ZoneModa Journal. Vol.11 n.2 (2021)
ISSN 2611-0563

Un “ambiente speciale” per la moda e il turismo: da Capri a Positano

Ornella CirilloUniversità degli studi della Campania “Luigi Vanvitelli” (Italy)

PhD in History of Architecture, then Assistant Professor (2001, SSD ICAR 18), since 2019 she is Associate Professor at University of Campania ‘Luigi Vanvitelli’, where she teaches ‘History of the City’ and ‘Fashion History’ in bachelor’s and master’s degree programs. She researches both the architectural culture and the history of the city between 18th and 19th centuries, and the Italian fashion history in the 20th century. Since 2019 she is member of ICOMOS Italia.

Pubblicato: 2021-12-16

Abstract

The identification of many places as centres of designer shopping has in recent decades favoured a number of Italian destinations for which this aspect has become a promotional feature similar to art, landscape and food. In Campania, this phenomenon has developed particularly in Capri, Ischia and Positano, wherein the mid-twentieth century, thanks to the initiative of local craftsmen or cunning outsiders, tailor’s shops, boutiques and workshops were set up in response to customers’ demand for clothes and accessories suited to holiday life. Thus, for different reasons and in different ways, resort fashion has taken off here, a thriving national production sector, characterised by accents strongly related to the ‘knowledge’, rituals and climate of these special places. The combination of the intangible qualities which characterised the garments and the craft traditions of the localities gave rise to artefacts capable of responding to the search for new emotional sensations that belonged to the steadily increasing number of tourists, which was satisfied by environments and lifestyles that were completely different from their usual ones. This process found a decisive conjuncture in the fact that in the middle of the century fashion joined tourism and cinema to bring Italy out of the post-war crisis. And in Campania, in particular, manufacturing and cultural conditions, folklore and the rich natural heritage of the coasts were some of the main drivers of this project, favoured in this sense in Capri and Positano by ideal landscape conditions for conveying the results of the most authentic creativity.

Keywords: Capri; Positano; Fifties; History of Tourism in Campania; Shopping City.

Introduzione

L’introduzione del tema dell’acquisto di capi di abbigliamento e accessori nella prassi ordinaria del turismo collettivo e l’identificazione di molti luoghi come centri dello shopping d’autore ha favorito negli ultimi decenni diverse mete italiane per le quali tale aspetto si è configurato come un veicolo di promozione analogo all’arte, al paesaggio e al cibo.

Il fenomeno in Campania si è sviluppato in particolare a Capri e a Positano, lasciando emergere le ricadute meno convincenti della globalizzazione dei mercati. Una deriva sconcertante se si pensa alla natura autentica e colta che qui, invece, aveva assunto la moda nella sua prima stagione di fioritura. Il successo di Capri in tale ambito si associa tradizionalmente alla manifestazione MareModa Capri svoltasi tra 1967 e 1977, ma le sue origini sono invece più lontane e s’innestano in quella comunità di donne che vi tessevano trame per la biancheria domestica o cucivano le vesti dei monaci accolti nella certosa, e si protraggono, nel contesto immediatamente successivo al secondo conflitto mondiale, nelle cruciali iniziative messe in campo da Emilio Pucci e da Maria Chiara Gallotti. Qui, infatti, prima dei successi mediatici della kermesse di MareModa furono le interazioni tra ospiti e ospitanti che contribuirono (anche grazie alla stampa che ne veicolava le peculiarità, e al cinema, che ne proponeva le suggestioni nell’immaginario comune) alla creazione del mito di Capri come “capitale della moda”.

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, grazie all’intraprendenza di artigiani autoctoni o di astuti frequentatori stranieri, sono nate sartorie, boutique e botteghe in risposta alle richieste di capi e accessori intonati allo ‘stile’ dei luoghi da parte degli avventori. L’autenticità e la forza di questo processo sono state garantite proprio dal suo radicamento nella consolidata matrice manifatturiera dei siti ed hanno trovato una congiuntura risolutiva nel fatto che alla metà del secolo la moda avesse condiviso col turismo, col cinema e la stampa colta, l’obiettivo di rilanciare l’economia italiana. In tale prospettiva, tra i molteplici centri d’arte e le diverse città del turismo, Capri, Ischia e Positano rappresentavano i palcoscenici ideali in cui veicolare il nuovo volto della creatività italiana specificamente rivolta alla vita in vacanza, alimentando un circuito efficace di collaborazione tra artigiani e progettisti per il decollo di un fiorente settore produttivo nazionale. Oltre il paesaggio, indiscutibilmente valido per le campagne mediatiche che vi si sono costruite, i molti attori che vi hanno operato a questo scopo meritano riconoscenza da parte di chi, spesso, ancora oggi ne trae benefici e di chi approfondisce lo studio di queste tematiche, affinché sia possibile riconoscere la giusta identità a questo patrimonio di valori.

Capri “isola della moda”

Tra le diverse località del golfo, Capri ha un che di speciale, perché qui l’ambiente naturale, la cultura e il rito si mescolano sino a creare un mito. La sua unicità è uno degli strumenti che facilita la trasmissione dell’abbigliamento italiano nel mondo. Luogo cosmopolita e scenografico, il cui nome si è consolidato tra le destinazioni mondane internazionali sin dagli anni Venti, s’impone a metà novecento come il palcoscenico ideale in cui veicolare il nuovo volto della creatività italiana. L’isola, infatti, non è una spiaggia qualunque, è, invece, il primo posto del Belpaese dove può trionfare la civiltà dell’immagine, dove l’estro inventivo di nascenti figure del circuito nazionale può trovare lo sfogo mondano più eclatante, anche prima di raggiungere le sedi ufficiali della ribalta internazionale.

Ma non sono solo il fascino della località e la stravaganza di chi vi transita a imporre il nome dell’isola delle sirene nello scenario mondiale; vi contribuiscono, altrettanto, gli slanci inventivi di coloro che la frequentano e la sapienza manuale degli artigiani del posto. Qui infatti — come abbiamo scritto già in altra sede1 — dalla stagione fascista si era consolidato un retroterra collettivo di elevato livello qualitativo nella produzione di tessuti e accessori. In particolare, la sperimentazione tecnica e creativa rivolta agli articoli più consueti, ma soprattutto ai materiali non tradizionali, aveva dato vita a un giacimento culturale di pratiche e consuetudini a partire dai quali era stato possibile far fiorire una preziosità inedita e peculiare, declinata in abiti e complementi di arredo di alto valore materiale e immateriale.

Edwin Cerio, sindaco illuminato, strenuo difensore della bellezza naturale, della storia e del patrimonio culturale dell’isola natale, nel 1929 aveva attivato un’“industria paesana” dedita alla diffusione della filatura e della tessitura a mano, sulla base di un principio liberale di autonomo esercizio di un’arte “creatrice di gioia”2. Un laboratorio corale in cui le donne ordivano a mano trame per creare cuscini, tovaglie, asciugamani, scialli, completi da spiaggia e vestiti, dando libero sfogo alla propria fantasia. Poi, nel 1935, con l’appoggio interessato del governo autarchico, che sosteneva anche l’attività della fabbrica di scarpe di corda (in alternativa a quelle di cuoio) di Federico Strina — “unica in Italia” capace di produrre circa cinquantamila paia di calzature all’anno col lavoro congiunto di una cinquantina di operai attivi nello stabilimento o a domicilio3 — attecchiscono pure le lavorazioni della ginestra e dell’agave, per la produzione di “tessuti tipici” destinati alla confezione di abiti e di articoli per l’arredo domestico4. Un’industria “casalinga” che accontentava i numerosi turisti, i quali già allora “desideravano portare nei loro Paesi prodotti tipici, in prevalenza tessuti”5.

Nel 1946, il laboratorio di Cerio viene rilevato da Maria Chiara Gallotti che volutamente continua a chiamarlo La Tessitrice dell’isola, dando un’effettiva, quanto preziosa, continuità ai ‘saperi’ delle isolane6. Così, alla fine degli anni Quaranta, nel generale clima di ripresa dell’economia italiana, l’opificio caprese evolve nel più nobile atelier artigiano della baronessa Gallotti, poiché il raffinato esercizio delle tessitrici s’intreccia con la creatività mediterranea della nobildonna romana interessata a portare la tradizione manifatturiera in una moderna direzione creativa. Il suo successo7, frenato purtroppo negli anni Sessanta da sfortunate vicende familiari, si fonda dunque su solide basi materiali, indirizzandosi poi verso un destino internazionale, grazie a un sapiente equilibrio tra mondanità, vernacolo e comunicazione. La particolarità del suo lavoro, ritenuto esemplare nell’intero panorama italiano della manifattura tessile, è nella combinazione di raffie e fibre naturali con altre di tipo artificiale, con cui continua a produrre stoffe per l’arredamento e capi di abbigliamento. Integrando le tecniche di tessitura apprese in Etiopia e le consuetudini locali, con le suggestioni cromatiche “distillate dalla natura stessa di Capri”8, la Gallotti dà vita a un’inusuale forma di artigianato che le tributa il repentino prestigio internazionale, fino ad essere riconosciuta dalla critica come una delle ambasciatrici della moda italiana degli anni Cinquanta. La sua ‘arte applicata alla moda’ porta il nome di Capri a Roma, a Firenze, in America e pure in Giappone, ne veicola un “modo di vestire inconfondibile creato sul posto”9, fungendo ovunque da testimonianza del gusto italiano e da sensibile, indiretto, strumento di promozione turistica10.

Capri “centro della moda europea”

Ma oltre la Gallotti, chi intuisce che il nome prestigioso dell’isola può rappresentare un ottimo trampolino di lancio per la propria moda boutique è Emilio Pucci, che nel 1950, dopo una lunga frequentazione di quella località, utile a una profonda conoscenza della realtà artigianale ivi esistente, intraprende una serie di attività promozionali indirizzate a rendere Capri “Centro della moda europea”11. Azioni mediatiche rivoluzionarie — sfilate sin dal 195112, campagne fotografiche, interviste e articoli sulle principali riviste internazionali del comparto — che, di fatto, conducono la moda femminile caprese fuori dalla trasparenza in cui persisteva da anni.

Convinto propugnatore della moda come comparto utile alla crescita del Paese, per l’indotto economico e occupazionale che innesca, e pure “come testimonianza nel mondo del gusto italiano […] e, infine di propaganda turistica”13, Pucci sfrutta le capacità mediatiche dell’isola e i suoi giacimenti materiali per dar vita a un ambizioso progetto che, approfittando dell’oscuramento che vive Parigi e delle parallele iniziative volte a dare visibilità alla produzione italiana, raggiunge esiti concreti grazie alla vivacità di tutti gli attori complessivamente coinvolti intorno a lui. Il sarto-marchese, che qui apre la sua boutique in prossimità del neonato stabilimento La Canzone del Mare, voluto dall’americana Grace Fields per dare ospitalità a eventi mondani, ha capito come far parlare di sé e di Capri: disegna pantaloni e camicie in colori accesi, foulard con i temi dell’isola, lancia i fortunati cappellini ‘a tagliatelle’, organizza sfilate, puntando tanto su una forma narrativa accattivante e su un abbigliamento adeguato a incarnare la spontaneità del nuovo modello comportamentale, quanto sull’esclusività del sito a cui decide di legare strategicamente il proprio nome. Emilio di Capri da quel momento influenza non solo la fama dell’isola nel mondo, ma anche i linguaggi visivi che ne diffondono i successi, portando pure nella fotografia di moda una modalità nuova con cui esibire le sue creazioni sullo sfondo delle bellezze locali. Per lui Regina Relang crea appropriate finzioni sceniche ambientate negli angoli più identificativi di Capri, in cui le modelle interpretano il ruolo di felici ospiti in vacanza.

Insieme alla difesa del prodotto di Capri

Ma quando a Capri si compie il passaggio da “isola felice”14 e innocente, da “paese democratico”15 e malioso a “metropoli che detta al mondo, come e più di Parigi, le leggi dell’eleganza e della moda”16, la correlazione tra moda e sito si arricchisce di valori e il riferimento al mito diventa la forza mediatica principale, opposta alle sue stesse pregiate tradizioni. Per il pubblico e gli intellettuali la “moda caprese” diviene sintesi di “una folla di opposti — il paesano, lo snob, il popolaresco ed il prezioso, il rustico e l’eccentrico —”17, fusione tra spontanea semplicità e sublimata raffinatezza. Per i rappresentanti dell’artigianato autoctono, invece, l’individuazione di una produzione isolana nel più ampio e rischioso sistema della moda rappresenta una minaccia, tanto da avviare azioni in difesa dell’autenticità delle manifatture locali. In primis la costituzione (su iniziativa dell’ingegnere Luigi Tocchetti, Presidente dell’Ente Mostra d’Oltremare e del Centro Mediterraneo della Moda e dell’Artigianato sorto a Napoli nel 195318, e con l’appoggio del sindaco di Capri e dell’Ente Italiano della Moda), nel febbraio 1954, del Centro di Moda Capri, la cornice istituzionale attraverso la quale “difendere la produzione originale caprese dalle innumerevoli contraffazioni e dagli infiniti prodotti dell’abbigliamento femminile che vengono fatti passare per capresi mentre sono confezionati a Firenze e nelle città dell’Italia Settentrionale”19. Con l’obiettivo parallelo di coordinare le ricadute innescate dal settore sui flussi turistici, il Centro, sull’esempio di quanto già accadeva a Roma e a Firenze, stabilisce di organizzare in sede, a inizio anno, la presentazione dei modelli proposti dai creativi e dagli artigiani autoctoni, garantendo la minore dispersione di risorse possibile20. Un’iniziativa tra le molteplici messe contemporaneamente in campo in atto in diverse località italiane in nome della tutela della moda nazionale che conferma il marcato individualismo delle città interessate alla affermazione in questo settore contro cui l’Ente Italiano della Moda proprio in quegli anni persegue un difficile lavoro di coordinamento21.

Contemporaneamente, peraltro, una cordata di produttori, commercianti ed enti pubblici e privati (Comune di Capri, Centro Mediterraneo della Moda e dell’Artigianato, Azienda Autonoma Cura Soggiorno e Turismo di Capri, Federazione Provinciale dell’Artigianato di Napoli) istituisce il Consorzio volontario Difesa Prodotto di Capri, che sostiene “iniziative tendenti all’incremento delle attività produttive dell’isola e alla maggiore conoscenza delle tradizioni dell’agricoltura e dell’artigianato caprese” e tutela la “produzione locale o quei prodotti che corrispondono per qualità e caratteri alla tipica produzione caprese”, attraverso l’uso di uno specifico marchio, raffigurante una moneta di Tiberio circondata dal nome del Consorzio stesso (Fig. 1)22. L’operazione rispondente alla marcata volontà di vigilare la genuinità dei manufatti locali e di difendere dalle imitazioni prodotte altrove quanto “veniva ideato, disegnato e confezionato a Capri dai capresi”23 — per esempio dai sarti Nello Spinella (Fig. 2) e Gennaro Santelia, dal “pantalonaio” Alberto, dai maestri calzolai Canfora e Di Martino, dal gioielliere Pietro Capuano noto come “Chantecler”, dagli storici commercianti Vittorio e Flora Massa, e ancora la famiglia Di Fiore de La Parisienne, Eugenio Aprea, Nino Casola, Celeste Cosentino, Nina, Giovanna Russo e la già citata Maria Chiara Gallotti24 —, era finalizzata anche ad arginare il dilagante abuso del riferimento a Capri rilevato da anni nel lessico commerciale. A tal proposito, la presenza del nome dell’isola tra i marchi depositati in Italia centro-settentrionale tra fine anni venti e primi anni cinquanta, riferite a prodotti tessili, calzaturieri e cosmetici, è molto consistente25: ciò attesta come tale termine si fosse radicato nel repertorio comune e principalmente come l’interesse operativo che verso gli anni Venti aveva cominciato a circondare il mito dell’isola si fosse amplificato allorché la fama raggiunta dai rappresentanti della moda caprese nel contesto internazionale spingevano a fare ulteriormente leva sulla suggestione creata dal rinomato polo del turismo.

Figura 1: Marchio del “Consorzio Volontario Difesa Prodotto di Capri”. Da Archivio Notarile di Napoli, Notaio Mario Siciliani, 5 febbraio 1954, n. 9212.

Al luogo si riconoscevano virtù speciali e, dunque, furono molte le figure che ne fecero uso nelle proprie collezioni. Non solo Pucci, come già anticipato, ma anche la prussiana Sonja de Lennart la quale, approdata qua alla fine del conflitto mondiale, nel 1948, cogliendo il nuovo orientamento sportivo dell’abbigliamento femminile e il senso di gioia e di libertà provato nel luogo, confeziona il rinomato modello di Capri Pants, rievocando l’immagine del pescatore caprese diffusa allora da alcuni brani musicali26.

Alla suggestione richiamata da Capri nel mondo e alla sua stessa fama si lega pure la fortuna professionale di Livio De Simone, eclettico napoletano che orienta il proprio iniziale estro artistico verso il settore tessile, col vantaggio di ritrovare nei capi di abbigliamento per la vita in vacanza un ambito di applicazione vincente. A metà secolo la moda femminile aveva intrapreso la strada del rinnovamento e poteva dare spazio anche nel circuito campano a posizioni avanzate come quelle che il sarto-artista esibisce interpretando il progetto dell’abito secondo i principi dell’opera d’arte. Il clima culturale sorto intorno al Movimento di Arte Concreta desta in lui un forte coinvolgimento, portandolo a esprimere le proprie ricerche figurative su ‘tele’ sperimentalmente indossate da donne dell’aristocrazia partenopea o del mondo dello spettacolo. In un processo a metà tra arte e moda, predilige motivi decorativi attinti dalla cultura figurativa mediterranea, tratti imprecisi, campiture irregolari e sagome miste di citazioni e bizzarria, in una scala cromatica che volutamente include “tutti i colori possibili”27. Disegna stoffe per Emilio Pucci, Luisa Spagnoli e altri, confeziona capi semplici (chemisier, parei, tuniche) opportunamente contrassegnati con la dicitura “Made in Capri” e distribuiti a Napoli e nelle vicine nelle località turistiche.

Figura 2: Il pantalone caprese creato da Nello Spinella per Elizabeth Taylor. Da Arbiter. Rivista di eleganza e vita moderna, 172 (marzo–aprile 1954): 54.

Un luogo dove “tutto può accadere”

In pochi anni, dunque, Capri assume l’aspetto di una singolare passerella di moda, dove mondanità e saper fare stringono un insolito sodalizio vincente. L’isola si riempie di boutique, alcune dirette da figure straniere, molte altre da personale autoctono, perché a tutti la moda appare un terreno fertile in cui radicare i propri affari.

Su queste solide basi il suo destino come “isola della moda” si consolida nello scenario internazionale negli anni del boom economico, quando, nel 1967, astuti imprenditori e rappresentanti delle istituzioni locali dedite al commercio e al turismo (su iniziativa di Rudy Crespi, Pasquale Acampora e Sergio Capece Minutolo, tutti ben integrai nel jet-set internazionale e tra le case di moda italiane e straniere) danno vita a MareModa Capri: una manifestazione di risonanza sovranazionale, sorta con la duplice finalità di costituire “un centro operativo di moda estiva che [potesse] favorire le aziende italiane” dal punto di vista promozionale e commerciale e di “operare il rilancio turistico di Capri ad alto livello nazionale e internazionale”28, proponendola come sito di villeggiatura tra i più attuali ed eleganti. Coprendo uno spazio rimasto ancora vuoto nel sud Italia, per il tramonto dell’originario progetto di rendere Napoli capitale della moda del Mezzogiorno, Capri conferma l’opportunità di individuare un mercato specializzato nell’abbigliamento da mare, nella sede più naturale allo scopo, potenziando non solo la forza di tutta la moda italiana nei traffici mondiali, ma portando, di fatto, a maturazione l’attitudine commerciale e turistica che essa stessa aveva esibito sin dalle origini.

Figura 3: Lo show di MareModa Capri nel 1976 (Fotografia di Franco Tanasi).

La sua efficacia è tale da essere ripetuta con successo per un intero decennio, durante il quale, nella prima settimana di settembre, il sito si trasforma in una diffusa scenografia mediatica, in cui gli alberghi, la certosa e il palazzo Cerio ospitano attraenti coreografie per il lancio delle più audaci creazioni dell’Italian style e pure della produzione artigiana campana, legate al mare e alla vacanza. Qui non solo si impone agli occhi dei partecipanti il meglio dell’abbigliamento estivo, uno stile e un’immagine sempre nuova e attraente di Capri, ma nasce l’idea della moda come spettacolo, per la quale sono registi, coreografi e musicisti, come Filippo Crivelli, Sandro Massimini, Bob Curtis, Valery Wells e altri, a ideare inconsuete modalità coreutiche di presentazione delle collezioni (Fig. 3). Allora i primi studi sociologici di Renè Kunig enfatizzavano proprio che “il successo di una moda dipende in gran parte dall’esistenza di uno scenario dove la novità possa essere presentata al pubblico. Lo spettacolo è uno degli elementi essenziali della moda”29 e costituisce uno strumento ausiliare alla produzione, insostituibile sia come stimolo diretto ai consumi, per l’utilità dei contatti innescati tra gli operatori, sia indirettamente per il carattere promozionale sulla più vasta e qualificata opinione pubblica, attivato dai servizi diffusi dai media.

Dunque, Capri, ritenuta da qualche tempo il luogo dove “tutto può accadere”, dove gli stravolgimenti sociali e i cambiamenti dei costumi mossi dalla spinta rivoluzionaria di quella stagione possono trovare la più adeguata collocazione, con MareModa si conferma un ‘ambiente speciale’ idoneo a ospitare “il più elegante show di moda esistente al mondo”30, dimostrando ancora a tutti la propria capacità di inseguire e mettere alla prova le spinte più audaci richieste dal ciclico rinnovamento imposto dal settore.

Positano, le “pezze d’oro”

Le “pezze” sono l’industria di Positano, una risorsa tipica e proficua che, insieme al paesaggio e all’arte, ne è diventata, nel tempo, un solido veicolo di promozione turistica. La loro fortunata storia attecchisce nel serbatoio di tradizioni manifatturiere praticate in questo territorio da secoli, ma cresce proprio come risposta alla progressiva fama conquistata nel secondo Novecento dal gioiello della costiera amalfitana.

Qui, al pari del resto d’Italia, nel secondo dopoguerra regnava uno stato di notevole povertà e nulla faceva pensare alla fortuna raggiunta nei decenni successivi. Il paese era ancora piuttosto sconosciuto e soprattutto difficilmente raggiungibile. Come racconta Steinbeck nel 1953 sulle note pagine di Harper’s Bazaar,

Positano does not have much of any industry […]. On shore there is a little shoemaking, some carpentry and a few arts and crafts. It would be difficult to consider tourists an industry because there are not enough of them. They do, however, provide a bit of luxury for the villagers31.

Nelle case e nei conventi c’erano state, prima mogli e figlie di pescatori e di contadini dedite all’arte del cucito e del merletto — manifatture che tenevano in vita le storiche ‘industrie’ del ‘cannavaccio’ (o canovaccio) di canapa e dei ‘filugelli’ dai quali si otteneva la seta32 —; in seguito, signore autoctone o venute da fuori vi incentivarono una produzione di abbigliamento di avanguardia che, emula di Capri, ne convertì i favorevoli destini. Una storia di difficile ricostruzione, ancorata com’era alle iniziative di gente comune, lontana dai circuiti ufficiali del sistema della moda e, pertanto, oggi affidata esclusivamente alla testimonianza orale di chi vi ha partecipato o alle sporadiche attestazioni fornite dalla stampa.

In questo piccolo borgo della provincia di Salerno, pieno di silenzi e di casette variamente colorate, vero e proprio nascondiglio alla fine del mondo, dagli anni trenta, come noto, si era rifugiata una colonia cosmopolita di artisti, attirati dal clima mite, dalla vegetazione mediterranea e dalla vita semplice, tra i quali alcuni si dedicavano proprio all’arte tessile: l’ebreo Martin Wolf ordiva tappeti con colori accesi ricavati dalle foglie degli alberi della località Arienzo, e Irene Kowaliska, attiva dal 1931 prima a Vietri, presso l’Industria Ceramica Salernitana e, poi, dal 1942 al 1956 proprio a Positano. La sensibile polacca, “frugando nella vita primitiva del Meridione che la circondava”33, diede un contributo significativo alla formazione dello Stile di Vietri, un linguaggio volutamente semplificato, la cui forza consisteva nella ripetizione variata di pochi elementi di immediata riconoscibilità (asinelli, pesci, frutta, stelle di mare, sirene, contadine). In seguito, le sue sperimentazioni deviarono verso l’ampio spettro delle arti applicate e quella modalità espressiva transitò nel mosaico, nella tappezzeria e nella moda. Questa nuova dimensione progettuale sfociò nella realizzazione di tessuti, da riprodurre anche con la serigrafia, e in ricami, da cui emersero sia pezzi in “tirature limitate”34 per capi unici di moda sportiva, realizzati in particolare in collaborazione con le sartorie romane Myricae e Sorelle Fontana35, sia lunghe metrature di tessuto per l’interior design e l’abbigliamento (Fig. 4). A dar forma a questi abiti insoliti provvedevano mani volenterose nei primi e ancora rari spazi sartoriali domestici presenti in paese: a esempio, con la collaborazione della sartoria di Eva De Ruggiero nacque un vestito indossato da Ingrid Bergmann e apparso su Cinemamonde nel 1950; prova di un iniziale sodalizio tra mondanità, spontaneità creativa e risorse locali, dimostratosi vincente per tutta la moda italiana.

Figura 4: Le stoffe di Irene Kowaliska per arredamento e vestiario. Da Lisa Ponti, “La Kowaliska”, Domus, 245 (aprile 1950): 58.

La fuga dal moderno e dagli stereotipi della vita urbana che l’artista-artigiana perseguiva si incarnavano sia nelle tecniche e nei temi iconografici, sia nelle attività didattiche promosse dal ‘Positano Studio’ da lei creato nella Casa Sette Venti. Qui Irene, con l’emigrato Kurt Craemer e in collaborazione con il filosofo Arnold Keyserling e sua moglie Willy insegnavano “arti raffinate decorative, usando tecniche mediterranee alla luce del pensiero, modi e forme moderne” e privilegiando forme organiche e modelli nudi, nei campi della pittura, del mosaico, della stampa e del disegno su stoffe e tappeti, della ceramica, della musica e anche della moda, con corsi di drappeggio, taglio e cucito “insegnato da una ex della Christian Dior” (presumibilmente la signora Keyserling). Sul modello della Kunstgewerbeschule di Vienna — dove Irene si era diplomata nel 1927 —, che da sempre coniugava esperienza teorica e pratica nei vari settori delle arti applicate, gli allievi, liberi di combinare gli argomenti di studio e di dare sfogo alla propria immaginazione — come recitava l’inserto pubblicitario veicolato sulle pagine di Domus36 — avrebbero conciliato le ore formative con quelle per lo svago “in modo da permettere il bagno in mare, le gite in barca e le escursioni”37. Un accordo perfetto per intrecciare la trasversalità delle arti e una certa attenzione ai bisogni fisici ed emotivi degli individui in quella cornice singolare.

Ma prima dell’artista polacca a innescare il processo ideativo di abiti e costumi che ha dato lo spunto alla manodopera locale per aprire boutique utili alle turiste in vacanza, come a Capri, furono rappresentanti della nobiltà cittadina, quali Maria Consiglio Picone, Eva De Ruggiero e Laura Carafa d’Andria. La Picone nell’immediato dopoguerra per alcuni anni si trasferì da Napoli a Positano dove diede sfogo alla propria innata vocazione creativa: grazie all’amicizia con Anna Sersale, sorella del sindaco Paolo38, propose alle belledonne dell’entourage che frequentava lì — come la principessa Lola Giovannelli, fondatrice dell’atelier romano Giovannelli-Sciarra, e Anna Maria Fiocca — audaci bikini e gonne ampie con camicie annodate fino ai seni, reperendo tessuti residuati nel vicino cotonificio di Fratte, in evidente rottura, dunque, con la moda castigata e formalista dell’epoca39. Alle iniziali idee per il look estivo, connesse pure al legame intenso che la legava sin dall’infanzia con Maria Chiara Gallotti — che dal 1947, come anticipato, aveva riversato la propria vena creativa nel laboratorio caprese — seguirono molti consensi che le consentirono nel 1948 di aprire un primo atelier a Napoli — intitolato poi Maria Consiglio Fashion — e di diventare in seguito anche la principale costumista del circuito teatrale locale40.

Le altre due napoletane investirono qui le proprie risorse economiche e ideative, aprendo negli stessi anni di rinascita postbellica le prime boutique di abiti. Come ricordava il marchese Aldo Sersale, Laura Carafa “andava al mercato e comprava certi fazzolettoni, poi se li portava a casa e ne ricavava certe gonne deliziose”. Per ragioni economiche personali la sua minuscola bottega fallì, ma “dette l’idea: gli abitanti di Positano capirono che quella era la miniera d’oro della costiera e si gettarono sulle pezze […]”41. Dalla De Ruggiero si formarono molti sarti autoctoni, in una specie di laboratorio corale che nel decennio successivo, con la continua domanda di souvenir e di capi intonati alla naturalezza del nascente polo del turismo, avrebbe dato continuità a quelle iniziative pioniere.

Alla ricerca del “forestiero”

A Positano lo sviluppo dell’artigianato è complementare con quello dell’“industria del forestiero”, che attecchisce favorevolmente dopo gli scontri bellici, grazie al fatto che il tessuto edilizio e l’ambiente circostante erano rimasti pressoché integri42, e ne segue la crescita per i venti anni successivi. Al loro successo hanno contribuito allo stesso modo la componente fisico-geografica e quella umana, portatrici l’una di un paesaggio d’eccezione, particolarmente accidentato e poco esteso, ma altrettanto vario e suggestivo, l’altra di una operosità conviviale e solerte che ha convertito con estrema celerità il “villaggio addormentato”43 di pescatori, quale era il piccolo borgo fino alla prima metà del Novecento, in uno dei più bei salotti del mondo.

In questa località il fenomeno turistico matura nel pieno degli anni cinquanta, quando la spinta a un contatto diretto con la natura e il desiderio di vacanze defilate porta gli stranieri — tra i quali gli ufficiali dell’esercito inglese che nel 1944 erano stati accolti nel rest camp per un periodo di riposo — a esplorare località tranquille, lontane dalla mondanità. I nuovi vacanzieri vi incontrano abitanti che hanno resistito alla povertà e che li affascinano per le condizioni di vita semplice a cui poi si abituano nei lunghi periodi di convivenza. Così prende il via il turismo, si sviluppa la prima attrezzatura ricettiva di piccoli alberghi e pensioni, per lo più in ville e palazzi riadattati dai privati al nuovo uso, e dopo poco si cominciano a raccogliere gli esiti delle attività promozionali create dal sindaco Sersale e dal professor Umberto Fragola: tra queste la rievocazione dello Sbarco dei Saraceni (1950–57) e il Saraceno d’oro, premio assegnato a personalità del mondo dello spettacolo nell’evento organizzato da quando la stessa celebrazione storica raggiunse presenze eccessive per il paese44.

Quella della festa non era rara tra le iniziative intraprese in Campania come attrattore turistico di base colta. Si pensi al ciclo di spettacoli inclusi nelle cosiddette “Feste di Napoli” volute dall’amministrazione Lauro tra 1952 e 1954 per promuovere aspetti legati al costume, all’arte e alle tradizioni locali (balli in costume e festival canori a Napoli, concerti a Sorrento, rappresentazioni teatrali a Pompei e a Paestum, i carri di Piedigrotta e così via). Tra queste lo Sbarco dei Saraceni a Positano non era una semplice parata di figuranti per rievocare un evento storico di antica tradizione, ma un complesso allestimento a scala urbana che coinvolgeva tutta la popolazione, nelle cui case e botteghe si attivava un laboratorio corale per il confezionamento di abiti, accessori, imbarcazioni, addobbi, luminarie e tutto quanto occorreva perché la cerimonia risultasse “fatta bene e turisticamente utile”45. Si articolava in modo che lo scontro tra saraceni e cristiani si svolgesse per mare e per terra, di fronte a un pubblico numerosissimo di natanti o pedoni assiepati intorno alla Marina grande, e fu ripetuta annualmente nella sera del 14 agosto finché non si dimostrò addirittura pericolosa rispetto alle effettive capacità di accoglienza del sito. Per molte edizioni l’ammiraglio Paolo Aloisi, primo ideatore dell’evento, ne curò la regia generale (Fig. 5); Roberto Scielzo, artista di chiara fama internazionale e positanese di adozione, ne disegnò i costumi, garantendo un tono e una qualità degni di una vera e propria pièce teatrale, e di riflesso una leva ulteriore per l’ingegno della manodopera locale46 (Fig. 6, 7, 8).

Figura 5: Schema raffigurante la fase dell’assalto al paese durante Lo Sbarco dei Saraceni del 1954. Da Ente Provinciale per il Turismo di Salerno, Positano Lo Sbarco dei Saraceni I costumi 14 agosto 1954. Cava Dei Tirreni: Di Mauro, 1954: tav. Y.
Figura 6: Positano, costumi e fasi dello Sbarco dei Saraceni. Da Napoli, Archivio Fotografico Parisio, A09_0014_0sn004_L18.
Figura 7: Positano, costumi e fasi dello Sbarco dei Saraceni. Da Napoli, Archivio Fotografico Parisio, A09_0014_0sn009_L12.
Figura 8: Positano, costumi e fasi dello Sbarco dei Saraceni. Da Napoli, Archivio Fotografico Parisio, A09_0014_0sn012_L12.

A questa iniziale stagione di ribalta, corrispondente al primo decennio post bellico, si collega un’attività divulgativa piuttosto discreta e misurata che inizia a diffondere il nome di Positano nel mondo in relazione con quello della moda. Le stoffe di Irene Kowaliska ne parlano nelle mostre di arte decorativa mondiali47 e sulle riviste europee48, mentre la stampa italiana di moda, nel clima di generale interesse a veicolare le peculiarità di siti ancora poco rinomati, adotta il pittoresco “alveare color di albicocca crollante verso un mare smaltatissimo e immobile”49 come scenario ideale per proporre costumi in due pezzi e “maglie” da bagno di nomi estranei al sito (come Cole, Alma, Armonia e Glans) consigliate per la ritrovata vita in vacanza (Fig. 10). Il lavoro dei creativi del posto era ancora troppo limitato e silenzioso per raggiungere le riviste di settore, ma si doveva trasmettere l’eccezionalità del sito per alimentare una vitale circolazione di visitatori.

Nel luogo esclusivo ed isolato che ha fatto della sua irraggiungibilità la base per crearne un mito, la situazione di contesto, con un’unica strada che scende a serpentina verso il mare, tra piani e terrazzi su cui si addossano l’una sull’altra le piccole ‘case a botte’, ha definito una cornice speciale anche per lo sviluppo del fenomeno dello shopping vacanziero. Il viavai insolito e curioso verso la spiaggia si svolgeva tra soste e occhiate dinanzi alle facciate rustiche delle casette che accoglievano le botteghe, dove ringhiere e pannelli ospitavano una semplice esposizione dei capi in vendita. Abiti su misura per donne facoltose attratte all’acquisto anche qui dall’immancabile opportunità della “rapida consegna” (Fig. 9). Un accorgimento, di sapore antico, allusivo della condizione puramente artigianale di quella produzione, ma anche della considerazione strategica alle esigenze degli ospiti. A questo scopo, a esempio, Maria Di Gennaro, col marito Alfonso, intitolarono Maria Lampo la propria officina che consegnava pantaloni fatti a mano nel tempo di un bagno a mare50.

Figura 9: La boutique di Helen Passerotti a Positano. Da Napoli e le riviere del sole. Annuario turistico con il patrocinio del Comune e della Giunta Provinciale di Napoli (giugno 1969).
Figura 10: Costumi di Armonia fotografati nel contesto di Positano e pubblicati nella rivista Bellezza. Da Irene Brin, “Maggio a Positano”, Bellezza mensile dell’alta moda e della vita italiana (maggio 1954): 59.

Verso un’accessibilità rinnovata e un sistema territoriale

Accanto alla rivoluzione culturale, alle contaminazioni scaturite dal confronto con stili di vita diversi proposti dal turismo d’élite dei primi anni, nei decenni successivi si è fatta avanti un’evidente conversione nell’uso degli spazi urbani ed edilizi, dei servizi e delle vie di accesso. Si può dire, infatti, che la moltiplicazione dell’offerta commerciale nel campo dell’abbigliamento si è compiuta in stretta continuità con il miglioramento degli standard turistici rispetto a quelli minimi esistenti inizialmente; sviluppo rivolto per quest’area territoriale esclusivamente ad aspetti di tipo urbanistico, come la viabilità. In particolare, infatti, i progetti messi a punto dall’Ente Provinciale per il Turismo di Salerno e dalla Cassa per il Mezzogiorno, con la legge 717 del 1965, all’indomani del completamento dell’Autostrada del Sole Milano–Napoli (1964), hanno favorito la diffusione del turismo nell’intera superficie territoriale costiera, destinando gli investimenti più consistenti in ambiti eterogenei nei comprensori con minore maturazione turistica, come il Cilento, il Terminio e i monti Picentini, limitando, viceversa, alle questioni stradali le azioni rivolte all’area tra Amalfi e Positano51.

Raggiunta sin da metà Ottocento dalla prima via rotabile che seguendo la sinuosità della costa metteva in collegamento i comuni presenti tra Amalfi e Castellammare, integrata poi dalle provinciali per Agerola e Meta di Sorrento, la costiera amalfitana alla metà degli anni sessanta ha visto, infatti, stravolgere i suoi assetti urbanistici e paesaggistici in ragione della volontà di incentivare una più ampia diffusione del turismo nell’intera porzione territoriale e al contempo di contenere il progressivo esodo delle popolazioni rurali danneggiate dall’alto costo del trasporto dei limoni, principale coltura locale. Considerata la mobilità territoriale inefficiente rispetto ai più moderni mezzi di trasporto e del tutto insufficienti le vie di accesso alle poche spiagge, l’EPT di Salerno ha redatto un apposito “Programma di ulteriore sviluppo turistico della Costiera amalfitana” che, sulla base di precedenti ipotesi progettuali rimaste irrealizzate e di un progetto dell’ingegner Nicola Tocci per la viabilità della zona occidentale, da Ravello a Positano, che portava la larghezza della carreggiata a 7 metri e insisteva sulla prioritaria necessità di realizzare un’arteria viaria alternativa alla strada borbonica (poi strada statale n. 163) troppo stretta e affollata dai movimenti turistici, che dirottasse il traffico di scorrimento della fascia litoranea nella “strada alta” Maiori–Ravello–Positano52. L’intervento aveva l’effetto di innervare il quadrante territoriale con una ramificazione di accessi viari che indirizzava il turismo anche sulle colline e moltiplicava gli afflussi nei centri principali del turismo e, di riflesso, i movimenti commerciali (Fig. 11). La conseguenza diretta di questa rete nel centro di Positano fu l’allargamento della strada di penetrazione nell’abitato e la realizzazione dei parcheggi, rispettosi per quanto possibile dell’“ambiente paesisitico”53, con l’esito pratico di un sensibile aumento del turismo di massa, causa a sua volta di una sostanziale degenerazione del contesto ambientale complessivo, non difeso, fino a tutti gli anni Sessanta, da un apposito piano di salvaguardia paesaggistica.

Agevolati i collegamenti stradali, arricchite le campagne promozionali pubbliche e private, volte pure a contrastare la concorrenza creata da nuove mete mediterranee emerse nel turismo balneare, e incrementate le sedi della ricettività (la quantità di alberghi e pensioni a Positano sale dai 16 del 1954 ai 34 del 196554), il numero di presenze esplode, con un incremento complessivo di italiani e stranieri che vi soggiornano molto superiore alle medie regionali e nazionali (gli ospiti in costiera crescono del 253% dal 1954 al 1963 e Positano, che primeggia tra le diverse località, ne conta più di 90.000 all’anno55). Tutto ciò, nei fatti, assicura alla popolazione locale un netto miglioramento del tenore di vita e, pertanto, pone fine al fenomeno migratorio che aveva caratterizzato i primi decenni del secolo. E in pratica determina anche lo sviluppo delle attività secondarie alimentate dal turismo nei diversi segmenti dell’artigianato locale, come le cartiere a Maiori e Minori, le ceramiche ad Atrani, i vini tra Ravello e Furore e l’abbigliamento a Positano56.

Figura 11: Nicola Tocci, Progetto della strada turistica dell’alta costiera amalfitana; in giallo le strade esistenti, in rosso le strade di progetto, in rosso a tratteggio le strade in costruzione. Da Ente Provinciale per il Turismo di Salerno, Ing. Nicola Tocci. La strada turistica dell’alta costiera amalfitana. Relazione allo studio preliminare (Cava: M. Pinto: s.d.).

La moda Positano

Così i pochi vivai germogliati spontaneamente sulla base delle minime conoscenze di arte sartoriale di alcuni abitanti e delle molte sollecitazioni formali alimentate dal circolo artistico internazionale presente in loco o dalle ‘insolite’ figure che vi giungevano anche in visite occasionali, si converte in un sistema articolato, composto da numerose microimprese artigianali — prevalentemente fondate da giovani donne57 — che svolgono indistintamente funzioni ideative, realizzative e distributive perché lavorano su ordinazione e non immettono (almeno inizialmente) i loro prodotti in commercio, ma li consegnano direttamente al consumatore.

La loro peculiarità creativa stava nella semplicità dei capi per la vita in vacanza, opportunamente intonata alla ricerca di naturalità e al ritorno al ‘primario’ vivi nel contesto europeo alla metà degli anni Sessanta, quando la loro attività prosperava. Proponevano un inedito fast look, personalizzato, estraneo all’anonimato del prodotto confezionato, economicamente accessibile a una vasta gamma di avventori, più utile di un qualunque souvenir e pure capace di evocare lo spirito del luogo e le sue radici. Pantaloni, gonne lunghe, camicioni, costumi e sandali, gli articoli più moderni del guardaroba femminile del momento, che richiedevano le più elementari nozioni di cucito, erano i loro cavalli di battaglia; il fatto ‘su misura’ e l’uso di materiali insoliti, come cuoio e paglia naturali, o ‘pezze’ colorate e semplici, adatti alla cornice esuberante del luogo, i loro punti di forza. Pensiamo a Maria Lampo la cui intuizione, oltre la rapidità nella confezione di abiti e pantaloni, fu quella di adattare i ‘fazzolettoni’ che i contadini tradizionalmente portavano in testa o al collo durante i lavori in campagna — celebrati pure dalle donne raffigurate dalla Kowaliska —, per confezionare, sul modello di esperienze simili, costumi a volants di cotone e insoliti capi da spiaggia; a Salvatore Esposito (Pepito’s) che, dal 1952, formava giovani tagliatori (come Raffaele Castellano) e creava pantaloni femminili e maschili, con vita bassa, linea moderna e materiali inconsueti, come i lini della biancheria militare in disuso58 o, poi, in versione bicolore, con una gamba di cromia diversa dall’altra, veicolata in ambito cinematografico da Adriano Celentano (in Serafino del 1968).

Con l’aumento della popolarità del luogo, dunque, sale il numero degli acquirenti e, di riflesso, quello dei produttori, la cui notorietà raggiunge picchi insperati negli anni Settanta (anche grazie alla promozione sostenuta a livello regionale da MareModa Capri), quando le prime dodici boutique si moltiplicano con una produzione così connotata e numericamente elevata da essere assai ricopiata su base industriale e, pertanto, poi svalutata.

Nel 1974 sappiamo che il mercato positanese per i giovani esibisce le collezioni di ventidue boutique del posto in occasione di un evento promozionale connesso alla coeva edizione caprese di MareModa (Attanasio, Michele Caldiero, Cinque, Cix, Eva, Filomena, Fusaro, Helen Passerotti, La Brunella, Lampo, La Tartana, Louise, Petite Fleur, Mary, Pepito’s, Rachele e Raffaele, Raffaele Imperati, Regina, Stefania, The Seahorse, Tre coralli, Tre denari)59. Per loro il trend comune sono i tessuti leggeri, intercalati con pizzo, macramè, nastri, frange e lavorazioni all’uncinetto, e i “modelli fatti con pochi centimetri nel corpino e molti metri nelle gonne”,60 perché a quel tempo la moda scopriva con disinvoltura l’ombelico e il lungo imperava in tutte le sue forme. Sono temi antichi, rivissuti con garbo ed eleganza, giocati su un’armonia cromatica moderna, capaci di rievocare quel primitivismo e quell’essenziale naturalezza già declinati nelle stoffe e nei delicati soggetti della Kowaliska. Imperversa pure lo stile gipsy che sfrutta le diverse interpretazioni folcloristiche allusive a immaginari di regioni diverse da quelle urbane occidentali61, facendo apprezzare particolarmente i morbidissimi abiti dipinti a mano di Helen Passerotti, le linee romantiche ornate di pizzi e volants di Brunella, i jeans con merletti e tessuti rigati lanciati da Louise, le bluse ornate di San Gallo e ricami proposte da Rachele e Raffaele o lo stile biancheria della nonna di Petite Fleur e gli chemisier in tessuti provenzali di Regina (Fig. 12).

La parabola evolutiva lungo la quale si sviluppa il connubio turismo-moda grazie alle ‘pezze d’oro’ di Positano raggiunge il suo vertice negli anni del boom economico, ma poi degenera lentamente, così che nella crisi degli anni Novanta, allorché gli scenari economici e sociali globali ne minano notevolmente la forza e i valori, riescono a resistere solo le quattro da cui questo fenomeno aveva preso le mosse (Pepito, Brunella, Maria Lampo e Rino), forti di una storia e di un know how di lontana origine. La società dominata dal mito della griffe, l’avanzata di nuove mete del turismo mondano internazionale, l’inedito sguardo nei circuiti di viaggio alla cosiddetta “Italia minore”, hanno alimentato un mutamento dei consumi, del gusto e degli stili di vita dei vacanzieri, e di riflesso della comunità commerciale e produttiva, con l’effetto, a partire dalla fine degli anni settanta, di ridimensionare progressivamente il fascino di quei prodotti. Le occasioni per promuovere e alimentare l’abbigliamento positanese gradualmente diminuiscono, così come i rituali dell’atelier veloce e personalizzato sono lentamente sostituiti dal prêt-à-porter e la conseguente lenta sparizione delle botteghe lascia il posto al retailing che, in mancanza di un approccio sensibile capace di metabolizzare i cambiamenti, ha dimostrato di avere poco in comune con quel passato da cui era potenzialmente ispirato.

Figura 12: Abiti tipici della moda Positano ne “La Bottega di Brunella”.

Conclusione

L’indagine, in conclusione, tratteggia e conferma con evidenza una geografia della storia della moda italiana policentrica e multiforme, nella quale le città, su larga e piccola scala, hanno svolto a vario modo il ruolo di agenti attivi nella definizione del processo creativo. Il mix fruttuoso di paesaggio, arte, mercato e comunicazione ha reso Capri uno dei palcoscenici più attrattivi della moda e Positano, nella evidente competizione con l’isola, ha cercato di seguirne i passi, con un ritardo temporale, seppur minimo, e una più ridotta numerosità di attori che si sono rivelati determinanti per la conclusione di questa avventura.

La narrazione che l’indagine delle fonti ha consentito di tratteggiare fin qui ha, infine, evidenziato come nei centri esaminati la pratica progettuale dedicata alla moda si sia mossa con dinamiche fortemente radicate nella spontaneità dei singoli. In assenza di una cornice istituzionale ed economica strutturata per far emergere adeguatamente le attività creative al servizio delle economie locali all’inizio di questa storia, come in molti casi analoghi italiani, si è innescata un’azione dal basso che si è manifestata in una produzione carica di componenti emozionali, fondate su azioni indipendenti di resilienza, rivelatesi strategiche per l’attrazione di capitali e di interessi mediatici. Tuttavia, sulla base delle capacità di auto organizzazione delle comunità di artigiani e commercianti sono nati equilibri fragili di collaborazione tra dinamiche locali, competenze esterne e fruitori, che alla luce dei radicali mutamenti imposti in tempi recenti agli ambiti produttivi dagli esiti dell’industrializzazione massiva e della globalizzazione hanno stravolto radicalmente anche quei territori fisici e sociali di cose e persone. La comunità operosa che nel primo sessantennio del Novecento ha dato il via a un processo virtuoso per il turismo e la moda è stata sopraffatta dai più attrattivi brand-store che hanno reso le strade dello shopping di Positano e soprattutto di Capri uguali a quelle delle metropoli del mondo. Il rapporto duplice e complementare tra città, turismo e moda con cui si è fondato il suo successo quale luogo di sperimentazione progettuale e di creazione di immaginari ha consentito all’isola di raggiungere il ruolo di meta turistica della mondanità internazionale. Poi, sull’onda di questa fama si è convertita in location speciale nelle immagini costruite dai fotografi e dai fashion editor e in vetrina influente nelle strategie di vendita dei brand di lusso. Lungo questa traiettoria delicata è riuscita a difendere pochi baluardi della sua tradizione manifatturiera, con la conseguenza che il proprio legame con la moda si è ridotto alla funzione di set, palcoscenico dell’esibizione individuale e corale. Ma questa è un’altra storia, in cui si intrecciano city branding, retail e consumi frenetici, che solo in trasparenza evoca il periodo d’oro della storia che abbiamo tentato di definire.

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  1. Cf. Alessandra Cirafici e Ornella Cirillo, “Sguardi su Capri. Moda e rappresentazioni di un’icona dell’immaginario contemporaneo,” in ’Delli aspetti de paesi’. Vecchi e nuovi Media per l’Immagine del Paesaggio, Tomo I, a cura di Annunziata Berrino, Alfredo Buccaro (Napoli: CIRICE, 2016), 1243–1253.↩︎

  2. Edwin Cerio, La tessitura a mano (Capri: Le pagine dell’Isola, 1930), 6–8.↩︎

  3. Archivio di Stato di Napoli, Prefettura di Napoli, Gabinetto, II versamento, b. 943, f.lo 20.↩︎

  4. Giuseppe Caputi, “Ginestre e agavi di Capri nella battaglia per l’autarchia,” Il Mattino, (20 gennaio 1938) (dai Fondi del Centro Caprense Ignazio Cerio).↩︎

  5. “Ginestre e agavi di Capri,” L’artigianato (6 dicembre 1936) (dai Fondi del Centro Caprense Ignazio Cerio).↩︎

  6. Gino Verbena, Anacapri la rinascita dopo il 1945 (Napoli: Ciammurre, 2005), 72, (dai Fondi del Centro Caprense Ignazio Cerio).↩︎

  7. Enrica Morini, Storia della moda XVIII–XXI secolo (Milano: Skira, 2010), 402–403, 414.↩︎

  8. Elsa Robiola, “Calendario di luglio,” Bellezza mensile dell’alta moda e della vita italiana (luglio 1953): 13; Roberto Ciuni, La piazzetta di Capri (Capri: La Conchiglia, 2001), 54.↩︎

  9. Robiola, “Calendario di luglio,” 13.↩︎

  10. Cf. Ornella Cirillo e Manuela Rupe, “‘La Tessitrice dell’isola’, un’interprete della moda italiana alla metà del novecento tra artigianato e ricerca artistica,” in Diseño al Revés, CIMODE 4° International Fashion and Design Congress, a cura di Ana Cristina Broega, Joana Cunha, Helder Carvalho, Manuel Blanco, Guillermo Garcìa-Bardell, Lucia Diana Goméz-Chacón (Guimarães: Centro de Ciência e Tecnologia Têxtil Universidade do Minho, 2018), 48–59.↩︎

  11. C. Villari, “Siren Land vuol battere Parigi. Capri centro della moda europea,” Corriere lombardo (24 luglio 1950), in Archivio del Centro Documentale dell’isola di Capri, Emeroteca, D 52.↩︎

  12. Rosana Pistolese, “A Capri la moda come costume,” in MareModa Capri 1972 (Napoli: Artigianelli, 1972), f.s.n.↩︎

  13. Ascanio, “Emilio,” in Arbiter. Rivista di eleganza e di vita moderna, 177–178 (novembre–dicembre 1954): 41.↩︎

  14. Vittorio Foschini, “Dall’isola felice,” Arbiter. Rivista di eleganza e di vita moderna, 175–176 (settembre–ottobre 1954): 61–63.↩︎

  15. Erti, “Dove è di moda spendere poco,” Grazia (10 settembre 1949): 26.↩︎

  16. Edmondo Cione, “Capri salotto del mondo,” Napoli e le riviere del sole (giugno 1957), f.s.n.↩︎

  17. Cione, “Capri salotto del mondo”.↩︎

  18. Cf. Ornella Cirillo, “La moda a Napoli, un bene im/materiale da ri-conoscere,” in La Baia di Napoli. Strategie integrate per la conservazione e la fruizione del paesaggio culturale, a cura di Aldo Aveta, Bianca Gioia Marino, Raffaele Amore (Napoli: ArtstudioPaparo, 2017), 452–457.↩︎

  19. “Il ‘Centro di Moda Capri’,” Il Mezzogiorno (3 febbraio 1954).↩︎

  20. “Sarà protetta da un marchio la moda dell’isola azzurra,” Roma (4 febbraio 1954).↩︎

  21. Cf. Gianluigi Di Giangirolamo, Istituzioni per la moda. Interventi tra pubblico e privato in Italia e Francia (1945–1965) (Milano–Torino: Bruno Mondadori, 2019), 41–58.↩︎

  22. Archivio Notarile di Napoli, Notaio Mario Siciliani, 5 febbraio 1954, n. 9212 del repertorio, 451–477.↩︎

  23. Vittorio Foschini, “Vita di Capri,” Arbiter. Rivista di eleganza e di vita moderna, 172 (marzo–aprile 1954): 55.↩︎

  24. Cf. Angela Spinelli, “La moda mare: a Capri e Positano un crescendo di successi tra jet-set e nuove tendenze,” in La creatività sartoriale campana. Abbigliamento maschile e moda balneare, a cura di Maria Antonietta Taglialatela (Napoli: Edizioni Arte’m, 2010), 36–40; Vittorio Foschini, “Vita di Capri,” Arbiter. Rivista di eleganza e di vita moderna, 172 (marzo–aprile 1954): 51–55; Vittorio Foschini, “Debutto ufficiale di Capri nella Moda,” Roma (23 febbraio 1954).↩︎

  25. L’Archivio Centrale dello Stato ne documenta oltre venti, come si evince nella banca dati on line: http://dati.acs.beniculturali.it/mm/local/ consultata il 22 agosto 2021.↩︎

  26. Cf. Riccardo Esposito, Caprimoda. Protagonisti imprese eventi (Capri: Edizioni La Conchiglia, 2015), 147–152.↩︎

  27. Cf. Roberto Liberti, “Il laboratorio creativo,” in Il Mediterraneo di stoffa, a cura di Roberto Liberti, Elena Perrella, Patrizia Ranzo (Napoli: Edizioni Fondazione Mondragone, 2005), 69–79.↩︎

  28. Amelia Cortese Ardias, “Validità di MareModa,” in MareModa Capri 1970 (Napoli: Artigianelli, 1970), f.s.n.↩︎

  29. Cf. König René, Sociologie de la mode (Paris: Payot, 1969).↩︎

  30. Leonora Dodsworth, “L’isola della moda,” in MareModa Capri 1971 (Napoli: Artigianelli, 1971), f.s.n.↩︎

  31. John Steinbeck, “Positano,” Harper’s Bazaar (May 1953): 188–189.↩︎

  32. Monografia della città di Positano dalla sua origine sino al presente scritta dal canonico Errico Talamo (Napoli: Stabilimento Tipografico De Bonis, 1890), 241–242.↩︎

  33. Antonello Cuccu, Irene Kowaliska (Nuoro: Ilisso, 1991), 8.↩︎

  34. Gio Ponti, “Artigianato alla IX Mostra Nazionale. Le stoffe di Irene Kowaliska,” Domus, 139 (luglio 1939): 49.↩︎

  35. Eduardo Alamaro e Fabio Donato, Irene Kowaliska. Un’artista una donna un mito (Napoli: Pironti, 1993), 156, 173 e passim; Matilde Romito, “Una artista-artigiana tra Vietri e Positano: Irene Kowaliska,” in R.A.AP. Raccolta di Arti Applicate Villa De Ruggiero Nocera Superiore, a cura di Matilde Romito (Provincia di Salerno: 2009), 142.↩︎

  36. “Positano studio,” Domus, 295 (giugno 1954): 34; Eduardo Alamaro e Fabio Donato, 1993, 227.↩︎

  37. Cf. Alamaro e Donato, Irene Kowaliska. Un’artista una donna un mito, 227.↩︎

  38. Tali informazioni sono state testimoniate dalla signora Rosanna Picone, sorella di Maria Consiglio, in un’intervista rilasciatami il 2.1.2020. A lei e alla figlia, Piera Fiorillo, vanno i miei ringraziamenti.↩︎

  39. Cf. Gino Grassi, “Maria Consiglio inventò nel ’46 la moda Positano,” Napoli e le riviere del sole (giugno 1974), f.s.n.↩︎

  40. Cf. Rosy Ferrara, “La moda a Napoli nello specchio dell’atelier. Maria Consiglio Fashion 1946–1975,” Tesi di Laurea Magistrale in Design per l’Innovazione, Dipartimento di Architettura e Disegno Industriale, Università della Campania ‘Luigi Vanvitelli’, aa. 2019–20, relatore prof. Ornella Cirillo, 30.↩︎

  41. Paolo Guzzanti, “Positano, l’innocenza e il peccato,” consultato il 5 luglio 2021, https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1985/08/06/positano-innocenza-il-peccato.html.↩︎

  42. Cf. Pasquale Natella, Storia del turismo italiano. La Costiera Amalfitana (Amalfi: Centro di Cultura Amalfitana, 2009), 140.↩︎

  43. Etta Comito, “Positano dai monti al mare,” Napoli e le riviere del sole, I, 1 (1954), f.s.n.↩︎

  44. Cf. Ornella Cirillo, “Fashion and Tourism in Campania in the middle of the twentieth century: a Story with Many Protagonists,” Almatourism. Journal of Tourism, Culture and Territorial Development, 9, 9, (dicembre 2018): 23–46.↩︎

  45. Ente Provinciale per il Turismo di Salerno, Problemi e prospettive del turismo salernitano (Cava Dei Tirreni: Di Mauro, 1963), 32.↩︎

  46. Cf. Ente Provinciale per il Turismo di Salerno, Positano Lo Sbarco dei Saraceni I costumi 14 agosto 1954 (Cava Dei Tirreni: Di Mauro, 1954), f.s.n.↩︎

  47. In particolare suoi lavori, tra il 1950 e il 1952, sono in mostra in più di dieci musei americani; poi dal 1954 sono alla Triennale delle Arti Decorative di Milano, ad Amsterdam, Essen, Vienna: cf. Antonello Cuccu 1991, 23.↩︎

  48. Queste riviste sono puntualmente elencate in Eduardo Alamaro e Fabio Donato 1993, 59.↩︎

  49. Irene Brin, “Maggio a Positano,” Bellezza mensile dell’alta moda e della vita italiana (maggio 1954): 54.↩︎

  50. Angela Spinelli, “La moda mare,” 40.↩︎

  51. Cf. Lorenzo Durazzo, “Le politiche della Cassa per il Mezzogiorno a favore del turismo tra gli anni ’50 e ’70: i comprensori turistici in provincia di Salerno,” in Storia del turismo, Annale 9, a cura di Annunziata Berrino (Milano: FrancoAngeli, 2013), 114–117.↩︎

  52. Ente Provinciale per il Turismo di Salerno, Ing. Nicola Tocci. La strada turistica dell’alta costiera amalfitana. Relazione allo studio preliminare (Cava: M. Pinto, s.d.).↩︎

  53. Ente Provinciale per il Turismo di Salerno, Costiera amalfitana programma di ulteriore sviluppo turistico (Salerno: F.lli Di Giacomo, 1966), 63; Ente Provinciale per il Turismo di Salerno, Nuove zone della provincia di Salerno a particolare vocazione turistica: lineamenti programmatici d’intervento (s.l.: s.n., 1964).↩︎

  54. Ente Provinciale per il Turismo di Salerno, Costiera amalfitana programma di ulteriore sviluppo turistico (Salerno: F.lli Di Giacomo, 1966), 83, tab. 4.↩︎

  55. Ente Provinciale per il Turismo di Salerno, Costiera amalfitana, 1966, 90, tab. 10.↩︎

  56. Ente Provinciale per il Turismo di Salerno, Costiera amalfitana, 1966, 25.↩︎

  57. Cf. Elisabetta Romano, “La moda Positano: imprese al femminile tra tradizione e innovazione,” in Moda&Mode Tradizione e innovazione (secoli XI–XXI), a cura di Maria Rosaria Pellizzari, vol. III (Milano: FrancoAngeli, 2019), 220.↩︎

  58. Cf. Carmelo Pittari, Positano è. Storia, tradizioni e immagini (Napoli: Nuove Edizioni, 1986), 142–145.↩︎

  59. “Maremoda Positano mani che lavorano…”, Napoli e le riviere del sole (giugno 1974), f.s.n.↩︎

  60. Ibid.↩︎

  61. Cf. Sabrina Zannier, “La polarità del ricco,” in Silvia Grandi, Alessandra Vaccari, Sabrina Zannier, La moda nel secondo dopoguerra (Bologna: CLUEB, 1992), 108–111.↩︎