ZoneModa Journal. Vol.10 n.2 (2020)
ISSN 2611-0563

Digital Humanities e moda

Valentina RossiUniversità di Parma (Italy)

She is a research fellow in History of Art at the University of Parma, independent curator and art historian. After various experiences of study and work in Berlin and Amsterdam, she graduated at DAMS of the University of Bologna in 2006. From 2007 to 2009 she worked on scientific research for exhibitions and catalogs at MACRO, Museum of Contemporary Art in Rome, and at Museum ARCOS in Benevento. From 2009 to 2010 she coordinated, organized and set up the exhibitions and the artist residences at the Accademia Dello Scompiglio in Lucca. Currently she is a member of personal the collective group that wasborn in Bologna, and which has two catalogs and three experimental exhibitions to its credit. She is the curator of the research project in Digital Humanities MoRE a Museum of refused and unrealized project, in collaboration with CAPAS Center for Activities and Professionsof Arts and Entertainment of the University of Parma. She has collaborated in the scientific research of catalogs for Electa, Silvana Editoriale, Scripta, cura.books, Danilo Montanari Editore and Fortino Editions, she has curated and coordinated exhibition projects in public and private spaces in Italy and abroad, and she was also an Art Contributor for Arte e Critica, Cura and Fruit of the Forest. She is currently working on the research project concerning curatorial practices related to the digital dimension for the creation of a virtual exhibition with the heritage of CSAC, Centro Studi Archivi Comunicazione, in Parma. She teaches “Museologia del contemporaneo” at the Accademia Santa Giulia in Brescia, she writes for Zero and she has published various articles in scientific reviews. In 2019 she has published Tate Modern. Pratiche Espositive (postmedia book, Milan) and Nouvelles Flâneries (Silvana Editoriale, Milan, 2019). In 2021, she will curate an exhibition and a book, Hidden Display. Il non realizzato a Bologna, for MAMbo Museum in Bologna and an exhibition and a book, Storie di Fili, for CSAC, Parma.

Pubblicato: 2020-12-22

Abstract

To answer the question posed by the call: Could the pandemic, the pervasive use of the Web and the experimentation of Extended Reality technologies give a boost to fashion archives? it is necessary to undertake a analysis of different case studies that over the years have been confronted with Digital Humanities practices. The essay aims to outline a methodological lecture on museum and archival practices related to digital humanities. Since March 2020, museums and archives have accelerated the data restitution process and reinterpreted the functions of institutions through digital practices and virtual exhibitions — that do not aspire to replace the real ones — and demonstrating how these are placed on a different level of reading. They can certainly integrate with the museum and physical itinerary, but they can also take place independently of it. The debate on Digital Humanities and Virtual Exhibitions is now wide and articulated and one of its major authors, Jeffrey Schnapp, writes of Knowledge design: we find ourselves creating new forms of knowledge assuming the current conditions that contemporaneity offers us, while other critical perspectives are aimed at restoring the difference on the role of the document as such or on the method of construction and the impact of digital platforms

Keywords: Digital Humanities; Archive; Fashion; Virtual Exhibitions; Curatorial Practices.

Premessa

Questo saggio cercherà di definire e proporre alcune posizioni che riguardano l’ampia sfera delle Digital Humanities in relazione agli archivi di moda.

Per poter rispondere alla domanda: La pandemia, il pervasivo utilizzo del Web e la sperimentazione delle tecnologie di Realtà Estesa potranno dare un impulso agli archivi della moda? è necessario ripercorrere parte dell’intenso dibattito critico che negli ultimi vent’anni è emerso all’interno di importanti centri di studio e ricerca. Le fasi del dibattito riguardano non solo le nuove frontiere dell’Umanismo Digitale, ma anche la natura dell’archivio.

Negli ultimi anni anche gli archivi di moda, così come quelli museali, aziendali e universitari, hanno accelerato e intensificato gli studi e i progetti digitali. Quello che l’emergenza mondiale sanitaria ha fatto emergere verrà analizzato nel saggio attraverso alcuni casi studio che negli anni si sono adeguati a delle linee di ricerca internazionali.

Questo saggio si propone pertanto di analizzare il modus operandi dell’umanista digitale al cospetto delle nuove tecnologie attraverso appunto l’analisi di alcuni casi studio dai quali emerge un differente approccio alla sfera digitale, caratterizzato dalla struttura della piattaforma, dall’elaborazione di contenuti fruibili e condivisibili per differenti tipi di utenti, dalla selezione del materiale archivistico, ai collegamenti con altre istituzioni pubbliche e private.

Con questa ricerca cerco di considerare da un lato la natura mutevole dell'archivio, dall’altro il modo in cui la digitalizzazione dà forma alle informazioni e permette il cambiamento del ruolo degli archivi.

Se il primo capitolo è dedicato alla ricostruzione di parte del dibattito e all’analisi di casi studio come European Fashion Heritage Association, il Portale degli Archivi della Moda del Novecento, e svariati esempi di digitalizzazione di archivi aziendali come quello di Gianfranco Ferrè, il secondo capitolo è interamente dedicato a CSAC, l’archivio-museo dell’Università di Parma fondato da Arturo Carlo Quintavalle nel 1968. Dal 2017 il centro porta avanti una serie di progetti specifici sulle applicazioni digitali legati alla conservazione e valorizzazione del suo patrimonio composto da dodici milioni di opere suddivisi in diversi fondi, dai quali emergono numerosi fashion designer come Krizia, Albini, Armani e Versace.

La digitalizzazione e le istituzioni culturali

Proprio nel marzo del 2020, il Victoria & Albert Museum di Londra pubblica un comunicato stampa relativo alla propria dimensione digitale. Il comunicato in sé non annuncia nessuna nuova rivoluzione digitale, come molte altre istituzioni culturali che durante la pandemia hanno accelerato la restituzione delle progettualità attraverso questa modalità operativa, ma delinea la strategia che il museo ormai intraprende da anni.

Nel comunicato stampa si legge:

“The V&A offers a wide range of content online for visitors to enjoy museum collections and archives, opportunities to explore the museum behind-the-scenes, access educational resources and further information on our world-leading exhibitions programme — including virtual tours, blog posts, interviews, a Search the Collections website and a dedicated YouTube channel”.1

Dal testo emerge come un museo virtuoso come il V&A si fosse già allineato alle pratiche digitali: in questo modo — soprattutto durante l’emergenza sanitaria — l’istituzione si è trovata nella possibilità di valorizzare, promuovere e condividere la propria attività anche da remoto, attraverso differenti approcci — tra cui un accordo con Google Art, un canale YouTube e una serie tv in collaborazione con la BBC “Secret of the museum”.2

Ad oggi la collezione è stata digitalizzata all’80% e sul sito è possibile fruirla dal database indicizzato attraverso vari tag oltre che da differenti focus composti da articoli e immagini come The story of circus e The embroideries by Mary, Queen of Scots. Gli altri progetti digitali si circoscrivono in differenti contenitori: il public programme è riservato alla trasposizione digitale delle esposizioni, e a oggi è ad esempio fruibile il video della mostra di Tim Walker; Online Collection Highlights not generally available on public view sono invece dei focus monografici su alcuni beni conservati in collezione; Objects that are ordinarily difficult to look atclosely in-person (particularly 3-D pieces) offre una visualizzazione dell’oggetto permessa dalla trasmissione 3D disketchfab, un software che sviluppa modelli tridimensionali.3 La sezione Online interactives riproduce opere della collezione, grazie all’alta definizione è possibile ingrandire il file e vedere i particolari difficilmente percepibili in altri modi, inoltre per attivare una interazione con l’utente sono stati progettati dei pop up di informazione che si aprono sulla navigazione dell’oggetto, spostando quindi il cursore su un dettaglio si aprono gli approfondimenti.4 La sezione Further highlights è invece composta da un canale Soundcloud dove sono caricate conferenze e eventi come 20 years, Fashion in Motion,5 mentre una parte del sito è caricata con wallpaper scaricabili per il pubblico,6 una serie di poster di mostra implementati da alcuni approfondimenti7 e infine l’indice delle pubblicazioni in collegamento con la National Library.8

È facilmente intuibile come le ultime attività digitali proposte dal museo permettano una interazione con l’utente finale, così come la creazione di una comunità di fruitori, non solo addetti ai lavori, invitati alla partecipazione e alla condivisione con il materiale archiviato. Interessante infatti è sottolineare come tutte le pagine abbiano la modalità di condivisione tramite i differenti social media come Facebook, Twitter, Instagram e Pinterest.

Comunità, collaborazione, condivisione e percezione nel lavoro dell’umanista digitale

Le modalità sopra elencate favoriscono nuove forme di esperienza, differenti livelli di lettura e approfondimento, diversi approcci metodologici e inedite prospettive di ricerca e di apprendimento. Quello che emerge dall’attività del V&A sono i concetti di comunità e partecipazione, peculiarità fondanti nelle Digital Humanities e che Jeffrey Schnapp9 rintraccia nel suo saggio “Animare l’archivio”:

“[…] nuovi approcci alla conservazione e alla salvaguardia basati non sulla limitazione ma sulla moltiplicazione degli accessi ai resti del passato, modelli partecipativi di produzione dei contenuti, ricerca, e curatela; approcci a realtà miste di programmazione e formazione informale, che promettono di alterare e rimodellare la biblioteca tradizionale e il museo pubblico; mezzi potenziati per vivificare e promuovere modalità attive o sperimentali nell’approccio al passato e al presente. Un passato che non è mai davvero morto, ovviamente; da sempre appartiene già al presente. E il Web 2.0 e le toolkits che stanno a cavallo tra il 2.0 e il 3.0, inclusi mondi virtuali, Web3D, web semantico, indicano alcune importanti traiettorie per investire oggi sul passato. In poche parole, promettono di animare l’archivio”.10

Da queste parole emergono anche alcune considerazioni sul Web 2.0 e Web 3.0: secondo Numerico, Fiormonte e Tomasi difatti, con il web 2.0 si apre il concetto di Open data, un sistema fondamentale per l’evoluzione delle Digital Humanities. Si tratta di produrre socialmente contenuti di qualità e metterli a disposizione di tutti senza scopo di lucro, lasciando che essi siano dinamicamente aperti a ulteriori aggiornamenti e integrazioni trasversali con altri archivi.11 Schnapp prosegue il proprio saggio restituendo lo scarto tra il Web 1.0 e il Web 2.0: se la prima modalità ha permesso alle istituzioni di presentarsi in rete attraverso siti e cataloghi ragionati, il Web 2.0 lancia una sfida al concetto di autorialità permettendo una rielaborazione di contenuti dal basso all’alto,12 ma soprattutto ampliando il virtuale. Se infatti un tempo il virtuale era relegato a una correlazione fisica, oggi si possono immaginare mondi virtuali totalmente slegati da quella componente, tanto che “Nell’era del Web 2.0, ogni istituzione pubblica si è già trasformata in un’impresa glocal, locale e globale allo stesso tempo”.13

Il Web 2.0 sembrerebbe quindi ampliare e, in un certo senso, realizzare il concetto di comunità alla base delle prime teorizzazione di Internet, basti pensare alle parole del suo creatore Tim Berners-Lee: “Il Web è più una innovazione sociale che un’innovazione tecnica. L’ho progettato perché avesse una ricaduta sociale, perché aiutasse le persone a collaborare, e non come un giocattolo tecnologico”.14

Questo approccio partecipativo e comunitario sembrerebbe quindi essere uno dei fondamenti della rete e ad oggi un requisito necessario per la creazione e la gestione degli archivi digitali, nonché una delle basi dell’operato dell’umanista digitale.

Collaborazione e cooperazione sono due parole chiavi che si rintracciano quindi nella genesi delle Digital Humanities, una disciplina che richiede una unione fra struttura umanistica e informatica. Questo modello collaborativo tra diverse discipline emerge in modo chiaro nella prima parte del volume di Numerico, Fiormonte e Tomasi, ed è evidente anche nei pensieri di Joseph Carl Robnett Licklider che nel 1968 pubblica con Robert Taylor The Computer as a Communication Device.

Questo studio afferma come ci debba essere una relazione tra uomo e macchina e come quest’ultima non debba essere utilizzata non per la semplice trasmissione di dati, l’obiettivo per Licklider e Taylor è formare gruppi di ricerca e profili di utenti in grado di creare una “«attività creativa informazionale»”,15pertanto: “La supercomunità della rete Arpanet, quindi, avrebbe compreso oltre ai tecnici anche le persone creative in altri settori capaci di sfruttare gli strumenti di comunicazione resi disponibili dalla tecnologia per i loro ambiti di interesse”.16

Nella direzione dei palazzi della memoria può quindi avvenire un cambiamento radicale nella gestione del materiale, se prima del Web 2.0, come afferma Schnapp, le istituzioni si concentravano sul prodotto, dopo gli sviluppi digitali l’attenzione si focalizza sul procedimento. Questa metodologia comporta un minor controllo sui contenuti ma permette però di attivare alcune pratiche che possiamo considerare fondamentali per l’archivio, come mostrare agli utenti una ricerca ancora work in progress, sottoporre il materiale archiviato a commenti e critiche online o costruire una rete di risorse fuori dalla singola istituzione, creare quindi un network.

Un altro nodo critico fondante per le modalità operative dell’umanista digitale è il concetto di percezione del documento stesso, documento che un tempo veniva percepito nella sua interezza oggettuale ma che adesso affronta differenti restituzioni mediate dall’ interfaccia grafica. Sempre Burdick, Drucker, Lunenfeld, Presner e Schnapp nell’analisi e nella comparazione tra Umanistica Digitale e Umanistica Tradizionale scrivono: “Condividiamo la tesi degli studiosi che hanno paragonato l’avvento del digitale e della rete all’invenzione della stampa nel Rinascimento e nel post-Rinascimento: si tratta di fenomeni rivoluzionari sul piano tecnologico, sociale e culturale”.17

Nel volume questo parallelismo emerge con un’altra omologia: con la nascita del World Wide Web si assiste alla necessità di stabilire delle convenzioni comuni per i sistemi di trasferimento dati, dall’analogico al digitale, esattamente come avvenne per l’istituzione di caratteri mobili per la stampa e per la comunicazione telegrafica.18 Questa frase non può che fare emergere gli studi di Marshall McLuhan19, sono ormai celebri le posizioni del sociologo canadese che in primis aveva visto nei mezzi di comunicazione non solo una rivoluzione sociale ma anche un apporto alle modalità di trasmissione del messaggio. Se McLuhan non riuscì a teorizzare la rete ora sono gli scritti del suo allievo Derrick de Kerckhoveche possono far luce sulle prospettive mcluhniane legate al medium di internet.20

La nostra cultura è stata fondata sulla stampa, stampa e ricerca umanistica sono da sempre allineate,21 ma nella visualizzazione generata dall’Umanistica Digitale non esiste più solo il testo scritto ma bensì un sistema trans-mediale composto da immagini, video, tecniche di interattività, software e file audio. Proprio la trasmissione orale, legata appunto alla restituzione di file audio, è ritornata all’inizio del nuovo secolo, attraverso YouTube, podcast e lezione video, si assiste al prepotente riapparire della voce e del gesto.22

Come la stampa ha cambiato il metodo di trasmissione delle nozioni, anche il digitale trasforma la visualizzazione delle conoscenze. I media, in quanto formatori della nostra esperienza, hanno la capacità di plasmare l’esperienza umana, e applicandovi gli strumenti di McLuhan possiamo dire che i media formano l’esperienza umana e allo stesso tempo hanno una funzione trasformativa delle culture.23

Queste considerazioni fanno emergere un ulteriore nodo critico dal volume di Burdick, Drucker, Lunenfeld, Presner e Schnapp: “L’Umanistica Digitale contribuisce direttamente alla «cultura dello schermo» del ventunesimo secolo”,24 sottolineando inoltre che le parole sono prima di tutto delle immagini e che il nuovo sforzo delle Digital Humanities, e quindi dell’umanista digitale, è quello di integrare la componente testuale con quella visuale. In questo ambito è interessante ricordare come gli autori prendano ancora in considerazione il lavoro di McLuhan, in particolare il testo pubblicato con Quentin Fiore, Il medium è il massaggio,25 dove si crea una sinergia fra testo scritto e grafica editoriale, volume che dagli autori viene considerato un precursore dell’odierna Umanistica Digitale.

Alcuni casi studio

In questo paragrafo verranno presi in considerazione alcuni casi studio di differente natura al fine anche di creare un contesto critico e concreto al capitolo dedicato allo studio di CSAC.

Il primo progetto è European Fashion Heritage Association26 nato nel 2014 e cofinanziato dalla Commissione Europea, è una piattaforma digitale in cui archivi e musei pubblici e privati ​​di tutta Europa condividono online il patrimonio di abiti storici, accessori, design, fotografie di sfilate, disegni, schizzi, riviste, cataloghi e video. Nella prospettiva di scambio e condivisione si pensi a una interazione tra differenti archivi, unidisciplinari, multidisciplinari e monotematici che permettano la comunione di più fonti archivistiche. Questo progetto contribuisce come aggregatore tematico sulla moda di Europeana, un archivio on line che come scopo ha quello di condividere delle risorse culturali ad un vasto pubblico. Europeana è una piattaforma suddivisa per collezioni nata nel 2008 su iniziativa della Comunità Europea, e che vede la partecipazione di una fitta rete di partner. In questa prospettiva Europeana potrebbe essere considerata come un progetto pioneristico, perché si basa sull’interazione e la collaborazione della rete, quindi anche sull’interconnessione tra archivi e banche dati. La struttura in metadati27 permette di identificare il materiale di Europeana composto da circa cinquanta milioni di documenti di 4000 biblioteche, musei, archivi in tutta Europa.

Il repository digitale di European Fashion Heritage Association raccoglie invece circa un milione di oggetti digitali di moda che possono essere liberamente consultati, condivisi e riutilizzati da tutti, facendo quindi fede ai principi FAIR, ossia findability, accessibility, interoperability e reuse, è la prospettiva con la quale si muove Europeana. La piattaforma ha sviluppato anche un Europeana Data Model28 al fine di creare una standardizzazione dei dati necessari all’inserimento nelle piattaforme che vi confluiscono.

European Fashion HeritageAssociation è fruibile quindi attraverso una struttura organizzata in diverse categorie: Designers, EFHA World,Events,Exhibitions, Fashion &History, Object Focus, Runway Archive. L’utente può navigare e approfondire le varie voci che offrono alcuni affondi tematici tramite la ricostruzione di una cornice storico-critica e alcune fotografie di archivio. La collezione è fruibile anche attraverso una semplice ricerca del soggetto, attività a cui vengono applicati dei filtri: object, provider, material, colour, creator, date. Selezionando ad esempio Creator si sviluppa una tendina con i nomi di atelier, case di moda e fashion designer, mentre cliccando sul nome selezionato si apre una schermata con gli oggetti corredati da una scheda strutturata con nome, tecnica, numero di schedatura, data di creazione, provenienza, designer, tipo di oggetto, fotografo, content provider e right statment.

Il portale risulta quindi strutturato seguendo una serie di attività che permettono la navigazione degli utenti in vari livelli. Oltre ad una fruibilità di base sono difatti presenti schede critiche a attività di approfondimento per ricercatori, addetti ai lavori, professionisti e creativi che possono incontrarsi virtualmente per condividere modelli e esperienze.

Nell’ambito di una simile progettualità possiamo citare un caso italiano come Culturaitalia,29 un aggregatore nazionale del patrimonio culturale italiano. Nato grazie al Ministero per i Beni e le Attività Culturali e alla collaborazione scientifica con la Scuola Normale di Pisa, nel progetto confluiscono un sistema di archivi italiani di diversa natura, tra cui anche il SAN, Sistema Archivistico Nazionale che ha al suo attivo alcuni portali tra cui quello degli Archivi della moda del Novecento.30

Il portale Archivi della moda del Novecento viene ideato nel 2009 dall’ANAI (Associazione Nazionale Archivistica Italiana) e ha permesso il censimento, la catalogazione e la digitalizzazione di alcuni materiali conservati dalle più importanti case di moda italiane: da questo progetto si sviluppa, oltre a una serie di attività convegnistiche e di ricerca,31 il Portale degli Archivi della Moda.32 Questo progetto fa parte di un discorso più ampio sulla digitalizzazione aperto dalla Direzione Generale Archivi con l’intento di creare dei portali tematici, inseriti all’interno del Sistema Archivistico Nazionale.33 Il portale funziona da aggregatore di contenuti, difatti tramite delle opzioni di ricerca è possibile accedere al materiale digitalizzato proveniente da vari soggetti pubblici e privati, dal Museo del Tessuto di Prato alle Fondazioni di Emilio Pucci e Roberto Capucci. Le varie sezioni guidano gli utenti ad alcuni approfondimenti: in Protagonisti si apre un elenco alfabetico dove si può ricercare il soggetto e avere delle informazioni biografiche, ma solo per alcuni è fruibile del materiale restituito all’interno dello stesso portale oppure dal portale del Sistema Archivistico Nazionale. Nella sezione Multimedia il sistema genera invece delle immagini a random con una semplice didascalia, per accedere alle schede degli oggetti è necessario utilizzare la funzione cerca.

Anche questa piattaforma permette un diverso approccio calibrato sulle differenti tipologie di utenti, ad esempio alcuni dossier hanno la bibliografia direttamente collegata all’OPAC, catalogo del servizio bibliotecario nazionale, in Strumenti di ricerca è invece possibile accedere, oltre alla Biblioteca sempre collegata a OPAC, ad un Vocabolario e ad un Lemmario finalizzato alla compilazione della scheda Abito-elementi vestimentari.34

Se European Fashion Heritage Association, così come Europena, rappresentano casi studio esemplari per la confluenza di beni da differenti archivi e attivano, attraverso la loro modalità, un modello aggregativo per diverse istituzioni, CSAC, Centro Studi Archivi Comunicazione dell’Università di Parma, rappresenta invece un diverso caso studio in quanto raccoglie l’archivio dell’Università. Questo caso studio sarà analizzato nel capitolo successivo.

In questa prospettiva di analisi, oltre agli archivi dei musei, ai progetti europei, ministeriali e universitari, sono da citare anche gli archivi aziendali, gestiti principalmente in maniera privata.

Molti brand italiani nel corso degli ultimi vent’anni hanno istituito il loro archivio, il loro museo o spazio espositivo. Tra i più noti vanno sicuramente menzionati: Armani/Silos, Museo Salvatore Ferragamo, Fondazione Gianfranco Ferrè, Gucci Garden, Fondazione Ottavio e Rita Missoni, Fondazione Micol Fontana, Fondazione Roberto Capucci, Fondazione Archivio Emilio Pucci e il Valentino Garavani Virtual Museum.

Armani propone la visita del suo archivio digitale, composto da una raccolta di figurini, immagini di campagne pubblicitarie e sfilate, fruibile solo da device messi a disposizione nella sede Silos,35 il Museo Salvatore Ferragamo oltre al programma espositivo nella sede fiorentina propone un virtual tour ma non ha messo in rete il proprio archivio.36 La Fondazione Gianfranco Ferrè ha un archivio solo parzialmente digitalizzato che consente all’utente di vedere una selezione di modelli riprodotti su manichino con la scheda inventariata con i dati di lavorazione, note storico-bibliografiche, disegni tecnici, foto di sfilata, immagini di compagne pubblicitarie e redazionali.37

Il Gucci Garden, ospitato nello storico palazzo delle Mercanzie di Firenze, oltre all’attività espositiva seguita da Maria Luisa Frisa e a un ristorante gestito da Massimo Bottura, sembrerebbe non investire sul suo patrimonio archivistico, difatti sul sito della maison e su quello del Gucci Garden non ci sono particolari rimandi a questa attività. La Fondazione Ottavio e Rita Missoni presenta invece una buona parte di archivio digitalizzato: Luca Missoni, Direttore Artistico dell’Archivio, si pone come obbiettivo una sempre maggior digitalizzazione per rendere accessibili i contenuti e offrire informazioni sul mondo Missoni.38

L’archivio delle Sorelle Fontana,39 in parte a CSAC, è conservato alla Fondazione Micol Fontana che però prevede la fruizione del proprio materiale solo in sede. La Fondazione Roberto Capucci ha buona parte del materiale digitalizzato che propone all’utente attraverso la suddivisione di varie categorie, sotto la sezione portfolio si apre una tendina con: abiti, bozzetti e illustrazioni, sculture in tessuto, collezioni e allestimento. Al loro interno le sezioni sono scandite da un modello temporale. Il materiale digitalizzato è prettamente fotografico, e gli abiti di Capucci vengono presentati su manichini, ma nessun documento digitale caricato sul sito è accompagnato da una scheda di inventariato e specifica sull’oggetto mostrato.40 L’archivio Emilio Pucci41 è gestito da Promemoria,42 un’azienda che attraverso una piattaforma digitale di archiviazione, Archivi,43 collabora con importanti istituzioni pubbliche e private, ma a oggi l’archivio non è fruibile on line. Valentino propone una gallery virtuale costruita in 3D su un sito ideato ad hoc ma la usere xperience è complessa, è infatti necessario scaricare un file di estensione .dmg, non facilmente leggibile.44

Questi casi studio restituiscono alcuni livelli di lettura calibrati in base alla natura dell’istituzione. In quasi tutti questi esempi non sono presenti delle contestualizzazioni storico critiche o delle schede delle opere, appare evidente come sia necessario un ulteriore lavoro di approfondimento atto alla creazione di un sistema di conoscenze e pratiche condivise per permettere un sistema del patrimonio della moda.45

Questo saggio non prende in considerazione le strategie social e le nascenti influencer che pur circoscrivendosi nell’ambito del digitale necessitano di un altro genere di contestualizzazione storico critica, mi limiterò — rientrando nella tematica del numero di questa rivista — a citare un progetto, ancora embrionale, ma che potrebbe rappresentare, in fase germinale, la collaborazione diretta tra l’apparato digitale e il fashion designer, un modo per animare ulteriormente l’archivio. Un tentativo potrebbe essere la creazione di Avatar, che nel periodo della pandemia grazie ad AnimalCrossing, hanno indossato e pubblicizzato abiti di grandi maestri della moda come Valentino.46 Kara Chung è la creatrice dell’account Instagram [@animalcrossingfashionarchive] — https://www.instagram.com/animalcrossingfashionarchive/ — dedicato agli abiti virtuali, skin, look digitali di marca che replicano quelli delle collezioni SS20 e PreFall 20/21.47

Questa prima parte restituisce la complessità della prospettiva di studio e diversi esiti di analisi, approcci e declinazioni: emerge pertanto come negli ultimi anni molte istituzioni si siano attivate e abbiano messo in rete il proprio patrimonio attraverso modalità che rispecchiano indici di differenzionazione tra le pratiche adottate.

Il caso CSAC. Un archivio museo. Alcuni progetti di digitalizzazione

“La sfida per musei e biblioteche? Costruire le proprie piattaforme fisiche e collezioni in questi e altri domini d’intersezione tra virtuale e reale, in modo da rinforzare non solo l’accessibilità e il raggio d’azione ma da stabilire anche nuovi modelli di immaginazione, qualità e rigore”.48

Nel suo saggio “Animare l’Archivio” Jeffrey Schnapp propone una ipotetica direzione che dovrebbero seguire le istituzioni culturali come luogo di conservazione, valorizzazione e promozione della memoria. Sul museo e sull’archivio, istituzioni sorelle49, gli scritti e gli studi sono vastissimi: il dibattito critico si infittisce negli anni Cinquanta quando iniziano le prime argomentazioni legate alla gestione e viene riconosciuto all’archivio il ruolo nella ricerca. Nel corso degli anni Settanta vedono la luce i primi archivi di musei pubblici e privati e gli artisti interpretano le fonti d’archivio come elementi di valenza estetica e non più solo documentative (un esempio su tutti gli artisti della Institutional Critique). Negli anni Novanta e alle soglie del Duemila, si pongono invece le basi teoriche-scientifiche per nuovi studi e approfondimenti sul ruolo e la natura dell’archivio: ormai sono celebri le riflessioni di Jacques Derrida, dell’octoberist Hal Foster e del curatore e critico Owkui Enwezor.50

Dagli anni Settanta in poi l’archivio viene analizzato non solo come serbatoio di memoria ma anche come promotore e attivatore dei processi culturali. Francesca Zanella scrive: “L’archivio è infatti divenuto metafora della cultura postmoderna, non solo della forme di trasmissione della memoria, ma pure del rapporto con la storia, della sua rappresentazione e delle relazioni socio-culturali…”.51 Da queste posizioni emerge come archivio e museo non siano solo istituzioni atte alla conservazione, ma anche alla valorizzazione e promozione del patrimonio conservato.

Con l’arrivo dell’era digitale aumentano gli studi che affrontano non solo la rinnovata identità delle istituzioni culturali — con particolare attenzione per quelle istituzioni museali che nel corso degli anni Novanta si sono ritrovate all’interno del dibattito sui musei dell’iperconsumo52 — ma anche le prospettive di ricerche e analisi legate all’ambito delle Digital Humanities, che permettono di rilevare un inedito campo di studi. In una prima fase di analisi si rileva infatti come il digitale permetta di ripensare la natura dell’archivio stesso, mettendo quindi in crisi i modelli di catalogazione adottati nei secoli passati.53 Se il museo negli ultimi vent’anni ha prodotto un ripensamento di natura museografica riallestendo la collezione attraverso nuove metodologie espositive lontane da uno stampo storicistico o per scuola, l’archivio ha ripensato la propria struttura interna attraverso un’analisi dei modelli archivistici e delle modalità di accesso ai documenti, non solo fisici ma anche virtuali.

Sempre Schnapp ci illustra come sono cambiati i modelli di conoscenza attraverso l’esempio del “capovolgimento della piramide del sapere”. Gli archivi sono basati sul modello piramidale, alla base si trovano raccolti i documenti, nel mezzo il lavoro dell’archivista mentre in punta ci sono le conoscenze, ossia le varie attività degli studiosi. Ad oggi invece la piramide sembrerebbe ribaltata posizionando quindi alla base un ampio spettro di fruitori, di comunità che producono i contenuti, seguendo quindi un modello collaborativo, mentre la raccolta dei materiali si trova sulla cima. Questo mutamento mette in discussione il concetto stesso di archivio: “invece di considerarlo un posto dove si conservano le cose, dovremmo vederlo come un posto dove si fanno le cose”54. Questa prospettiva legata a un archivio mutevole sembrerebbe essere parallela, se pur espressa anni dopo, all’idea di un “museo vivo”,55 visto come una struttura “proteiforme”.56

Queste premesse teoriche sono funzionali per introdurre una istituzione come CSAC, un archivio fondato nel 1968 che ha acquisito natura museale solo nel 2015.57 Nell’archivio sono raccolti circa dodici milioni di pezzi tra fotografia, arte, design, moda, cinema e teatro. In particolare l’archivio dedicato alla Moda, istituito nel 1976 e conservato nella sezione Media, raccoglie all’incirca ottantamila pezzi, tra cui figurini delle Sorelle Fontana, Emilio Schuberth, Maria Antonelli, Renato Balestra, Clara Centinaro, Antonio Pascali, Walter Albini, Irene Galitzine, Albertina, Giorgio Armani, Gianfranco Ferré, Krizia, Franco Moschino, Carlo Palazzi, Cinzia Ruggeri, Gianni Versace, Rocco Barocco, Nino Caprioglio, Guido Cozzolino, Valentino e Brunetta Mateldi.58

Nel 2017 CSAC inizia un progetto di archiviazione digitale con lo scopo di creare un archivio che replica quello reale, parallelamente attiva il dominio csacparmalab.info sul quale è stato installato l’applicativo per virtual exhibition Omeka. Con le esposizioni virtuali si avrà quindi la possibilità di fruire la mostra abbandonando le consuete direttive spazio temporali: questo genere di esposizioni permette una fruibilità continua, delocalizzata e temporalmente superiore alle mostre reali, per le quali è possibile un percorso di arricchimento attraverso i contributi degli utentie la realizzazione di operazioni con budget ridotti rispetto ai meccanismi espositivi tradizionali. L’archivio CSAC, con questa prima fase di trasformazione digitale, risponde alle “Raccomandazioni per le istituzioni culturali” emanate dal MIBACT nel 2014.

Nel 2017 sono state quindi stilate le linee guida per la digitalizzazione ed incrementate le schede di catalogo ora consultabili attraverso la piattaforma SAMIRA, il catalogo online di CSAC. Il software viene adottato nel 2007 e la sua struttura permette di caricare le schede OA tracciate dal Ministero e di gestire le riproduzioni digitali dimostrando quanto Samira sia uno strumento funzionale grazie a una suddivisione in tre livelli: gestione, catalogo e ricerca.

Il catalogo dell’archivio è suddiviso in due voci, Sezioni e Fondi: dalle prima si entra ovviamente alle cinque sezioni con cui è stato suddiviso l’archivio (Arte, Media, Progetto, Fotografia e Spettacolo) mentre nella sezione Fondi si apre una lista degli autori conservati in archivio. L’utente ha quindi la possibilità di accedere attraverso le sezioni e visualizzare il materiale a oggi conservato, ed è nelle condizioni di fare una ricerca per nome che consente di approfondire la natura dei differenti fondi. Il materiale digitalizzato è fruibile nelle sezioni e nelle pagine dedicate agli autori, ed è composto da una scheda opera con autore, titolo, data di realizzazione, definizione, fondo, altezza, larghezza, materia e tecnica, stato di conservazione, note, numero identificativo, foto e diritti. Negli ultimi anni CSAC ha pertanto intrapreso le idonee procedure per definire la fattibilità inerente la condivisione dei metadati verso i portali CulturaItalia e Europeana. Nello specifico sono stati effettuati alcuni test di harvesting sull’intefaccia OAI-PMH dell’archivio CSAC da parte di CulturaItalia, test che hanno avuto un esito principalmente positivo.

Oltre al vasto progetto di digitalizzazione dell’archivio, negli ultimi anni CSAC ha svolto importanti attività di promozione, valorizzazione e conservazione attraverso ricerche in ambito di Digital Humanities.

Socializing the Archiveè stato un progetto di ricerca del 2018 che ha voluto indagare e individuare strumenti, strategie e modalità per animare, valorizzare e rendere accessibili gli archivi sfruttando le potenzialità offerte dalle tecnologie digitali. La ricerca ha intrapreso una analisi di digital landscape dove sono stati comparati 10 casi studio nazionali, 10 internazionali e 10 locali messi a confronto con l’archivio dell’Università di Parma. I dati sono stati raccolti attraverso i canali social e sono stati elaborati grazie a software specifici quali Semrush per l’analisi della SEO e del pubblico. Grazie alla collaborazione con l’agenzia Aicod59 sono state implementate le attività social tramite le pagine Instagram, Facebook e Twitter, i canali YouTube e Soundcloud. Contemporaneamente sono state realizzate le fasi di preparazione, targetizzazione del pubblico, gestione degli annunci, interazione con la community e analisi dei risultati per quanto riguarda una campagna di Adv, articolata tra le piattaforme Facebook, Instagram e Google Ads. Tutta questa parte verte alla costruzione di un dialogo con la propria comunità di riferimento, la disseminazione di contenuti specifici e infine la verifica della ricezione da parte dei fruitori.

Nel 2019 è nato invece il progetto Ettore Sottsass Virtual exhibitor, in collaborazione con Visual Information Laboratory Visit Lab CINECA — Super Computing Applications and Innovation Department — SCAI. Gli obiettivi del progetto sono lo sviluppo di prodotti e contenuti per l’archivio/museo applicabili all'ambito espositivo e didattico. Lo scopo è quindi di favorire delle azioni di integrazione tra archivio e varie attività del museo e infine implementare lo sviluppo dell'accessibilità ai materiali dell’archivio tramite strategie innovative per differenti target di pubblico.

In questa prospettiva il lavoro dell’archivio si arricchisce di una nuova progettualità con lo scopo di valorizzare la collezione, rendere fruibili i documenti e gli oggetti che una mostra tradizionale non avrebbe esposto per motivi di tutela, sintesi progettuale e pratiche espositive. Pur avendo già intrapreso la strada del digitale, CSAC, in risposta all’emergenza COVID-19, ha sviluppato una prima restituzione del progetto Storie di Fili, condivisa attraverso video, che raccontano il progetto in tutte le sue fasi e complessità, caricati nel canale YouTube di CSAC e fruibili anche sul sito.60 Storie di Fili è un progetto sulla relazione tra gli archivi CSAC e alcune realtà aziendali legati alla filiera tessile della zona, è curato da Francesca Zanella e dalla sottoscritta, ed è composto da tre momenti espositivi, scanditi da tre artisti e da due libri. La prima artista è Sissi che, dopo un’attenta ricerca in archivio, ha individuato tre figure emblematiche — Brunetta, Cinzia Ruggeri e Krizia — su cui ha articolato tre nuove produzioni di abiti/sculture, realizzati grazie alle aziende del territorio. Storie di Fili durante il lockdown ha subito una netta frenata e, per non perdere parte della progettualità, si è deciso di produrre nove video che raccontano attraverso immagini e voce narrante la natura del progetto.

Nel 2021 si concluderà il mio progetto di ricerca “Mostre virtuali e valorizzazione del patrimonio culturale: il design italiano” che parte da una riflessione teorica sul ruolo dell’archivio, del museo e delle Digital Humanities, per arrivare ad approfondire la tematica delle virtual exihibitions, attraverso la comparazione di differenti esposizioni virtuali. La seconda fase del progetto è dedicata alla definizione del progetto curatoriale, potenziato per la visualizzazione digitale, alla selezione del materiale CSAC e quindi alla definizione della piattaforma digitale open access. In particolare l’ambito di riflessione del progetto di ricerca verte sulla valorizzazione di alcuni progetti di design e moda conservati a CSAC. 1972. L’archivio CSAC: memorie, conservazione e valorizzazione del progetto italiano61 vuole quindi restituire una serie di progetti d’archivio legati ad un momento storico importante che vede convergere design e moda. Il 1972 è assunto come data centrale per una serie di eventi come la mostra Italy: The New Domestic Landscape curata da Emilio Ambasz al MoMA di New York62 e lo spostamento delle sfilate da Firenze a Milano, cambiamento che ha avviato un processo di industrializzazione che caratterizzerà tutta la filiera italiana legata al prêt-à-porter. In quel decennio emerge quindi l’importanza del progetto italiano, iniziata già nel secondo dopoguerra, e che avrà la sua conclamazione con l’etichetta di Made in Italy.63 La tematica del Made in Italy, che è inoltre fortemente emersa durante e dopo l’emergenza sanitaria, in questo contesto viene riletta attraverso grandi autori come Andrea Branzi, Ettore Sottsass jr, Walter Albini, Giorgio Armani, Krizia e molti altri. Questa connessione tra design e moda emerge da alcune riflessioni e ricerche già portate avanti dal Centro Archivi Studi Comunicazione, in particolare nella mostra del 1999 curata da Gloria Bianchino e Arturo Carlo Quintavalle Il Rosso e il Nero. Figure e ideologie in Italia 1945-1980.64 In questa prospettiva si evidenzia quanto l’archivio non sia un mero deposito inaccessibile di documenti silenti, ma quanto possa invece raccontare anche il presente attraverso la rilettura della memoria.In questo scenario che chiama in campo anche le pratiche curatoriali è opportuno sottolineare la nascita di una nuova figura professionale che sotto la sfera delle digital humanities prende il nome di digital curator. Sul ruolo del curatore — museale, archivistico e indipendente — ci sono molti studi accurati65, mentre sulla nuova figura del curatore digitale è possibile tracciarne le caratteristiche grazie al Digital Curator Centre che dal 2004 svolge attività di promozione, studio e consulenza a favore della digital curation.

“Digital curation involves maintaining, preserving and adding value to digital research data throughout its lifecyle. Implicit in this definition are the processes of digital archiving and preservation but it also includes all the processes needed for good data creation and management, and the capacity to add value to data to generate new sources of information and knowledge”.66

Maria Casella in “Il digital curator. Tra la tutela della memoria digitale e la gestione dei dati della ricerca”, traccia la storia di questa nuova figura e ne definisce alcune caratteristiche, evidenziando il compito di valorizzazione e non più solo di conservazione che ad una prima fase gli era stato assegnato.67 Nell’analisi delle nuove professioni che le Digital Humanities hanno fatto emergere ne viene dato un significativo profilo da Francesca Tomasi nel saggio “Discipline umanistiche e informatica. Quale futuro per l’integrazione?”.68 

Il progetto “Mostre virtuali e valorizzazione del patrimonio culturale: il design italiano” vedrà quindi la luce nel 2021 attraverso la collaborazione con un assegnista di ricerca del Dipartimento di Ingegneristica. Questa forma di collaborazione, come ho già sottolineato nel capitolo precedente, è alla base delle Digital Humanities, difatti nel volume Umanistica_digitale si legge: “L’Umanistica digitale è nata dall’incontro fra l’Umanistica tradizionale e i metodi computazionali”.69 Nella restituzione di un quadro generale su questa disciplina, basandosi anche sui primi studi germinali sulla rete e dalle posizioni dei maggiori ricercatori in campo, emerge pertanto un rapporto molto stretto con altri campi del sapere.

La Digital Humanities infatti crea un impianto collaborativo in cui umanisti, progettisti e tecnologi lavorano insieme svolgendo un ruolo fondamentale nella definizione di un nuovo tipo di conoscenza: attraverso questi percorsi incrociati l’umanistica digitale mette in discussione le classiche separazioni disciplinari, evitando l’emergere di demarcazioni forti tra le differenti aree di studio e di ricerca. Questa prospettiva trasversale emerge anche dagli studi più approfonditi sul dispositivo archivistico, come Marlene Manoff che infatti scrive: “as libraries, museums, and archives increasingly make their materials available online in formats that include sound, images, and multimedia, as well as text, it no longer makes sense to distinguish them on the basis of the objects they collect”.70

Un altro breve accenno si potrebbe fare sulla relazione tra archivio reale e archivio digitale, è opportuno evidenziare una delle prime caratteristiche: l’archivio reale ha una struttura fisica che spesso si presenta come inaccessibile, storicamente l’istituzione ricalca lo stereotipo di un edificio polveroso dove è difficile accedere direttamente se non attraverso appuntamento. Jeffrey Schnapp tratta dell’istituzione dedite alla conservazione della memoria come quelle strutture da sempre storicamente legate al bene fisico e materiale,71 un’altra voce è quella di Francesca Zanella che parla invece di come gli archivi abbiano da sempre echeggiato ad una forma di chiusura fisica e di come si siano costituiti sul “concetto di vincolo che è alla base della definizione dell’archivio”.72

Conclusioni

Nel saggio ho cercato, attraverso la restituzione di alcuni casi studio, di estrapolare alcuni concetti chiave che emergono da un dibattito critico che si rivela molto più ampio di quello tracciato e che prende in considerazione non solo gli aspetti relazionati alla sfera culturale e antropologica, ma anche i vari tecnicismi sulle modalità di archiviazione. La mia prospettiva è stata quella di evidenziare l’impianto collaborativo che si trova alla base delle Digital Humanities, una disciplina che permette una vasta rete di relazione che, a partire dal gruppo di ricerca, sviluppa un progetto digitale che tende ad ampliare il concetto di partecipazione all’utente finale.

In conclusione, possiamo quindi affermare che la gestione della collezione digitale permette varie attività che rendono fluida la restituzione dei dati. I metadati consentono di inserire una serie di informazioni del documento informatico (formato, nome, file, soggetto, autore, etc.) che per essere conservato, essendo privo di una componente materiale, deve essere posto in relazione ad un insieme di informazioni. In base al software che si intende usare si presenteranno delle collezioni, raggruppati da una o più caratteristiche in comune, e dei documenti (item) che possono essere collegati tra di loro assegnando una tag identificativa73 che permette la costruzione di percorsi e una snellezza e fluidità della ricerca, favorendo quindi anche una navigazione ragionata dei contenuti archivistici.

L’archivio è quindi solitamente fruibile attraverso alcune informazioni ricercabili, molte sono le caratteristiche e i nodi critici inerenti all’archivio digitale, tra i quali la modellazione dei dati storici e la demarcazione tra documento e oggetto. Inoltre, si dovrebbero approfondire i parametri di digitalizzazione come l’uniformità delle schede archivistiche e dei metadati, ma tutto questo comporterebbe un ampliamento del saggio e uno sconfinamento nella sfera tecnica.

A questo punto se volessimo sintetizzare il modus operandi dell’umanista digitale al cospetto delle nuove tecnologie potremmo farlo attraverso alcuni concetti chiave.

In una prima fase di ricerca è fondamentale pensare allo spazio, lo scarto quindi tra spazio reale e spazio virtuale, in modo da acconsentire una corretta contestualizzazione delle opere, attraverso una migliorata fruibilità dell’oggetto, è necessario pertanto ragionare in termini di percezione del documento stesso e di visione dei dettagli. Fondamentale è riflettere sui concetti di riproducibilità e sui nuovi modelli di conservazione, quindi sull’obsolescenza degli strumenti informatici. Sempre in una fase iniziale di definizione del progetto l’umanista digitale deve prevedere le modalità di diffusione e creazione di una comunità di lettori che fruiscano lo stesso documento per scopi differenti, attraverso quindi dei percorsi personalizzati per diversi utenti allo scopo di generare nuovi contenuti. Importante è creare e attivare degli approcci partecipatori tramite anche, in una seconda fase di lavorazione, le strategie social.

Infine, è necessario avviare varie condizioni per creare dell’interrelazione con altri archivi di differente natura, attraverso appunto dei link. In ultima analisi possiamo dire che le funzioni dell’archivio digitale si possono quindi elencare in questo modo: raccolta, schedatura, conservazione, valorizzazione e divulgazione in rete attraverso una massima diffusione dei contenuti. Alla base è sempre viva l’idea di considerare l’archivio, o il museo, come un luogo generatore di nuovi contenuti inediti e di programmi partecipativi.

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  1. Comunicato stampa del Victoria & Albert Museum, marzo 2020 https://vanda-production-assets.s3.amazonaws.com/2020/03/25/15/16/09/c691e695-5a25-4414-a209-b40a76aa0e3c/V&A%20Digital%20Content.pdf.↩︎

  2. In questo particolare video si parla della conservazione di un abito di Mary Quanthttps://www.bbc.co.uk/programmes/p082xhp8.↩︎

  3. In questo caso viene restituito un costume teatrale italiano del 1750: https://sketchfab.com/3d-models/theatre-costume-3ac1db26c5074d3baa44d6eaa2f1b7b9.↩︎

  4. In questo caso il soggetto analizzato è un Kimono della metà del XIX secolo: https://www.vam.ac.uk/articles/courtesan-kimono.↩︎

  5. https://soundcloud.com/vamuseum/20-years-of-fashion-in-motion-podcast.↩︎

  6. https://www.vam.ac.uk/articles/wallpaper-design-reform.↩︎

  7. https://www.vam.ac.uk/articles/100-years-of-va-exhibition-posters.↩︎

  8. https://www.vam.ac.uk/articles/annals-to-zeitschrift-an-a-z-of-magazines-and-journals.↩︎

  9. Jeffrey Schnapp è fondatore della Stanford Humanities Lab (SHL) e successivamente della Harvard fonda metaLAB, che è parte del Berkman Center for Internet and Society alla Harvard Graduate School of Design, è il padre della definizione “Archivio Animato”.↩︎

  10. Jeffrey Schnapp, “Animare l’archivio” in Design & cultural heritage. Archivio animato, ed. Irace, Fulvio. (Milano, Electa, 2013).↩︎

  11. Numerico Teresa and Domenico Fiormonte, Francesca Tomasi. L’umanista digitale. (Bologna: Il Mulino, 2010), 65.↩︎

  12. Questa rielaborazione dei contenuti dal basso verso l’alto viene definita da Schapps “top-down billboarding”.↩︎

  13. Schnapp cita Manfred Lange e il suo neologismo “glocal” elaborato nel suo progetto “Global ChangeExhibition” del 1990. Cfr. Schnapp, “Animare l’archivio”.↩︎

  14. Tim Berners-Lee, “L’architettura del nuovo web. Dall’inventore della rete il progetto di una comunicazione democratica, interattiva e intercreativa” (Milano: La Feltrinelli, 2001), 113.↩︎

  15. Joseph Carl Robnett Licklider, Robert Taylor, “The Computer as a Communication Device,” Science and Technology (aprile 1968) in Cfr. Numerico and Fiormonte and Tomasi, L’umanista digitale, 50.↩︎

  16. Numerico 50.↩︎

  17. Cfr. Burdick and Drucker and Lunenfeld and Presner and Schnapp, Umanistica_digitale, 16.↩︎

  18. Burdick.↩︎

  19. Marshall McLuhan, La galassia Gutenberg: nascita dell’uomo tipografico, (Roma: Armando Editore, 1962); Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, (Milano: Il Saggiatore, 1967).↩︎

  20. Derrick de Kerckhove ha scritto molti saggi e volumi, tra i più noti: La pelle della cultura. Un'indagine sulla nuova realtà elettronica del 1995, L’intelligenza connettiva. L’avvento della web society del 1997.↩︎

  21. Cfr. Burdick and Drucker and Lunenfeld and Presner and Schnapp, Umanistica_digitale, 22.↩︎

  22. Burdick, 24↩︎

  23. Paolo Granata, Mediabilia L’arte e l’estetica nell’ecologia deimedia (Bologna: Fausto Lupetti Editore, 2012).↩︎

  24. Cfr. Burdick and Drucker and Lunenfeld and Presner and Schnapp, Umanistica_digitale, 24.↩︎

  25. Il libro viene pubblicato per la prima volta nel 1967 dalla Bantam books.↩︎

  26. European Fashion Heritage Association ad oggi vede all’attivo circa40 istituzioni della moda europee provenienti da 14 paesi. https://fashionheritage.eu.↩︎

  27. https://pro.europeana.eu/post/publication-policy.↩︎

  28. https://pro.europeana.eu/files/Europeana_Professional/Share_your_data/Technical_requirements/EDM_Documentation/EDM_Factsheet.pdf.↩︎

  29. http://www.culturaitalia.it/opencms/index.jsp?language=it.↩︎

  30. Mauro Tosti Croce and Maria Natalina Trivisano, “Il Portale Archivi della moda del Novecento e la Camera nazionale della moda italiana. Dall’inventario al web”, in Lo stile italiano nelle carte. Inventario dell’archivio storico della Camera nazionale della moda italiana (1958–1989) a cura di Elisabetta Merlo, Maria Natalina Trivisano, (Roma: Ministero per i beni e le attività culturali, Direzione generale archivi), 2018.↩︎

  31. Di queste attività ne viene dato un sintetico resoconto da Bruna Niccoli, “Il costume di scena. Il ‘fantastico’ patrimonio archivistico italiano”, ZoneModa Journal (luglio 2018) https://doi.org/10.6092/issn.2611-0563/8220.↩︎

  32. https://www.moda.san.beniculturali.it/wordpress/.↩︎

  33. Mauro Tosti Croce, “I portali tematici: un veicolo per divulgare il patrimonio archivistico”, Giornale di Storia, N° 19 (2015).↩︎

  34. http://www.iccdold.beniculturali.it/siti_tematici/Scheda_VeAC/lemmario/index.asp.html.↩︎

  35. https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/pagina.pl?ChiaveAlbero=355371&ApriNodo=0&TipoPag=comparc&Chiave=355371&ChiaveRadice=355371&RicSez=fondi&RicVM=indice&RicTipoScheda=ca.↩︎

  36. https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/siusa/pagina.pl?TipoPag=comparc&Chiave=311183.↩︎

  37. https://www.fondazionegianfrancoferre.com/home/schedetecniche.php?lang=it; https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/pagina.pl?TipoPag=comparc&Chiave=335165.↩︎

  38. https://www.fashionresearchitaly.org/fashion-journal/archivi-moda/archivio-missoni/.↩︎

  39. https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/siusa/pagina.pl?TipoPag=comparc&Chiave=309242.↩︎

  40. https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/pagina.pl?TipoPag=comparc&Chiave=305699.↩︎

  41. https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/siusa/pagina.pl?TipoPag=comparc&Chiave=327543.↩︎

  42. https://www.promemoriagroup.com/it.↩︎

  43. https://www.archiui.com/it.↩︎

  44. http://www.valentinogaravanimuseum.com.↩︎

  45. L’arricchimento in questo campo permette il formarsi di nuove figure professionali: il centro didattico Fashion ResearchItaly offre ad esempio dei corsi inerenti all’archivio di moda, dove non solo si trattano le qualità intrinseche dell’archivio e dei beni conservato, ma è anche previsto un focus specifico sulla digitalizzazione del materiale. https://www.fashionresearchitaly.org/.↩︎

  46. Come riportato nell’articolo di Furio Belloni ci sono stati alcuni precursori nel mondo della moda, come Louis Vuitton e la Riot Games, casa produttrice del gioco League of Legends, che ha portato anche alla creazione di una capsule collection, e la collaborazione tra Moschino e Skin4 sviluppatasi in due direzione, dalla creazione capsule collection ispirata da disegni pixelati e i motivi classici del videogioco; alla possibilità di vestire i personaggi con gli abiti di quella capsule collection e di altre collezioni di Moschino. Furio Belloni, “Da Valentino a Louis Vuitton e Moschino: le maison alla conquista dei videogiochi”, D Repubblica (20 maggio 2020), https://d.repubblica.it/moda/2020/05/20/news/moda_e_videogiochi_animal_crossing_valentino_league_of_legends_louis_vuitton_gaming_e_game-4729153/.↩︎

  47. https://www.instagram.com/animalcrossingfashionarchive/.↩︎

  48. Cfr. Schnapp, “Animare l’archivio”.↩︎

  49. “Istituzioni sorelle, irriducibili quando necessarie «eterotopie» (Foucault, 1966), archivi e musei condividono la stessa natura duplice di luoghi di conservazione e di produzione di memoria. Una memoria che è, innanzitutto, sguardo critico sul presente, occasione di creazione e di azione e assunzione di responsabilità collettiva e del singolo”. Stefania Zuliani, “«Là dove le cose cominciano». Archivi e musei del tempo presente” in Ricerche di S/Confine, Dossier 3, (2014) http://www.ricerchedisconfine.info/dossier-3/ZULIANI.htm.↩︎

  50. Risulta difficile riportare l’ampio dibattito critico su questa tematica, in questa sede è comunque necessario ricordare: Jacques DerridaArchive Fever: A Freudian Impression del 1996, Archive Fever di OwkuiEnwezor del 2008 e HalFoster con “The Archive withoutmuseum” del 1996. Fondamentale ricordare come molti studi che analizzano la natura dell’archivio, come quelli sul museo e sulla biblioteca, partono dalle argomentazioni del filosofo francese Francois Foucault, per il quale l’archivio è “il sistema generale della formazione e della trasformazione degli enunciati”. Michel Foucault, L’archeologia del sapere (Milano: Rizzoli, 1971), 174.↩︎

  51. Francesca Zanella, “Digital Archive. Alcune Note”, Ricerche di S/Confine, Dossier 3, (2014) http://www.ricerchedisconfine.info/dossier-3/ZANELLA.htm.↩︎

  52. I musei dell’iperconsumo è stato un convegno promosso nel 2002 dall’Accademia Nazionale di S. Luca in collaborazione con DARC e la Triennale di Milano e coordinato da Franco Purini. Si vedano gli atti del convegno a cura di Pippo Ciorra, Stefania Suma, I musei dell’iperconsumo. Materiali di studio, Atti del Convegno Internazionale (Roma, 21 marzo 2002), Accademia Nazionale di San Luca, Roma 2003.↩︎

  53. In questa prospettiva si rimanda alle posizioni di Fulvio Irace nel libro Design & cultural heritage. Archivioanimato. (Milano: Electa, 2013).↩︎

  54. Jeffrey Schnapp, “Digital Humanities”, in Meet the media Guru, a cura di Maria Grazia Mattei (San Giuliano Milanese, Milano, Egea, 2015), 44.↩︎

  55. Lanfranco Binni and Giovanni Pinna, Museo: storia e funzioni di una macchina culturale dal '500 a oggi (Milano: Garzanti, 1980). 78.↩︎

  56. Adalgisa Lugli, Museologia, (Milano: Jaca Book, 1992). 27.↩︎

  57. https://www.csacparma.it.↩︎

  58. Per gli studi sulla sezione moda si rimanda ai testi di Gloria Bianchino ed Elena Fava.↩︎

  59. https://www.aicod.it.↩︎

  60. https://www.csacparma.it/storie-di-fili/.↩︎

  61. Il titolo è provvisorio e ancora in fase di definizione.↩︎

  62. MoMA negli anni ha intrapreso un progetto di digitalizzazione delle mostre, cataloghi, comunicati stampa e in parte delle rassegne stampa dal 1929 ad oggi. In particolare di Italy: New DomesticItalianLandscapesono pubblicate le foto dell’allestimento, il catalogo, il comunicato stampa e la monografica Kar-a-sutra di Mario Bellini. https://www.moma.org/calendar/exhibitions/1783.↩︎

  63. Nell’ambito degli studi sul Made in Italy vanno ricordati i volumi: ZoneModa Journal, La cultura della Moda Italiana. Made in Italy, (Gennaio 2012); Borgherini Malvina and Sara Marini and Angela Mengoni and Annalisa Sacchi and Alessandra Vaccari, Laboratorio Italia. Canoni e contraddizioni del Made in Italy, Quaderni della ricerca. Dipartimento di Culture del Progetto, Università IUAV del Made in Italy, (Milano: Mimesis, 2018).↩︎

  64. Bianchino Gloria and Arturo Carlo Quintavalle, Il Rosso e il Nero. Figure e ideologie in Italia 1945-1980, CSAC, Università di Parma (Milano: Electa, 1999).↩︎

  65. I volumi usciti negli ultimi anni relativi alle pratiche curatoriali e alla figura del curatore sono molteplici, come: Curare l’arte, del 2009; Thinkingabout the exhibition del 1996; WhatMakes A Great Exhibition? del 2006; Breve storia della curatela, 2011, Culture of Curating and the Curating of Cultures(s), del 2012; FundamentalQuestions of Curating del 2013; Fare una mostra,del 2014. A questo elenco si aggiunge RethinkingCurating. Art after New Media, dove c’è un approfondimento dal titolo Displaying Data — Virtual Galleries or Digital Collections?.↩︎

  66. https://www.dcc.ac.uk.↩︎

  67. Maria Casella inoltre definisce il digital curator con queste parole: “La figura del digital curator fonde in sé diversi tipi di competenze: abilità personali e comunicative si combinano con competenze tecniche, manageriali e di conduzione del lavoro di gruppo. Tra le competenze tecniche rientrano: competenze di dominio, competenze sugli aspetti legali del mondo dei repository e sul copyright in ambiente digitale, competenze relative agli schemi di metadati (metadati descrittivi, amministrativo-gestionali, metadati per la conservazione come, ad esempio, lo schema PREMIS), agli standard ed agli strumenti per la biblioteca digitale, la comprensione delle tecnologie utili a realizzare la conservazione a lungo termine delle risorse digitali” “Il digital curator. Tra la tutela della memoria digitale e la gestione dei dati della ricerca”, Biblioteche oggi, vol. 31 (2013) http://www.bibliotecheoggi.it/rivista/article/view/280/202.↩︎

  68. Francesca Tomasi, “Discipline umanistiche e informatica. Quale futuro per l’integrazione?”, Labour & Law Issues, vol. 1, n. 1 (2015), https://labourlaw.unibo.it/article/view/5009.↩︎

  69. Cfr. Burdick, Drucker, Lunenfeld, Presner and Schnapp, Umanistica_digitale, 16.↩︎

  70. Marlene Manoff, “Theories of the Archive from Across the Disciplines”, Libraries and the Academy 4, n. 1 (2004): 9–25.↩︎

  71. Cfr. Schnapp, “Animare l’archivio”.↩︎

  72. Francesca Zanella, “Tra opera e documento. Percorsi dal museo all’archivio, dall’archivio al museo”, Piano B, vol. 4, n. 1 (2019), 135, https://pianob.unibo.it/article/view/10253.↩︎

  73. Derrick De Kerckhove scrive: “L’era del tag: il tag è l’anima di internet”. Derrick De Kerckhove, “Psicotecnologie connettive”, in Meet the media Guru, a cura di Maria Grazia Mattei (San Giuliano Milanese, Milano: Egea, 2014).↩︎