ZoneModa Journal. Vol.11 n.2 (2021)
ISSN 2611-0563

Vestire è un po’ partire. Embricazioni di moda e turismo in Italia dal periodo postbellico agli anni Settanta

Vittoria Caterina CaratozzoloSapienza - University of Rome (Italy)

She teaches Fashion Theory within the Master Program in Fashion Studies at “Sapienza” University of Rome. She has extensively written on Italian fashion and her current research topics include the decolonization of fashion. Among her recent publications are: “Monica Bolzoni’s Bianca e Blu. A Maieutic Approach to Style”, in Bianca e Blu Monica Bolzoni, Davide Fornari ed., Ecal /Rizzoli: Losanna, New York, Milano: 2019; “Il Mappamodello di Nanni Strada: “unire mondi differenti nelle fasi del progetto”, in Dobras, Vol. 11, N. 24, 2018.

Pubblicato: 2021-12-16

Abstract

The article explores the modalities through which the Italian fashion, primarily connotated by a deep-seated relationship with its own territory and cultural heritage, chooses exotic countries and cultures as the most alluring scenarios for its own representations. This paradigmatic shift illustrates how Italian fashion — in the aftermath of World War II and through an ongoing process of internationalization — acknowledged its own creativity; and, in addition, it reveals the modalities Italian sartorial language appropriated atmospheres and styles connected to distant places. From this vantage point, the main domestic and international fashion magazines offered an innovative representation of clothing and territories to the imaginary and material fruition of fashion and tourism as well. This shift was punctuated with cultural ambivalences revealing how the sartorial research was entagled with exoticizing and self-exoticizing feelings and attitudes oscillating between inspiration and appropriation in the wider framework of ethnocentrism.

Keywords: Italian Fashion; Ethnocentrism; Exoticism; Tourism; Journey-form.

“In tutta la letteratura sui viaggi, la distanza
tra la rappresentazione e colui che rappresenta è minima”.

Stephen Greenblatt (Meraviglia e possesso)

“L’esotismo non è la condizione caleidoscopica del turista… ma la reazione di vivace curiosità all’urto di una individualità forte contro un’oggettività di cui essa percepisce e degusta la distanza”.

Victor Segalen (Saggio sull’esotismo)

“Ho fatto un viaggio per vedere cose meravigliose. Un cambiamento nello scenario. Un cambiamento nel cuore. E sai una cosa? Cosa? Sono ancora là. Ah, ma non saranno là ancora per molto. Lo so. Ecco perché ci sono andata. Per dire addio. Quando viaggio, è sempre per dire addio”.

Susan Sontag (Giro turistico senza guida)

Il motto Vestire è un po’ partire, coniato dalla giornalista di moda Isa Vercelloni per presentare la collezione uomo 1976/77 dello stilista Walter Albini, riassume con la forza di un emblema la relazione che, di fatto, si è progressivamente stabilita tra moda e viaggio fin dalla fase di rilancio dell’Italia, successiva al secondo conflitto mondiale. Nel servizio, presentato sul catalogo «Uomo La Rinascente» nel novembre del 1976, lo stilista indossa da performer i propri modelli e si fa ritrarre da diciotto fotografi in una variegata serie di pose. In particolare, l’obiettivo di Serge Libiszewski mette incisivamente a fuoco l’immagine di Albini come prototipo del viaggiatore-turista, con gli immancabili stivaletti, gli occhiali da sole e la macchina fotografica. Il ritratto, nella sua valenza materiale e simbolica, suggerisce quanto la moda, quale dispositivo di finzionalizzazione delle vite, rimandi elettivamente a un’esperienza di mobilità. La filosofia del prêt-à-porter di Albini è infatti imperniata sulla strategica corrispondenza di progetto sartoriale e invenzione del personaggio, nesso dinamico che articola non solo il rapporto tra fruitore/trice e abito, ma anche tra la persona, il look e l’ambiente.

Da questa postazione concettuale, che per un verso inaugura la stagione dello stilismo e, per l’altro, conclude un processo evolutivo iniziato alla soglia degli anni Cinquanta, l’articolo intende osservare come sul terreno della moda siano man mano emersi campi di incidenza e coincidenza tra l’immaginario sartoriale e quello della pratica turistica, entrambi presi nella morsa di una crescente democratizzazione. L’indagine si dispone così a dispiegare le modalità narrative che, sulle pagine delle maggiori riviste di moda nazionali e internazionali dal periodo postbellico ai primi anni Settanta, hanno intercettato aree di contatto tra moda e turismo, e si chiede se questa occorrenza emerga all’intersezione tra la forma-viaggio, quale principio compositivo, e la pratica creativa sartoriale.

La moda italiana del dopoguerra, non più confinata dalla politica autarchica del regime nell’hortus conclusus della nazione, riconfigura la propria immagine non solo attraverso un rinnovato rapporto primario con il proprio territorio e patrimonio culturale, ma anche con attraversamenti intercontinentali che la portano a confrontarsi con modalità vestimentarie, stili di vita e culture alle più diverse latitudini, come dimostra, ad esempio, l’interesse a lungo manifestato per il sari1. Viene così attivato un processo di internazionalizzazione non privo di ambivalenze culturali dove la misura della ricerca stilistica si mescola a un ampio spettro di sentimenti e attitudini esotizzanti e auto-esotizzanti che fluttuano con ricadute etnocentriche tra i motivi dell’ispirazione e quelli dell’appropriazione.

Italia internazionale

Bisogna attendere il mese di luglio del 1947 prima che Michelangelo Testa, direttore della nuova edizione della rivista d’alta moda Bellezza, inaugurata nel novembre del 1945, si disponga a voltare pagina rispetto ai traumi provocati dal regime e dalla guerra e dia avvio al rilancio dei settori creativi del paese. Nell’articolo “Italia internazionale” detta le linee guida necessarie perché la nazione riguadagni una posizione di dialogo culturale rispetto al nuovo assetto geopolitico della moda:

Nel famoso ventennio le imposizioni si susseguivano con un ritmo incalzante; ci si voleva insegnare, dicevano, uno “stile di vita”. […] La vita ufficiale si svolgeva secondo una regia impeccabile, ma la vera vita di tutti noi era molto lontana da quello ‘stile’ che volevano imporci. Fu quello il tempo di un’esterofobia programmatica, senza discriminazioni o quasi: bandite perfino le parole straniere di uso più comune e sostituite spesso con parole di nuovo conio umoristiche per di più; proibito leggere, in molti casi, autori stranieri di grande importanza; vietata la proiezione di pellicole cinematografiche in edizione originale. […] Abbiamo continuato a vivere nella sola speranza di poter un giorno congiungerci ai popoli veramente liberi; e la voce di questi popoli ci arrivava talora per vie nascoste come promessa e incitamento. Ora siamo anche noi, o dovremmo esserlo, un popolo libero; nessuno può imporci uno stile di vita. […] Ecco un’ottima occasione per tornare ad essere noi stessi; possiamo infatti guardare oltre le frontiere per aggiornarci e imparare. Quando è il caso possiamo perfino imitare", mantenendo tuttavia i tratti specifici della nostra personalità. C’è modo e modo di internazionalizzarsi […]. Noi italiani abbiamo un modo di sentire e di esprimerci che è distinto: l’ambiente e la tradizione lavorano segretamente a costruirci una inconfondibile personalità che si ritrova nei nostri atti, nel gusto, nel prodotto del nostro lavoro2.

È sul terreno dialettico tra modernità e tradizione che la moda italiana riconfigura una sua prima dimensione rappresentativa. Il patrimonio culturale, spettacolarizzato nelle città d’arte e nelle vedute pittoresche, che per secoli hanno caratterizzato l’immagine del paese, accompagna e legittima l’iniziale promozione della moda italiana, ancora alla ricerca di una propria individualità di stile capace di attivare nell’interlocutore straniero un’autentica dimensione desiderante. Voltate le spalle all’isolamento imposto dalla politica autarchica del regime, i creatori di mode di nuova e vecchia generazione sono chiamati a intraprendere un cammino di consapevolezza e di sperimentazione sartoriale, che permettesse loro tanto di ricostruire e rilanciare il settore, ancora per lo più a carattere artigianale ed elitario, quanto di affermarsi sul mercato internazionale fronteggiando il rapporto di dipendenza dalla couture francese – annosa problematica che era, a diverso titolo, condivisa con gli autori di altri paesi europei.

Qualche anno più tardi, è la giornalista Elsa Robiola nell’articolo “Con la regia di Venezia” (1954) a riassumere con efficacia le strategie che hanno nel tempo dato forma alla politica di promozione dell’Italia postbellica, annodando indissolubilmente moda, arte e turismo:

La moda in Italia – non è la prima e non sarà l’ultima volta che lo diciamo – sta costruendosi una base di prestigio. E se questa base è già sufficientemente solida, ciò è dovuto anche all’enorme prestigio di cui godono all’estero alcune nostre città. Roma, con un potere di suggestione e di attrattiva che ha origini remotissime, suffragate dalla letteratura, dall’arte, dalla poesia mondiali; Firenze, con altrettante influenze antiche e recenti, sulle quali ha fatto leva da quando ha deciso di capeggiare un movimento di richiamo sulla moda dei nostri giorni; Venezia, con una forza calamitante che addirittura si avvicina alla stregoneria. Alle città si sono aggiunte, nel dopoguerra, le isole più o meno note. Per usare un’espressione moderna, che piace molto alle nuove generazioni, diremo che è proprio la “regia” di queste città o di queste isole italiane, una delle ragioni che facilita le presentazioni di moda e ne sospinge la documentazione tele-foto-cinematografica in tutto il mondo. […] è sul concetto della regia unica, inconfondibile, che la moda di un popolo può avere a differenza di tutti gli altri, che noi insistiamo perché le donne italiane siano le prime a valersene, a compiacersene e, in un certo senso, a rendersene interpreti, in tutte le circostanze3.

La giornalista mette in luce l’incisiva funzione mitopoietica dei media che, interagendo con sinergia sull’una e sull’altra sponda dell’Atlantico, giocano un ruolo primario nelle attività di rilancio del belpaese. Un considerevole contributo alla rinascita è fornito dagli effetti positivi dell’incipiente industria del turismo, principalmente di nazionalità statunitense, che conclude in buona parte quel che restava della pratica del viaggio di formazione, a lungo sedimentata nell’esperienza elitaria del Grand Tour. Si inaugura così un articolato consumo turistico dei luoghi che dallo sguardo, mediaticamente costruito, precipita tout court nell’acquisto di un abito, di un paio di scarpe, di una borsa o ancora di un monile fatti in Italia.

Le pagine delle maggiori riviste nazionali e internazionali aggiungono al palinsesto iconografico del paese gli scatti fotografici pronti a rieditare paesaggi, siti archeologici, monumenti, spazi museali quali locations dei servizi di moda: “Il Borromini, più Vogue, il Bernini, più Harper’s Bazaar”4, osserva con lungimiranza la giornalista Irene Brin commentando la presenza di Dalì a Roma, nel 1948, incaricato da Luchino Visconti di disegnare i costumi per la regia di As you like it. Una combinazione di elementi, quella intercettata da Brin, che informa la singolare sintassi rappresentativa di uno scenario artistico-culturale dove la moda “non giunge”, per dirla con le parole di Simmel, “come un destino esterno”5.

La lezione statunitense

Un’affinità elettiva tra forme espressive e comunicative crea la circostanza di una composita narrazione dove ogni definizione di italianità si dà all’interno di una rete di relazioni che ha visto i protagonisti della moda italiana confrontarsi primariamente con le sollecitazioni della cultura e dell’industria dell’abbigliamento statunitense. Tanto per la moda, quanto per il turismo, molto si deve al ruolo intermediario giocato dalle riviste, in primis Vogue America e Harper’s Bazaar, il cui fondamentale contributo, oltre ad affiancare gli aiuti economici e tecnologici elargiti dal Piano Marshall volti alla ricostruzione del settore, ha sostanzialmente lanciato una sfida alla creatività sartoriale del paese attraverso l’orchestrazione di una più intrigante politica dello stile tra le due sponde dell’Atlantico. Entrambe le prestigiose riviste eleggono delle editors6, quali figure intermediarie, rappresentative della cultura e della moda dei singoli paesi europei, con il compito di creare e alimentare il rapporto tra i creatori di mode continentali e la fiorente industria della moda statunitense, definita da Elsa Robiola come “la più grande divoratrice di modelli”7. Non si trattava soltanto di ridar vigore alla produzione, fiaccata dal protrarsi dal secondo conflitto mondiale, apportando linee di gusto europeo – come del resto era stato suo costume sin dalla fine dell’Ottocento, quando i buyers dei department stores si recavano puntualmente a Parigi per acquistare le nuove collezioni – ma, anche, di intervenire sulla concezione sartoriale dell’abito “fatto in Italia” con immediati esiti sullo stile, sulle modalità produttive e sul consumo. Un modello, come accade per un testo, poteva essere difatti tradotto dai manufacturers del potente Garment District newyorchese, e si dà il caso che il termine usato in inglese per il processo di adattamento fosse letteralmente translation. La revisione del design dell’abito, al vaglio della rodata industria della moda statunitense, era indirizzata a dispiegare le virtualità del modello e a studiarne una più ampia versatilità di utilizzo con buona ricaduta sulla commercializzazione. Elsa Robiola si chiedeva a questo proposito sulle pagine di Bellezza se non fosse giunto il momento di prendere in considerazione, per il futuro della moda italiana, l’insegnamento che veniva da un paese “che non veste come noi, ma da noi prende idee per controbattere la lezione di come noi dovremo vestirci in avvenire”8. L’intuizione si rivela fondata e ben presto la lezione newyorchese ha un impatto considerevole sulla moda italiana, indirizzandola verso la vincente formula del ready-to-wear. L’esito della fruttuosa relazione transatlantica è qui meritevole di osservazione perché mette in luce quanto, a dispetto della retorica identitaria innescata dalla competizione internazionale – che si consumava di stagione in stagione sulle pagine di Vogue America e di Harper’s Bazaar, oltre che sulle riviste nazionali di settore – la moda occidentale del periodo postbellico fosse la risultante di un articolato processo di ibridazione, parallelo alla pratica del viaggio e della mobilità crescente di persone e merci tra un paese e l’altro. Alla luce del dibattito accademico maturato nell’ultimo decennio sul complesso tema delle identità nazionali nella moda, si può affermare che, anche in quegli anni, acquisire lo statuto di paese “autore” fosse di fatto l’esito, sempre negoziabile, di un rapporto di interdipendenza, di un “costante fluttuare tra l’auto-percezione e il riconoscimento esterno”9.

La mobilità si fa condizione necessaria della circolazione e dell’ibridazione di forme, saperi e merci, producendo una interessante concomitanza di livelli di discorso e di realtà. Ne è un esempio brillante il lavoro di Emilio Pucci, per il quale la moda era innanzitutto traduzione tangibile e indossabile della capacità di acquisire consapevolezza del mondo, da quello prossimo a quello più lontano. Torna ancora qui, in modo significativo, il termine traduzione, a sottolineare un composito lavoro di mediazione capace di articolare design dell’abito, stili di vita e località.

Pucci e la moda souvenir

Emilio Pucci aveva cominciato a occuparsi di abbigliamento sportivo al Reed College di Portland, in Oregon, dove era stato ammesso come studente e istruttore di sci. Le circostanze vollero che toccasse a lui disegnare le uniformi della squadra di sci del College e che a realizzarle fosse proprio l’azienda locale White Stag che, circa dieci anni più tardi, per un curioso disegno del destino, avrebbe ricevuto l’incarico dal department store newyorchese Louis & Taylor di produrre in serie un intero completo da sci di sua creazione. Eleganza, comfort e funzionalità si coniugavano perfettamente in quella mise sportiva, il cui ineffabile tocco chic ben si addiceva al paesaggio montano di Saint Moritz o di Zermatt dove, nel 1948, la presenza del creatore di mode viene strategicamente registrata dall’obiettivo di Toni Frissell per Harper’s Bazaar. Nel 1952 Vogue America attribuisce definitivamente all’Italia le qualità che rendono eccitante la moda di Pucci e, in particolare, il sapiente gusto nel disegnare modelli e accessori dalle tinte briose e accattivanti per il tempo libero e i resorts. Pucci assorbe in profondità quella prima esperienza statunitense e la riconfigura in Italia per un pubblico internazionale con l’ideazione di un singolare design improntato alla lezione del ready-to-wear statunitense. Ed ecco come la Sicilia, fonte di ispirazione per la collezione di Pucci dell’estate 1955–1956, viene presentata alle lettrici della rivista Bellezza:

Sole, biancheggianti templi greci, preziosi mosaici bizantini, aranceti, ulivi mare… È il volto acceso e sfolgorante della Sicilia, l’isola dove le antiche leggende vivono ancora, in un senso di eterno che non può non trovare la sua rispondenza in chi è alla ricerca della bellezza. Una atmosfera quasi sconcertante di magia e di silenzio la pervade tutta, silenzio che nasce dalla maestosità chiara dei templi, fra le cui colonne il vento passa, come attraverso i fusti simmetrici di un canneto, accarezzando con venerazione i gradini erbosi e consunti dai secoli… magia che è il profumo, il bagliore dei mosaici, la preziosità arcana delle cattedrali10.

L’articolo “Sicilia e bellezza”, firmato da Maria Novella Conti, sottolinea come lo stile elegante e disinvolto dei modelli di Pucci imprigionasse tanto negli accostamenti che nei contrasti di colore, nei disegni e nella combinazione delle linee geometriche, le atmosfere e il repertorio iconografico dell’isola, crogiolo delle civiltà del Mediterraneo che l’hanno abitata e scolpita nei suoi tratti più rappresentativi. Da questa prospettiva, l’articolo si presenta a tutti gli effetti anche come un invito al viaggio, vera e propria promozione turistica dell’isola. La collezione, caratterizzata dalla presenza di quattro colori principali — il verde Agrigento, il bleu Siracusa, il giallo Taormina e l’arancio Messina — prefigura già la disposizione ricettiva e la risposta emozionale della turista che acquista, come souvenir d’Italie, il completo “Colonne di Monreale”, pantaloni e casacca o shorts e camicia, sulla cui superficie tessile è sapientemente ricomposta la brillante e armoniosa policromia dei mosaici del chiostro all’interno dell’antico convento benedettino accanto al Duomo di Monreale.

La forma-viaggio tra moda e turismo

Dai primi anni Cinquanta vengono organizzati una serie di viaggi promozionali che la moda italiana compie all’estero allo scopo di testare la propria identità di stile e di acquisire nuovi mercati per la propria produzione all’interno della crescente contesa internazionale. Spesso, nella fase iniziale di questi viaggi, il confronto impari con i sarti francesi metteva in rilievo l’effettiva superiorità della moda d’oltralpe, solidamente costruita sul privilegio a lungo goduto della propria tradizione sartoriale e sulle capacità di rappresentazione e di organizzazione, frutto della maggiore consapevolezza che Parigi aveva del proprio valore. L’Italia era, invece, ancora chiamata a fare i conti con il riconoscimento della propria creatività e con le vulnerabilità che ne seguivano. Tra i viaggi compiuti in quegli anni – oltre a quelli numerosi verso gli Stati Uniti, secondo un’agenda programmaticamente rinnovata di stagione in stagione, e con i quali il rapporto si era più complessamente configurato nei termini sopra indicati – si ricordano la trasferta promozionale a Punta del Este in Uruguay nel 1952 e quella a Sidney del 1955. Sulle pagine di Bellezza11 la giornalista Irene Brin dà di cui la giornalista Irene Brin dà ampio e divertito resoconto dei viaggi intrapresi dai maggiori protagonisti del periodo:

Seguire l’attività dei sarti italiani esige, oramai, una quantità di pazienza di geografia e di tempismo. Tra poco, certo, spiegheremo sulla parete un’immensa carta geografica su cui appunteremo minuscole bandierine: Faraoni a Teheran, … Emilio Pucci a St. Moritz, Roberto Capucci a Stoccolma, … due Fontana a Pittsburg, si aspettano a Tokyo Simonetta e Fabiani, Olga de Grésy ha appena lasciato Tahiti… . E si potrebbe continuare praticamente all’infinito, un allegro coraggio spinge i nostri creatori a sfidare non solo terre, ma gusti sconosciuti, fidando nell’istinto come in un vento12.

Solitamente questi primi spostamenti internazionali non prevedevano forme di rappresentazione del paese visitato, ed erano piuttosto espressione di come la moda italiana cominciasse a plasmare la propria immagine appropriandosi delle forme, dell’iconografia e dei metodi propri della pratica del viaggio: spedizioni, tragitti e mappature; servizi fotografici di territori esotici – spiagge vergini, giungle e dune; esplorazioni di località archeologiche e ricerche etnografiche. Modalità che si materializzavano in cogente prossimità alla pratica del turismo. E non fu per mera coincidenza che la crescente ampiezza di trasferte dovuta ai viaggi di promozione della moda italiana ben si conciliasse con l’esigenza di creare un guardaroba adeguato a soddisfare le necessità innescate dalla mobilità che andava caratterizzando i nuovi stili di vita. Basti pensare alla messa a punto di modelli multifunzionali, realizzati in tessuti ingualcibili, progettati secondo un principio economico che li rendeva facilmente adattabili alle diverse circostanze esistenziali e climatiche che si presentavano spesso anche nel corso di uno stesso tour13. Per soddisfare le esigenze di lunghe notti trascorse sui lettini d’aereo, Giuliana di Camerino aveva designato un’apposita borsa, nelle dimensioni ammesse dai regolamenti delle compagnie aeree, completa di vestaglia, pantofoline, tasca interna per i gioielli, tasca esterna per i documenti, sacchetta per i cosmetici, e l’immancabile scomparto per un “libro poliziesco”, come sottolinea Irene Brin nell’articolo “Viaggi ben organizzati e guardaroba internazionali”14.

“La moda tende a un linguaggio universale”, recita il titolo dell’articolo che la scrittrice Gianna Manzini dedica nel 1961 al sarto Antonio De Luca. Un titolo profetico che ben si addice ad aprire un decennio in cui la moda non si limita più a coltivare forme principalmente ispirate alla cultura vestimentaria della nazione, come dichiara esplicitamente il sarto nel corso di un’intervista rilasciata alla scrittrice:

I viaggi, il teatro, il cinema, la letteratura, hanno messo in circolazione immagini di bellezza che esorbitano dal convenzionale modello europeo. Da tutto il mondo, confluiscono affascinanti creature che ravvivano il nostro concetto di bellezza e di eleganza. […] E ognuno porta con sé un valido suggerimento in rapporto alla moda. Oggi, la donna, di qualunque paese essa sia, è una strana risultante — sul piano del gusto e della personalità — di suggerimenti e suggestioni di tutto il mondo nel vivo dell’attualità. Spero di non essere presuntuoso affermando che, nei miei vestiti, ho cercato di rispecchiare questo panoramico “tutto il mondo”, in ciò che esso può avere di meno spettacoloso, di più penetrante e garbato15.

L’aspirazione della moda a un linguaggio universale non si materializzava nella visione di De Luca in una eclettica manipolazione e appropriazione di stili. Rispondeva, piuttosto, all’esigenza di guardare a modalità vestimentarie diverse e lontane, manifestando non solo una tensione verso il vestito dell’“altro”, ma anche indicando un percorso di ricerca sartoriale. È, infatti, sulla costruzione dell’abito, sulla sua severa e sofisticata sintassi, che De Luca mette a fuoco un personale punto di confluenza del gusto internazionale, con l’entusiastica approvazione di compratori e turisti:

È attraverso la tecnica che mi sforzo di dominare, se non proprio di aggredire, ciò che mi è balenato come fantasma poetico. Per esempio, il gioco delle cinture quest’anno è brillantissimo: in alcuni tailleur esse sono l’improvviso prolungamento di un lato stesso della giacca e formano linee asimmetriche; altre volte, si nascondono sotto le pieghe e ricompaiono, scomponendo così un’idea di cinturone da cow-boys assoggettata alle esigenze del tailleur morbido, talvolta sblusato16.

La riflessione di De Luca testimonia di un’ampiezza di circolazione di conoscenze e di comportamenti grazie alla valorizzazione della mobilità e all’opera dei media che penetrano capillarmente gli stili di vita globali e contribuiscono a modificarli. A cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, quando i primi jet cominciano ad aprire nuove rotte tra i continenti, accelerando la velocità di spostamento, con immediata ricaduta sull’industria del turismo e sulla sua progressiva democratizzazione, si inaugura l’epoca del frenetico “Jet Set Internazionale” pronto a competere con i ritmi più lenti dei “Beautiful People”. Tra questi ultimi compaiono gli ospiti che, sulla goletta Taitù, tutta bianca e oro, si accingono a salpare per una crociera nel Mediterraneo assolato, rinnovando i rituali dell’Embarquement pour Cythère e dei “[…] piaceri del vivere — non in un mondo a parte — ma in uno in miniatura: intensamente calmo ed esilarante, composto e avventuroso”17. Persiste così, sulle pagine di Vogue America, la rappresentazione di una mondanità ancora elitaria che continua a veicolare un immaginario di calme, luxe et volupté. E, tuttavia, una pragmatica nota del redazionale, sorta di product placement, comunica che, tra i riverberi di un’acqua chiara come crisoprasio, a prua, sotto il bompresso, la contessa Giovanna Ceriana, la marchesa Lisa di Bagno, la duchessa Mirta Riario Sforza indossano un identico modello di maglia in cotone, lavorata a mano con motivo a righe. L’avevano acquistata da Whip, vivace boutique romana, recita la nota tra parentesi. Ed ecco che alla stregua di un inatteso colpo di vento, il piacere di chi legge vira dall’atmosfera romanticizzata della crociera al capo indossato dalle ospiti, giustapponendo senza soluzione di continuità atmosfere esotiche, tragitti turistici e shopping. Nel 1967, sempre sulle pagine di Vogue America, è Truman Capote ad alludere all’embricazione tra pratiche del consumo e immaginario del turismo, sottolineando come, nell’economia del viaggio e relativamente alla gestione del carico emozionale che ogni itinerario di per sé comporta, l’incontro con l’oggetto da acquistare avesse assunto per i turisti un ruolo significativo. Nel racconto Magia estrema, lo scrittore si sofferma, con l’ironia e la lungimiranza di chi intercetta i mutamenti della sensibilità, sul disporsi del viaggiatore-turista verso il piacere del consumo effimero. Dopo aver minuziosamente descritto la tempesta che aveva messo a soqquadro gli arredi e l’aplomb degli ospiti a bordo del lussuoso Tritone in viaggio nell’Adriatico da Brindisi verso le coste della Jugoslavia, Capote testimonia come i croceristi non fossero propensi ad aggiungere al sollievo di essere arrivati a destinazione sani e salvi, il piacere di visitare la terra di approdo che si mostrava, di primo acchito, come un vero e proprio “inferno per gli acquirenti”:

Le luci di qualche villaggio brillano in lontananza; ma solo Gianni (Agnelli), eterno spirito di ricerca, desidera scendere a terra. Gli altri di noi hanno più buonsenso. Quanto a me, la mia politica è lasciare le visite turistiche agli altri: non mi sono mai curato di chiese e altre reliquie, lo considero un peso. Amo invece la gente, i caffè e la roba esposta nelle vetrine18.

Lo scrittore sembra suggerire come la prefigurazione dell’ oggetto da acquistare si frapponga con le modalità di un incontro fortunato tra le sollecitazioni dell’ambiente circostante e la risposta emozionale della persona che le riceve. La pratica del consumo materiale sembra così neutralizzare il “peso” di conoscenza che grava sul destino del/lla turista, producendo un immediato, anodino effetto di leggerezza. E, tuttavia, l’oggetto che si sceglie di acquistare, non esclude la condizione di una relazione significativa tra il/la turista e la località visitata. Di diversa natura, e inscritta nel rapporto tra chi viaggia e l’uso della macchina fotografica, è invece la considerazione che, solo qualche anno prima, Ennio Flaiano riserva a un gruppo di turisti arrivati con un torpedone a Piazza del Popolo (Roma). La rapidità, paragonabile a quella delle manovre militari, con cui scendono dall’autoveicolo e “occhio al mirino” fotografano la piazza per ripartire subito dopo, induce lo scrittore a guardare al turista come “un essere privilegiato, che non rimane ferito da ciò che vede […]”19

I Viaggi di Grazia: “orchidee come garofani”20

Tra l’articolo di Manzini e quello di Capote intercorre un tempo interessante da indagare riguardo al rapporto tra moda e turismo: sono infatti gli anni in cui il settimanale Grazia, testata Mondadori, preminentemente rivolta a un pubblico femminile medio e altoborghese, sceglie di dedicare una serie di reportage alla moda italiana in viaggio attraverso il mondo. Con dispendio di mezzi ed energie creative e organizzative, dal 1959 al 1968, il settimanale, sotto la direzione di Renato Oliveri, pubblica 18 numeri speciali, rivolti allo studio e alla conoscenza in situ di una località europea o extra-europea. Nell’intento del direttore, i reportage volevano offrire “un piccolissimo contributo alla comprensione tra i popoli”21. La struttura concettuale portante di questa imponente impresa editoriale – con numeri chiamati “Specialissimi”, dedicati ora alle Antille, ora al Siam, e ancora ad Hong Kong o alle Isole Figi e Samoa, per citare solo alcune delle destinazioni alle latitudini più esotiche – viene pensata come una specie di guida al viaggio, sorta di Baedeker per il turismo di massa, con rubriche di varia natura, servizi fotografici, interviste, inserimenti narrativi e avvisi pubblicitari rappresentativi della località prescelta. I Viaggi di Grazia hanno richiesto la formazione di un’affiatata squadra di operatori con ruoli e competenze di diversa natura. La “troupe” di base era formata dalla fotografa di moda Elsa Haertter, – figura tra le più affermate nel settore di riferimento fin dai suoi rinomati servizi dedicati alle collezioni degli anni Cinquanta –; da una delle redattrici di Grazia; da quattro giovanissime modelle non professioniste: Anna, Daniela, Jucci e Katia – all’epoca selezionate attraverso un concorso indetto dalla rivista tra le lettrici –; dal fotoreporter Angelo Cozzi a fianco di Giorgio Torelli, a cui era affidata la regia narrativa dei singoli itinerari. In aggiunta, i viaggi prevedevano il contributo di giornalisti freelance con interviste a personalità istituzionali o ad esperti delle regioni visitate.

Alla nostra distanza di sguardo, tuttavia, la ricca rappresentazione di porzioni di mondo offerta da Grazia si rivela anche come concrezione di stereotipi e pregiudizi culturali. Corredate di un ampio repertorio di notizie e nozioni – dalle caratteristiche climatiche alle rubriche di flora e fauna, dall’abbigliamento all’arredo dei loro interni, dai rituali religiosi alle tradizioni culinarie, dalla mappatura degli itinerari al calcolo della distanza e del tempo necessari a raggiungere la destinazione prescelta, dal costo del biglietto aereo a quello di alberghi o ristoranti – le narrazioni dei luoghi visitati tradiscono un abito mentale eurocentrico, attraversato dall’intento di una blanda rappresentazione etnografica, perlopiù imbevuta della stratificata cultura egemone dell’Occidente. Ne è emblematico esempio, l’annuncio del numero “specialissimo” dedicato alle Antille, le isole “che hanno il fascino e l’atmosfera dei bei sogni dell’infanzia”:

Questa volta otto inviati […] si sono spostati all’estremità occidentale dell’Atlantico e, percorrendo migliaia di chilometri in volo, hanno raggiunto le Piccole Antille, le famose isole dei corsari, per darvi un panorama completo e divertente di questo splendido angolo di mondo. […] troverete un articolo di Giorgio Torelli sul Re del rum, in cui si racconta non solo l’avventura di un uomo singolare ma anche la storia affascinante della Martinica. Da pagina 54 Maria Pia Rosignoli rievoca la vicenda di Giuseppina, la moglie creola di Napoleone, nata e vissuta nell’isola ed amata ancora come se fosse viva. La troupe della moda […] ha realizzato sullo sfondo di spiagge meravigliose, un reportage di moda tra i più entusiasmanti […]. Al centro del fascicolo Angelo Cozzi e Giorgio Torelli vi presentano in un supplemento a colori Tobago, l’Isola di Robinson Crusoe che servì da sfondo al popolarissimo romanzo di Defoe e che oggi è una delle mete più ambite del turismo mondiale22.

Le suggestive fotografie del servizio “L’isola di Robinson”, invitano la lettrice e potenziale viaggiatrice a calarsi nei panni del protagonista del romanzo di Defoe, primo “turista” di Tobago. L’intento del servizio è quello di farle ripercorrere immagine per immagine, attraverso una sapiente ricostruzione fotografica, alcuni dei momenti salienti della permanenza sull’isola dell’illustre naufrago. Didascalie con parafrasi del romanzo di Defoe, curiosamente accostate a indicazioni di lettura delle foto, propongono una sorta di reenactment delle gesta robinsoniane sulle quali viene idealmente proiettata l’esperienza della turista, con effetti di naiveté rappresentativa.

«Oh Signore! Come è possibile che abbia raggiunto la riva?», si chiede Robinson una volta approdato a Tobago sano e salvo. Non ha nulla con sé tranne il coltello, una pipa e una scatola con un po’ di tabacco. Col cuore stretto, riflette sulla sorte che lo attende. Si mette in bocca un po’ di tabacco per ingannare la fame e passa la notte su un albero. L’indomani il cielo è sereno e la tempesta cessata. Il naufrago può nutrirsi di quanto l’isola provvidenzialmente gli offre: la stessa frutta tropicale che qui è raccolta su due foglie di palma. Da sinistra: zucca, papaia, limoni verdi, mangus, frutti dell’albero del pane, «cashew» (specie di pera dolce), granturco, ananas, … cocchi e una canna da zucchero23.

A sottolineare il contributo del numero all’industria del turismo, l’ultima foto del servizio è corredata di una didascalia che non solo riporta tutte le istruzioni necessarie su come raggiungere le Antille, ma rende anche noto che la Transitalia, in collaborazione con Grazia, è lieta di offrire una riduzione di L. 30 mila sulle tariffe di viaggio alle Lettrici desiderose di compiere un giro delle Antille entro il 1965. La tariffa di base era nel 1964 di L. 595 mila.

Come si situa la moda all’interno di tale rappresentazione, decisamente articolata su ben sedimentate costruzioni etnocentriche? I servizi fotografici di Elsa Haertter posseggono tutte le caratteristiche per esercitare una grande attrazione sulle lettrici nutrendo il loro immaginario dell’altrove. Marco Turinetto, nell’articolo “Perché viaggiare con la moda?”, incluso nel catalogo che accompagna la mostra Viaggiare con la moda: i racconti itineranti di Elsa Haertter, osserva come gli abiti predisposti per I Viaggi di Grazia fossero “funzionali al racconto mediatico e non viceversa”24. Da quel che è dato apprendere dalla stessa fotografa, il criterio di selezione dei vestiti rispondeva all’esigenza di evocare le atmosfere della destinazione prescelta: abiti e accessori venivano perciò realizzati appositamente e in sintonia con le caratteristiche del paese oggetto del viaggio. Linee e tessuti assecondavano la variazione di ambienti e motivi architettonici con effetti materici e giochi di luce apprezzabili ora sugli abiti da sera in matelassé oro o in broccato turchese e argento fotografati davanti ai templi di Bangkok25, ora sulle tinte sature dei modelli che come fiori si aprivano tra la vegetazione lussureggiante.

A Saint-Anne, in Martinica, una foresta di palme in riva al mare: le radici contorte degli alberi si mescolano a enormi conchiglie rosate, i rami a ventaglio si intrecciano con liane e foglie nella luce calda del mezzogiorno. Paola indossa una tunica di foggia orientale con pantaloni lunghi in canapa azzurra (modello di Krizia)26.

Se questa modalità rappresentativa si ispira ad una radicata visione orientalista dello scenario naturale, lo spostamento della troupe in contesti abitati tradisce, spesso, nel modo di accostare e descrivere abiti, persone e luoghi, l’insensibilità di uno sguardo egemone e incline al pastiche di stili. Ecco che ad Aberdeen — il noto villaggio sull’acqua a sud di Hong Kong, dove migliaia di cinesi vivevano sui sampan — un modello di Ken Scott, in mussola di lana stampata a grandi fiori, fotografato tra le corde e le vele di una giunca, si contraddistingue per il peculiare collo alto alla geisha e i bottoni sul dorso27. Si tratta di un’annotazione incongrua e non solo perché il riferimento non mostra alcuna attinenza con lo stile dell’abito e del portamento della geisha, ma anche per l’inappropriatezza del commento all’interno di una pubblicazione che si proponeva di ritrarre gli usi e i costumi di Hong Kong. E, tuttavia, ammesso che si possa parlare soltanto di una mancanza di sensibilità culturale, bisogna considerare che il linguaggio della didascalia rifletteva la leggerezza con cui in quegli anni si ricorreva all’utilizzo di dettagli di stile rappresentativi dei più diversi sistemi vestimentari, svuotandoli della loro effettiva pregnanza compositiva e simbolica per asservirli alle istanze di una diversa visione sartoriale. Un atteggiamento appropriativo che, pur a lungo sedimentato nella storia della moda occidentale, a cavallo degli anni Sessanta e Settanta del Novecento, si fa espressione di una cupidigia inarrestabile di matrice coloniale che guarda a ogni latitudine geografica e culturale come a un bacino di forme immemoriali e statiche a cui attingere per arricchire e variare il proprio “moderno” repertorio di stili, con una considerevole ricaduta sulla relazione asimmetrica con le culture non-occidentali e sulla stessa costruzione dello sguardo del/lla turista.

Nella seconda metà degli anni Sessanta anche sulle pagine di Vogue Italia si moltiplicano e si perfezionano articoli con modalità narrative sempre più aderenti al paradigma dello “stile della vita fotografata”28. Con la rubrica “Il punto di vista di Vogue”, la rivista sotto la direzione artistica di Flavio Lucchini e in collaborazione con Vogue America — allora diretta dall’influente Diana Vreeland — ritaglia al suo interno uno spazio di grande impatto visivo per gli articoli che assumono la forma del viaggio come principio compositivo.

Il punto di vista di Vogue: “The eye has to travel”29

Osservando una selezione dei più interessanti articoli apparsi su Vogue Italia alla fine degli anni Sessanta, emerge una forte continuità tra i servizi dell’edizione italiana e quelli dell’edizione statunitense, che non era soltanto dovuta al rapporto di filiazione, ma rispondeva alla formidabile visione curatoriale di Vreeland, la cui nota inclinazione per l’esotismo dilagava come un fiume in piena sulle diverse edizioni europee della rivista. In particolare, erano i servizi più spettacolari a rispecchiare la valorizzazione del ruolo di fotografi e modelle, chiamati a farsi interpreti di uno scenario rappresentativo intensamente dramatized. A differenza de I Viaggi di Grazia, i servizi fotografici dell’edizione italiana di Vogue non trattano più i paesaggi come mero sfondo degli abiti, ma come veri e propri set di un’articolata narrazione in cui tessuti, abiti e accessori vengono indossati da modelle performers che si muovono negli spazi in sintonia con la cultura e gli stili di vita delle località visitate. La scelta non era di poco conto per la lettrice, sempre più addestrata a identificarsi con le figure protagoniste del servizio.

Nell’introduzione all’articolo intitolato “Nel Nepal vestite di Cashmere”30 — servizio dalle falde dell’Himalaya con l’équipe di Vogue, l’obiettivo di David Bailey e la partecipazione della modella Penelope Tree — pubblicato sul numero di novembre del 1969, la voce narrante di Isa Vercelloni ci introduce, da Kathmandu, alla storia della regione del cashmere, terra di provenienza della più pregiata delle lane, prima di essere lavorata nei tessuti creati dai lanieri per i sarti italiani:

La troupe di Vogue ha rifatto tutto il cammino della lana cashmere, in senso inverso: dagli ateliers dell’Alta Moda è ritornata verso il cuore dell’Asia, verso il tetto del mondo e gli altopiani immersi nel silenzio, abitati solo dall’Uomo delle Nevi e da qualche pastore. Arrivata alle falde dell’Himalaya, ha sostato in un regno di favola, così incantevole che Budda stesso lo scelse, quando si trattò di decidere dove avrebbe voluto nascere: il Nepal. Venite con noi nell’ultimo regno indù, aperto da non più di quindici anni ai visitatori stranieri – miliardari o hippies – e per fortuna ancora quasi intatto31.

La giornalista, che si avvale di un registro narrativo accattivante ed efficace nel mitizzare il contesto esotico in cui vengono rappresentate le collezioni italiane, magistralmente fotografate da Bailey, si rivolge ai potenziali turisti, invitandoli a intraprendere il viaggio alla stregua di “miliardari e hippies”. Prosegue quindi con un dettagliato racconto del territorio, della storia, degli elementi architettonici, dei costumi della società nepalese con l’intento di veicolare nozioni etnografiche in un registro altamente estetizzato. Le fotografie a corredo dell’articolo non si limitano a illustrare gli abiti, ma li teatralizzano attraverso una ricercata scelta di accessori e pose con l’intento di evocare sui modelli la patina degli stili presenti sul territorio. Questa disposizione rappresentativa rivela, in realtà, quanto le linee degli abiti e le attitudes delle modelle fossero debitrici degli stili controculturali che si erano all’epoca diffusi in tutta Europa, grazie agli hippies che in quegli anni avevano già tracciato verso Oriente una rotta di turismo alternativo. In Italia, è Albini ad aver elaborato la portata innovatrice che nella moda mainstream avevano assunto i movimenti controculturali. Lo stilista, infatti, comprende la necessità di consolidare il processo di democratizzazione della moda non solo sulla scia della lezione modernista di Chanel, ma introiettando le istanze antimoda presenti sulla scena sociale, a partire dalla rivendicazione dei giovani di allora, dagli hippies ai loro epigoni, desiderosi di armonizzare sul proprio corpo — “come un oggetto d’arte tridimensionale, da ammirare e da toccare”32— capi diversi per stile e contesto culturale, combinati secondo un libero e personale gusto per il montaggio indumentale. Dai banchi dei mercatini delle pulci si riportavano in vita abiti dimenticati, parti di vecchie uniformi e costumi “etnici” che, una volta spogliati delle loro originarie connotazioni simboliche, aprivano le porte di un esotico spaesamento spazio-temporale tutto proiettato sulla costruzione del proprio look. Albini intuisce che quel gusto per il rétro, sempre meno ingenuo e sempre più espressione di una sofisticata e ironica sensibilità camp, rappresentava una sorta di ribellione nei confronti di un mercato dell’abbigliamento incapace di farsi interprete di modalità d’essere ancora latenti. Sicché il nuovo corso andava giocato sulla centralità dello stile/stilismo, nozione che rimanda tanto all’attualizzazione delle voghe del passato, attraverso un processo di rieditazione metalinguistica delle forme sedimentate nel patrimonio culturale della moda occidentale e non-occidentale, quanto al progetto di singolarità dei fruitori.

Con l’inizio del nuovo decennio, il primo articolo del numero di gennaio del 1970, intitolato Vogue vede, Vogue prevede33, non si limita ad illustrare le ultime tendenze della moda, ma lo fa organizzando un vero e proprio giro del mondo senza muoversi dagli ateliers italiani. Una variegata rassegna di stili che vanno dalle frange gitane o alla gaucho ai ricami del folklore rumeno; dall’utilizzo del magico tessuto Tie and Dye — direttamente dalla favolosa India — al completo, pantaloni e tunica, in chiffon con motivi indiani indossati da una modella che mima un passo di danza Bharatanatyam. E come non ricordare anche le ceramiche Yantra del designer Ettore Sottsass per il Design Centre, presentate sulla rivista con la seguente didascalia: “Gli Yantras sono diagrammi per passare da uno stadio all’altro, sempre più elevato, di meditazione. Il fatto che poi queste forme siano dei contenitori o dei vasi da fiori, piuttosto che dei templi, è assolutamente secondario”34. L’interior design si allinea così alla maggiore tendenza della moda di quegli anni decontestualizzando figure geometriche altamente rituali provenienti dall’antica tradizione Vedica. E, ancora, senza soluzione di continuità, pose di tango per boleri e scialli argentini precedono la pagina dedicata al Giappone, che sarebbe presto divenuta meta di numerosi viaggi turistici in occasione dell’Expo ’70. Al maquillage, proposto da Shiseido e ispirato al trucco in uso nel teatro Kabuki, sono accostate linee morbide di abiti, realizzati con tradizionali motivi giapponesi e indossati da modelle che assumono stereotipicamente la posa aggraziata della geisha. Infine, fa la sua apparizione anche la Cina non più rappresentata, come sulle pagine di Grazia, dalle eleganti redingote di De Barentzen fotografate insieme alle raccoglitrici di riso di Hong Kong, ma dai tipici pantaloni indossati da queste ultime, reinterpretati da Lattuada per il marchio Celli. E l’indumento, fino a quel momento considerato “costume” secondo un’ottica coloniale e neocoloniale, si fa moda. Tuttavia, malgrado sia ormai riconosciuto che la distinzione tra i due termini è espressione di una dicotomia, di natura ideologica ed eurocentrica, molto rimane ancora da elaborare del colonialismo italiano, la cui memoria tende a riaffiorare con stilemi e stereotipi a riprova di quanto i sistemi di rappresentazione creati durante la dominazione coloniale abbiano investito a fondo gli immaginari. Mi riferisco, ad esempio, alla disinvoltura che nelle riviste di moda italiane ha accompagnato la reiterata espressione di “stile coloniale”, come accade paradigmaticamente nel servizio “Valentino: uno stile fantacoloniale”, pubblicato su Vogue Italia, nel numero di marzo del 1976. Le foto, firmate da Norman Parkinson, ritraggono la modella Iman che indossa capi di alta moda disegnati, come recita la didascalia, per celebrare “le nozze fra la fantasia del vestire nordafricano e il rigore del vestire europeo creando uno stile coloniale del tutto impensato”. La collezione assimila alla propria cifra creativa forme e motivi tratti da moschee e palazzi tunisini e marocchini, come pure le linee dello haik, indumento comune alla più ampia regione del Maghreb. La rappresentazione degli abiti viene teatralizzata sulla figura della modella somala nei panni di un “ufficiale” – probabilmente per via del fez e dello haik morbido su un completo-divisa con giacca aderente e pantaloni alla zuava – che fa visita al “sultano” Valentino nella sua abitazione. Le modalità rappresentative del servizio, non prive di toni grotteschi, tradiscono un immaginario di stampo coloniale con dinamiche di alterizzazione e subalternità costruite all’intersezione di razza e genere. Un immaginario, inoltre, di “ibridazione” degli stili che richiama alla mentela mistificante retorica di appartenenza alla comune area del Mediterraneo, già iscritta nell’esperienza delladominazione italiana in Africa con evidente negazione tanto delle diverse identità culturali, sia pure nella loro dimensione mobile, quanto dell’asimmetria di potere tra colonizzatori e colonizzati, tra culture che guardano e culture che sono guardate. In particolare, il riferimento è qui alle modalità appropriative dello stile della casa araba, che gli architetti del regime fascista misero in atto tra il 1922 e il 1940 nella Libia colonizzata35. La studiosa Mia Fuller osserva come l’appropriazione delle forme costruttive locali, la cui semplicità geometrica si rivelava essenziale alla creazione di un’architettura coloniale “moderna”, venisse tout court giustificata dal convincimento che il modello della casa araba non fosse altro che una ricostruzione dell’antica casa romana. Si stabiliva così una continuità storica tra il governo fascista e l’impero romano, di cui si esaltava il ruolo imperituro con mortificazione della storia, identità e cultura della Libia.

Con la fine degli anni Settanta, lo stilismo si afferma con rinnovate modalità narrative, in una certa misura meno spettacolari sul piano della rappresentazione esotica, ma di certo funzionali al potenziamento del consumo di abiti e di mondo, e oramai pienamente interiorizzate dai fruitori-turisti all’insegna del motto Vestire è un po’ partire.

Eppure, già dall’inizio del decennio, la designer Nanni Strada con la realizzazione della collezione “Giù dal corpo” e della “Collezione Etnologica”, disegnate entrambe per la stagione Autunno/Inverno 1971-72, individua una metodologia progettuale rigorosamente incentrata sull’identità̀ dell’abito. In discontinuità con gli stilisti, la designer non mirava alla costruzione dell’immagine e del look, ma a valorizzare la biografia del capo, operando un vero e proprio close-up sull’oggetto e non sulla narrazione e modellizzazione dei comportamenti. Era una modalità alternativa di concepire la relazione tra abito e persona, preludio a una fruizione meno condizionata e più responsabile, già in nuce foriera di una dimensione di sostenibilità tanto nella moda, quanto nel turismo e nelle loro rispettive rappresentazioni. Qualche anno più tardi, l’abito Torchon (1986), in lino o in seta stropicciato e comprimibile, avrebbe interpretato l’idea del viaggio come “nomadismo mentale e reale”36, prefigurando un diverso immaginario al riparo da quelle forme rappresentative che avevano contribuito a colonizzare tanto il desiderio che la postura esistenziale dei fruitori.

A conclusione di questo percorso, va osservato come il crescente processo di internazionalizzazione della moda italiana, dalla fine del secondo conflitto mondiale e fino agli anni Settanta, abbia assunto un valore paradigmatico non soltanto all’interno dei confini della creatività sartoriale, ma anche rispetto alla capacità di tradurre le trame stesse del proprio linguaggio in itinerari e forme diverse dell’abitare, proiettando i fruitori “in una sorta di extraterritorialità mobile”37. Così facendo, la moda ha contribuito a formare visioni del mondo, alimentando e modellando immaginari di luoghi e culture, ma ha al contempo disseminato una conoscenza iscritta all’interno di un’ottica coloniale, strutturata su opposizioni binarie, tra le quali tradizione/modernità.

Sulla scia degli studi postcoloniali e decoloniali, gli studiosi di moda e parte degli operatori del settore hanno iniziato e sono tuttora impegnati in un’opera di decostruzione della matrice coloniale che ha informato il sistema della moda occidentale, sfidando l’eurocentrismo della produzione dei saperi, rivolto tanto alla disciplina e alle sue pratiche, quanto alle influenze esercitate sull’immaginario del turismo.

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  1. Vedi Paola Colaiacomo, Vittoria C. Caratozzolo, “The Impact of Traditional Indian Clothing on Italian Fashion Design from Germana Marucelli to Gianni Versace”, Fashion Theory, Vol. 14. Issue 2 (June 2010), 183–214.↩︎

  2. Michelangelo Testa, “Italia internazionale”, Bellezza (luglio-agosto 1947), 3.↩︎

  3. Elsa Robiola, “Con la regia di Venezia”, Bellezza, n.11 (1954), 22.↩︎

  4. Irene Brin, “Salvador Dalì in sartoria”, Bellezza, n.1(1949), 58.↩︎

  5. “[…] tutto ciò che è barocco, privo di misura, estremo, è intimamente rivolto alla moda; per cose che hanno queste caratteristiche la moda non giunge come un destino esterno, ma come l’espressione storica delle loro qualità oggettive”. Georg Simmel, La Moda (Milano: Bruno Mondadori, 1996), 63.↩︎

  6. Vedi Vittoria C. Caratozzolo, “Il mestiere di Rome Editor. Irene Brin e Harper’s Bazaar”, in Irene Brin, Gaspero del Corso e la Galleria L’Obelisco, a cura di Vittoria C. Caratozzolo, Ilaria Schiaffini, Claudio Zambianchi, (Roma: Drago, 2018), 44–57.↩︎

  7. Elsa Robiola, “America insegna”, Bellezza n.11, (1956), 54.↩︎

  8. Ibidem.↩︎

  9. Simona Segre Reinach, “National Identities and International Recognition”, Fashion Theory, 15: 2, (2011), 268.↩︎

  10. Novella Maria Conti, “Sicilia e bellezza”, Bellezza (luglio 1955), 41-42.↩︎

  11. Irene Brin, “Italia a Punta del Este”, Bellezza, n. 4, (1952), 70-72; “Partiti per l’Australia”, Bellezza n. 6, (1955), 42–53.↩︎

  12. Irene Brin, “Moda italiana giramondo”, Bellezza, n. 4, (1956), 124.↩︎

  13. La stessa Irene Brin aveva compiuto tra il 1955 e il 1959 ben due giri del mondo.↩︎

  14. Irene Brin, “Viaggi ben organizzati e guardaroba internazionali”, Bellezza n. 6, (1957), 46-47.↩︎

  15. Gianna Manzini, “La moda tende a un linguaggio universale”, in La moda di Vanessa, a cura di Nicoletta Campanella, (Palermo: Sellerio, 2003), 211–212.↩︎

  16. Ibidem, 212.↩︎

  17. “The Beautiful People On Water”, Vogue America (August: 1963), 91–93.↩︎

  18. Truman Capote, “Magia estrema”, in Romanzi e Racconti, a cura di Gigliola Nocera, (Milano: Arnoldo Mondadori Editore, 1999), 1715.↩︎

  19. Ennio Flaiano, La solitudine del satiro, (Milano: Adelphi, 1996), 212.↩︎

  20. La comparazione floreale, sorta di epitome della modalità incorporante di guardare al rapporto tra le culture, si riferisce al titolo Orchidee come garofani della rubrica “Il Giardino di Grazia” firmata Gigliola, Grazia-Hong Kong, n. 1242, (8 dicembre 1964), 16.↩︎

  21. Fiammetta Bernardinelli Roditi, Marco Turinetto, Armando Honegger (a cura di), Viaggiare con la moda. I racconti itineranti di Elsa Haertter, (Mestrino (PD): Walking Fashion, 2008), 75. I numeri internazionali di Grazia sono stati pubblicati nel seguente ordine: Paesi Scandinavi, 6 dicembre 1959; Spagna, 22 maggio 1960; Stati Uniti, 13 novembre 1960; Germania, 12 marzo 1961; Grecia, 25 giugno 1961; Londra, 12 novembre 1961; Rio de Janeiro, 15 aprile 1962; Danimarca e Groenlandia, 11 novembre 1962; Africa, 24 novembre 1962; Hollywood, California e Las Vegas, 19 maggio 1963;Antille, 7 giugno 1964; Hong Kong, 6 dicembre 1964; Bermude, 27 giugno 1965; Siam, 28 novembre 1965; Messico, 5 giugno 1966; Oceano Pacifico, 4 giugno 1967; Canada, 26 novembre 1967; Argentina, 2 giugno 1968.↩︎

  22. Grazia-Antille, n.1216 (7 giugno, 1964), 41.↩︎

  23. Giorgio Torelli, Angelo Cozzi, “L’isola di Robinson”, (Grazia-Antille) n.1216 (7 giugno, 1964), 91.↩︎

  24. Fiammetta Bernardinelli Roditi, Marco Turinetto, Armando Honegger (a cura di), Viaggiare con la moda. I racconti itineranti di Elsa Haertter, op. cit, 15.↩︎

  25. Grazia-Siam, n. 1293 (28 novembre 1965).↩︎

  26. Elsa Haertter, Laura Mulassano, “Le spiagge incantate”, Grazia-Antille, n.1216 (7 giugno, 1964), 62.↩︎

  27. Elsa Haertter, Carla Vanni, “Favolosi giorni, favolose serie d’Oriente”, Grazia-Hong Kong, n. 1242 (8 dicembre 1964), 59.↩︎

  28. Alberto Arbasino, “Truman Capote e il suo mondo”, in Romanzi e Racconti, a cura di Gigliola Nocera, (Milano: Arnoldo Mondadori Editore, 1999), XIII.↩︎

  29. Motto di Diana Vreeland.↩︎

  30. Isa Vercelloni,“Nel Nepal vestite di cashmere”, Vogue Italia (novembre 1969), 90-117.↩︎

  31. “Il punto di vista di Vogue sul nuovo cashmere-look”, Vogue Italia (novembre 1969),89.↩︎

  32. Angela Carter, “1967: note per una teoria delo stile anni ’60”, in Mercanti di stile, a cura di Paola Colaiacomo, Vittoria C. Caratozzolo, (Roma: Editori Riuniti, 2002), 286.↩︎

  33. “Vogue vede, Vogue prevede”, Vogue Italia, (gennaio 1970), 18–41.↩︎

  34. Ibidem.↩︎

  35. Mia Fuller, “Building Power: Italy's Colonial Architecture and Urbanism, 1923-1940”. Cultural Anthropology,Vol. 3, N. 4 (1988): 473.↩︎

  36. Nanni Strada, Moda Design, (Milano: Editoriale Modo, 2002), 67.↩︎

  37. Emanuele Coccia, Filosofia della casa. Lo spazio domestico e la felicità, (Torino: Einaudi, 2021), 5.↩︎