati dal governo francese. Dopo l’Unità d’Italia, con decreto del re, il Ritiro divenne “Reale Istituto di Mondragone”; passò alle dipendenze del Ministero della Pubblica Istruzione, che nel 1898 ne modificò lo statuto e la titolazione in “Istituto Educativo Femminile Mondragone”, per sottolinearne la principale funzione formativa. Lo scoppio delle guerre mondiali ha reso, poi, il mantenimento di questa struttura sempre più difficile e solo dopo la fine del secondo conflitto, l’Istituto Educativo Femminile Mondragone ha ripreso la sua opera educativa delle nuove generazioni, puntando nuovamente sulla formazione nell’arte del cucito e del ricamo1.

La Fondazione Mondragone è l’ente pubblico senza scopo di lucro che gestisce il Museo, la chiesa di Santa Maria delle Grazie e gli annessi giardini. Grazie all’opera di restauro compiuta tra il 1999 e 2002 a cura della Regione Campania, il sito è risorto dalle sue ceneri e dal 2003 è divenuto Polo Regionale della Moda, riconosciuto quale Museo di Interesse Regionale, nonché Polo Regionale della Moda femminile che nel 2019 ha assunto l’appellativo di “Museo della Moda di Napoli”, riaprendo con un nuovo allestimento espositivo2.

Si tratta di un museo di carattere pubblico, data la natura dell’ente che lo gestisce e, in quanto tale, soffre di tutte le problematiche derivanti dall’amministrazione statale. È alimentato esclusivamente dalle rendite derivanti dagli immobili di proprietà e le attività culturali promosse sono gestite mediante contributi, concessi dalla Regione o da enti pubblici. A complicare tale stato di fatto si aggiungono i continui tagli alla cultura operati negli ultimi anni dal governo. Peraltro, al confronto con molti musei italiani dediti alla promozione della moda, in questo caso emergono gli svantaggi derivanti dal non essere una realtà “aziendale”: basti pensare ai musei Ferragamo, Gucci o Armani che investono su sé stessi per valorizzare l’identità del proprio brand sulla scorta della lunga storia di cui sono stati protagonisti. Contrariamente, il Museo napoletano fonda la propria forza sulla qualità dei patrimoni raccolti dalle famiglie napoletane. La peculiarità del suo patrimonio, infatti, è quella di essere frutto di continue donazioni da parte di esponenti della moda campana e di famiglie dell’aristocrazia locale che, consapevoli dell’enorme ricchezza culturale di ciò che possiedono, si sono dimostrati desiderosi di offrirlo a un’istituzione che potesse divulgarlo e tramandarlo. Ha, quindi, un carattere in progressivo mutamento che, in presenza di adeguate risorse, consentirebbe di rinnovarne di volta in volta le esposizioni. È un luogo unico, una sorta di “museo contenitore” per l’ingente quantità di capi e accessori accumulati nel corso degli anni — forse pure casualmente — di qualità e natura molto eterogenee, la cui esposizione si complica, non solo in mancanza di risorse, ma soprattutto in ragione del fatto che l’ente è sprovvisto anche di uno specifico staff di ricerca. Ma d’altro canto non conservarli o meglio accoglierli nella sede che si definisce come il Museo della Moda sarebbe un sacrilegio. Il confine tra “contenitore di storia” e “luogo di dismissione” è dunque diventato labile perché, purtroppo, in molti casi gli abiti sono confluiti nelle collezioni del museo privi della propria documentazione (iconografica o testuale) utile a ricostruire il contesto culturale e storico in cui i manufatti sono nati o vissuti. Ma restano comunque documenti che testimoniano un tempo, una storia utile a narrare il lungo percorso della storia dell’abbigliamento e delle arti a esso connesse.

Fuori

In questo quadro complesso e ottimista si sono strutturati nel tempo un’esposizione permanente e degli spazi utili ad accogliere eventi speciali. Sfruttando gli ambienti dell'antica struttura seicentesca, tra il primo e il secondo piano del palazzo, secondo un’articolazione cronologica, si susseguono i capi — originali o ricostruiti — che sintetizzano per grosse linee l’evoluzione della storia del costume e della moda italiana (Fig. 1). Accanto a esemplari autentici di fine Ottocento e inizio Novecento, c’è una raccolta più consistente di abiti risalenti alla seconda metà del Novecento, tra cui si distinguono le creazioni di rinomate sartorie cittadine, quali Cassisi e Maria Consiglio Fashion, nonché una collezione di circa cento cappelli appartenuti a Caterina Gangemi, pianista e gentildonna del secolo scorso. Seguono una ricca collezione di tessuti di manifattura leuciana3 e una sala dedicata alla guanteria, antica manifattura di eccellenza territoriale, sorta nei vicoli del rione Sanità. Più ricche sono le sale dedicate a Livio De Simone (1920–1995) e a Fausto Sarli (1927–2010), con lavori che solo sinteticamente illustrano le qualità creative dei due grandi maestri della moda napoletana, perché la ridotta capienza degli spazi disponibili, rimasti inalterati rispetto all’articolazione originaria, ha imposto di lasciarne una ricca campionatura nei depositi.

Figura 1: Museo della Moda di Napoli

Dentro

Ciò che è esposto al pubblico è, dunque, solo una piccola sezione del ricco patrimonio di cui il Museo è diventato progressivamente custode: la gran parte si trova nei depositi, in attesa di essere conosciuta, riscoperta e valorizzata. Sinteticamente si può dire che nel Museo alla moda “in mostra” si accompagna quella “nascosta”, disposta in due generici depositi, uno destinato ad accogliere biancheria, accessori e una ricca collezione di merletti — in gran parte donata dalla famiglia Pignatelli — e un altro in cui sono custoditi i capi di abbigliamento catalogati in base alle donazioni di provenienza. In quest’ultima serie, oltre alla già citata restante parte della collezione Sarli e ad altre testimonianze della produzione di Livio De Simone, si distinguono esemplari unici di capi d’abbigliamento risalenti al XIX e XX secolo. Complessivamente qui si contano più di cinquanta collezioni, tra abiti femminili di couture e prêt-à-porter, oltre a un esemplificativo gruppo di capi maschili e uno di abiti da sposa.

Oltre le apparenze

Per rendere questo complesso patrimonio meno generico e confuso, in occasione di un recente lavoro di tesi di laurea magistrale4, si è compiuta un’indagine analitica dei manufatti sartoriali femminili apparentemente “nascosti” nei depositi, mettendo in luce esemplari di collezioni create da atelier cittadini tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, quali Claire Juteau (Fig. 2), Buccafusca, Concettina Buonanno, Di Fenizio e Assuntina. Una ipotesi di lettura di questo articolato repertorio di manufatti che ha consentito di inquadrare sotto una nuova luce la produzione di sartorie di primo piano nel contesto napoletano — in alcuni casi addirittura fornitrici ufficiali della Casa Reale Italiana — la cui storia manifatturiera perdura sino all’affermazione del prêt-à-porter o anche fino agli anni Ottanta del Novecento. Gli esemplari in custodia sono appartenuti a svariati nomi, più o meno noti, dell’alta società napoletana: tra loro spiccano la nobildonna Adelaide del Balzo Pignatelli, dama di corte di Margherita di Savoia; la contessa Melina Pignatelli della Leonessa, moglie del duca Carlo Pignatelli; la signora Luisa Bruni, importante personalità della Napoli degli anni Settanta; mentre una serie numerosa proviene direttamente dalla sartoria di Giuseppe Buccafusca, mediante la donazione fatta dalla figlia di Vera Buccafusca, Angela Ansalone.

Per riuscire a stimare il valore di questa parte del patrimonio museale si è cercato di definire il profilo professionale di queste sartorie ancora poco studiate, soffermandosi poi sulla osservazione degli accorgimenti sartoriali adottati da ciascuna, aspetti tecnici in genere non analizzati, che rendono visibili quella perizia e quella sapienza manuale che altrimenti rimarrebbero invisibili, ma che sono estremamente necessari ai fini di una appropriata conoscenza del patrimonio materiale. Una lettura nuova di questi manufatti, che si è servita di apposite elaborazioni grafiche, utili a raccontare la storia di un saper fare napoletano di antichissime origini e a rivelare informazioni propedeutiche sia alla corretta conservazione dei capi stessi, sia alla stima oggettiva del loro valore testimoniale. Indagare il prodotto tessile e vestimentario in ogni suo aspetto vuol dire coniugare interesse storico-artistico e nozioni tecnico-pratiche, in un’esperienza che può risultare di interesse sia per i visitatori più esperti che per il pubblico più ampio mediante l’ausilio di adeguati strumenti di comunicazione.

Lo sguardo ravvicinato al patrimonio nascosto ha costituito un’operazione in nuce di open storage, confermando la validità di questa ipotesi di indagine. Risalgono proprio agli ultimi anni le sempre più frequenti “rivelazioni” al pubblico dei patrimoni custoditi nei “polverosi” depositi di musei molto noti come l’Archeologico di Napoli, il Boijmans Von Beuningen di Rotterdam — che ha aperto al pubblico i suoi depositi in una forma del tutto inedita creando uno spazio a sé stante visitabile da tutti — e la Pinacoteca Reale Mauritshuis de L’Aia. I depositi del “Museo della Moda di Napoli” meriterebbero un trattamento analogo. Nella difficoltà di un allestimento monografico per l’eterogeneità dei materiali custoditi, seguendo un progetto critico coerente sarebbe auspicabile la costruzione di percorsi di visita tematici rivolti a quella fetta di pubblico che di recente mostra sempre più interesse verso esperienze meno “tradizionali” che consentono la scoperta del gusto e anche del saper fare di lavori di antica origine, come quello del sarto.

Figura 2: Museo della Moda di Napoli, abito in deposito della sartoria Claire Juteau proveniente dalla donazione Adelaide del Balzo Pignatelli, dettaglio interno camicia, sartoria Claire Juteau, inizio XX secolo

Conclusioni

Per il “Museo della Moda di Napoli” è quindi opportuno ripensare al concetto stesso di museo e al suo utilizzo in chiave contemporanea: non più mera galleria espositiva, ma luogo concepito per mettere in connessione il pubblico con tutto ciò che esso custodisce, in un’ottica di apertura totale del sito, dove preservare e condividere si sovrappongono, e dove confluiscono gli strumenti e i linguaggi più aggiornati dell’allestimento museale. Il contributo della digitalizzazione apre, come noto, scenari dal grande potenziale comunicativo e culturale, risolvendo per certi versi anche le difficoltà imposte da spazi circoscritti e da esigenze di allestimento complesse: fornisce strumenti di lettura, rende percepibile l’impercepibile e aggiunge una nota di attualità ormai indispensabile per i poli culturali che devono superare il tradizionale valore educativo e conservativo, conquistando maggiore attrattiva da parte di fruitori esperti e non.

Bibliografia

“Fondazione & Statuto.” Museo della Moda di Napoli. Accessed April 5, 2021, https://museodellamodanapoli.com/fondazione.

De Martino, Lucia. Segreti di sartoria: una ri_scoperta nei depositi della Fondazione Mondragone. Tesi di Laurea in Design per l’Innovazione. Dipartimento di Architettura e Disegno Industriale, Università della Campania Luigi Vanvitelli, relatore prof. Ornella Cirillo, maggio 2021.

Frattali, Arianna. “La Fondazione Mondragone di Napoli.” In Moda e mode: Tradizioni e innovazione (secoli XI–XXI). Volume III: Società, edited by M. R. Pelizzari. Milano: FrancoAngeli Editore, 2020.

Musella Guida, Silvana. “L’industria tessile campana.” In Armonie Tessili. La collezione di Tullia Passerini Gargiulo. Napoli: Edizioni Fondazione Mondragone, 2004.


  1. Arianna Frattali, “La Fondazione Mondragone di Napoli” in Moda e mode: Tradizioni e innovazione (secoli XI–XXI). Volume III: Società, ed. M. R. Pelizzari (Milano: FrancoAngeli Editore, 2020).↩︎

  2. “Fondazione & Statuto,” Museo della Moda di Napoli, accessed April 5, 2021, https://museodellamodanapoli.com/fondazione.↩︎

  3. La raccolta, appartenente alla nobildonna Tullia Passerini Gargiulo, è costituita da tessuti ascrivibili a manifatture campane risalenti dalla fine dell’Ottocento ai primi cinquant’anni del Novecento. Silvana Musella Guida, “L’industria tessile campana,” in Armonie Tessili. La collezione di Tullia Passerini Gargiulo (Napoli: Edizioni Fondazione Mondragone, 2004).↩︎

  4. Lucia De Martino, Segreti di sartoria: una ri_scoperta nei depositi della Fondazione Mondragone, tesi di Laurea in Design per l’Innovazione (Dipartimento di Architettura e Disegno Industriale, Università della Campania Luigi Vanvitelli, relatore prof. Ornella Cirillo, maggio 2021).↩︎