ZoneModa Journal. Vol.10 n.2 (2020)
ISSN 2611-0563

La memoria ‘estesa’ della moda. Come valorizzare l’heritage aziendale con la tecnologia

Chiara PompaUniversità di Bologna (Italy)

She is a PhD in Visual, Performing and Media Arts at the University of Bologna. She is currently an adjunct professor and research fellow at the Department for Life Quality Studies of the same University, where she teaches Archives Enhancement for Fashion. Her main research interests focus on the relationship between photography, visual arts and fashion communication in the digital era. Among her latest publications: Diaries Without Padlocks. Photographic Writing of the Obscene in Social Networks, Art and Fashion (Pearson-Bruno Mondadori 2017) and Mythologies of the DigiSelf. The Spectacularization of Daily Life in Visual Culture at the Turn of the Millennium (Pearson-Bruno Mondadori 2018).

Pubblicato: 2020-12-22

Abstract

During the past months of lockdown and social distancing, necessary to counter the spread of the COVID-19 pandemic, the fashion world opened the doors of its digital databases, sharing the cultural heritage with the web community. A praiseworthy initiative capable of stimulating a reflection on the dimension of accessibility to fashion archives, as well as on the uses that can be made of their materials. This phenomenon is in fact observable from multiple perspectives: if on the one hand, it may provide useful insight into the progress of digitalization, on the other it underlines the limited use of Extended Reality in corporate archives and museums of Fashion System, that has adopted this technology primarily in both B2B and B2C retail. Starting from the analysis of the state of the art, the paper aims to trace potential paths for future research on this field, in order to support the fruition and valorization of the fashion heritage through augmented and virtual reality technologies.

Keywords: Corporate archives and museums; Fashion heritage; Heritage marketing; Extended Reality Technologies.

Ringraziamenti

Il presente contributo è il frutto delle attività di ricerca condotte nell’ambito del progetto “Definizione e progettazione di applicazioni di realtà aumentata a supporto della catena del valore della moda” (tutor: prof.ssa Daniela Calanca; assegnista: dott.ssa Chiara Pompa –– Dipartimento di Scienze per la Qualità della Vita, Università di Bologna). Il progetto si colloca all’interno del “Centro di ricerca per l’Interazione con le Industrie Culturali e Creative –– C.R.I.C.C.”, finanziato dalla regione Emilia Romagna che riunisce le linee di ricerca applicata afferenti ai Dipartimenti DAR, DA, FICLIT, DISI; QUVI e DIT dell’Università di Bologna.

Note preliminari: quando condividere la memoria digitale va di moda

In questo difficile momento di crisi, è essenziale e indispensabile il contributo della cultura, per continuare a stare insieme anche se lontani fisicamente. Questo Paese ha conosciuto stagioni drammatiche nella sua storia, ci siamo sempre rialzati perché tra gli elementi della nostra forza c’è la creatività e una straordinaria solidarietà.1

È con queste parole che Antonio Calabrò, presidente di Museimpresa, l’associazione italiana dei musei e degli archivi d’impresa promossa da Assolombarda e Confindustria, ha commentato le iniziative di intrattenimento culturale che nei mesi di lockdown — necessari per contrastare il diffondersi dei contagi da COVID-19 — si sono moltiplicate senza sosta attraverso il rizoma di Internet. Iniziative di “solidarietà digitale” rivolte ai privati cittadini, in un periodo durante il quale l’utilizzo del Web, per la prima volta dalla sua nascita, si è fatto tangibilmente pervasivo, giocando un ruolo fondamentale non solo nella dimensione dell’informazione o del tempo libero, ma anche nel mondo dell’istruzione, si pensi all’e-learning e alle lezioni a distanza, oppure in quello del lavoro, teatro del “più grande esperimento di smart-working” di tutti i tempi.2 In questo contesto, hanno dunque preso piede lodevoli iniziative di condivisione della cultura, cui ha contribuito anche il mondo della moda, aprendo ex novo o promuovendo presso il grande pubblico i propri database digitali.

Volendo infatti passare in rassegna alcuni casi emblematici, a partire dal 17 marzo 2020 Vogue Italia ha dato libero accesso al suo archivio online inaugurato nel 2013, consentendo per tre mesi ricerche illimitate all’interno dei vari numeri del magazine, di norma consultabili esclusivamente dietro la sottoscrizione di un abbonamento annuale. Dal 20 marzo al 27 aprile, sul profilo Instagram della Rinascente sono stati pubblicati dieci post contenenti testi, manifesti, grafiche, fotografie, cover di cataloghi in grado di riportarne alla luce la storia e, al contempo, di offrire visibilità al progetto “Rinascente Archives”, nato nel 2015 con l’obiettivo di ricostituire in digitale la memoria documentaria del grande magazzino, quasi del tutto perduta nel corso del secolo scorso.3 Sul profilo Facebook di Luisa Spagnoli, invece, sono stati rilanciati, rispettivamente il 31 marzo e il 4 aprile, i primi due capitoli di Luisa Spagnoli: uno stile dentro lo stile, ossia due dei cinque video ospitati dal “Museo virtuale del costume Luisa Spagnoli”, la piattaforma interattiva messa in rete nel 2016 e tuttora raggiungibile dal sito del marchio.4 Infine, il 3 aprile, nella sezione news del sito di Fondazione Zegna e sui social network del polo archivistico/museale “Casa Zegna” è stata data la notizia che “a distanza di cinque anni, la mostra ‘Flower Landscapes — Tessuti. Fiori.  Ricette’ non fosse ancora ‘appassita’”;5 curata da Maria Luisa Frisa, Elda Danese e Alessandro Gori, la mostra che nel 2015 valorizzava per la prima volta le stoffe fitomorfe e policrome del Fondo Heberlein, è stata dunque riproposta nei mesi di stanzialità forzata e distanziamento sociale, informando gli utenti di Internet della possibilità di visitarla sulla galleria di Google Art & Culture.

Solo quattro esempi, quelli appena elencati, di una nuova strategia comunicativa etichettata come “marketing d’evasione”6 e adottata da un numero considerevole di realtà del Fashion System (non solo quelle associate a Museimpresa), le quali hanno colto l’opportunità per rilanciare il proprio patrimonio aziendale, accendendo i riflettori su territori in molti casi già fruibili online, eppure sconosciuti al di fuori di appassionati o addetti ai lavori. Una strategia adottata anche nei mesi successivi al lockdown, come testimoniano le iniziative promosse dal Museo Salvatore Ferragamo e dalla Gucci Garden Galleria. A partire dall’estate 2020, entrambi i musei d’impresa fiorentini hanno infatti aperto le porte dei propri spazi espositivi, permettendone la fruizione da parte di un “pubblico allargato” per mezzo di appositi virtual tour raggiungibili dai rispettivi siti web oppure, nel caso di Gucci, scaricando l’applicazione per i dispositivi mobile. Grazie a immagini a 360° in alta risoluzione, info point, video e schede di approfondimento, la mostra temporanea Sustainable Thinking ospitata nel basamento del Palazzo Spini Feroni e gli allestimenti delle nuove sale curate da Maria Luisa Frisa presso il Palazzo della Mercanzia, denominate Détournement, Bagology, Cosmorama, Ouroboros, Cosmic Colors, Jardin d’Hiver, Il Maschile e dedicate alla storia della maison dagli esordi fino al “nuovo corso” inaugurato da Alessandro Michele, rappresentano, in definitiva, altri due esempi virtuosi di come le aziende di moda abbiano saputo mettere a valore il proprio patrimonio storico, utilizzandolo, attraverso l’impiego delle tecnologie digitali, come uno strumento innovativo, strategico e competitivo in un periodo di forte recessione come quello in corso, determinato dalla crisi economica che ha prontamente seguito l’emergenza sanitaria.

Un fenomeno da ritenersi degno di nota quanto osservabile da molteplici punti di vista: se, infatti, da un lato è in grado di restituire uno spaccato sull’avanzamento del processo di digitalizzazione del proprio patrimonio storico e culturale da parte del settore indagato, dall’altro ne mette in luce lo scarso impiego delle tecnologie di Augmented o Virtual Reality nelle operazioni di valorizzazione di archivi e musei d’impresa, tecnologie — come si avrà modo di argomentare — maggiormente sperimentate, nel corso del 2020, in ambito e-commerce oppure in occasione degli eventi di presentazione delle nuove collezioni. Sebbene, nelle varie attività di comunicazione, sia le stesse realtà archivistiche e museali sia la stampa facciano riferimento a esperienze di visita o musei “virtuali”, assai raramente ci troviamo di fronte all’impiego delle suddette tecnologie di realtà estesa. Del resto, come ha sentenziato Domenico Liggieri, intervenendo nel 2015 sulle medesime questioni: “c’è virtuale e virtuale”.7 Una considerazione da ritenersi ancora attuale, perché tutt’oggi, a distanza di cinque anni, il termine viene adottato con accezione assai ampia così come l’espressione “museo virtuale” finisce in molte occasioni per riassumere “in modo generico, tutte le relazioni tra strutture museali e tecnologie digitali”.8 Indubbiamente, se passiamo in rassegna i casi studio presi in esame, l’utente potrà accedere a esperienze interattive, multimediali e responsive, tuttavia solo in occasione di Sustainable Thinking avrà la possibilità di vivere una esperienza realmente immersiva, sempre che acceda alla piattaforma da smartphone e abbia a disposizione un visore VR Cardboard. Eppure, sorge spontanea una domanda: questo impiego attualmente ancora timido delle tecnologie di Realtà Estesa, evidentemente innescato dall’avanzare della pandemia e dal conseguente distanziamento sociale, è da registrarsi come il sintomo di un’apertura che in un prossimo futuro sarà in grado di dare un impulso alle attività degli heritage department delle aziende di moda oltre che ai loro principali strumenti, ossia l’archivio e il museo d’impresa?

Per provare a dare una risposta a tale interrogativo e tracciare scenari futuribili, si ritiene doverosa innanzitutto un’operazione di scandaglio degli altri campi del Fashion System in cui tali tecnologie hanno trovato terreno fertile, ossia quello del commercio B2B e B2C. Se in tali campi già da diversi anni si era andato registrando un avvicinamento alle tecnologie evolute, nel corso del 2020 l’utilizzo pervasivo del Web ha, infatti, determinato un’escalation della digitalizzazione e un incremento esponenziale della sperimentazione tecnologica. Sperimentazione che, come si cercherà di argomentare, potrebbe dare buoni frutti anche nel campo della comunicazione d’impresa e, più nello specifico, dell’heritage marketing. In seconda battuta, si ritiene necessaria una riflessione sulla dimensione dell’accessibilità ai patrimoni archivistici delle imprese di moda, sugli usi che di tali patrimoni è possibile fare, sulle potenzialità e sui limiti della tecnologia applicata a sistemi di conservazione e fruizione dei patrimoni stessi, al fine di circoscrivere potenziali ambiti di applicazione. In questo senso, sono state raccolte e analizzate informazioni su 20 realtà archivistiche, di cui 14 sono collegate a un museo d’impresa, facenti capo ad aziende della filiera abbigliamento-tessile italiana. A queste informazioni, si aggiungono i primi dati reperiti da chi scrive nel corso delle prime fasi di ricerca condotte su un campione di altri 13 archivi, di cui 3 prestano consulenza agli uffici stile di aziende del lusso. Un’operazione di scandaglio e una riflessione che saranno al centro delle pagine a seguire.

Fashion Update 2020: il coronavirus come motore di innovazione tecnologica

Il 24 Settembre 2020, intorno alle ore 14:15 CEST, in occasione della Milano Fashion Week, Raf Simons e Miuccia Prada sono impegnati, subito dopo la sfilata, in una conversazione in live streaming su Instagram. Sono seduti su due parallelepipedi debitamente distanziati e posti al centro di un set minimale, asettico, total grey, nel quale campeggia, alle loro spalle e perfettamente al centro dello spazio, la proiezione di una accurata selezione di domande rivolte loro dal pubblico dei social network, interpellato attraverso una sorta di call for questions pubblicata il 22 settembre sui canali istituzionali del brand. Sono distanziati e sono soli: una scelta all’insegna della precauzione, da non considerarsi singolare o sui generis.

Dopo l’edizione di luglio quasi esclusivamente online a causa della pandemia (gli unici brand a sfilare in IRL e in presenza del pubblico erano stati Dolce & Gabbana ed Etro), la settimana della moda milanese di settembre si è, infatti, configurata come ibrida, oppure, volendo essere più circostanziati, l’etichetta da adottare potrebbe essere phygital. Del resto, il fortunato neologismo rilanciato dalla maggior parte della stampa di settore, frutto della crasi di physical e digital, si è rivelato assai efficace nel restituire la natura di una manifestazione che nel corso di sette giorni ha visto alternarsi 23 sfilate dal vivo a 41 show digitali, tra i quali va annoverato anche quello di presentazione della Collezione Primavera/Estate 2021 di Prada.

Uno show che ha segnato il debutto dello stilista belga come co-direttore creativo della storica maison milanese e lo ha visto coinvolto — al termine del susseguirsi di 40 look all’interno di un set progettato dallo studio OMA/AMO — nel talk a due voci con la padrona di casa, che si è dimostrato essere interessante sotto differenti punti di vista. Oltre alla scelta di presentare la collezione online in linea con la cosiddetta Digital Escalation, fenomeno con il quale, come avremo modo di argomentare, presto o tardi tutti i brand saranno chiamati a misurarsi, e all’inedito coinvolgimento, seppure in differita, di un pubblico allargato che non comprendeva esclusivamente addetti ai lavori, nel corso della conversazione sono emerse tematiche che hanno animato il dibattito degli ultimi mesi circa il futuro della moda una volta che la crisi aperta dal COVID-19 avrà trovato un argine e si sarà tornati alla normalità o, come spesso è stata definita, nuova normalità. Nel fare gli onori della maison e dare il benvenuto al suo nuovo co-direttore, prima di rispondere alle domande di volta in volta proiettate alle sue spalle, Miuccia Prada ha tenuto a porre l’accento sull’importanza dell’adozione di strategie che contemplino la sostenibilità, l’inclusività, la tecnologia. In merito a quest’ultima ha, infatti, affermato:

La relazione tra uomo e macchine viene ignorata o quanto meno le si dà poca importanza; durante il lockdown noi tutti, o per lo meno io, ho realizzato quanto la tecnologia sia importante e impattante sulle nostre vite, in qualche modo è come se fosse un’estensione di noi stessi. Una cosa davvero importante era la relazione tra la tecnologia/macchine e le persone.9

Tutt’altro che isolata, la posizione di Miuccia Prada può essere assurta a cartina tornasole del raggiungimento di un maggiore grado di consapevolezza da parte dei player del settore relativamente alla necessità di riprogettare il Fashion System, magari partendo dall’azzeramento e dalla modellazione ex novo della catena del valore della moda — come suggerito dalla lucida e puntuale analisi riportata nell’edizione speciale, pubblicata a seguito dell’esplosione della pandemia, del report annuale sullo stato della moda a cura della rivista Business of Fashion e della società internazionale di consulenza strategica McKinsey & Company.10

Dalla moltitudine di dichiarazioni rilasciate dagli addetti ai lavori nel corso dei primi mesi del 2020, anche sulla scorta del report sopra citato, emerge infatti una posizione compatta quanto largamente condivisa: il COVID-19 è, ormai, considerato il motore del cambiamento di un sistema che già presentava delle criticità, il catalizzatore di un processo di rinnovamento che ci si auspica possa innescare ricadute positive, dall’accelerazione del processo di digitalizzazione, al rallentamento dei ritmi produttivi invocato a gran voce da designer alla stregua di Alessandro Michele e Giorgio Armani,11 fino all’intensificarsi degli investimenti nella ricerca e nello sviluppo in materia di sostenibilità, anche alla luce del mutamento di stili di vita, se non di pensiero, da parte di un consumatore, o per dirla con Francesco Morace,12 di un cosumautore sempre più attento alle scelte aziendali e al sistema valoriale su cui tali scelte si basano.

Volendo ora iniziare a perimetrare il campo d’indagine e accendere i riflettori innanzitutto sul terreno lungo il quale si muoverà la presente argomentazione, tanto la prima delle ricadute elencate, ossia l’accelerazione del processo di digitalizzazione, quanto, più nello specifico, l’imporsi della necessità di innovazione tecnologica nell’ambito del sistema moda, trovano puntuale riscontro nel report a cura di BoF e McKinsey. Dall’analisi emergono cinque traiettorie a partire dalle quali si prevede si articolerà il cambiamento di rotta evidenziato e accelerato dal distanziamento sociale, tra cui sono appunto annoverate la Digital Escalation, considerata ormai una priorità lungo tutta la catena del valore, e l’Innovation Imperative, che impone l’adozione di nuovi strumenti e strategie in grado di rendere i modelli di business a prova di eventuali shock futuri. Una linea ribadita — solo per portare qualche esempio a testimonianza di come la maggior pare degli addetti ai lavori abbia assunto una posizione compatta nei mesi di lockdown — da Anastasia Sfregola, Sales Director per il mercato italiano della piattaforma e-commerce Kooomo, secondo la quale i tempi sono maturi perché le aziende inizino a internazionalizzarsi attraverso la tecnologia e, nello specifico, attraverso le più avanzate soluzioni messe a punto nel campo informatico. Riferendosi ai sui clienti, e dunque ai brand che usufruiscono dei servizi offerti dalla piattaforma e-commerce, ha dichiarato:

i trend del digital erano ben noti, d’altronde si parlava di Augmented Reality, Virtual Reality, Virtual Assistant e 5G ormai da un paio d’anni. La pandemia li ha semplicemente accelerati: certo che se i clienti fossero già stati pronti, avrebbero potuto utilizzare le loro risorse in maniera differente. Forse adesso ne sono consapevoli, forse adesso sanno che l’unica via è digitalizzarsi al 100%, lato B2C e anche B2B.13

Sulla stessa lunghezza d’onda Matthew Drinkwater, capo della Fashion Innovation Agency (FIA), una realtà nata come costola del London College of Fashion, University of the Arts London, che come da mission si prefigge di scardinare, attraverso l’impiego delle tecnologie emergenti, le pratiche tradizionali e consolidate quanto, alle volte, stagnanti e obsolete peculiari del sistema e, più nello specifico, il modus operandi secondo cui le case di moda progettano, mostrano e commercializzano le loro collezioni, perseguendo lo scopo finale di colmare il divario tra i due settori.14 Secondo Drinkwater l’esplosione della pandemia ha innescato un avvicinamento repentino verso le soluzioni digitali: dalla fase di progettazione di una collezione alla sua vendita al dettaglio, passando per il visual merchandising. In questo senso ha dichiarato, come riporta Forbes già all’inizio di Aprile 2020:

Il COVID-19 sta costringendo i marchi a impegnarsi e sperimentare tecnologie immersive. Siamo stati inondati di richieste su come creare abbigliamento virtuale, passerelle virtuali, showroom virtuali. […] Questa è un’opportunità per ridefinire i modelli di business e costruire un futuro più sostenibile e progressista.15

Passando ora in rassegna alcuni esempi di come il settore abbia sfruttato a suo favore l’introduzione di processi e tecnologie all’avanguardia nel corso del 2020, un caso certamente virtuoso quanto innovativo è rappresentato da Asics. Se varie case di moda, come ad esempio Ferragamo, hanno sostituito gli appuntamenti fisici con i buyer attraverso i virtual showroom,16 la suddetta azienda di articoli sportivi, non potendo invitare i media internazionali presso la propria sede in Giappone, ha spedito ai giornalisti un visore Oculus Quest sul quale era stata caricata la presentazione in Realtà Virtuale di quattro nuovi modelli di sneaker.

Se dal B2B passiamo al B2C, un caso degno di nota è costituito dal marchio di outdoor Napapijri che, in collaborazione con The Fabricant, ha creato una campagna 3D per la collezione Primavera/Estate 2020 con campioni di abbigliamento digitale, sostituendo completamente quelli fisici e azzerando così gli sprechi tessili. The Fabricant è infatti la prima Digital Fashion House che seguendo il motto “Always Digital. Never Physical” promuove l’intersezione tra moda e tecnologia, realizzando capi d’abbigliamento sostenibili e inclusivi da indossare esclusivamente online, magari sulle piattaforme di social networking.17 Il lockdown ha dunque accelerato anche l’avanzata della cosiddetta digi-couture, tanto che la casa olandese di base ad Amsterdam ha ritenuto opportuno lanciare, sebbene fosse ancora in versione beta, la piattaforma LEELA sulla quale è possibile creare il proprio Digital Self a partire da una foto del proprio volto, esplorare e provare abbigliamento digitale, condividere i propri look con la comunità del web.18

Sulla stessa lunghezza d’onda di Napapijri, la campagna digitale del Department Store londinese Selfridges, che sul proprio sito scrive:

Siamo all’alba di un nuovo panorama della moda; uno in cui il design 3D rende praticamente tutto possibile. Nel prossimo capitolo di The New Order, la nostra campagna creativa che esplora il futuro della moda e della vendita al dettaglio attraverso il mezzo dell’arte digitale, abbiamo collaborato con il collettivo di design 3D DIGI-GAL. […] In primo luogo, il nostro principale stylist di Selfridges ha selezionato i pezzi di alcuni dei nostri designer più al'avanguardia, tra cui Rick Owens, Maison Margiela e Ann Demeulemeester. I campioni IRL sono stati inviati a DIGI-GAL, che ha studiato le proprietà fisiche degli oggetti prima di ricrearli in 3D.19

Gucci, invece, attraverso la sua app, aggiornata proprio durante l’avanzata della pandemia, ha compiuto un ulteriore passo in avanti, sfruttando la Realtà Aumentata per consentire ai propri utenti di indossare virtualmente, attraverso apposite lenti, alcuni modelli di sneakers, provare sul proprio volto cappelli, occhiali, orologi e varie tonalità di rossetti o visualizzare complementi d’arredo direttamente in casa propria, decorandone gli spazi.

Solo alcuni esempi, quelli sopra elencati che evidenziano anzitutto un aumento di consapevolezza da parte del Fashion System sulla necessità di accelerare i processi di digitalizzazione e di potenziare l’interazione con le varie tecnologie, sfruttando a proprio vantaggio le opportunità che questa può offrire in termini di presentazione del prodotto sia nell’ambito del commercio all’ingrosso sia in quello rivolto al cliente finale. Non solo. Se fino a pochi anni fa, al di fuori dell’ambito militare e medicale erano da considerarsi inaccessibili a causa del loro costo, sia le testimonianze degli addetti ai lavori sia i case history illustrati mettono in luce come le tecnologie di realtà estesa siano ormai da considerarsi mature e alla portata anche di un settore come quello della moda. Del resto, molte aziende ne hanno compreso il potenziale, in modo particolare nell’ambito del retail sia tradizionale, si pensi ai virtual mirror ormai presenti in vari store, sia digitale, come per esempio sull’applicazione per dispositivi mobile di Gucci che, dopo aver “provato” un rossetto, permette di acquistare con un solo clic il prodotto sull’e-commerce della maison.

Un potenziale, quello custodito dalle tecnologie di realtà estesa, che potrebbe essere sfruttato anche in altri ambiti, non solo quello prettamente commerciale. Come si è già avuto modo di accennare, non ci si può infatti esimere dal registrare uno scarso impiego di tali tecnologie nei processi connessi alla comunicazione e alla promozione del patrimonio conservato presso gli archivi o i musei d’impresa, così come a quelli di catalogazione, conservazione, consultazione del patrimonio stesso. Eppure, le stesse tecnologie utilizzate per la presentazione del prodotto alla stampa, ai buyer o ai consumatori finali, potrebbero velocizzare e agevolare anche il processo di ricerca in archivio, consentendo una consultazione estremamente realistica, sebbene a distanza, dei pezzi lì conservati, sempre più spesso utilizzati come fonte di ispirazione nella progettazione di nuovi capi e accessori. Un altro ambito ad alto potenziale applicativo potrebbe essere, infine, restando sempre in area archivi o dei musei d’impresa, quello dell’heritage marketing, il tutto attraverso le stesse tecnologie magari impiegate dalla stessa azienda in occasione della presentazione del prodotto con scopi prettamente commerciali. Ed è proprio tale gap che in ultima istanza il presente contributo intende indagare, cercando di comprendere se la maggiore consapevolezza maturata rispetto all’urgenza di intensificare la digitalizzazione e di innovare tutta la filiera attraverso la sperimentazione delle tecnologie di ultima generazione sia in grado di dare impulso non solo a soluzioni di rappresentazione e commercializzazione delle nuove collezioni. È ormai acclarato che anche il passato aziendale abbia un valore e una forza distintiva traducibile in capitale culturale, sociale ed anche economico. Il panorama sopra tracciato assume, dunque, la funzione di basamento sul quale iniziare a formulare ipotesi per gli sviluppi futuri del settore. Nel corso delle prossime pagine si tenterà di verificare se si possa investire nella cultura d’impresa a partire dall’impiego degli stessi strumenti tecnologici sopra elencati.

‘Techno-fashion’ Heritage: stato dell’arte e possibili scenari futuri

L’archivio e il museo d’impresa sono da annoverare tra i principali strumenti di cui dispone l’heritage marketing;20 certamente tra i mezzi più efficaci da adoperare nelle operazioni di conservazione e trasmissione e, dunque, messa a valore presso i consumatori di quel patrimonio culturale, sia ideale sia materiale, in cui affonda le sue radici l’identità delle aziende di moda, in modo particolare di quelle finali o di subfornitura longeve,21 che operano nei segmenti più qualificati del mercato (high-end luxury, entry to luxury, premium) e che posseggono, soprattutto, un vissuto storico da raccontare.

In generale, secondo Pietro Marano e Rosanna Pavoni il termine heritage rimanda, infatti, a quel “patrimonio complesso costituito da tutto ciò che il passato ha trasmesso all’oggi e che definisce l’identità di un territorio, di una popolazione, di un gruppo sociale. […] costituisce l’eredità che è arrivata a noi e che noi consideriamo rappresentativa del passato in cui ci riconosciamo”.22 Una lettura che evidentemente carica il termine di un valore identitario, basato sulla trasmissione di un patrimonio genetico unico quanto trasmissibile, spesso racchiuso nei saperi tramandati di generazione in generazione. Del resto, l’etimologia inglese lo connette esplicitamente al “concetto di”eredità" — cioè qualcosa che si riceve da altri con lo scopo di essere tramandato per il futuro — rendendo meglio l’idea “dinamica” del “ricevere e conservare per poter tramandare”“.23 In questo senso, l’heritage viene a essere una risorsa marcatamente strategica per le politiche di marketing, branding e comunicazione aziendale. Così come ha acutamente riassunto Marco Montemaggi, esso incarna la memoria storica di un brand, un vissuto portatore di proprietà distintive da cui l’impresa attinge nel perseguire l’intento di adeguarsi alle esigenze di un nuovo consumatore sempre più maturo, consapevole ed esigente, fortemente interessato a una tipologia di prodotto dallo spiccato valore simbolico e, dunque, culturalmente connotato.24 In definitiva, il”patrimonio […] attraverso il quale soddisfare la necessità di nuovi linguaggi, nuovi contenuti, nuovi simboli, nuove evocatività, ormai dispersi nella polvere del passato“.25 Quel patrimonio tutelato e valorizzato, appunto, dagli archivi e dai musei d’impresa, che però — è bene precisare — assolvono a usi e funzioni differenti, pur cooperando nell’esercitare il ruolo di custodi di un’eredità genetica unica, sui cui si basa la”magnificenza" di una azienda.

Una premessa e una puntualizzazione necessarie, quelle appena tratteggiate, utili ai fini dell’inquadramento del rapporto che può intercorrere tra questi due strumenti fondamentali dell’heritage marketing e le varie tecnologie passate in rassegna nei paragrafi precedenti. Un inquadramento che, infine, non può prescindere dalla messa a fuoco dei due strumenti stessi, da considerarsi dicotomici nella misura in cui, come avremo modo di argomentare, uno è “chiuso” l’altro “aperto”, il primo assolve alla funzione primaria di rendere fruibili materiali ai fini della loro consultazione interna, l’altro a quella dell’esposizione all’esterno. Due strumenti dicotomici che però non si escludono vicendevolmente, essendo complementari nel loro essere strettamente reciproci, nel compensarsi. Del resto, da un punto di vista puramente teorico, il museo dipende dall’archivio e l’archivio necessita di un museo per essere presentato all’esterno, svelato al pubblico, raccontato nel suo essere custode di un patrimonio in grado di conferire valore culturale all’impresa.

Partendo dal primo, senza alcuna pretesa di esaustività bensì attraverso un’analisi funzionale ai fini del presente discorso, si può innanzitutto affermare che l’organizzazione di un archivio d’impresa del settore moda sia guidata da una visione assai pragmatica del patrimonio lì custodito, generalmente costituito da abiti, accessori, cartamodelli, campionari sia di abbigliamento sia di tessuto, documentazione fotografica e/o video, documentazione cartacea (documenti amministrativi, corrispondenza, inviti, schizzi, figurini, disegni tecnici), stampa (magazine, settimanali, mensili, comunicati stampa, inserzioni pubblicitarie, lookbook). Un archivio che, dunque, è chiamato a conservare tali materiali relativi alle collezioni passate, solitamente implementati con regolarità con quelli afferenti alle collezioni correnti, e consultati principalmente dagli uffici stile, i quali si approcciano ad essi con fini di ricerca e progettazione delle collezioni future. Una delle sue funzioni primarie è, infatti, quella di fornire ai designer fonti dinamiche di ispirazione da sfruttare nel processo di sviluppo delle collezioni stagionali, che spesso rivisitano i pezzi storici dal punto di vista della morfologia, dei materiali e delle lavorazioni. Tali materiali possono, inoltre, essere consultati da altri dipartimenti, come ad esempio quelli retail o comunicazione e marketing, e possono essere oggetto di prestiti per servizi fotografici, campagne pubblicitarie, mostre o celebrity dressing. È tuttavia importante sottolineare che il suo uso principale consista nella sua “consultazione” da parte di addetti ai lavori interni all’azienda stessa. Raramente l’archivio di un’impresa di moda ancora in attività è totalmente “sconsacrato”, nel senso che dà al termine Giorgio Agamben, ossia “restituito all’uso” di un pubblico vasto, allargato.26 Se, infatti, un archivio come quello di Gianfranco Ferré, attualmente gestito dall’omonima fondazione, è stato reso in gran parte fruibile tramite il sito web istituzionale della fondazione stessa, ciò non accade nel caso di archivi come quelli, volendo portare qualche esempio, di Prada Group, Max Mara Fashion Group, Fendi, Sergio Rossi. Può infatti accadere che un archivio non sia comunicato sul sito del relativo brand bensì solo su quello del gruppo di riferimento, di norma non visitato dal grande pubblico (in questo senso si vedano gli Archivi storico, tessuti, progettazione e la biblioteca di Prada Group e BAI Max Mara — Biblioteca e Archivio d’Impresa di MM Fashion Group); oppure, può capitare che un archivio sia comunicato esclusivamente sul sito web dell’associazione di categoria di cui è socio (ad esempio, l’Archivio storico FENDI, le cui uniche informazioni presenti sul web sono reperibili sul sito di Museimpresa); o, ancora, che non sia mai comunicato su un sito web istituzionale, della cui esistenza si apprende dalla stampa o dal passaparola tra addetti ai lavori (il caso di Living Heritage: Archivio Sergio Rossi, spesso menzionato nel corso delle interviste rilasciate dall’amministratore delegato Riccardo Sciutto, ma assente sui principali canali dell’impresa). Solo un piccolo campione, eppure in grado di restituire un modus operandi assai diffuso, cartina tornasole di una “chiusura” generalizzata, dettata dall’uso stesso che viene fatto di questi archivi, gestiti come fossero scrigni posti a custodire e tutelare quell’eredità genetica unica, di cui già si è scritto e che non deve essere clonata, imitata. In questo senso, Silvia Zanella, Executive assistant del Responsabile dell’archivio della Fondazione Fashion Research Italy, scrive:

Spesso, infatti, persiste questo senso di segretezza e di preservazione del knowhow, come se l’esposizione del prodotto o la semplice conoscenza della storia di un’impresa fossero sufficienti a carpirlo. Questo è uno dei motivi per cui gli archivi aziendali sono più diffusi dei musei d’impresa ma meno pubblicizzati, mentre, se ben organizzati, possono essere una fonte inesauribile di stimoli per l’innovazione e la crescita.27

D’altro canto, fino a prova contraria, le condizioni che regolamentano le visite a tali realtà archivistiche, quando consentite, pongono limiti precisi fino a restrizioni discrezionali, riassumibili nelle seguenti formule: 1) accesso consentito a un pubblico selezionato, su appuntamento;28 2) accesso limitato, su autorizzazione.29 Limiti raramente oltrepassati, trasgrediti dagli archivi in questione, se non in occasione di situazioni istituzionali, eccezionali che, pertanto, confermano la regola, come possono essere Apriti moda, evento dalla cadenza annuale nato da un’idea della giornalista Cinzia Sasso con l’obiettivo di aprire alle visite libere del pubblico i luoghi “segreti” della mondo fashion, oppure La settimana della cultura d’impresa, rassegna anch’essa annuale organizzata da Confindustria. Due manifestazioni pubbliche di notevole risonanza, cui nel 2020 hanno aderito diverse realtà del campione qui preso in esame, come ad esempio il calzaturificio Rossimoda che, partecipando ad Apriti moda, ha di conseguenza aperto le porte del suo Museo della Calzatura; oppure, come quelle che hanno preso parte alla rassegna di Confindustria, ossia l’Archivio Storico Salvatore Ferragamo, che per l’occasione ha organizzato un incontro virtuale sulla piattaforma Teams di Microsoft, l’Archivio Benetton che ha previsto un tour guidato online con i visitatori connessi via Zoom e la Fondazione Fila Museum che, sul solco del cambiamento imposto dalla pandemia, ha ripensato le proprie strutture espositive, ideando un’apposita “virtual room”.

Un altro micro-campione, quello appena elencato, eppure in grado di mettere in luce come l’archivio, pur non snaturando la sua funzione di salvaguardia del DNA di un’azienda, della sua eredità, magari delle sue tradizioni tramandate di generazione in generazione, possa operare con lungimiranza, acquisendo, sebbene in situazioni circoscritte, “anche una valenza promozionale, di differenziazione e quindi di posizionamento sul mercato. Esso consente all’imprenditore di lasciare una testimonianza storica originale, unica e autonoma rispetto ai canali ufficiali di comunicazione e informazione”.30 Un micro-campione altresì in grado di mettere in luce la necessità da parte di tali archivi di avvalersi di forme ad esso “parallele e complementari di conservazione e valorizzazione della memoria aziendale: il museo d’impresa”.31

Il museo, infatti, pur conservando e valorizzando il vissuto storico di un’impresa, a differenza dell’archivio non “chiude le porte” bensì le “apre”, non “consacra” all’interno dello scrigno bensì “sconsacra”, svela, rivela, in una parola: espone (dal latino expònere, comp. di ex fuori e pònere porre) e, dunque, “porta fuori” dal contesto archivistico nel quale era stato relegato il patrimonio aziendale, restituendogli valore d’uso anche presso un pubblico di non addetti ai lavori. Il museo d’impresa porta allo scoperto una selezione ponderata quanto strategica dei materiali conservati in archivio, che una volta esposta diviene funzionale alla narrazione, allo storytelling attraverso vari canali, alla comunicazione strategica dei valori dell’impresa stessa. Del resto, come sottolineato da Montemaggi e Severino,32 il patrimonio storico di un’impresa, per offrire un vantaggio competitivo, deve essere condiviso con i diversi pubblici di riferimento e il museo risponde a questa necessità, in quanto esso non è da considerarsi solo un potente mezzo finalizzato a comunicare la storia aziendale verso l’esterno, “ma anche come strumento operativo di più ampia portata, in grado di dialogare con tutte le funzioni aziendali e di rappresentare l’impresa in diversi ambiti istituzionali e territoriali”.33 In questo senso, dall’analisi in profondità dei quattordici musei d’impresa presi in considerazione, si evince che almeno sette di questi intrattengano rapporti stabili e continuativi con istituzioni e territori, siano esse istituzioni regionali o comunali, associazioni di categoria, reti museali. Rapporti che, pur non essendo sempre comunicati espressamente sui canali aziendali, sono da ritenersi certamente finalizzati alla maturazione di un “capitale sociale”, ma anche al raggiungimento di una maggiore visibilità che questi assicurano. In definitiva, il museo d’impresa colma la “chiusura endogena” dell’archivio, assicurando al patrimonio una visibilità che può derivare anche dal network in cui il museo stesso è inserito, bilanciando così le necessità di conservazione e tutela dei “segreti” aziendali con quelle della loro comunicazione.

Ebbene, dopo questo breve inquadramento finalizzato alla messa a fuoco di usi e funzioni dei due strumenti di marketing indagati, passiamo ora a mettere in luce eventuali campi di applicazione di soluzioni tecnologiche in grado di supportare ed eventualmente agevolare le dinamiche che soggiacciono ai processi in cui l’archivio e il museo d’impresa sono coinvolti. Sulla base di quanto esposto, si ritiene che la tecnologia possa supportare:

  • l’implementazione dell’archivio, costantemente chiamato ad accogliere materiali connessi alle collezioni correnti;

  • la consultazione del patrimonio archivistico in funzione della progettazione e dello sviluppo delle nuove collezioni;

  • la presentazione delle collezioni e la rappresentazione della storia aziendale in funzione della sua valorizzazione in ambito museale.

Partiamo dal secondo campo proposto, il più “spinoso”: come emerso dalle prime fasi di una ricerca qualitativa condotta da chi scrive — che si baserà su un campione di 10 archivi di imprese finali “entry to luxury” e di subfornitura “high-end luxury” della filiera dell’abbigliamento, a cui sono stati affiancati 3 archivi privati che offrono servizi di consulenza agli uffici stile di aziende sia “entry to luxury” sia “high-end luxury” — spesso è possibile riscontrare, almeno di primo acchito, tanto tra gli archivisti o i curatori dell’archivio quanto tra i designer, uno scetticismo diffuso rispetto alla conservazione e alla consultazione esclusivamente in digitale dei materiali sopra elencati e che entrano a far parte, collezione dopo collezione, degli archivi d’impresa. Pur nella consapevolezza dei limiti di spazio fisico con i quali sono quotidianamente costretti a fare i conti, e che costringono gli Archive Department a seguire rigidi criteri di selezione spesso stabiliti in accordo con l’ufficio marketing (in alcuni casi sono archiviati solo i capi presentati durante le sfilate, in altri ancora esclusivamente quelli più rappresentativi della sfilata stessa), dai primi scambi emerge che durante la fase di consultazione finalizzata alla progettazione di una collezione risulti limitante prescindere dal capo fisico, in quanto la sua versione digitale o “virtuale” non sarebbe in grado di agevolarne la fruizione, restituendone la vestibilità, le caratteristiche materiche, le tecniche di lavorazione. In definitiva, se si escludono la stampa, la pubblicità, la documentazione fotografica, video e cartacea, stando all’esperienza maturata da alcuni addetti ai lavori (tra cui il curatore di un archivio privato che presta regolarmente consulenza agli uffici stile di case di moda sia nazionali sia estere operanti nei segmenti high-end luxury ed entry to luxury), in occasioni di utilizzo particolari, non si può prescindere, tanto in fase di ricerca quanto di consultazione, dall’entrare in contatto con il pezzo fisico al fine di appurarne determinate caratteristiche. Si riscontra, invece, maggiore apertura circa la possibilità di sperimentare le tecnologie di realtà estesa, unitamente all’intelligenza artificiale, per agevolare e velocizzare la costante implementazione degli archivi aziendali.

Venendo, infine, al terzo e ultimo campo d’applicazione delle suddette tecnologie sopra proposto, le riproduzioni dei capi in 3D, come ad esempio quelle sperimentate da The Fabricant che ancora non sembrano guadagnare consensi o essere sfruttati nel processo di consultazione di pezzi d’archivio finalizzato alla progettazione delle collezioni stagionali, potrebbero trovare facile applicazione in ambito museale, magari attraverso un uso congiunto delle tecnologie di realtà estesa, spesso già in uso o in via di sperimentazione nel B2B o B2C. Magari capi storici, delicati o usurati (che non è più possibile esporre fisicamente per salvaguardarne la conservazione), che dopo essere stati riprodotti digitalmente potrebbero essere valorizzati attraverso mostre visitabili in un regime di realtà virtuale; mostre virtuali che alla fine del percorso potrebbero rimandare all’app del museo dove sarà possibile indossare, in realtà aumentata, un accessorio esposto dalla mostra stessa, e dunque scattare un “selfie ricordo” da condividere sui social network, alla maniera dell’attuale app di Gucci o della piattaforma LEELA. Solo alcune ipotesi meramente esplicative quanto circoscritte sugli usi possibili, funzionali a tracciare i contorni di un panorama futuribile in cui il museo d’impresa attraverso strumenti spettacolari e interattivi colma la “chiusura endogena” dell’archivio, valorizzandone il patrimonio presso il grande pubblico, perché — è bene precisarlo — il prestigio altrettanto “endogeno” di archivi e musei non può non essere a sua volta supportato da efficaci strategie comunicative.34 Per sopravvivere in un orizzonte come quello contemporaneo fortemente concorrenziale oltre che caratterizzato da un elevato grado di complessità, l’utilizzo della tecnologia diventa un fattore determinante per fronteggiare la costante sfida competitiva. L’implementazione incrociata di soluzioni differenti come ad esempio quelle di realtà aumentata, di realtà virtuale e di stampa 3D nell’esperienza di visita in un contesto museale può infatti favorire la “co-creazione di valore” con un ritorno positivo per l’impresa.35 Senza contare che l’attributo di “techno-rarity” derivante dall’“[…]investimento effettuato dall’impresa nella ricerca e nello sviluppo di nuove tecnologie”,36 può essere enfatizzato e dunque sfruttato anche in un contesto di valorizzazione del patrimonio aziendale e non solo nella promozione di quei prodotti contraddistinti da una forte componente tecnologica.

Del resto, come si evince dai casi portati ad esempio, gli stessi i musei d’impresa nel corso del 2020 hanno manifestato una maggiore apertura e consapevolezza rispetto alla necessità di adottare nuove tecnologie. La pandemia e il relativo distanziamento sociale hanno accelerato problematiche di un sistema già in crisi e sono diventate motore di cambiamento anche per gli spazi espositivi aziendali, così come testimonia il seguente annuncio della Fondazione Fila Museum, pubblicato in occasione della partecipazione alla Settimana della cultura d’impresa 2020:

Il 2020 è stato un anno in cui i musei, non solo d’impresa, si sono confrontati con il ripensamento delle strutture espositive e con le possibilità dell’offerta digitale. Nel solco di questo cambiamento, Fondazione FILA Museum ha ideato un’apposita Virtual Room, estensione online dell’ente biellese volta a promuovere nuovi talenti e progetti speciali. Inauguriamo lo spazio con Creativi in FILA: The Exhibition, mostra collettiva che espone i lavori presentati da tutti i partecipanti al contest dedicato ai talenti emergenti italiani. La piattaforma sarà fruibile sul sito ufficiale www.fondazionefila.com a partire da mercoledì 18 novembre.37

Se, pertanto, all’inizio della pandemia, l’attenzione delle aziende si è rivolta soprattutto verso la presentazione e la vendita delle collezioni, nei mesi successivi queste hanno iniziato a sperimentale le stesse tecnologie adottate in ambito retail anche in altri campi. Resta a questo punto solo una domanda a cui rispondere: considerata la recrudescenza del virus che con molta probabilità porterà con sé nuove norme sul distanziamento sociale, gli archivisti e i designer scenderanno a patti con il loro modus operandi ormai consolidato? Chi sviluppa soluzioni tecnologiche riuscirà a superare i limiti delle tecnologie stesse rispondendo a una esigenza di progettazione concreta da parte delle case di moda? La “realtà estesa” sarò in grado di sostituire l’esperienza fisica in archivio, agevolandone le pratiche di fruizione anche a distanza? Interrogativi ai quali, al momento, non è possibile dare risposta, ma che lasciano certamente intravedere gli scenari futuri nei quali dovrà muoversi la ricerca finalizzata allo sviluppo di soluzioni tecnologiche in grado di semplificare, velocizzare e agevolare i processi di consultazione e fruizione del patrimonio conservato presso gli archivi della moda. Anche in assenza di una pandemia.

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  1. Maria Adelaide Marchesoni e Marilena Pirrelli, “I musei d’impresa invitano a visite virtuali,” Il sole 24 ore, 23 marzo, 2020, https://www.ilsole24ore.com/art/i-musei-d-impresa-invitano-viaggi-virtuali-ADvhFJF.↩︎

  2. Jessie Yeung, “The world’s biggest work-from-home experiment has been triggered by coronavirus,” CNN Business, 15 febbraio, 2020, https://edition.cnn.com/2020/02/14/asia/coronavirus-work-from-home-intl-hnk-scli/index.html.↩︎

  3. Il portale “Rinascente Archives” nasce con l’obiettivo di ricostruire in digitale l’archivio digitale dell’azienda, andato perduto, attraverso il contributo collettivo di dipendenti, fornitori, collaboratori e clienti, invitando chiunque abbia informazioni o materiali (fotografie, illustrazioni, documenti) a prendere parte al progetto. Il portale è visitabile al seguente link: https://archives.rinascente.it/it, ultimo accesso 10 dicembre, 2020.↩︎

  4. Il “Museo virtuale del costume Luisa Spagnoli” ripercorre la storia del costume e della moda, dai primi del Novecento a oggi, attraverso l’universo della maison. La piattaforma interattiva che ospita i cinque video è visitabile al seguente link: https://storiadelcostume.luisaspagnoli.it, ultimo accesso 15 novembre, 2020.↩︎

  5. Per un approfondimento sulla mostra Flower Landscapes — Tessuti. Fiori. Ricette, si rimanda all’articolo pubblicato nella sezione “news” del sito della Fondazione: http://www.fondazionezegna.org/news_fondazione/e-primavera-tornano-i-fiori-di-flowers-landscape-dai-tessuti-alle-ricette/, ultimo accesso 10 dicembre, 2020.↩︎

  6. Michele Fossi, “Passato Presente,” Vogue Italia, Aprile 2020, 86–87.↩︎

  7. Domenico Liggieri, La comunicazione di musei e archivi d’impresa. Metodologie dell’informazione e strategie mediatiche (Bergamo: Lubrina Editore, 2015), 204–206.↩︎

  8. Antonella Pizzaleo, Beni culturali e tecnologie digitali. In Comunicare la cultura a cura di Fabio Severino (Milano: Franco Angeli 2007), 134.↩︎

  9. La registrazione integrale del talk è consultabile sull’app IGTV del canale Instagram della Maison. La conversazione è stata in parte tradotta, trascritta e pubblicata online sul magazine L’Offociel Italia, dal quale è stato ripreso lo stralcio citato in questa sede. Si veda Giorgia Cantarini, “Miuccia Prada in conversazione con Raf Simons,” L’Offociel Italia, 24 settembre, 2020, https://www.lofficielitalia.com/fashion-week/miuccia-prada-in-conversazione-con-raf-simons.↩︎

  10. “The State of Fashion 2020. Coronavirus Update,” McKinsey & Company, 7 aprile, 2020, https://www.mckinsey.com/industries/retail/our-insights/its-time-to-rewire-the-fashion-system-state-of-fashion-coronavirus-update.↩︎

  11. Nel corso dei mesi di lockdown sono state diverse le prese di posizione da parte dei Fashion Designer rispetto alla necessità di rallentare le cadenze delle collezioni, governate da un ritmo sempre più frenetico, favorendo la distensione del processo creativo. In questo senso, si vedano la lettera di Giorgio Armani pubblicata sulla rivista di settore WWD Women’s Wear Daily e la dichiarazione rilasciata da Alessandro Michele e sul canale Instagram di Gucci. Cfr: Luisa Zargani, “Giorgio Armani Writes Open Letter to WWD,” WWD Women’s Wear Daily, 3 aprile, 2020, https://wwd.com/fashion-news/designer-luxury/giorgio-armani-writes-open-letter-wwd-1203553687/; Antonio Mancinelli, “Alessandro Michele per Gucci: meno vestiti, più libertà, la spiegazione via digital invitation,” Marie Claire, 25 maggio, 2020, https://www.marieclaire.com/it/moda/fashion-news/a32660168/gucci-fine-sfilate-alessandro-michele/.↩︎

  12. Per un approfondimento sull’emersione nell’era digitale di una nuova generazione di consumatori, sempre più informati, consapevoli, selettivi, proattivi, si veda Francesco Morace, ConsumAutori. I nuovi nuclei generazionali (Milano: Egea, 2016).↩︎

  13. Per la dichiarazione di Anastasia Sfregola si veda, Marianna Tognini, “Sopravvivere al Covid-19: per l’industria della moda salvezza fa rima con digitalizzazione e collaborazione,” Business Insider, 27 aprile, 2020, https://it.businessinsider.com/sopravvivere-al-covid-19-per-lindustria-della-moda-salvezza-fa-rima-con-digitalizzazione-e-collaborazione/.↩︎

  14. Per una panoramica sulle attività della Fashion Innovation Agency, si veda: https://www.fialondon.com/.↩︎

  15. Brooke Roberts-Islam, “Virtual Catwalks and Digital Fashion: How COVID-19 Is Changing the Fashion Industry,” Forbes, 6 aprile, 2020, https://www.forbes.com/sites/brookerobertsislam/2020/04/06/virtual-catwalks-and-digital-fashion-how-covid-19-is-changing-the-fashion-industry/#78c54c4c554e.↩︎

  16. Sulla diffusione dei virtual showroom durante la pandemia, si veda Dario D’Elia, “La moda si converte agli showroom in realtà virtuale,” Wired Italia, 13 maggio, 2020, https://www.wired.it/economia/business/2020/05/13/moda-showroom-realta-virtuale/.↩︎

  17. Per un approfondimento sul progetto The Fabricant si veda: https://www.thefabricant.com/.↩︎

  18. La piattaforma LEELA è consultabile al seguente link: https://digital.fashion/.↩︎

  19. Rispetto alla campagna The New Order, si veda la pagina ad essa dedicata sul sito del Department store: https://www.selfridges.com/GB/en/features/articles/the-new-order/meet-the-artist-digi-gal/.↩︎

  20. Cfr. Fabrizio Mosca, Heritage di prodotto e di marca (Milano, Franco Angeli, 2017), 21.↩︎

  21. Cfr. Angelo Riviezzo, Antonella Garofano e Maria Rosaria Napolitano, “‘Il tempo è lo specchiodell’eternità’. Strategie e strumenti di heritage marketing nelle imprese longeve italiane,” Il capitale culturale, XIII (2016): 497–523.↩︎

  22. Pietro C. Marano e Rosanna Pavoni, Musei. Trasformazione di un’istituzione dall’età moderna al contemporaneo (Venezia: Marsilio 2006), 81.↩︎

  23. Lucia Cataldo, Musei e patrimonio in rete (Milano: Hoepli Print Replica. Edizione del Kindle, 2014), 19.↩︎

  24. Cfr. Marco Montemaggi, Organizzare l’heritage, in Marco Montemaggi e Fabio Severino, Heritage Marketing. La storia dell’impresa italiana come vantaggio competitivo (Milano, Franco Angeli, 2017), 84–86.↩︎

  25. Ibidem.↩︎

  26. Giorgio Agamben, Profanazioni (Roma: Nottetempo 2005), 83.↩︎

  27. Silvia Zanella, “Gli strumenti dell’heritage marketing: archivio e museo d’impresa,” Fashion Journal, 28 agosto, 2019, https://www.fashionresearchitaly.org/fashion-journal/archivi-moda/gli-strumenti-dellheritage-marketing-archivio-e-museo-dimpresa/.↩︎

  28. In questo senso si veda l’Archivio storico FENDI: “Lo staff organizza visite guidate per gruppi di giornalisti, per le scuole e per costumisti del cinema e del teatro, con i quali lavora da sempre, costantemente”.↩︎

  29. In questo senso si veda l’Archivio Benetton: “Le richieste di accesso all’archivio e ai suoi servizi devono essere inviate in forma scritta (via e-mail tramite il form dei Contatti) ed esplicitamente autorizzate dal responsabile. Nella richiesta devono essere specificate le generalità e i recapiti del richiedente, gli scopi e i contenuti della ricerca”↩︎

  30. Cfr. Fabio Severino, Pensare l’heritage, in Marco Montemaggi e Fabio Severino, Heritage Marketing. La storia dell’impresa italiana come vantaggio competitivo (Milano, Franco Angeli, 2017), 46.↩︎

  31. Ibidem.↩︎

  32. Cfr. Marco Montemaggi e Fabio Severino, Heritage Marketing. La storia dell’impresa italiana come vantaggio competitivo (Milano, Franco Angeli, 2017), 46.↩︎

  33. Angelo Riviezzo, Antonella Garofano e Maria Rosaria Napolitano, “‘Il tempo è lo specchiodell’eternità’. Strategie e strumenti di heritage marketing nelle imprese longeve italiane,” Il capitale culturale, XIII (2016): 502–503.↩︎

  34. Cfr. Domenico Liggieri, La comunicazione di musei e archivi d’impresa. Metodologie dell’informazione e strategie mediatiche (Bergamo: Lubrina Editore, 2015).↩︎

  35. Per un approfondimento delle prospettive aperte dall’implementazione delle tecnologie di realtà estesa e della stampa 3D nell’esperienza spettatoriale presso i luoghi del patrimonio culturale si veda: M. Claudia tom Dieck, e Timothy Jung, “Augmented reality, virtual reality and 3D printing for the co-creation of value for the visitor experience at cultural heritage places,” Journal of Place Management and Development vol.10 n.2 (2017): 140–151.↩︎

  36. Sulla nozione di “rarity” si veda: Fabrizio Mosca, Heritage di prodotto e di marca (Milano: Franco Angeli, 2017), 66–68.↩︎

  37. News pubblicata sul sito di Museimpresa, consultabile al seguente link: https://museimpresa.com/eventi/virtual-room-opening/, ultimo accesso 10 dicembre, 2020.↩︎