In un periodo, ormai lungo, caratterizzato da forti accelerazioni spinte dai processi digitali e da altrettanto forti pause forzate imposte da contingenze epidemiche, diventa ancora più urgente fermarsi a riflettere con l’intento di far chiarezza sui processi culturali in atto, per ridefinire i nuovi ruoli da coprire e per esercitare e affinare la capacità predittiva tipica di chi lavora con il progetto.
Sulle ceneri di un modello sociale ed economico post-produttivo che neppure la transizione al digitale riesce a riconfigurare è lecito domandarsi se il concetto di “modernità industriosa” (Arvidsson, 2019) possa offrire una risposta adeguata per riprogrammare l’ambito formativo, ma anche quello produttivo, secondo nuove logiche, lontane dalle regole apparentemente inesorabili del neoliberismo imperante. Questo è lo sfondo dal quale nasce il volume Remanufacturing Italy. L’Italia nell’epoca della postproduzione che propone di adattare l’atto di rigenerare un prodotto con parti riutilizzate o riparate (remanufacturing) al sistema italiano della produzione per indagare cosa ne resta e soprattutto come si sta modificando.
Il volume, che appartiene alla collana Quaderni della ricerca del Dipartimento di Culture del progetto dell’Università Iuav di Venezia ed è curato da Maria Antonia Barucco, Fiorella Bulegato e Alessandra Vaccari, propone un taglio interdisciplinare che riflette sul Made in Italy, raccogliendo pensieri provenienti dalle discipline del progetto, dalla moda al design, dalle arti all’architettura, investite quasi inevitabilmente, oggi, da processi di innovazione tecnologica.
Tra gli svariati temi, molti dei quali attinenti all’ambito moda — che qui verranno privilegiati anche modulandosi con l’interesse scientifico del Journal di destinazione di questa recensione — ciò che appare evidente è la ricerca comune di una alternativa all’attuale sistema economico e sociale, ormai non più sostenibile, e la mobilitazione militante della cultura del progetto verso un processo di Remanufacturing del pensiero. Al centro della riflessione il futuro del Made in Italy e la possibilità di valorizzazione-riattualizzazione dei suoi lasciti, insieme alla comprensione del tema della sostenibilità, particolarmente in relazione al comparto moda.
Ricollocare il Made in Italy significa smontare gli stereotipi, ricomprendere metafore, miti e nostalgie ma anche ripensare profondamente il ruolo e la formazione del progettista come “catalizzatore di innovazione” capace di favorire il superamento dei confini disciplinari in una prospettiva generosa e complessa.
Il volume è organizzato secondo una struttura bipartita: alla chiara introduzione, che mette a fuoco il concept generale del lavoro, fanno seguito due sezioni dedicate l’una all’analisi di modelli di rigenerazione del Made in Italy e della sua filiera produttiva, l’altra incentrata sull’apparato teorico, quello dei discorsi costruiti attorno al Made in Italy, che man mano contribuiscono a riattualizzarne la definizione.
Remanufacturing: la filiera
La prima sezione del volume accoglie sei contributi che organizzano un discorso articolato attorno a nuove visioni del Made in Italy. Alessandra Vaccari, (Università Iuav di Venezia) e Ilaria Vanni (University of Technology, Sydney) sviluppano un modello teorico il Fashion Futuring “per dare una nuova forma al futuro della moda”. Le autrici avanzano l’ipotesi che la moda italiana possieda la competenza, per re-immaginarsi , con l’ausilio del modello da loro proposto, in termini di sostenibilità. La cornice teorica, articolata in quattro quadranti o “aree di potenziale creatività” — fai da te, futuro artigiano, produzione digitale, sperimentazione industriale — consente di posizionare e comprendere attraverso una fase analitica i differenti casi studio che attengono alle molteplici pratiche di progettazione e manifattura sostenibile. L’analisi di tali pratiche, spesso posizionate in aree ambigue, si avvale favorevolmente di uno strumento concettuale come il Fashion Futuring che, oltrepassando la nozione di eco-fashion come quella di slow fashion, sostiene iniziative di più ampio respiro, progetti fondati su modelli di economia circolare come quelli di progettazione partecipativa e aperta. Trascendendo la mera dimensione volontaristica cui spesso ci si appella in alcune pratiche “sostenibili” (come quella di evitare l’acquisto di abiti per un periodo di tempo determinato) adottare le pratiche del Fashion Futuring consente di “superare l’esclusività di alcune proposte di soluzioni che pongono l’attenzione principalmente sulle scelte individuali”.
In questa prospettiva le nuove tecnologie e le pratiche “devianti” come il fashion hacking diventano salvifiche nel liberare il pensiero su una moda diversa, emancipata dal ciclo “produzione-consumo-rifiuto”. L’originalità del contributo, nel quale emerge un secondo e non meno rilevante concetto, quello del “laboratorio Italia” come modello di sperimentazione politica nutrita da un accordo di teoria e pratica, risiede nel fornire uno strumento pratico, “framework (…) per pensare e mappare le pratiche di progettazione emergenti” di cui la moda, coinvolta in processi avanzati e rapidissimi, ha urgente necessità ma anche, a livello metodologico, nell’offrire uno strumento in grado di mettere a sistema le conoscenze teoriche con la ricerca sul campo, per aprire la strada a nuove forme di lettura della variegata stratificazione della realtà moda attuale.
“Trasformare la crisi in opportunità” è un noto leitmotiv che in epoca pandemica Covid-19 è esploso in tutta la sua verità, in particolare in relazione alla moda, al lavoro e all’ambiente. Un secondo contributo, a firma di Zoe Romano, co-fondatrice di WeMake, spazio di fabbricazione digitale la cui produzione si colloca tra filiera corta e tecnologie open source, si allinea al concetto di sostenibilità rigenerativa espresso dal Fashion Futuring proponendo l’attuarsi di alleanze trasversali che abbiano efficacia politica, alternativa realizzabile solo attraverso la rifondazione di spazi di pensiero “cluster valoriali” capaci di ricollegare l’idea di coolness a “valori reali fatti di pratiche e di persone”. E sul come la digitalizzazione abbia modificato il territorio, inteso in senso fisico ma anche spazio di transizione dai distretti produttivi tradizionali verso un modello a rete appoggiato a un mondo virtuale, Giovanni Maria Conti (Politecnico di Milano) e Paolo Franzo (Università Iuav di Venezia), esaminano sottotraccia l’evoluzione del panorama della vendita e della promozione della moda, ipotizzando l’esistenza di “distretti produttivi virtuali italiani” come nuove reti produttive capaci di assicurare un futuro alternativo alla crisi del sistema moda. L’emergenza pandemica ha sottolineato come sia necessario un passaggio vitale verso nuove riconfigurazioni materiali e simboliche — nelle quali il concetto di virtuale si lega a quello di Remanufacturing — come accade ad esempio in una fiera tessile virtuale, luogo di connessione orizzontale dei produttori e nuovo format che incoraggia trasparenza e affidabilità verso i consumatori grazie alla “tecnologia blockchain”.
Affronta il tema dei “nuovi modelli rigenerativi di produzione e consumo” orientati all’economia circolare e promossi da un differente impianto contenutistico e formativo del design, il saggio firmato da Laura Badalucco (Università Iuav di Venezia) e Petra Cristofoli Ghirardello (Università Iuav di Venezia). Generalizzando a partire da casi studio emblematici come Econyl, il nylon rigenerato prodotto da Aquafil e apprezzato da aziende dello sportsystem come Adidas, ma anche da Prada e Gucci, viene ribadita la necessità di rimettere in discussione alcuni elementi chiave per sostenere la transizione verso nuovi modelli rigenerativi partendo da una profonda revisione del rapporto tra durata/obsolescenza o tra produzione/proprietà e uso dei beni.
Sulle innovazioni “abilitanti” che la tecnologia rende viepiù disponibili e che fanno da sfondo a questo cambio di paradigma si concentrano invece il saggio di Luca Casarotto e Pietro Costa (Università Iuav di Venezia) e quello di Margherita Ferrari (Università Iuav di Venezia). Il primo indaga il ruolo dei processi di digitalizzazione e di automazione del cosiddetto “Made in Italy 4.0” e soprattutto esplora le conseguenze, in termini di fisicità e de-spazializzazione del lavoro, derivanti della diffusione massiccia di piattaforme e canali digitali.
Margherita Ferrari riflette invece sull’impiego della robotica, una eccellenza nazionale, nel settore manifatturiero italiano sottolineando la centralità dell’operato dei makers nell’integrare gli strumenti digitali con la sfera artigianale, tipica del Made in Italy, ieri come oggi.
Remanufacturing: i discorsi
La seconda parte del volume lascia spazio ai “discorsi sul Made in Italy” offrendo una cornice teorica più ampia nella quale collocare le riflessioni precedenti. La rinascita del Made in Italy prende avvio inevitabilmente da una analisi e da considerazioni storiografiche, sul modello teorico, economico, e sul sistema narrativo (parziale o mitizzato) che lo sostiene, per discernere quali siano gli elementi ancora opportuni e utili in una operazione di Remanufatcturing concettuale.
Vincenzo Cristallo (Sapienza Università di Roma) si sofferma sulla retorica della cultura dell’artigianato mostrando l’infondatezza di alcune co-occorrenze (artigianato di qualità) sulle quali andrebbe condotta una riattribuzione di senso, evitando il binomio artigianato/qualità e attorno alle quali andrebbe costruita, in una prospettiva interdisciplinare, un’azione formativa basata sull’incontro design e artigianato.
In Made in Italy: modello economico o strategia di marketing? Roshan Borsato e Mario Volpe (Università Ca’ Foscari, Venezia) decostruiscono le idee di origine e originale per affrontare il tema del rilancio economico, appoggiato alle nuove tecnologie digitali (l’Internet of things, A.I. e blockchain), su mercati nazionali o internazionali. Per gli autori, come per Cristallo, in un sistema globalizzato occorre sostituire Made in Italy con Made by Italy (or by italians) a garanzia di alcuni valori emblematici come “l’accuratezza, stile, tecnica, qualità, al posto del mero luogo di produzione”, valori centrali nella formazione sui “contenuti artigiani”.
Tra le tante questioni sollevate dal contributo Fashion Remanufacturing: giovani cinesi nella moda italiana di Antonella Ceccagno (Università di Bologna), Yujie Ding (Università Iuav di Venezia), il rapporto Italia-Cina, dalle multiple sfaccettature culturali e produttive, fa da sfondo a riflessioni sulla formazione didattica e sull’integrazione lavorativa in un territorio sede di importanti cambiamenti. Nella ricerca empirica, che si è confrontata con le limitazioni imposte dall’attuale pandemia, responsabile di aver felicemente indirizzato verso nuove forme di ricerca etnografica che si avvale del supporto digitale condotta dalle autrici nel distretto fast fashion “tutto italiano” di Prato, gli esiti diventano lo spunto per riflettere sulle opportunità (in-opportunità) prodotte dallo scambio culturale tra l’Italia e la Cina nell’area produttiva presa in considerazione. Emergono da questa analisi interessanti paradossi legati alla richiesta di competenze di aziende cino-pratesi che privilegiano la “creatività italiana” nella moda rispetto alla stessa offerta proposta da studenti connazionali, provenienti da alte formazioni in Italia, ma non in grado di garantire loro l’appartenenza all’idea italiana di moda.
Vengono esposti i casi di alcuni brand cinesi a Prato, come il caso dei fratelli Hong che hanno scelto di abbandonare la “produzione di capi veloci a prezzi accessibili” in favore della creazione di “un marchio Distretto12 posizionato su una fascia media, con collezioni per uomo e, dal 2017, anche per donna” distribuito in Italia e all’estero. Le autrici sottolineano due aspetti peculiari di questa operazione che sembra aspirare all’integrazione più che al mantenimento di mondi separati: l’aver scelto un direttore creativo italiano e l’aver puntato la produzione su tessuti provenienti dai lanifici pratesi, a favore di una comunicazione incentrata sulla “produzione sostenibile a km zero”, contraddice lo stereotipo italiano sul mondo imprenditoriale cinese in Italia. Differentemente vengono presentati altri casi studio di brand presenti nello stesso territorio pratese che, pur investendo in Italia e in Cina, riscuotono meno successo, almeno in termini di percepito degli imprenditori che lamentano la non accettazione nei canali ufficiali della moda italiana.
Altre considerazioni vengono avanzate attorno al rapporto tra giovani designer cinesi formatisi in Italia e poi impiegati, con non poche contraddizioni, nell’industria della moda di Prato. Sembrerebbe dunque che, in un contesto lontano dalle automazioni ma vicino alle filiere corte, esista la potenzialità attrattiva per nuove spinte creative rappresentate da giovani cinesi che si formano in Italia (Italians?) ma, paradossalmente, che questa spinta venga mitigata da una domanda di ruoli non sempre all’altezza delle aspettative degli studenti desiderosi di mettersi alla prova, ma al contempo coscienti di essere in un “luogo di passaggio” per mirare ad altri più qualificati approdi come Milano, che a sua volta funge da passaggio verso il ritorno in Cina.
Il contributo non solo mostra la complessità della situazione pratese, specchio di un rapporto culturale variegato tra Italia e Cina, ma rintraccia anche i segnali di vitalità che emergono in questa situazione, “piccoli ma crescenti spazi disponibili per gestire direttamente il lavoro creativo, la distribuzione, e la comunicazione”.
Un altro tema tipico delle narrazioni costruite sul concetto di Made in Italy, è quello della contrapposizione tra industria e artigianato, e di come in un preciso momento storico, gli anni Ottanta e Novanta del Novecento presi in considerazione da Edoardo Brunello ed Elena Fava (Università Iuav di Venezia), la vicinanza tra moda e industria, e la flessibilità di quest’ultima (discrimine per il successo sia nel design di prodotto sia nella moda), abbiano consolidato l’edificio “materiale” del Made in Italy, rivelatosi ancora più che mai adeguato al periodo post pandemico. Quanto, si chiedono gli autori, “il racconto della moda industriale o dell’Italia che produce la moda hanno nutrito e nutrono il discorso culturale sul Made in Italy?”.
Nel racconto di Emilio Antoniol e Maria Antonia Barucco (Università Iuav di Venezia) si precisa come il concetto di Re-manufacturing sia trasversale e si possa fruttuosamente adattare a discipline e filiere di progetto anche apparentemente lontane, dalla moda alla tecnologia dell’architettura. L’introduzione della locuzione Tecnologia risonante — anche a titolo del saggio proposto — indica “progetti che mettano in risonanza persone, sistemi e territori, come proponenti o come gregari di nuove o rinnovate reti”.
Il tema, infine, della memoria “industriale”, intrecciato con il Remanufacturing viene affrontato da due saggi con tagli molto diversi, l’uno rivolto al mondo produttivo dei materiali e dei componenti per l’architettura (che si lega parzialmente al precedente saggio), l’altro all’immenso patrimonio italiano della produzione industriale inteso come elemento di conservazione e di competitività. Massimiliano Condotta e Valeria Tatano (Università Iuav di Venezia) in Pietre d’Italia lavorano attorno alla specificità e alla ricchezza della storia e sulla reinvenzione (Re-manufacturing) di prodotti e processi, come accade con il marmo, simbolo di eternità accostato a certa idea immortale del Made in Italy.
Memoria e conservazione come chiave di rilancio del settore museale e turistico, una riflessione sui patrimoni materiali e immateriali e sull’“heritage come valore competitivo di marchio e d’immagine” è invece la declinazione che emerge dal contributo a firma di Maddalena Dalla Mura e Manuela Soldi (Università Iuav di Venezia) focalizzato su due settori noti del Made in Italy, l’automotive dell’Emilia-Romagna e il tessile del biellese. L’idea di Remanufacturing è generosa e capace di accogliere, come dimostra il volume, un ampio spettro di discipline e di azioni, nelle quali l’orizzonte digitale è supporto imprescindibile sia sul fronte operativo sia su quello concettuale.
Il contributo soprattutto considerato nell’ottica del sistema moda è prezioso sia sul piano teorico, dei discorsi, per avviare nuove riflessioni, sia su quello degli spunti pratici offerti anche dall’analisi di casi studio, nel tentativo duplice di una rivalorizzazione del polisenso “Made in Italy”, ma anche per avvicinarsi a obiettivi più sostenibili con processi di progettazione consapevole e coerenti con un’idea di economia circolare, dall’upcycling alla moda co-progettata a sempre più raffinati processi di riciclaggio dei materiali da riutilizzare in modo creativo.
Avvicinarsi e abbracciare pratiche quanto “meno insostenibili” sembra dunque l’orizzonte a cui mirare, anche nel racconto iconografico che non può limitarsi all’apologia di un passato, per quanto mitico, che è oggi anche remoto se considerato in relazione alle velocità esponenziali dei cambiamenti in cui siamo immersi, paradossalmente anche in momenti di stallo come quello causato dalla pandemia ancora in corso.