ZoneModa Journal. Vol.11 n.2 (2021)
ISSN 2611-0563

Visioni di moda non occidentale

Flavia PiancazzoUniversità di Bologna (Italy)

Pubblicato: 2021-12-16

La moda, fino al secolo scorso, era considerata un “fatto” europeo e l’abito, nella sua accezione occidentale, era implicitamente la misura del progresso e del benessere. Il discorso sulla moda, per secoli è stato dominato da un pensiero eurocentrico che escludeva gli abiti dei popoli non occidentali dal concetto di moda poiché troppo poco legati al cambiamento.

Nonostante gli accademici abbiano provato a ripensare la storia della moda considerandola — a tutti gli effetti — un fenomeno globale, il retaggio dell’epoca colonialista talvolta può restituire ai fruitori un punto di vista eurocentrico. Difatti, provando ad andare a ritroso nel dibattito sulla paternità della moda come la intendiamo oggi, vedremo che fu la nascita della haute couture a porre gli stilisti occidentali in una condizione favorevole rispetto ai designer del “resto” del mondo, il cui know-how e la propria eredità culturale erano considerati solo un’infinita fonte di ispirazione1 per ricreare capi dal gusto esotico che incontrassero le richieste della clientela. La pratica di attingere al patrimonio culturale e artigianale del mondo non occidentale per assicurarsi una produzione di successo, oggi spesso detta appropriazione culturale alla luce del dibattito sulla necessità di decolonizzare la moda, si attenuò proprio verso la fine del secolo scorso, quando nel panorama della moda internazionale apparirono nomi di stilisti che non provenivano dai luoghi della moda considerati d’eccellenza. Ad esempio Hussein Chalayan, era nato a Cipro; Yohji Yamamoto e Rei Kawakubo, a Tokyo. Questi furono alcuni dei nomi altisonanti dello scenario della moda internazionale che, tra gli anni Ottanta e Novanta, furono iniziatori della vera moda non occidentale disegnata, però, per l’occidente, creata tra le necessità della modernità, la sperimentazione e la tradizione. Tuttavia, la presenza di collezioni create da stilisti non europei o non americani nelle settimane della moda più seguite, non comportò un ribilanciamento del mercato della moda, seppur ne conseguì un lento mutamento.

Il concetto di moda come un sistema unicamente occidentale è ormai “fuori moda”2 e, come molti studiosi affermano, è necessario decolonizzare la moda e ri-concettualizzarne la sua storia, poiché considerare la moda come mero prodotto occidentale, non è più sostenibile3. Quello che è accaduto nella storia delle mode, però, è che gli stilisti non occidentali o che fanno parte della seconda generazione abbiano dovuto: prima, imparare a far convivere due stili nelle proprie creazioni e, solo recentemente, abbiano iniziato a servirsi della moda — in ogni sua forma — per parlare della propria storia, cultura, condizione.

Gli stilisti immigrati, o coloro che fanno parte di una minoranza etnica, devono talvolta creare un ponte attraverso le collezioni di moda, ed è molto di più che riproporre le forme e i simboli della propria eredità culturale in un’estetica occidentale. I designer non occidentali, o figli della diaspora, stanno cercando di rammendare la loro genetica culturale, stabilendo le proprie narrazioni senza seguire le estetiche convenzionali della moda, le quali sono la conseguenza di una moda che, come si è detto, è stata a lungo eurocentrica.

Phillip Lim, co-fondatore dell’omonimo marchio di moda, è uno dei designer che crede nel potere politico delle sue creazioni e nel valore sociale che esse hanno. Americano di seconda generazione, figlio di genitori cinesi, fa sì che la propria cultura si percepisca nei progetti ma non si veda4 in simboli e tessuti “esotizzati” e stereotipati. A differenza di altri stilisti non occidentali, crea con i suoi abiti un discorso indiretto. È infatti la sua immagine di fashion designer-star quella che egli sfrutta per denunciare la condizione degli immigrati e delle subculture in America. I riferimenti stilistici del designer sono guidati dalle consolidate dinamiche culturali, in cui storia e necessità di creare un’estetica internazionale, carattere della globalizzazione appunto, si incontrano in una sintesi che fornisce esiti volutamente anti figurativi, ma con innumerevoli rimandi al concetto orientale di drappeggio e alla relazione tra abito, spazio e corpo quando le creazioni sono viste sul corpo vestito. Gli abiti di Phillip Lim si inseriscono in una produzione già iniziata dagli stilisti asiatici a cavallo tra anni Ottanta e Novanta. In questo senso, già con Issey Miyake, Yohji Yamamoto e Rei Kawakubo, il legame con l’Asia non è evidente, ma fonde elementi di tradizione occidentale con elementi di tradizione orientale, in modo consapevole. Ma per un designer non occidentale, avere successo a Parigi o in una delle grandi metropoli che — nell’imaginario comune — “dettano” moda, significa assorbire l’Occidente nelle proprie espressioni per far sì che queste si possano posizionare nel mercato. Effettivamente, gli stilisti non occidentali sono quelli che più devono combattere con la duplice anima della moda, la quale è inevitabilmente anche merce. L’industria del prodotto di moda è ancorata tutt’oggi ad un gusto estetico meramente occidentale e gli stessi Miyake, Yamamoto e Kawakubo modificarono in parte le loro collezioni per adattarsi al gusto del pubblico non orientale5. Allo stesso modo, Phillip Lim, il cui operato è da sempre meno impavido e sperimentale di quella dei tre stilisti giapponesi, nel corso della sua carriera ha sempre plasmato le sue collezioni per arrangiarle allo stile occidentale. D’altronde, in un’ottica commerciale, per vendere le proprie creazioni in tutto il mondo è necessario creare un prodotto di moda che possa essere globalmente apprezzato. Così, per decine di stilisti, come si è detto, è avvenuto un lento assorbimento di una cifra stilistica diversa da quella della propria cultura di origine.

Un caso opposto è quello di The Folklore, piattaforma digitale nata a New York per dare visibilità ai marchi di stilisti emergenti e di fascia alta Africani e della seconda generazione6. Fondata da Amira Rasool, scrittrice e fashion editor impegnata nella promozione della Black culture7, The Folklore è nato per consentire ai designer di presentare le loro visioni di moda senza essere filtrati dai buyers americani o europei che, come si è già detto, potrebbero favoreggiare un’estetica occidentale. Però, nonostante la piattaforma fosse attiva dal 2017, nel novembre 2020 fu firmato un accordo con una nota piattaforma di vendita di marchi di moda e di lusso, poiché avere la possibilità di presentare i marchi di moda africani su una piattaforma internazionale può davvero essere una vetrina per la carriera di alcuni dei designer selezionati. Poter avere designer dall’Africa e dalla diaspora africana venduti accanto a importanti brand affermati in tutto il mondo “aiuta i consumatori e gli acquirenti al dettaglio a riconoscere che questi marchi sono in realtà un lusso8”, afferma in una intervista Amira Rasool. Questo significa che, nonostante l’assenza di barriere geografiche e culturali su una piattaforma online, i designer non occidentali sono costretti ancora una volta ad una traslazione dal mercato della moda del paese di provenienza a quello occidentale, per poter accedere al paradiso delle mode internazionali. Ma significa anche che le estetiche degli stilisti africani, decisi a non adattare le proprie narrazioni stilistiche al mercato globale, potranno iniziare a diffondersi come vero e proprio tratto distintivo della moda africana e non come una mera fonte di ispirazione per le collezioni primavera/estate, in cui puntualmente vengono presentate collezioni di brand del mercato occidentale “corredate” da quelli che i media continuano a chiamare stampe etniche, colori esotici o acconciature afro. In aggiunta, gli stilisti africani o della diaspora africana come Lisa Folawiyo o Teni, Aba, e Tiwa Sagoe che portano in passerella le stampe e i colori di ispirazione africana che spesso sono protagoniste del dibattito sull’appropriazione culturale, e le lavorazioni in Ankara che spesso sono, invece, oggetto di dibattito per stabilirne la paternità culturale, decidono di ricostruire un’estetica che si era frammentata e i cui frammenti avevano impollinato in maniera non sempre corretta gli stili occidentali.

In conclusione, prendendo ad esempio i casi brevemente analizzati, si può affermare che non esiste una linea guida per decolonizzare la produzione di moda, da parte degli stilisti stessi: nel primo caso il designer mira a servirsi della moda in quanto punto in comune tra i membri di una comunità fatta di amatori, modaioli e addetti ai lavori, per poter divulgare un messaggio contro l’odio e a beneficio della questione sull’inlcusività nei paesi occidentali, lasciando la moda — intesa come prodotto tangibile — al margine. Nel secondo, invece, il designer si serve della moda per realizzarsi in quanto stilista non occidentale nel mondo di un’industria creativa i cui prevale l’estetica occidentale, in quanto il prodotto stesso è il mezzo per veicolare messaggi di affermazione della propria identità culturale. Per finire, il lavoro degli stilisti non occidentali o della seconda generazione, si colloca perfettamente in un contesto contemporaneo in cui una serie di tensioni sociali sulla questione del razzismo e della rivendicazione dei patrimoni culturali dei popoli frammentati, stanno sicuramente marchiando un periodo storico. Al pari di altri stilisti che sono stati il riflesso di alcuni cambiamenti sociali della storia contemporanea, non è difficile pensare a tali azioni come inizio di una prossima rivoluzione della moda.cut.

Figure 1: Frammenti di moda nel mondo globalizzato. Illustrazione di Greta Vaccarini e Alessandro Moresco (Refusi Studio), 2021.

Bibliografia

“Phillip Lim: You Will Feel Chinese in My Designs.” Consultato 18 febbraio 2021. https://news.cgtn.com/news/2020-08-07/Phillip-Lim-You-will-feel-Chinese-in-my-designs-SLBltZK6M8/index.html.

Amira Rasool. “About.” Consultato 20 febbraio, 2021. http://amirarasool.com/about.

Ling, Wessie, Lorusso Mariella, e Segre Reinach, Simona. “Critical Studies in Global Fashion.” ZoneModa Journal, Vol 9 (Dicembre 2019): V–XVI.

Lorusso, Mariella. “The Global ‘Wordrobe’. Ethnic Counter-Conquest in the Language of Fashion.” ZoneModa Journal, Vol 9 (Dicembre 2019): 89–102.

Samaha, Barry. “10 Brands from Africa and the African Diaspora That Are Enriching the Fashion Industry.” Harper’s BAZAAR, 18 novembre, 2020. https://www.harpersbazaar.com/fashion/designers/g34702666/the-folklore-farfetch-african-black-designers/. (Traduzione dell’autore)

Segre Reinach, Simona. Manuale di comunicazione, sociologia e cultura della moda. Orientalismi (Vol. 4). Roma: Meltemi, 2006.

The Folklore. “About Us.” Consultato 20 febbraio, 2021. https://www.thefolklore.com/pages/about-us.

Welters, Linda e Lillethun, Abby. Fashion History: A Global View. New York: Bloomsbury Publishing, 2018.


  1. Wessie Ling, Mariella Lorusso e Simona Segre Reinach, “Critical Studies in Global Fashion,” ZoneModa Journal, Vol 9 (Dicembre 2019): V–XVI↩︎

  2. Mariella Lorusso, “The Global ‘Wordrobe’. Ethnic Counter-Conquest in the Language of Fashion,” ZoneModa Journal, Vol 9 (Dicembre 2019): 89–102.↩︎

  3. Linda Welters e Abby Lillethun, Fashion History: A Global View (New York: Bloomsbury Publishing, 2018), 21.↩︎

  4. “Phillip Lim: You Will Feel Chinese in My Designs,” consultato 18 febbraio 2021, https://news.cgtn.com/news/2020-08-07/Phillip-Lim-You-will-feel-Chinese-in-my-designs-SLBltZK6M8/index.html.↩︎

  5. Simona Segre Reinach, Manuale di comunicazione, sociologia e cultura della moda. Orientalismi (Vol. 4) (Roma: Meltemi, 2006), 107.↩︎

  6. “About Us,” The Folklore, consultato 20 febbraio 2021, https://www.thefolklore.com/pages/about-us.↩︎

  7. “About,” Amira Rasool, consultato 20 febbraio 2021, http://amirarasool.com/about.↩︎

  8. Barry Samaha, “10 Brands from Africa and the African Diaspora That Are Enriching the Fashion Industry”, Harper’s BAZAAR, 18 novembre 2020, https://www.harpersbazaar.com/fashion/designers/g34702666/the-folklore-farfetch-african-black-designers/. (Traduzione dell’autore)↩︎