Gli esordi
Pompei è senza dubbio tra i siti archeologici più frequentati al mondo, accogliendo ogni anno più di tre milioni di visitatori, interessati alla conoscenza di un patrimonio eccezionale, ma anche alla partecipazione ad attività culturali come Pompeii Theatrum Mundi, in cui il suo antico teatro si trasforma in un moderno spazio scenico.
Questo particolare utilizzo non è recente, ma pone le sue radici nel quadro delle attività intellettuali ed effimere di stampo storicista organizzate nella seconda metà dell’Ottocento, quando le rovine venivano esibite come cornice scenografica di feste e spettacoli per un pubblico di estimatori, che non erano più solo i pochi, selezionati viaggiatori del Grand Tour: a Pompei, allora c’era “un turismo più allargato, diciamo pure borghese, di quella borghesia che aveva da poco fatto l’Italia e alla quale Fiorelli, il vecchio rivoluzionario [e all’epoca sovrintendente] apriva gli scavi”1.
Nell’agosto del 1877 nel foro venne organizzata una festa privata dal conte Guglielmo de la Field a cui parteciparono eleganti signore e ricchi cavalieri arrivati con un treno da Napoli; una modalità tutto sommato nuova che coniugava le esigenze divulgative con la promozione degli itinerari sulla modernissima linea ferrata che da Napoli arrivava ormai in diversi centri della sua provincia meridionale. Dinanzi al tempio di Giove, che per l’occasione venne eccezionalmente illuminato da fasci di luce elettrica colorata, inaugurando una modalità moderna anche nella percezione del contesto archeologico, uno stuolo di figuranti in costume inscenò un sontuoso corteo imperiale2. Nerone appariva con uno splendido abito realizzato secondo il modello delle tuniche di età classica ed era preceduto dai littori, armati di verghe e scuri, e seguito dai consoli distinti dalle apposite trabee. Nell’ultima scena l’incendio del tempio riproponeva la catastrofe del 79 d.C., dopodiché tutto intorno tornava muto e deserto, lasciando stupiti coloro che avevano preso parte alla sorprendente celebrazione. Dopo diciotto secoli sulle vie della città sepolta, sui selciati di travertino degli Oschi e dei Sanniti, in un sol momento si affollarono i passi di duemila persone: “Pompei sembrò ripopolata al chiaro di luna e al riverbero di tanta luce, parve un luogo incantato”3.
Al successo di questa pioniera esperienza di teatralizzazione delle rovine e di spettacolarizzazione dei segni tangibili della storia, seguirono, nel 1884 le Feste pompeiane, finalizzate a una raccolta di fondi a sostegno delle popolazioni di Ischia colpite dal sisma del 18834. Questa volta venne allestito un grande circo, con un imponente palco imperiale nei pressi dell’anfiteatro5. Per l’inaugurazione, come nei famosi trionfi imperiali, venne previsto un corteo al seguito dell’imperatore Vespasiano, del quale si vollero riprodurre la cultura e i riti. I disegni pubblicati da Eduardo Dalbono sull’Illustrazione Italiana del 25 maggio 1884, restituiscono quanta cura fosse stata rivolta all’organizzazione dell’evento, alle scene e ai costumi, che nell’insieme dovevano restituire un’immagine quasi reale della sontuosa vita romana. Lo studio dell’abbigliamento e degli oggetti alludeva al costume classico tradizionale: gli uomini e le donne indossavano tuniche semplici nella linea, ma ricche di decori. Le matrone, per l’occasione, mettevano in mostra i loro gioielli; e tutti coloro che prendevano parte al cerimoniale si cingevano il capo con una corona d’alloro, proprio come Vespasiano, che seduto sulla lettiga, si lasciava condurre verso il palco. Al suo seguito, insieme agli ufficiali, c’erano anche i musicisti, coi cimbali e con le tube6. Una seconda lettiga, come mostra il disegno, recava la statua di Iside: a sostenerla erano quattro uomini che, per richiamare l’origine della divinità, indossavano un costume egizio, connotato dall’immancabile pettorina, da una parrucca e da un fascione metallico intorno alla vita. A seguire si tenevano, poi, “corse di bighe, giuochi di forza; salti, lotte al suono delle trombe”7. Tutte le scene, da quelle più gioiose, come il corteo nuziale, fino a quelle più tristi, come la cerimonia funebre, venivano infatti accompagnate da suoni che riproducevano quelli originali, così da sfruttare ed esaltare l’eccezionale acustica di quell’arena. Il pathos emerso dal corteo funebre, come riportano le cronache originali, era intensificato da un’ armonica melodia: “le prefiche intuonavano la nenia e l’arcimimo, incaricato di scimmiottare le mosse del morto quand’era in vita, era accerchiato da acrobati e pagliacci, i quali spiccavano salti grotteschi e con burleschi giochi contrapponevano il riso al dolore di tutti”8. I costumi dei pagliacci erano buffi: presentavano strane maschere sul volto, il corpo coperto da una tunica corta con la parte inferiore sfrangiata e un cappello allungato dalla punta ricurva come le scarpe. Tra le diverse rievocazioni previste in queste Feste, le lotte tra gladiatori erano quelle più seguite. Ad animarle ci furono cinquantadue comparse di gladiatori con le reti, i tridenti, gli scudi, i pugnali, tra i quali spiccavano i dieci traci a cavallo con le armature e le mostruose teste di metallo che facevano quasi paura. Era “una massa che ha del lugubre e dello splendido: lo scarlatto, il verde, il nero de’ pennacchi e l’azzurro, il rosso delle tunichette spicca[va]no in quell’insieme della famiglia gladiatoria”9. Per rendere l’evento ancor più coinvolgente, vennero allestite due botteghe su via dell’Abbondanza dove la degustazione di bevande e cibi, servita da personale in costume, era accompagnata anch’essa da musica classica; mentre gli ospiti illustri potevano consumare i pasti negli scavi o percorrere la città antica in portantina, rivivendo per puro piacere un rito speciale.
“Quale effetto offriva durante le feste pompeiane tutta quella folla elegante! Una società moderna in una città antica: una popolazione viva, in una città di morti!”10, così si esprimeva Vesevo nell’osservare le scene del 1884.
Il rilancio, tra propaganda politica e strategie culturali
L’arco temporale che va dagli anni venti del Novecento alla ripresa postbellica di metà secolo è il più proficuo per il gioiello dell’archeologia campana, sia per gli scavi, in progressivo e alacre avanzamento, sia per la loro fruizione turistica in chiave moderna.
Dopo la prima guerra mondiale l’ampliamento e il miglioramento della linea ferroviaria da Napoli ai paesi vesuviani con l’elettrificazione dell’intera rete11, accresce il traffico di viaggiatori e potenzia l’immagine di Pompei come icona della moderna mobilità12, mentre l’avvento del fascismo imprime un nuovo impulso ai lavori di scavo nei siti archeologici che, di riflesso, innesca un rinnovato interesse per Pompei da parte della stampa turistica13.
Ad incentivare la frequentazione della “città risorta”, favorendone la mitopoiesi che riviveva in molteplici forme di rappresentazioni artistiche, fu Amedeo Maiuri, Soprintendente alle Antichità della Campania e del Molise, nonché direttore degli scavi di Pompei ed Ercolano, dal 1924 al 196114. In questa lunga stagione, la manifestazione teatrale pompeiana non veniva più considerata un semplice evento di revival storico, come era accaduto a fine Ottocento, ma piuttosto l’occasione per restituire veridicità a un luogo definito morto da anni e per acquisire collegialmente e, poi, mettere a frutto tutta la sua incommensurabile forza attrattiva e mediatica. Il regime fascista, d’altronde, costituiva l’humus felix per l’ostentazione del primato italiano e l’esaltazione della classicità un diktat imprescindibile per architettare una Nazione nuova basata sui principi della romanità. In tal senso, l’uso strumentale della storia rispondeva alla marcata ricerca di consenso popolare di quel tempo: i beni archeologici esibivano un elevato valore iconologico e simbolico e la loro fruizione, tesa alla restituzione delle tracce concrete del passato, era condotta evidentemente “con un fine attualizzante”15. Con questo indirizzo fu data particolare rilevanza al teatro, concepito come una potente arma capace di persuadere attraverso l’esaltazione di miti e modelli da seguire nelle rappresentazioni di opere classiche messe in atto nelle più antiche arene d’Italia, come quelle di Paestum, Siracusa, Benevento. L’uso degli edifici teatrali classici assolveva a molteplici funzioni: quella di promozione del patrimonio storico, incentivando un appropriato flusso di visitatori, di propaganda e ricerca del consenso, e quella di coinvolgere fisicamente ed emotivamente il pubblico negli spettacoli con tema storico.
Nel teatro grande di Pompei, molto capiente e conservatosi quasi intatto, la prima manifestazione venne allestita il 12 maggio 1927 dalla Compagnia degli Illusi — il più importante centro napoletano per la produzione artistica della prima metà del Novecento — in collaborazione col regista e traduttore Ettore Romagnoli16. Il gruppo inscenò l’Alcesti di Euripide, un dramma a lieto fine, incentrato sul tema dell’umana fragilità. L’intento programmatico e simbolico della manifestazione, la sua assoluta novità nel quadro culturale partenopeo, la coerenza dei temi incarnati dalla protagonista ai valori celebrati dal Regime — la donna simbolo di fedeltà coniugale e di una devozione ossequiosa e ancestrale nei confronti del marito e dei figli —, la straordinaria macchina creativa che ne aveva curato la resa complessiva, la resero degna della presenza delle più alte cariche governative, come il re Vittorio Emanuele III, la principessa Elena d’Aosta e altri esponenti della nobiltà. Gli album che raccolgono le fotografie di Giulio Parisio volute dalla compagnia teatrale per farne dono sia a Mussolini che alla principessa D’Aosta (questo si conserva alla Biblioteca Nazionale di Napoli), ne presentano i molteplici aspetti scenografici, teatrali, sociali e di ambientazione, esaltando, di fatto, il grande entusiasmo del pubblico e il dialogo voluto tra il contesto architettonico e l’allestimento scenografico. Quest’ultimo fu curato dall’architetto Gennaro Luciano, sotto la direzione del professor Maiuri, che aveva voluto una ricostruzione della struttura architettonica secondo i canoni classici17.
Così come l’apparato scenico, anche gli attori con i costumi appositamente curati dalla principessa di Fondi18, costruivano il medium principale per definire l’immaginario tragico della narrazione rappresentata. Per esibire sul palcoscenico l’aspetto emotivo del lutto nelle sue molteplici componenti, il dolore della perdita, il senso di solitudine e di abbandono e la rabbia, gli attori principali indossavano costumi scuri e trucco nero che evidenziava gli occhi piangenti. La semplicità delle forme e la morbidezza del plissé che caratterizzava alcuni abiti catturavano la scena, quasi come un ossimoro della trama. La protagonista indossò più di un costume: quando ritornò dal regno dei morti, dopo aver tolto il velo che nascondeva la sua fisionomia, sfoggiò un lungo peplo di tessuto leggero e colore chiaro, quasi etereo, che entrava in contrasto con il mantello semilucido e increspato; il trucco era forte e cupo e la testa era segnata da una fascia stretta (Fig. 1). Il coro, formato da “alunne delle scuole classiche, ha costituito nella sua estetica compostezza uno degli elementi del successo di questo spettacolo”19 per la ieratica e suggestiva immagine corale (Fig. 2). La loro costumistica prevedeva tuniche lunghe, ornate solo sulla parte superiore e sul fondo da fasce scure con sagome lineari, a zig-zag o alla greca. Il leitmotiv decorativo della rappresentazione era una benda indossata sul capo: la si può notare sia sul volto di Alcesti, che dei servi e delle ancelle; rievocava quella striscia di stoffa che “si portava avvolta intorno al capo come segno di consacrazione alla divinità dai sacerdoti, dai vincitori degli agoni sacri, dalle vittime sacrificali”20.
Dopo alcune celebrazioni volute dal re e dal duce nella città romana che includevano danze e feste21, lo scoppio della seconda guerra mondiale impose una doverosa pausa al calendario degli spettacoli, dopo la quale, l’istituzione, nel 1950, della Cassa per il Mezzogiorno e il conseguente arrivo di cospicui fondi destinati a promuovere le attività culturali connesse al turismo, diede al Maiuri la possibilità di riprendere il lavoro iniziato precedentemente. “Pur nell’urgenza posta dalle rovine della guerra e dai bisogni materiali della popolazione, nell’opinione pubblica [era] condivisa l’idea che [fosse] necessario dare attenzione al turismo perché rappresenta[va] sia in termini economici che di svago per la comunità”22 un ambito di rilievo per la ripresa del Paese. Il bisogno di evasione dalla realtà, che era forte negli animi della popolazione dopo il conflitto, trovò dunque una risposta concreta nelle pratiche messe in atto dal turismo colto, diventando, poi, una caratteristica propria del fenomeno di massa più prossimo alla nostra età. Allora andava a consolidarsi una sorta di nazionalismo culturale fondato sulla superiorità artistica e storica del Paese, che si allontanava dall’esasperato patriottismo fascista, ma imprimeva nell’immaginario collettivo l’idea di un’Italia dotata di un’identità forte e capace di meravigliare il mondo intero grazie all’abilità di artisti, artigiani e creativi.
A favorire l’incremento del turismo nel territorio partenopeo, e in particolare in quello pompeiano, furono gli eventi organizzati dall’Ente Provinciale per il Turismo e dal Comitato delle Feste di Napoli che miravano a incentivare la frequentazione di siti naturalistici, ma soprattutto a creare eventi culturali che potessero conquistare l’interesse di un pubblico eterogeneo23. L’Ente rispetto a questa proposta nutriva un’ambizione più alta, chiarita dalle parole del suo stesso direttore Maiuri:
se il teatro classico deve sovrattutto servire a educare o a rieducare il nostro gusto alla comprensione e al godimento del più splendido frutto della letteratura antica, sì da esprimere arte e vita in una sola poetica visione, è naturale che a Pompei, la quale dischiude da sola il mistero della vita privata degli antichi, il teatro non possa restare in funzione di rudero, ma debba assumere vera e propria funzione di strumento d’arte e di cultura. Ora Pompei possiede la più completa attrezzatura teatrale che una città antica possa avere: due teatri appaiati, uno a fianco all’altro, uniti dal più artistico foyer che si possa desiderare24.
Questa idea si tradusse subito in realtà con il Giulio Cesare di Haendel nell’estate del 1950, quando nel teatro grande risuonarono di nuovo gli applausi del pubblico e le performance degli attori, affidate all’Istituto nazionale del Dramma antico (INDA), il più qualificato in Italia per far rivivere in diverse sedi archeologiche e con la maestosità che meritavano, i classici del teatro greco e romano. Tra le rappresentazioni più riuscite, nel 1954, vi fu l’Anfitrione di Plauto, scelta con ogni probabilità perché la leggerezza, la comicità e l’ilarità con cui si snodava la trama avevano la capacità principale di rallegrare il pubblico e risum movere. Gli argomenti centrali della commedia, affidata alla regia di Giulio Pacuvio, erano il tema del doppio, la costruzione di un’identità fittizia, la perdita dei valori. Riproducendo la tecnica scenografica greco-romana, Emanuele Luzzatti, definito da Ugo Volli “il più originale e inconfondibile degli scenografi italiani contemporanei”, aveva corredato il palco dei tradizionali periaktoi, macchine sceniche tipiche del periodo ellenistico, decorate con drappi di tessuto e disegni geometrici apparentemente elementari, sui quali spiccavano i costumi di stampo prettamente classicista indossati dagli attori. L’essenzialità delle forme e dei tagli si abbinava a colori festosi, così che la veste rossa di Giove spiccava sul verde dello sfondo. Ai semplici abiti si aggiungevano i gioielli tradizionali: retine per i capelli, medaglioni sul petto e grandi bracciali d’oro.
Per la stagione teatrale del 1955 si prescelsero Le Nuvole di Aristofane e Pseudolo di Plauto, tra l’altro mai rappresentato nella modernità prima di allora, e replicato pure a Ostia Antica e nel teatro greco di Palazzolo Acreide (Siracusa). Anche la commedia aristofanea era una storia allegra, ma allo stesso tempo ricca di moniti culturali, imperniata sulle vicende del contadino Strepsiade e delle spiacevoli esperienze vissute a causa del figlio Fidippide. In questo caso l’allestimento scenico e i costumi vennero curati da Veniero Colasanti che è stato per oltre quarant’anni scenografo e costumista di riferimento del mondo cinematografico e teatrale internazionale legato ai kolossal storici25. L’ambientazione era affidata a pannelli riproducenti la casa dello sventurato Strepsiade e l’Accademia di Socrate, tra loro distinte per mezzo degli elementi architettonici prescelti: colonne sovrastate da timpano triangolare per alludere al tono colto della sede del filosofo; finte pareti con trifore negli ambienti domestici del contadino che prediligeva ostentare lo status raggiunto. Nella costumistica, anche in questo caso per lo più tradizionale, il coro, che personificava le divinità delle Nuvole, risaltava per le parrucche ricciolute, simbolo del carattere pettegolo e capriccioso delle divinità di Socrate.
Nel denso calendario di spettacoli che stagionalmente ormai proponeva a Pompei opere e danze classiche, nel 1957, spiccò per l’enorme successo l’Ifigenia in Tauride (Fig. 3). Per l’ambientazione della tragedia, la parte architettonica, curata dallo scenografo Giovanni Miglioli, venne concentrata nella sola gradinata di accesso al tempio, in riferimento al santuario di Artemide a Efeso; i costumi curati da Maria de Matteis, fiorentina che per quasi cinquant’anni ha vestito star nazionali e internazionali dello spettacolo26, vennero risolti con una varietà di soluzioni tra i protagonisti, in forme classiche, e figuranti, completamente nascosti da maschere animalesche e lunghe frange. La presenza delle maschere derivava proprio dal culto della dea che ne richiedeva l’uso soprattutto durante i rituali iniziatici dei giovani. Le testimonianze iconografiche evidenziano anche la spettacolarità dell’abito indossato da Artemide: una lunga veste bianca plissettata, arricchita da un singolare coprispalle asimmetrico, meticolosamente ricamato a mo’ di ala, per alludere all’aquila con cui tradizionalmente si raffigurava la divinità alata, regina degli animali selvatici. Una lavorazione molto accurata che, da un lato, rievocava temi sviluppati quando la cultura dell’abbigliamento si indirizzava all’uso del modello arcaico per snellire forme e strutture e, dall’altro, esaltava le prerogative dell’alta sartoria italiana, che proprio nei primi anni Cinquanta tornava a imporre nell’immaginario comune il Belpaese come prototipo dell’artigianalità e del buon gusto27. Il palco teatrale si poneva, così, come ulteriore strumento di comunicazione per veicolare al pubblico i valori su cui l’Italia della moda stava fondando la sua identità, andando oltre il suo normale ruolo istruttivo e di intrattenimento.
Una tappa significativa nella storia teatrale di Pompei venne fissata, poi, dall’agosto 1960, quando, con la regia di Franco Enriquez, si presentò, per la prima volta all’aperto, l’Antonio e Cleopatra di Shakespeare, il cui primato fu, peraltro, quello di essere trasmesso anche in televisione28. Innovazione e tradizione, moda e teatro si mescolarono, entrando nelle case degli italiani con scelte comunicative nuove nell’uso degli abiti e dell’allestimento: vestiti essenzialmente semplici, ma lontani dalla costumistica di rievocazione storica, in quanto fortemente aggiornati ai tempi e attenti a interpretare il carattere astuto e determinato di una delle sovrane più potenti del mondo, che morì per il suo popolo. Cleopatra, infatti, padroneggiava la scena con una gonna velata e lunga fino alla caviglia, abbinata a un reggiseno lucente, che esaltava la famigerata sensualità di quella femme fatale: un espediente scenico funzionale alla resa della rappresentazione sullo schermo televisivo in bianco e nero, dove i giochi cromatici potevano essere resi solo dalle variazioni luministiche dei dettagli (Fig. 4). Per le sue ancelle, la classica tunica drappeggiata venne sostituita da un abito intero décolleté, in tessuto chiaro plissettato, il cui unico elemento decorativo era un sottile nastro lucente che segnava il corpo in diversi punti. La citazione storica emergeva, invece, nella riproposizione del kalasiris — il mantello femminile egizio che dalle spalle arrivava fino a terra – reso in tessuto molto leggero e insolitamente avvolto intorno al collo di alcune fanciulle (Fig. 5). La messa in onda il 24 febbraio 1961, in prima serata sui canali nazionali29, avvicinò il pubblico di massa alla tragedia shakespeariana e ai grandi temi della storia antica, veicolando, di riflesso, anche il suggestivo scenario che l’aveva ospitata.
Una simbiosi speciale tra storia, patrimonio archeologico, arte e creatività che, tra interruzioni e riprese, ritornerà alla ribalta nel 2014 con le più audaci sperimentazioni di teatro contemporaneo previste nella rassegna estiva di drammaturgia antica Pompeii Theatrum Mundi.
Bibliografia
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Cesira Pozzolini Siciliani, “Una festa a Pompei,” L’Illustrazione Italiana, Vol. 7, 18 febbraio 1877, 110.↩︎
Ibid.↩︎
Vesevo, “Le feste pompeiane,” L’Illustrazione Italiana, Vol. 25, giugno 1884, 325.↩︎
Vesevo, “Le feste pompeiane,” 326.↩︎
Vesevo, “Le feste pompeiane,” 325.↩︎
Vesevo, “Le feste pompeiane,” 326.↩︎
Vesevo, “Le feste pompeiane,” 327.↩︎
Vesevo, “Le feste pompeiane,” 328.↩︎
Vesevo, “Le feste pompeiane,” 329.↩︎
Francesco Ogliari e Ulisse Paci, La circumvesuviana 1890–1900. 100 anni di storia, 144 chilometri di tecnologia (Milano: Gabriele Mazzotta, 1990).↩︎
Marxiano Melotti, “La città immaginata: turismo a Pompei tra amore e morte,” in Pompei: la costruzione di un mito. Arte, letteratura, aneddotica di un’icona turistica, a cura di Jacobelli Luciana (Roma: Bardi Editore, 2008), 95–97.↩︎
Luciana Jacobelli, “Pompei ed Ercolano tra le due guerre,” in Convegno Cultura, sviluppo economico, progresso sociale, edilizia ed urbanistica a Napoli e in Campania, 23 febbraio, 2008.↩︎
Domenico Camardo e Mario Notomista, Amedeo Maiuri a Pompei, tra scavi, restauri e musealizzazione (Roma: L’Erma di Bretschneider, 2017), 159.↩︎
Franco Ciarlantini, “Il Fascismo e la Romanità,” Augustea, 21 aprile 1938, 239.↩︎
Matteo D’Ambrosio, “Dalla Compagnia degli Illusi alla Compagnia degli Artisti: per una loro storia,” ZRAlt! n. 25, 2019, consultato il 7 settembre 2021, https://zralt.angelus-novus.it/zralt-n-25-estate-2019/dalla-compagnia-degli-illusi-alla-compagnia-degli-artisti-per-una-loro-storia-napoli-1919-1942/.↩︎
Luciana Jacobelli, “Pompei tra mito e turismo,” in Pompei: la costruzione di un mito. Arte, letteratura, aneddotica di un’icona turistica, a cura di Luciana Jacobelli (Roma: Bardi Editore, 2008), 18.↩︎
D’Ambrosio, “Dalla Compagnia degli Illusi”.↩︎
Carlo Linati, “L’Alcesti di Euripide nel Teatro di Pompei,” Il Corriere della Sera, 13 maggio 1927, 5.↩︎
Ibid.↩︎
Jacobelli, “Pompei tra mito e turismo”.↩︎
Annunziata Berrino, Storia del turismo in Italia (Bologna: il Mulino, 2011), 242.↩︎
Paolo Conca, “Il Premio Napoli le Nove Muse,” Napoli. Rivista Municipale, 11 novembre 1954, 18.↩︎
Amedeo Maiuri, “Nel Teatro grande di Pompei si darà Giulio Cesare di Haendel,” Corriere della Sera, 30 giugno 1950, 3.↩︎
Stefano Masi, Scenografi e costumisti del cinema italiano, 2° vol. (Padova: Lanterna Magica, 1989), 75.↩︎
Myriam D’Ambrosio, “De Matteis Maria,” Daniela & Dintorni, 6 marzo 2017, consultato il 6 settembre 2021, https://danielaedintorni.com/2017/03/06/accadde-oggi-nel-1898-nasce-maria-de-matteis-di-myriam-dambrosio/.↩︎
Sofia Gnoli, Moda. Dalla nascita dell’haute couture a oggi (Roma: Carocci editore, 2020), 275–282.↩︎
Valentina Rossi, Le rappresentazioni italiane dell’Antonio e Cleopatra di Shakespeare. 1888–2015 (Roma: Carocci editore, 2020), 39.↩︎
Rossi, Le rappresentazioni italiane, 41.↩︎