ZoneModa Journal. Vol.11 n.2 (2021)
ISSN 2611-0563

Futuring Venice: A One on One Fashion and Tourism Experience

Alessandra VaccariUniversità Iuav di Venezia (Italy)

Her research and teaching are in the area of fashion history and theory. With a background in contemporary art history, she works at the interface between visual studies and design history. She is Associate Professor at Università Iuav di Venezia. Her recent books include Time in Fashion (Bloomsbury, 2020) and Remanufacturing Italy (Mimesis, 2020)

Paolo FranzoUniversità Iuav di Venezia (Italy)

PhD, he is research fellow at Università Iuav di Venezia. His research interests include environmental and social sustainability in fashion design and production; the places of Made in Italy and the new configurations of industrial districts; the education of fashion designers and the role of the portfolio in the construction of professional identity.

Pubblicato: 2021-12-16

Abstract

Venice is one of the most investigated city in tourism studies for reasons that include overtourism, ecological survival, and housing exodus. Conversely, fashion studies are hardly interested in the relationship between this city and fashion in the 21st century. This article aims to fill this gap by investigating the relationships of fashion with tourism and urban space in Venice, through the eyes of those who are active in the conception, production and sale of fashion in the lagoon city. Can fashion be part of a new idea of the city? Can it represent a redirective practice, which stimulates compatible and sustainable relations between residential and tourist areas? The cases analysed in this article tell of experiencing access to fashion in a dimension that is defined here as one on one, in which the human and urban bodies are taken care of through a tailor-made approach. They represent an instrument of integration between local and global dimensions, capable of living with stereotypes, finding a new normality in the extraordinary of Venice, a daily life, as opposed to a rapid and temporary onsumption of the city.

Keywords: Tailor-Made Approach; One on One Experience; Urban Life; Venice; Independent Fashion.

Ringraziamenti

Il contributo è l’esito del lavoro condotto nell’ambito della borsa di ricerca Futuring Venice, attivata presso l’Università Iuav di Venezia con finanziamento P.O.R. Veneto Fondo Sociale Europeo 2014-2020, di cui è stato titolare Paolo Franzo sotto la responsabilità scientifica di Alessandra Vaccari. Gli autori hanno condiviso l’impostazione del testo e hanno redatto di comune intesa l’introduzione e le conclusioni del lavoro. I paragrafi La moda a Venezia e Venezia come macchina del tempo sono stati scritti da Alessandra Vaccari, Metodologia della ricerca, Essere a Venezia, essere nel mondo e Trasparenza e opacità da Paolo Franzo.

Introduzione

Venezia è uno degli oggetti d’indagine più analizzati dai tourism tudies, per le questioni che la legano a fenomeni quali overtourism, sopravvivenza ecologica, esodo abitativo1, ma quasi assente è l’interesse dei fashion studies per il rapporto di questa città con la moda del XXI secolo. In apparenza può sembrare che l’attenzione nei confronti di Venezia vada cercata solo nelle storie del passato: il commercio globale delle perle di vetro dal XV secolo; Mariano Fortuny dall’inizio del XX secolo2; la settimana della moda che si svolgeva al Lido di Venezia negli anni venti3; Roberta di Camerino e le sue iconiche borse del secondo dopoguerra4; il Centro Internazionale delle Arti e del Costume di Palazzo Grassi, fondato nel 1951 per promuovere l’innovazione industriale e creativa della moda italiana5; e la sfilata allo storico Caffè Florian in Piazza San Marco, organizzata da Walter Albini nel 1973 per presentare le collezioni donna e uomo autunno-inverno 1973/746. Nel XXI secolo, il ruolo della moda in questa città sembra polarizzarsi principalmente tra i colossi della fast fashion e i negozi dei marchi internazionali del lusso. Non esistono centri commerciali e grandi magazzini, ad eccezione di T Fondaco dei Tedeschi, rarefatta è la presenza di brand emergenti. Ma forse proprio per il suo essere defilata rispetto alle cosiddette “capitali della moda” Venezia è una città che negli anni recenti ha cominciato a esercitare un grande fascino per il pubblico internazionale della moda e soprattutto per i brand del lusso che a tale pubblico si rivolgono.

È dunque necessario interrogarsi se la moda consideri Venezia solo come una scenografia da tenere sullo sfondo e da cui assorbire il fascino e la notorietà globali o se esistano forme più attive di relazione tra la moda, la città e coloro che la visitano e vivono. La prima ipotesi apre la strada a un’immagine di Venezia cristallizzata nel suo passato e nei suoi stereotipi, come suggerisce l’omonima canzone di Gian Piero Alloisio per Assemblea Musicale Teatrale (1979), resa celebre dall’interpretazione di Francesco Guccini. Nel secondo caso, l’individuazione di esperienze più complesse sembra suggerire la capacità della città di trasformarsi, elaborando con consapevolezza la sua eredità di città del turismo7. A tale capacità di trasformazione fa riferimento il titolo di questo contributo, Futuring Venice, che riferisce al contesto veneziano le teorie di Tony Fry secondo cui chi progetta è in grado e ha il dovere di promuovere nuove pratiche di “redirezione”8, reimmaginando il modo in cui viviamo in una direzione sostenibile e concependo alternative ai modi attuali di ideare, produrre e consumare nel campo della moda9. Al centro di questa indagine, dunque, ci sono i fashion designer indipendenti e gli artigiani che lavorano a Venezia e si confrontano quotidianamente con il turismo. L’ipotesi di questo articolo è che il loro contributo sia centrale per delineare una visione alternativa del rapporto tra la moda e la città lagunare.

La moda a Venezia

Una testimonianza di come Venezia sia spesso utilizzata come scenografia per la moda arriva dalla scelta di questa città quale set per le sfilate da parte di diversi brand internazionali, soprattutto dal 2020. Il fashion designer statunitense Rick Owens ha iniziato in quell’anno a presentare al Lido di Venezia le sue collezioni donna (autunno -inverno 2021) e uomo (autunno-inverno 2021 e primavera-estate 2022). Il brand Valentino ha presentato la collezione haute couture dedicata all’autunno-inverno 2021 all’Arsenale di Venezia, mentre Saint Laurent ha commissionato per la sua sfilata uomo primavera-estate 2022 l’installazione di piante e specchi Green Lens (2021), realizzata dall’artista statunitense Doug Aitken all’Isola della Certosa nel luglio del 202110. Nel loro insieme queste esperienze non solo riaccendono i riflettori sul rapporto tra Venezia e la moda11, ma offrono anche una materia utile per interpretare il difficile rapporto tra moda e turismo nell’era post-pandemica. Per Pierpaolo Piccioli, direttore creativo di Valentino, la sfilata a Venezia è “gesto d’amore che continua a sostenere la cultura ideando un progetto che intende essere una vera rinascita culturale”12. Aitken ha descritto il suo intervento artistico all’isola della Certosa come creazione di uno “spazio sociale che può funzionare per la moda così come per qualsiasi altra cosa”, sottolineando l’aspetto di sostenibilità, di integrazione con l’ambiente fisico e il desiderio di invertire il carattere temporaneo dell’installazione e della sfilata. L’artista spiega infatti che il suo lavoro è stato concepito fin dall’inizio per essere riciclato e integrato nel Parco della Certosa: “Mi piace molto questa idea che le piante dell’opera saranno poi piantate sull'isola, vuol dire che l'opera continuerà a crescere lì anche dopo che sarà stata smontata”.13 Rick Owens collega il Lido di Venezia all’immagine letteraria e decadente di Morte a Venezia (1912) di Thomas Mann e anche al modo in cui l’esperienza della pandemia ha alterato le facili connessioni globali del turismo e della produzione della moda. Nelle sue dichiarazioni, Owens previene significativamente le accuse di chi vede la sfilata come esperienza effimera che accende i riflettori sulla città per poi lasciarla di nuovo al buio. Egli sottolinea infatti il suo rapporto di familiarità con il Lido, Venezia e il Veneto. Il Lido è il luogo che ha scelto per trascorrere le vacanze, dichiara, perché, diversamente da Parigi, dove normalmente sfila, lo fa “sentire in qualche modo protetto”, offrendogli la possibilità, nell’anno della pandemia, di fare uno show “senza pubblico, con la mia squadra italiana a due ore di distanza dalla fabbrica”14. Owen fa riferimento all’entroterra di Venezia e delle province limitrofe, il cosiddetto Nord-Est, in cui si concentra il tessuto produttivo del Made in Italy, costituito da un’aggregazione di manifatture che lavorano per i brand di lusso internazionali.

Leggendo le dichiarazioni rilasciate dai direttori creativi di questi brand emerge un’immagine di Venezia come magica, onirica, che permette di viaggiare con la mente come la pandemia ha insegnato a fare. In questo, Venezia rimanda a immaginari di isolamento – guidati dalla sua stessa insularità – molto lontani dalla modernità come snodo storico e interfaccia culturale della moda e della città15. Come è noto, il discorso critico su moda e città, a cominciare dalle formulazioni di Charles Baudelaire, Georg Simmel e Walter Benjamin, è stato fondato sulle grandi metropoli occidentali ottocentesche, in particolare Parigi e Londra, intese come epicentri di produzione delle nuove mode e palcoscenici privilegiati della loro diffusione. All’inizio del XXI secolo, le riflessioni sui sistemi globali della moda, come nel caso di Christopher Breward e David Gilbert e di Hannah Azieb Pool16, hanno suggerito di studiare le interconnessioni tra le città, piuttosto che i centri. Hanno inoltre suggerito di considerare i rapporti tra le realtà storiche e quelle emergenti, come esito del processo di decolonizzazione culturale. Un sistema policentrico, fluido e transnazionale ha preso così il posto del modello ottocentesco e novecentesco della capitale della moda dalla forte identità culturale e nazionale, con conseguenze politiche, economiche e sul turismo, come hanno sottolineato Lise Skov e Simona Segre Reinach17. Tuttavia, l’attenzione che dal 2020 il lusso internazionale ha manifestato nei confronti di Venezia sembra mettere di nuovo in discussione questo modello fluido, facendo riemergere il desiderio di luoghi dalla forte identità. Non si tratta però di un ritorno alle consolidate capitali della moda, ma di una ricerca di luoghi dagli immaginari più disparati che apre a forme di neo-esotismo. Un esempio è la scelta, da parte del brand Dior, del palazzo El Badi di Marrakesh (Marocco) come location dello show Cruise 2020.

Ma cosa resta nei luoghi, dopo che i brand se ne sono andati? A differenza dei marchi del lusso che richiamano gli occhi di tutto il mondo su Venezia per poche ore, i piccoli brand indipendenti e gli artigiani locali radicati sul territorio hanno una visione a lungo termine del loro rapporto con la città e parlano un linguaggio one on one, tanto con i residenti quanto con turisti di passaggio. Con l’espressione one on one il contributo intende descrivere una relazione diretta tra persone, luoghi e oggetti. Questo permette di sondare sia il dialogo costruito nel tempo tra chi visita Venezia, la abita o ci lavora, sia la moda come dispositivo capace di far incontrare persone interessate a vivere un’esperienza della città. La stanzialità di fashion designer e artigiani di Venezia non li mette certamente al riparo da forme di esotismo, ma costituisce uno stimolo per imparare a convivere con gli stereotipi, trovando nello straordinario di Venezia una nuova normalità, una quotidianità, che è il contrario di una volta e via. A questo proposito, il testo che Georg Simmel ha dedicato a Venezia (1907) offre due concetti su cui riflettere: da un lato l’artificialità inerente alla città e, dall’altro, l’idea della vita urbana come opera d’arte, come lavoro artistico. Simmel considera Venezia attraverso il suo stesso sguardo di turista, cogliendo come l’intera città possa essere considerata una grande macchina teatrale. La prova, per Simmel, è che i suoi abitanti entrano ed escono di scena, muovendosi rapidamente tra le calli, come tra le quinte di un palcoscenico. Ma in ciò che Simmel considera come un palcoscenico senza vita – ovvero la totale artificialità della “bellezza mendace della maschera”18 di Venezia – è anche l’essenza della vita urbana della città, nonché la tragedia della modernità e della moda che la incarna. All’opposto dell’immagine simmeliana, lo storico dell’arte Sergio Bettini invoca un ragionamento “concretamente storico” che possa togliere Venezia dal mito e da un’idea “per la quale a rigore non pare nemmeno necessaria un’esperienza concreta”19. Muovendosi tra le posizioni di Simmel e Bettini, questo contributo si propone di superare la dicotomia tra artificiale e autentico, tra Venezia come teatro e come “esperienza concreta”. Cerca di comprendere come si possa fare un’esperienza della Venezia teatrale (Simmel) e come l’esperienza concreta (Bettini) di Venezia sia comunque minata dal preconcetto di Venezia, città che tutti conoscono prima ancora di esserci stati. Poiché la vita urbana è l’opera d’arte di Venezia, il lavoro nella moda che svolgono artigiani e brand indipendenti può aiutare a rivedere le opposizioni binarie tra vero e falso, verso una visione di consapevolezza storica del mito e senso di dovere nei confronti della città. In questo senso, la moda può essere parte di un nuovo progetto della città e rappresentare una pratica di redirezione, che stimoli relazioni compatibili e sostenibili tra residenzialità e turismo. In questo articolo ci si riferisce agli “artigiani in bottega” e ai fashion designer indipendenti come facenti parte dello stesso fenomeno di chi lavora su piccola scala, su base locale e sceglie, per vocazione o necessità, di restare ai margini delle dinamiche della moda di massa20.

Partendo da queste premesse, la ricerca si è posta l’obiettivo di rilevare le tracce di chi progetta e produce la moda a Venezia e di far emergere una rete di artigiani e designer indipendenti – tessutai, shoemaker, sarti, designer di gioielli – che operano tra le pieghe della città, spesso defilati rispetto ai percorsi turistici. Il contributo intende dimostrare che gli artigiani attivi nella moda a Venezia non sono semplici attori che mettono in vetrina saperi di un passato ideale, rimarcando lo stereotipo di luogo fuori dal tempo, ma sono attivi nel proporre un’esperienza e una lettura della città alternative.

L’idea elaborata dallo storico dell’arte John Potvin che la moda in relazione allo spazio non è semplicemente un prodotto del lavoro, ma una pratica dell’essere nel mondo e un’attività sensuale21, fornisce una chiave interpretativa della relazione tra gli artigiani in bottega, la moda, Venezia e il turismo. Lo spazio e la moda sono concepibili come un’esperienza, all’interno di un processo di doppia identificazione tra gli artigiani e la città: da un lato sono ideati, realizzati e venduti oggetti che permettono all’artigiano e al turista di essere parte di Venezia – condividendo con il loro corpo e i loro sensi la storia, gli immaginari, i tempi – dall’altro anche le realtà artigiane in esame partecipano alla dimensione turistica della città stessa.

Attraverso un lavoro di ricerca sul campo, sono stati analizzati gli artigiani della moda attivi nella città lagunare e le loro aspirazione a condurre una “vita normale”22 pur all’interno di un contesto eccezionale. Eccezionalità e nostalgia non si collocano qui in opposizione a normalità, ma l’unicità di Venezia sembra rendere possibile la loro coesistenza. I casi analizzati risultano promotori di un’azione politica e di resistenza, contrastando la visione dominante della relazione tra Venezia e turismo. Sono ideatori di esperienze one on one, in cui avere cura del corpo, umano e urbano, con un approccio su misura. La moda diventa così anche strumento attraverso cui mettere in relazione locale e globale, residenzialità e turismo.

Metodologia della ricerca

Per sviluppare l’indagine sulla relazione tra moda e turismo a Venezia è stato deciso di coinvolgere coloro che in città ideano, realizzano e vendono tessuti (Tessuti Artistici Fortuny23 e Tessitura Luigi Bevilacqua24), calzature (Gabriele Gmeiner25 e Atelier Segalin di Daniela Ghezzo26), abiti (Tabinotabi27, Antonia Sautter28 e Franco Puppato29), gioielli (Attombri30 e Marina e Susanna Sent31) e occhiali (Micromega32). I casi di studio sono stati selezionati in modo da includere diverse localizzazioni nella città, relazioni con i flussi turistici, storia e anni di attività, dimensioni dell’azienda e tipologie di prodotto. La ricerca è stata condotta attraverso una metodologia che comprende principalmente una raccolta di interviste e di documentazione visiva (fotografia e video)33. Le interviste semistrutturate sono state realizzate tra il 12 marzo e l’8 luglio 2021 presso i laboratori degli artigiani e delle artigiane coinvolti nell’indagine, registrate e successivamente trascritte. Le domande sono state progettate per mappare le opinioni degli intervistati su Venezia e il suo futuro, sul rapporto tra turismo e residenzialità e sulle caratteristiche dell’attività professionale sviluppata. Ulteriori elementi utili alla ricerca sono stati ricavati dall’osservazione dei luoghi di produzione e vendita dei casi studio, consentendo di verificare la loro relazione con lo spazio urbano circostante, le dinamiche tra interno ed esterno, tra privato e pubblico. Il testo è accompagnato da una selezione di immagini realizzate nel corso dell’indagine visiva, condotta parallelamente alle interviste e ugualmente frutto della ricerca. La scelta di lavorare con un doppio strumento metodologico deriva dalla considerazione che Venezia è stata nel tempo indagata e raccontata non solo attraverso le parole, ma anche visivamente34 e che l’ambito visivo al pari di quello letterario ha contribuito a modificare nel tempo gli immaginari della città.

L’idea di coinvolgere gli artigiani della moda deriva dall’ipotesi che siano importanti mediatori per interpretare Venezia, i suoi flussi turistici e lo sguardo dei turisti sulla città. Dalla loro postazione, in cui creano, realizzano e vendono, hanno l’opportunità di osservare con continuità ciò che accade all’esterno e all’interno del laboratorio e di entrare in una relazione più o meno duratura con turisti e residenti. La lettura proposta in questo contributo è certamente parziale, non intende documentare tutte le modalità di fruizione turistica della città e della moda, ma ha l’obiettivo di registrare quella tipologia di turismo, qui definita one on one, interessato a individuare esperienze dirette e su misura della città e della moda. Risultati molto diversi sarebbero certamente potuti emergere procedendo con interviste qualitative o quantitative ai turisti o a chi lavora nelle boutique dei brand internazionali del lusso. La scelta di concentrare l’attività di ricerca su una precisa modalità di esperienza della moda, registrando e analizzando il punto di vista di fashion designer indipendenti e artigiani è certamente parziale e merita di essere sviluppata, in una seconda fase del lavoro, attraverso la verifica e il confronto diretto con il punto di vista di turisti e consumatori. Questa scelta tuttavia non intende escludere gli aspetti di consumo della moda e di Venezia; al contrario nasce dalla consapevolezza che gli autori della moda non sono solo dei soggetti che producono, ma sono essi stessi prodotti e quindi oggetto di consumo, come le analisi sui discorsi dei fashion designer hanno rilevato35. L’esistenza di queste specifiche realtà artigianali a Venezia dimostra quindi la presenza, forse poco visibile, di un pubblico che cerca esperienze alternative. Per questo motivo è parso urgente concentrarsi soprattutto sul punto di vista degli artigiani e designer che operano nella moda, proprio nel momento in cui si discute quale idea di Venezia sostenere dopo la crisi pandemica, auspicando che la moda possa incentivare un nuovo modello di città e di turismo.

Essere a Venezia, essere nel mondo

Il viaggio, nella sua dimensione spaziale e temporale, è parte della storia e dell’immaginario di Venezia e la ricerca sul campo ha confermato l’esistenza ancora oggi di questa peculiarità nel rapporto tra la città, i turisti e la moda. Ai tempi della Serenissima, Venezia era un luogo privilegiato da cui osservare il mondo36 e i suoi costumi37 e in cui produrre oggetti da esportare. Ancora oggi la città accoglie e promuove diverse forme di viaggio – di persone e di cose – che mettono in comunicazione tempi, territori e culture.

Un primo simbolico segnale di quanto il viaggio sia parte di Venezia è il nome del brand di uno dei casi studio indagati, Tabinotabi, progetto di abiti realizzati con un filato ricavato dalle alghe (Fig.1). La sua ideatrice, Alessandra Defranza, dichiara di averlo scelto per comunicare il concetto di “viaggio-non-viaggio”, a partire dal significato in giapponese del termine tabi: “perché a Venezia si può viaggiare rimanendo fermi”. Si delinea l’idea che questa città, pur estesa su un territorio geograficamente molto limitato, consenta di vivere esperienze altrimenti possibili solo viaggiando in luoghi lontani. Locale e globale si intrecciano in modo unico; da una prospettiva si può osservare il mondo nella città, ma va ugualmente ricordato, come evidenzia Roberto Carlon, fondatore del laboratorio di occhiali artigianali Micromega, che Venezia va considerata una città nel mondo, ancorata alle dinamiche della contemporaneità.

Nell’esperienza degli intervistati il viaggio appare come un’esperienza complessa: viaggiano i turisti, che da molti paesi del mondo arrivano a Venezia; ma viaggiano anche gli artigiani e i loro oggetti, che dalla città lagunare si spostano con destinazioni più o meno lontane. L’arrivo a Venezia dei turisti è certamente il fenomeno più evidente. È “la vita da fuori”, come osserva Gabriele Gmeiner, che entra in città ed è spettatrice di ciò che accade, un’immagine che a prima vista sembra confermare l’idea di Simmel del turista catapultato in uno spettacolo di città i cui abitanti sono attrici e attori. Nei giorni di grande afflusso, questa massa diventa critica e la shoemaker di origine austriaca la paragona all’acqua alta: “Venezia è come inondata”. Considera una fortuna essere in disparte, defilata rispetto ai grandi flussi, potendo così rimanere “all’asciutto”. Nella lettura offerta dagli artigiani sul turismo a Venezia non emergono, però, solo le criticità al centro da anni del dibattito collettivo38. Dal loro punto di osservazione hanno individuato una precisa tipologia di turisti, definiti “viaggiatori” da Antonia Sautter e Daniela Ghezzo, che non sono solo spettatori passivi della città, ma cercano esperienze su misura in cui la moda possa essere un mezzo per costruire partecipazione, anziché isolamento. Ghezzo riflette su un aspetto antropologico del suo lavoro di shoemaker, ovvero sul piede per cui realizzerà la calzatura su misura; osserva che incontrare nel suo laboratorio persone che provengono da tutto il mondo le offre la possibilità di “incontrare dei piedi nuovi”, diversi da quello veneziano, italiano o europeo (Fig.2). Il turista non è quindi solo un cliente, ma è portatore – anche inconsciamente – di aspetti inediti. Ghezzo dichiara che, anche per questo motivo, non ha mai sentito il bisogno di andare via da Venezia: dal suo laboratorio ha “la percezione di stare in mezzo al mondo”. Una testimonianza simile emerge durante l’intervista rivolta a Giulia, tessitrice presso Luigi Bevilacqua, dove da quasi centocinquant’anni si realizzano velluti a mano con telai in legno del XVIII secolo provenienti dalla scuola della seta della Repubblica di Venezia (Fig.3). È un luogo spesso visitato e questo aspetto viene vissuto come “uno scambio culturale”, nel modo in cui i turisti osservano e reagiscono: “si vede il luogo da cui arrivano e l’esperienza che hanno, questo ti arricchisce molto”.

Tra gli artigiani intervistati è ricorrente il desiderio di trasformarsi a propria volta in turisti, allontanandosi temporaneamente da Venezia. Come dichiara Ghezzo, è importante ogni tanto andare via dalla città: “l’abbandono di Venezia è fantastico, il ritorno a Venezia è fantastico”. Con queste parole sembra emergere che la percezione degli artigiani di trovarsi in un luogo particolare è meglio comprensibile riscoprendo le differenze con altri luoghi. Anche Sent e Sautter dichiarano di aver viaggiato spesso, di aver provato altrove esperienze, anche professionali, ma di aver sempre desiderato il ritorno. I viaggi rappresentano anche un’occasione per individuare nuovi stimoli creativi, come nel caso di Attombri, che riconoscono le influenze nel loro lavoro dei frequenti viaggi in Giappone; consentono di conoscere nuovi clienti, anche grazie a imprese sportive come le traversate d’Europa in bici di Franco Puppato “con il metro in tasca”; permettono di vedere il risultato del proprio lavoro nel luogo di destinazione, come le tessitrici di Luigi Bevilacqua nel Palazzo reale di Dresda.

Questo ultimo aspetto apre all’osservazione di un’altra tipologia di viaggio, che è quella che caratterizza gli oggetti realizzati dagli artigiani. Dalle interviste emerge la consapevolezza che questi finiranno in ogni parte del mondo portando con sé tracce di Venezia, diventandone una testimonianza e un simbolo, come negli anni sono stati i merletti di Burano, i velluti, le sete, i vetri di Murano. Utile è la riflessione di Carla Turrin, a proposito dell’esperienza di lavorare da Fortuny: “è estremamente piacevole arrivare qui, sapere che c’è questo luogo che ogni mattina attira le diverse maestranze per la realizzazione di tessuti che da qui partono e vanno a tutte la latitudini. Tutti i tessuti Fortuny, in qualsiasi luogo del mondo, sono stati fatti qui, sono partiti da qui” (Fig.4). Gli oggetti degli artigiani portano dunque metaforicamente Venezia nel mondo, ne sono ispirati, racchiudono più o meno direttamente alcune caratteristiche della città. È questa l’opinione di Stefano e Daniele Attombri quando affermano che una persona che indossa una loro collana di conterie, perle di vetro di Murano prodotte alla metà del XX secolo e recuperate recentemente dai magazzini delle fornaci, sta indossando un pezzo di storia di Venezia (Fig.5). Anche le calzature realizzate da Daniela Ghezzo inglobano il carattere della città; emblematiche sono le sue chopine39, scarpe con alte zeppe diffuse a partire dall’inizio del XVI secolo, ritratte nei dipinti del Carpaccio e conservate al Museo di Palazzo Mocenigo e al Museo Correr. Ghezzo è consapevole che, estrapolato dal contesto locale e collocato in qualsiasi altro luogo del mondo, quel modello di scarpa crea una immediata connessione con Venezia. Esemplificativo di come gli oggetti siano metafora di Venezia è anche il caso di Tabinotabi, che ha scelto di creare abiti a partire dalle alghe, così legate all’immaginario visivo e letterario della città.40 Defranza dichiara che i turisti sono particolarmente incuriositi dal processo che trasforma le alghe in filato, tessuto e abito, cercando di coglierne con attenzione le caratteristiche visive, tattili e olfattive. Se da un lato Tabinotabi dimostra come Venezia sia in grado di incentivare progetti che si confrontano con le questioni della moda contemporanea, come ad esempio i tessuti con fibre naturali innovative, dall’altro contribuisce a generare relazioni tra oggetti, persone e luoghi.

Figura 1: Tabinotabi, 2021. Ph: Camilla Glorioso
Figura 2: Atelier Segalin di Daniela Ghezzo, 2021. Ph: Camilla Glorioso
Figura 3: Tessitura Luigi Bevilacqua, 2021. Ph: Camilla Glorioso
Figura 4: Fortuny, 2021. Ph: Camilla Glorioso
Figura 5: Attombri, 2021. Ph: Camilla Glorioso

Trasparenza e opacità

All’interno della dimensione del viaggio, un elemento analizzato nel corso della ricerca sul campo è la relazione visiva tra i casi di studio e lo sguardo del turista che attraversa la città. Alcune realtà si caratterizzano per un elevato grado di trasparenza, mettendo in vetrina i processi produttivi e rendendoli visibili al pubblico; altre, all’opposto, appaiono più opache, comunicando quell’idea di segretezza che per secoli ha contribuito a costruire un’aura magica attorno alla moda occidentale.

La trasparenza emersa nei casi indagati è collegata alle caratteristiche architettoniche dei luoghi di produzione e vendita e al loro inserimento nel tessuto urbano. Due esempi significativi di questo fenomeno sono i casi Gabriele Gmeiner e Attombri: il primo è un laboratorio che confeziona calzature su misura, il secondo produce gioielli con filo di metallo e conterie. Entrambi si caratterizzano per la forte permeabilità tra spazio pubblico e privato; l’azione degli artigiani si compie davanti alla vetrina ed è perfettamente visibile, creando una stretta connessione tra ciò che accade all’interno e all’esterno. L’ambiente di Attombri è un piccolo spazio rettangolare, interamente vetrato su due lati, che si trova ai piedi del ponte di Rialto; al centro è collocato un tavolo nel quale l’artigiano realizza i gioielli davanti agli occhi di chi cammina all’esterno, tutto attorno sono esposti per la vendita gli oggetti conclusi. I fratelli Stefano e Daniele Attombri durante l’intervista sottolineano l’eccezionalità del rapporto con l’ambiente in cui lavorano. “A volte è difficile essere in vetrina, essere in strada”, evidenziando quanto la trasparenza del vetro porti all’esterno ciò che accade dentro il laboratorio. Nelle parole di Gabriele Gmeiner emerge al contrario l’intenzione – non realizzata per ragioni economiche – di far entrare l’esterno dentro la progettazione degli interni del laboratorio: “volevo tirare dentro i masegni, tirare dentro il campiello41”, dichiarando così la volontà di trovare una continuità tra la città e lo spazio produttivo. Questa relazione viene esplicitata da Gmeiner: “qua in bottega ho le finestre aperte, il fuori e dentro sono collegati, sono integrata nella città”, dichiarando come dalla postazione di lavoro osservi il “microcosmo veneziano” (Fig.6). Tuttavia la trasparenza rischia di trasformare l’artigiano in attore e il laboratorio in palcoscenico, unicamente a servizio di una certa modalità di turismo; per questo Gmeiner non è disposta ad accogliere visite guidate nel proprio spazio: “siamo al limite tra Disneyland e la vera città; non è un’attività turistica”. Con queste parole sottolinea la normalità della sua attività, parte della città e della quotidianità, rifiutando di essere una rappresentazione per l’intrattenimento del turista. La scelta di Gmeiner contrasta, dunque, la sempre maggiore richiesta del turismo culturale e creativo di esperienze che consentano di scoprire i segreti della produzione della moda e del saper fare legato al Made in Italy, portando il pubblico nella provincia italiana o spostando temporaneamente gli artigiani nelle città della moda42.

I casi di Attombri e Gmeiner consentono di comprendere che, in un luogo come Venezia dove l’unica velocità di movimento possibile a terra è legata al passo, la trasparenza del limite che separa il laboratorio artigianale dallo spazio urbano tende a ibridare e a fondere la dimensione privata e quella pubblica. Un diverso approccio, che insiste invece sulla moda come fenomeno magico da non svelare43, è rappresentato dal caso di Fortuny, azienda che da un secolo realizza tessuti stampati attraverso un procedimento ideato dal fondatore Mariano Fortuny e tuttora tenuto segreto. La fabbrica, situata sull’isola della Giudecca, è un luogo molto visibile all’esterno: sulla facciata in mattoni, prospiciente il Canale della Giudecca, compare il nome dell’azienda. L’interno, però, è inaccessibile ai clienti, che possono entrare solo nell’area dedicata alla vendita, né viene comunicata alcuna immagine dei luoghi in cui i tessuti sono stampati. Durante l’intervista a Carla Turrin, responsabile dello showroom di Fortuny, emerge quanto l’identità del marchio sia costruita attorno a questa segretezza, a un processo quasi magico, che trasforma un tessuto in un materiale “prezioso, unico, irripetibile”, simulando damaschi44. Turrin dichiara che sono pochissime le persone ad avere accesso ai luoghi della produzione; nemmeno lei è mai potuta entrare e sono al massimo una decina coloro che nel tempo hanno conosciuto ogni aspetto dei processi di realizzazione. Questa narrazione è costruita sull’idea di lusso come segreto, sul manufatto artigianale come oggetto artistico, fermo nel tempo, da proteggere e celare. La segretezza caratterizza anche la sartoria di Franco Puppato che, a differenza degli altri casi analizzati, fin dalla sua origine negli anni Sessanta si trova al primo piano di un edificio, non visibile dallo spazio pubblico. Come viene ricordato durante l’intervista, per consuetudine le sartorie non si affacciano sulla strada, sono luoghi privati in cui il cliente si sente protetto ed è servito quasi segretamente. Però, a differenza di Fortuny, qui il luogo della produzione rimane nascosto solo a chi percorre la città, non ai potenziali clienti. Questi entrano in uno spazio dove ogni azione compiuta dal sarto è visibile, dalla rilevazione delle misure al taglio del tessuto, dallo stiro alla confezione. La conoscenza di questa attività, dunque, non avviene attraverso un incontro casuale mentre si attraversa la città, ma grazie a una conoscenza pregressa e al passaparola, elemento che si ritrova anche nelle parole di Marina e Susanna Sent, sorelle che sull’isola di Murano ideano e realizzano gioielli in vetro (Fig.7). Durante l’intervista dichiarano: “Abbiamo sempre lavorato sul passaparola, sia per riservatezza, sia perché ci piace che ci sia un po’ di segreto. E questo alimenta la curiosità delle persone che vengono fin qui per vedere”.

Figura 6: Gabriele Gmeiner, 2021. Ph: Camilla Glorioso
Figura 7: Marina e Susanna Sent, 2021. Ph: Camilla Glorioso

Venezia come macchina del tempo

I viaggi a Venezia non sono solo uno spostamento nello spazio, ma anche nella dimensione temporale. L’esperienza del tempo sembra assumere in questa città caratteristiche diverse rispetto ad altri luoghi, rendendo meno netto il confine tra passato, presente e futuro45. Se a una prima lettura si può interpretare Venezia come un sogno sospeso nel tempo, riprendendo l’immagine di Giorgio Agamben46, l’indagine condotta evidenzia quanto sia in realtà connessa al presente. Riflettendo sull’esperienza quotidiana della moda, Heike Jenss ha sostenuto che la moda stessa può essere vista come una materializzazione del tempo, “come uno sforzo di rendere il tempo e il presente materialmente afferrabile, di iscrivere se stessi nel momento”47. In parte questa materializzazione del tempo, o dei tempi, può derivare dal ruolo primario del corpo nella relazione con la città, che condiziona i ritmi e gli spostamenti. “Qui il tempo è quello della marea e quello del passo”, ricorda Carla Turrin durante l’intervista, evidenziando come gli spostamenti a Venezia – considerata a sua volta un essere che respira attraverso la marea – dipendano necessariamente dalla velocità della camminata. È anche significativa la testimonianza di Giulia, tessitrice di Bevilacqua, che descrive la normalità del suo spostamento quotidiano dall’abitazione sull’isola di Pellestrina al luogo di lavoro, nel Sestiere di Santa Croce: una distanza in linea d’aria di pochi chilometri, ma che diventano un itinerario di due ore tra le isole della laguna. Ciò che agli occhi del turista può sembrare lento o appartenente a un’altra epoca, è invece l’esperienza attuale di Venezia.

Come osserva Turrin, la fabbrica di Fortuny si trova nello stesso luogo da cento anni e al suo interno accade nel 2021 ciò che accadeva un secolo fa. Afferma di essere consapevole che i tessuti prodotti possano apparire fuori dal tempo, ma ritiene invece che lo stiano solo percorrendo a un’altra velocità. Il viaggio nel tempo ritorna anche nelle parole della tessitrice di Bevilacqua. Lo stacco dal presente avviene già all’ingresso dell’azienda, dove i lavoratori timbrano i cartellini con obliteratrici a manovella. Anche il lavoro avviene senza elettricità, utilizzata esclusivamente per la lampadina collocata sopra a ogni telaio manuale. Anche qui, come nella relazione con la città, il corpo è l’unico motore che imprime ritmo e forza al telaio (Fig.8). Cambia di conseguenza il parametro di produttività che, invece di essere nell’ordine di centinaia di metri al giorno come con i telai elettrici, oscilla tra i trenta e i quaranta centimetri in otto ore di lavoro.

Va però evidenziato che nelle parole degli artigiani raramente compare l’aggettivo lento per descrivere la propria attività, per questo motivo si è scelto di non usare il discorso dello slow – fashion o tourism – come inquadramento generale, a favore di una prospettiva di futuring. Tra “slow” e “futuring” ci sono aspetti in comune, in particolare la condivisione dell’attenzione per un sistema più etico di produzione e consumo della moda. Sullo slow tuttavia pesano alcune contraddizioni, evidenziate per esempio da Hazel Clark, che ha messo in luce come tale discorso sia un ossimoro della concezione dell’industria della moda contemporanea48. Il futuring, invece, suggerisce pratiche di redirezione della moda non impostate sull’alternanza del binomio fast/slow. A differenza dei movimenti slow, nati programmaticamente in opposizione a sistemi della moda ritenuti non sostenibili49, i casi analizzati lavorano alla costruzione di nuove comunità di residenti stabili e temporanei per Venezia. Nel fare questo, operano in modo individuale, ma condividendo obiettivi comuni di resistenza e resilienza alle trasformazioni della città. Pur accogliendo implicitamente nelle loro pratiche molti elementi connessi ai temi della sostenibilità ambientale, ad emergere è soprattutto l’impegno sociale di trasformare la loro conoscenza di Venezia in una forma di attivismo che indichi una possibile via di esistenza per la città. Nelle teorizzazioni di Tony Fry e di Franco (Bifo) Berardi, “futuring” e “futurabilità” non si esauriscono infatti nella categoria temporale del futuro, ma suggeriscono un orizzonte di possibilità50. Il tempo e la velocità di produzione di cui parlano gli intervistati non implicano quindi un rallentamento rispetto ai ritmi del sistema della moda, ma sono quelli più adeguati a rendere possibili le esperienze one on one qui esaminate. Come dichiara Daniela Ghezzo, “i tempi di una scarpa su misura seguono delle regole” che derivano da esperienze consolidate negli anni. “Se un cuoio deve stare a bagno un paio d’ore per riuscire ad avere le caratteristiche di elasticità e forza che serviranno poi per andare a cucire con gli spaghi a mano una scarpa da uomo, vuol dire che quel processo è stato studiato, pianificato e messo in opera per tantissimi anni”. Anche Gabriele Gmeiner è consapevole che realizzare calzature su misura richiede un lavoro al di “fuori dal tempo industriale”. Questi tempi su misura sono parte dell’esperienza vissuta da chi le commissiona un paio di scarpe: “i miei clienti sono ben pazienti e sanno che questo processo non è immediato”. L’attesa è una componente del progetto: non è solo il cliente ad aspettare che la scarpa venga realizzata con i giusti tempi, ma è anche la shoemaker che deve attendere il periodo di prova del prototipo per raccogliere tutte le informazioni e i difetti da correggere. E proprio il tempo, considera Gmeiner, rappresenta il lusso di queste esperienze one on one, sottolineando in questo caso un punto di contatto con la slow fashion, quando dice che “il lusso qui non è il marmo per terra o le maniglie dorate, ma il tempo impiegato. Ciò che il cliente paga non è solo il materiale, ma è soprattutto il tempo”.

Inoltre, nei casi analizzati lo sguardo in avanti e la ricerca di innovazione sono altrettanto importanti del passato. Emblematico è il caso di Fortuny, il cui fondatore era un inventore, affascinato dalla ricerca nei campi dell’illuminotecnica, della fotografia, scenografia, oltreché nei processi di stampa e tintura dei tessuti. Questa eredità sperimentale si ritrova nelle esperienze recenti di brand come Tabinotabi, nato dalla ricerca di tessuti innovativi e sostenibili per la moda e Micromega che ha depositato negli anni vari brevetti per la realizzazione di occhiali senza l’utilizzo di saldature, viti, colle e rivetti (Fig.9).

Figura 8: Tessitura Luigi Bevilacqua, 2021. Ph: Camilla Glorioso
Figura 9: Micromega, 2021. Ph: Camilla Glorioso

Conclusioni

Le esperienze considerate hanno consentito di riflettere sull’attuale cultura della moda a Venezia e sulle sue relazioni con il turismo, in una prospettiva globale; sulle motivazioni – anche di natura urbanistica – che la tengono legata a una dimensione individuale e di bottega; sull’importanza vitale del turismo; sul desiderio di dare un contributo, attraverso il loro lavoro, a migliorare la fruizione turistica della città; sulla collocazione di queste realtà all’interno del tessuto urbano, sia nelle zone più centrali di Venezia sia in aree marginali, e su come la loro scoperta produca una diversa walkability della città. Questo articolo è il primo esito di una ricerca sul rapporto tra Venezia e la moda attraverso l’analisi di casi di artigiani e brand indipendenti. Concentrandosi sulla loro voce, il lavoro condotto ha permesso di ripensare le implicazioni culturali, ambientali e socio-economiche di chi lavora nell’ideazione e produzione della moda a Venezia e il loro ruolo nel dare un volto alla città stessa. La ricerca ha tuttavia messo in luce anche alcuni limiti, derivanti principalmente dell’approccio scelto. Il limite principale riscontrato è la scarsa articolazione della figura del “turista” che nei racconti degli intervistati si sovrappone spesso con il cliente, ovvero con persone consapevoli per l’ambiente, sensibili nei confronti della sostenibilità di Venezia e dotate di disponibilità economiche. Di conseguenza, interviste qualitative a turisti/clienti dei brand analizzati potrebbero fornire una fondamentale prospettiva di approfondimento in una seconda fase della ricerca.

Nel 2020 Venezia è stata, anche visivamente, uno dei simboli della pandemia. Senza turismo e con una quantità di residenti pari a un piccolo centro della provincia italiana, è apparsa completamente vuota e immobile, suscitando molti interrogativi sul suo futuro e sulla possibilità di incentivare un'idea alternativa di città. Estendendo alla moda l’auspicio espresso da Vittorio Gregotti oltre venti anni fa, il contributo ha cercato di dimostrare che Venezia rappresenta un banco di prova del ritorno a una nuova normalità.

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  1. Vedi: Antonio Paolo Russo e Albert Aria Sans, “Student communities and landscapes of creativity. How Venice — ‘the world’s most touristed city’ — is changing,” European Urban and Regional Studies, Vol. 16, n. 2 (2009): 161–175. Giacomo Maria Salerno, Per una critica dell’economia turistica. Venezia tra museificazione e mercificazione (Macerata: Quodlibet, 2020).↩︎

  2. Wendy Ligon Smith, “Reviving Fortuny’s Phantasmagorias”, tesi di dottorato, University of Manchester 2015.↩︎

  3. Sara Dotto, “Viaggio in un’isola moderna. Attraversamenti di moda e architettura nel Lido di Venezia degli anni venti,” in Moda, città e immaginari, a cura di Alessandra Vaccari (Milano-Udine-Venezia: Mimesis-DCP Iuav, 2016), 106-115.↩︎

  4. Irina Inguanotto, “Elda Cecchele and the Italian Fashion World: From Salvatore Ferragamo to Roberta di Camerino (1950–1970),” Textile History, Vol. 43, n. 2 (2012): 223–249.↩︎

  5. Elda Danese, “Le sfilate di alta moda al Centro internazionale delle arti e del costume,” in Bellissima. L’Italia dell’alta moda 1945-1968, a cura di Maria Luisa Frisa, Anna Mattirolo e Stefano Tonchi (Milano-Roma: Electa-MAXXI, 2014), 302–305.↩︎

  6. “Venezia, ore 17 Cafè Florian: sfila la donna mitteleuropea di Walter Albini,” Vogue Italia, n. 260–261 (luglio-agosto1973): 113. Nell’articolo viene riportata una dichiarazione di Walter Albini sulla scelta di sfilare a Venezia: “Voglio sprovincializzare la moda, per questo cerco ambienti diversi, dove gli abiti possano avere una vita nuova”.↩︎

  7. Gianfranco Mossetto, “A Cultural Good Call Venice,” in Cultural Economics, a cura di Ruth Towse e Abdul Khakee (Berlino-Heidelberg: Springer-Verlag, 1992), 247–256.↩︎

  8. Tony Fry, Design Futuring: Sustainability, Ethics, and New Practice (Londra–New York: Bloomsbury, 2008).↩︎

  9. Alice Payne, “Fashion Futuring in the Anthropocene: Sustainable Fashion as ‘Taming’ and ‘Rewilding’,” Fashion Theory. The Journal of Dress, Body & Culture, Vol. 23, n. 1 (2019): 5–23.↩︎

  10. Walter Mariotti, “Doug Aitken e l’opera d’arte totale per Saint Laurent,” Domusweb, 26 luglio 2021, https://www.domusweb.it/it/notizie/gallery/2021/07/26/green-lens-unopera-darte-totale-proiettata-verso-il-futuro-con-un-occhio-alla-storia.html [consultato l’11 agosto 2021].↩︎

  11. I giorni conclusivi di scrittura dell’articolo sono coincisi con un ulteriore esempio dell’attuale interesse per Venezia da parte dei brand internazionali del lusso. Dal 28 al 30 agosto Dolce & Gabbana ha presentato le collezioni Alta Moda, Alta Sartoria, Alta Gioielleria, Alta Orologeria e, per la prima volta, la linea casa in una serie di eventi e sfilate in diversi luoghi della città, tra cui Piazza San Marco, Palazzo Ducale, Mercato di Rialto, Scuola Grande della Misericordia, Scuola Grande di San Rocco, Arsenale.↩︎

  12. Massimiliano Tonelli, “Sfilate contemporanee: l’alta moda di Valentino alle Gaggiandre di Venezia assieme agli artisti,” Artribune, 15 luglio 2021, https://www.artribune.com/progettazione/moda/2021/07/sfilate-contemporanee-lalta-moda-di-valentino-alle-gaggiandre-di-venezia-assieme-agli-artisti/ [consultato l’11 agosto 2021].↩︎

  13. Dichiarazioni di Doug Aitken cit. in “Art, fashion, the city: Venice hosts Valentino and Yves Saint Laurent,” Speakart, https://www.speakart.it/en/art-fashion-the-city-venice-hosts-valentino-and-yves-saint-laurent/ [consultato l’11 agosto 2021]. “[S]ocial space that can work for fashion as well like anything else”; “I like too much this thing that the plants of the opera will then be planted on the island, it means that the artwork will continue to grow there even after it is disassembled”. Dove non diversamente specificato, le traduzioni sono di chi scrive.↩︎

  14. Chiara Bottoni, “L’inferno a Venezia di Rick Owens,” MF Fashion, 2 ottobre 2020, https://www.mffashion.com/news/livestage/l-inferno-a-venezia-di-rick-owens-202010012002307930 [consultato l’11 agosto 2021].↩︎

  15. Alessandra Vaccari, “Moda e città. Un’introduzione” in Moda, città e immaginari, a cura di Alessandra Vaccari (Milano-Udine-Venezia: Mimesis-DCP Iuav, 2016), 10–15.↩︎

  16. Christopher Breward e David Gilbert (a cura di), Fashion's World Cities (Oxford-New York: Berg, 2006). Hannah Azieb Pool (a cura di), Fashion cities Africa (Bristol: Intellect, 2016), catalogo della mostra di Brighton, Brighton Museum, 30 aprile 2016–8 gennaio 2017.↩︎

  17. Lise Skov, “Dreams of Small Nations in a Polycentric Fashion World,” Fashion Theory, Vol. 15, n. 2 (2011): 137–156; Simona Segre Reinach, Un mondo di mode. Il vestire globalizzato (Roma-Bari: Laterza, 2011).↩︎

  18. Georg Simmel, “Venice,” Theory, Culture & Society, Vol. 24, n. 7–8 (2007): 42-46.“Mendacious beauty of the mask”.↩︎

  19. Sergio Bettini, Forma di Venezia, Padova: Tipografia del seminario, 1960: 31.↩︎

  20. Simona Segre Reinach, Un mondo di mode. Il vestire globalizzato, Roma–Bari, Laterza, 2011: 76–81; vedi anche Alessandra Vaccari, “Self-Reliant Fashion. Nuovi approcci e pratiche. Introduzione,” Dialoghi Internazionali, n. 18 (2012): 164-167, https://www.milomb.camcom.it/dialoghi-internazionali-n.18-anno-2012 [consultato l’11 agosto 2021].↩︎

  21. John Potvin, “Introduction. Inserting Fashion Into Space,” in The Places and Spaces of Fashion, 1800-2007, a cura di John Potvin (New York-Londra: Routledge, 2009), 1–15.↩︎

  22. Vittorio Gregotti, Venezia. Città della nuova modernità (Venezia: Consorzio Venezia Nuova, 1998).↩︎

  23. http://www.fortuny.com [consultato il 6 agosto 2021]. L’intervista a Carla Turrin, responsabile dello showroom, è stata realizzata il 12 marzo 2021.↩︎

  24. https://www.luigi-bevilacqua.com [consultato il 6 agosto 2021]. L’intervista alla tessitrice Giulia è stata realizzata l’8 aprile 2021.↩︎

  25. http://www.gabrielegmeiner.com [consultato il 6 agosto 2021]. L’intervista alla shoemaker Gabriele Gmeiner è stata realizzata il 29 aprile 2021.↩︎

  26. http://www.danielaghezzo.it [consultato il 6 agosto 2021]. L’intervista alla shoemaker Daniela Ghezzo è stata realizzata il 2 aprile 2021.↩︎

  27. http://www.tabinotabi.com [consultato il 6 agosto 2021]. L’intervista ad Alessandra Defranza, ideatrice del marchio, è stata realizzata l’8 luglio 2021.↩︎

  28. http://www.antoniasautter.it [consultato il 6 agosto 2021]. L’intervista alla fondatrice Antonia Sautter è stata realizzata l’11 giugno 2021.↩︎

  29. http://www.francopuppato.it [consultato il 6 agosto 2021]. L’intervista a Franco Puppato è stata realizzata il 26 marzo 2021.↩︎

  30. http://www.attombri.com [consultato il 6 agosto 2021]. L’intervista ai fratelli Stefano e Daniele Attombri è stata realizzata l’8 luglio 2021.↩︎

  31. http://www.marinaesusannasent.com [consultato il 6 agosto 2021]. L’intervista alle sorelle Marina e Susanna Sent è stata realizzata il 19 marzo 2021.↩︎

  32. http://www.micromegaeyewear.com [consultato il 6 agosto 2021]. L’intervista al fondatore Roberto Carlon è stata realizzata il 3 giugno 2021.↩︎

  33. Il progetto visivo è stato realizzato in collaborazione con la videomaker Giulia Fassina, la fotografa Camilla Glorioso e l’art director Filippo Soffiati.↩︎

  34. Vedi ad esempio la mostra Venezia panoramica. La scoperta dell’orizzonte infinito, a cura di Giandomenico Romanelli e Pascaline Vatin, Fondazione Querini Stampalia, Venezia, 14 maggio – 12 settembre 2021, http://www.querinistampalia.org/ita/venezia_panoramica_la_scoperta_dellorizzonte_infinito.php. Vedi anche: Luca Rossi, Eric Boscaro e Andrea Torsello, “Venice through the Lens of Instagram: A Visual Narrative of Tourism in Venice,” in WWW '18 Companion of the The Web Conference 2018 (New York: ACM, 2018), 1190–1197.↩︎

  35. Alessandra Vaccari, La moda nei discorsi dei designer (Bologna: CLUEB, 2012).↩︎

  36. Bronwen Wilson, The World in Venice: print, the city, and early modern identity (Toronto: University of Toronto Press, 2005).↩︎

  37. Vedi Cesare Vecellio, De gli habiti antichi, et moderni di diverse parti del mondo (Venezia: 1590), e la lettura che ne offre Eugenia Paulicelli in Moda e letteratura nell’Italia della prima modernità. Dalla sprezzatura alla satira (Roma: Meltemi, 2019).↩︎

  38. Vedi: Hugues Seraphin, Paul Sheeran e Manuela Pilato, “Over-tourism and the fall of Venice as a destination”, Journal of Destination Marketing & Management, Vol. 9 (2018): 374–376. Francesco Visentin e Dario Bertocchi, “Venice: an analysis of tourism excesses in an overtourism icon”, in Overtourism: excesses, discontents and measures in travel and tourism, a cura di Claudio Milano, Joseph M. Cheer e Marina Novelli (Wallingford: CABI, 2019), 18–38.↩︎

  39. Harold Koda, “The Chopine,” in Heilbrunn Timeline of Art History (New York: The Metropolitan Museum of Art, 2000), https://www.metmuseum.org/toah/hd/chop/hd_chop.htm [consultato il 29 agosto 2021].↩︎

  40. Un esempio tra tutti è il primo approccio con Venezia descritto da Brodskij, associato all’odore di alghe sotto zero. Iosif Brodskij, Fondamenta degli incurabili (Milano, Adelphi: 1991).↩︎

  41. I masegni sono i blocchi di trachite che costituiscono la pavimentazione di Venezia. Il campiello corrisponde a una piccola piazza.↩︎

  42. Paolo Franzo, “L’artigianato in vetrina nelle città della moda,” in Moda, città e immaginari, a cura di Alessandra Vaccari (Milano-Udine-Venezia: Mimesis-DCP Iuav, 2016), 296–307.↩︎

  43. Alistair O'Neill, “Here is the secret, here is the trick,” Vestoj, The Journal of Sartorial Matters, n. 2 (2011): 15–19.↩︎

  44. L’illusione sembra essere un’eredità del lavoro complessivo di Mariano Fortuny, non solo della capacità di realizzare tessuti desiderabili a partire da un materiale semplice da reperire dopo la fine della prima guerra mondiale, ma anche delle sue precedenti sperimentazioni in ambito teatrale: il Dome, che ha consentito di illuminare per la prima volta in modo omogeneo il palcoscenico, e lo scorrere di tessuti colorati sullo sfondo della scena per simulare il cambio di luce solare.↩︎

  45. Sulle diverse concezioni del tempo in relazione alla moda vedi: Caroline Evans e Alessandra Vaccari (a cura di), Time in Fashion (Londra-New York: Bloomsbury, 2020).↩︎

  46. Giorgio Agamben, Nudità (Roma: Nottetempo, 2009): 61.↩︎

  47. Heike Jenss, Fashioning Memory. Vintage Style and Youth Culture (Londra-New York: Bloomsbury, 2015): 139.↩︎

  48. Hazel Clark, “SLOW + FASHION—an Oxymoron—or a Promise for the Future…?,” Fashion Theory, Vol. 12, n. 4 (2008): 427–446.↩︎

  49. Kate Fletcher, “Slow Fashion: An Invitation for Systems Change,” Fashion Practice, Vol. 2, n. 2 (2010): 259–265.↩︎

  50. Tony Fry, Design Futuring. Sustainability, Ethics and New Practice (Londra-New York: Bloomsbury, 2008). Franco (Bifo) Berardi, Futurabilità (Roma: Nero, 2018).↩︎