Through the Looking Glass vs Mise en Abyme
Nel novembre 2019 l’azienda italiana di vendita online Yoox Net-A-Porter Group ha presentato YooxMirror Reloaded,1 applicazione supportata dall’intelligenza artificiale e pensata come un camerino virtuale che offre agli utenti un’esperienza interattiva in cui abbinare e indossare virtualmente abiti e accessori, condividerli sui social network ed eventualmente acquistarli. Per mezzo di tecnologie di realtà virtuale, i prodotti selezionati sono traslati digitalmente e adattati su un modello 3D, che prende vita su sfondi animati. Gli utenti possono caricare una fotografia del proprio volto che viene digitalizzata per generare un avatar 3D personalizzato. A differenza di uno specchio, i camerini di YooxMirror (Fig. 1) consentono di vedere se stessi indossare virtualmente una serie potenzialmente infinita di capi e accessori.2 Attraverso lo schermo di computer o smartphone si produce così un effetto di mise en abyme, annullando i confini tra dimensione fisica e digitale, tra soggetti e oggetti. Tale effetto è riferito in origine alla dimensione generata da due specchi contrapposti che, invece di restituire una sola immagine, producono una profondità infinita. A partire da questo esempio, l’articolo si chiede se il modello della mise en abyme possa aiutarci a comprendere la moda del XXI secolo così come il through the looking glass, con la sua netta contrapposizione tra realtà e sogno, è stato una potente metafora della moda del XX secolo.
Through the Looking Glass è stato il titolo di una serie televisiva sulla storia della moda contemporanea, prodotta da Suzanne Davies e Robert Albury e andata in onda sulla BBC dal 20 novembre 1989. Rifacendosi all’omonimo libro di Lewis Carroll, la serie prometteva ai telespettatori di attraversare lo schermo per rivivere le mode del passato, anche nelle sue forme più quotidiane. Erano anni in cui la moda e i suoi approcci teorici si stavano riconfigurando alla luce dei cultural studies che hanno messo i media e la cultura di massa al centro dell’attenzione. Come ha ricordato Lou Taylor, co-autrice del libro che ha accompagnato la serie, l’impianto concettuale che si stava delineando si interrogava su come conciliare la realtà degli abiti quotidiani e fatti con tessuti poveri con l’immagine idealizzata della moda “creata dai nuovi stili”.3 Questo dibattito metteva in luce una visione dualistica della moda come cultura materiale da un lato e, dall’altro, come mondo di sogno, con il risultato di enfatizzare la contrapposizione tra storia della moda basata sull’analisi di manufatti e fashion theory, incentrata sull’interpretazione dei significati. Dalla seconda metà degli anni Novanta una pluralità di approcci e teorie hanno messo in discussione tale contrapposizione, che oggi sembra radicalmente superata per almeno due motivi, come questo articolo cerca di dimostrare.4 Il primo è in relazione al concetto di “materiale”, che nell’era di Internet e con le prospettive aperte da teorici e studiosi dei media, è stato esteso anche alla virtualità e al digitale.5 Il secondo riguarda il superamento dell’idea della moda come grande sogno collettivamente condiviso — teorizzato per esempio da Elizabeth Wilson in Adorned in Dreams6 — che si è parcellizzato nel XXI secolo in una moltitudine di immaginari, veicolati su diversa scala da fashion communities attraverso piattaforme, network e soprattutto social media.
Questo contributo intende considerare lo schermo dei dispositivi tecnologici come elemento di intersezione tra dimensione fisica e digitale, superando l’opposizione tra la realtà e il mondo di sogno della moda e trasformando il soggetto da spettatore ad attore — privato o pubblico — dell’esperienza. Gli schermi dei computer e degli smartphone hanno oltrepassato la bidimensionalità delle immagini prodotte da specchi e riviste, immagini su cui la storia della moda ha costruito l’idea di soggettività moderne. La metafora della mise en abyme, invece, come è stata utilizzata dallo storico dell’architettura Anthony Vidler, mostra come le tecnologie digitali creino “ambienti costruiti nel mondo della percezione sensoriale quadridimensionale a partire da materiali virtuali”, superando così le tre dimensioni dello spazio e proiettando “ambienti multivalenti e altri ambienti en abyme”.7 Al centro di questi ambienti è l’esperienza sfaccettata del sé come già negli anni Cinquanta aveva evidenziato la creatrice di moda Elsa Schiaparelli nel descrivere la sua immagine riflessa e moltiplicata da uno specchio come “quinta dimensione”, in aggiunta alle quattro delle coordinate spazio-temporali.8
Sono qui indagati due aspetti fondamentali degli schermi portatili, onnipresenti contenitori dei nuovi immaginari della moda del XXI secolo. Il primo consiste nel fatto che le nuove tecnologie della moda sono anche le tecnologie del sé, come ha sostenuto Agnès Rocamora prendendo a prestito e adattando al discorso della moda il concetto di tecnologia di Michel Foucault e Anthony Giddens. Questo permette di considerare come la messa in scena del sé — spiega Rocamora — non avvenga più soltanto nello spazio tridimensionale in cui i nostri corpi si muovono, ma anche nella realtà degli schermi.9 Il secondo è in relazione al Made in Italy, la cui rappresentazione è stata spesso monopolizzata dal grande racconto della moda italiana che ha privilegiato il discorso dei brand più celebri a scapito sia dei fenomeni di moda innovativi ma con un minore impatto commerciale, sia dei processi di autoriflessione.10
Applicato al discorso della moda del XXI secolo, il modello della mise en abyme visiva e mediale si rivela un quadro teorico utile anche per evidenziare il ruolo interattivo che lo schermo è chiamato a ricoprire nel continuum di realtà-virtualità che la mixed reality articola. Il concetto di mixed reality è stato teorizzato nel 1994 da Paul Milgram e Fumio Kishino11 per definire ogni forma di interazione tra elementi fisici (o “reali”, come da loro sono definiti) e virtuali. Nel modello teorico che hanno sviluppato e denominato “reality-virtuality continuum”, che colloca in contrapposizione gli spazi totalmente reali e quelli virtuali, la mixed reality comprende tutte le modalità intermedie di unione tra dimensione fisica e digitale.
Le implicazioni visuali, culturali e storiche della mixed reality sulle nuove esperienze della moda in Italia permettono di superare i vecchi limiti delle figure, dei doppi digitali e dei potenziali avatar che si muovevano solo in un universo speculare.12 Le complesse relazioni e interazioni che si creano in questo ambiente sono ciò che questo contributo definisce come esperienza espansa della moda. Come sviluppato nelle parti che seguono, il quadro teorico così delineato permette di analizzare fenomeni quali la percezione aptica dei capi d’abbigliamento e dei tessuti nella realtà virtuale, i corpi fisici e lo styling digitale e gli oggetti materiali in showroom virtuali. Le tecnologie promettono un aspetto esperienziale che prevale su quello estetico; luoghi, o meglio situazioni, immersivi e altamente interattivi; e un’idea di moda proiettata verso forme performative estese.
All’interno di questo quadro teorico, il contributo considera come l’esperienza del continuum di realtà-virtualità della moda, attraverso la mixed reality, si sia intensificata con la pandemia di Covid-19 che ha pesantemente condizionato i modi in cui si vive la moda e si interagisce con le sue manifestazioni.
La moda in Italia al tempo del Covid-19
L’attuale rilevanza della mixed reality è indagata con particolare attenzione alla progettazione, alla produzione, alla distribuzione e al consumo della moda in Italia al tempo del Covid-19. Questa scelta è motivata sia dal valore culturale e industriale che la moda ha per l’Italia, sia dall’impulso all’innovazione digitale che hanno avuto nel paese la severa e prolungata applicazione delle misure anti-Covid nella primavera del 2020. L’Italia è stata infatti il primo paese europeo a varare una politica di lockdown, interrompendo drasticamente attività produttive, scambi e movimenti di persone e oggetti. Inoltre le regioni dove storicamente si concentra la produzione e l’esperienza della moda sono caratterizzate da una densità abitativa che è tra le più alte d’Europa e che ha reso particolarmente difficile il distanziamento sociale imposto durante la crisi pandemica. Tutto questo ha avuto come conseguenza la necessità di individuare rapidamente modalità alternative di relazione, anche nel sistema della moda, favorendo l’avvio di sperimentazioni di mixed reality e accelerando progetti già avviati. L’Italia si è trasformata così in un banco di prova in cui verificare il grado d’interazione tra innovazione digitale e radicata tradizione manifatturiera. Collocare il Made in Italy en abyme, osservandolo da diverse prospettive e individuandone nuove peculiarità, consente di fare emergere i progetti ad alto fattore digitale che vanno nella direzione di quella integrazione tra cyber e fisico che pochi anni fa era ancora soltanto auspicata.13 Con la diffusione della pandemia, tale integrazione ha avuto come conseguenza quella di ripensare i fondamenti del Made in Italy e di evidenziare come a questo si sia progressivamente affiancato il concetto di Designed in Italy. Si è in particolare intensificato il dibattito sulle possibilità offerte dalla fabbricazione digitale di invertire il processo di delocalizzazione, riportando la produzione di “beni fisici” nei territori nazionali, con benefici in termini di occupazione, dignità del lavoro manuale e sostenibilità.14
La riflessione qui proposta è il primo esito di una ricerca in corso presso l’Università Iuav di Venezia, finalizzata a mappare le pratiche emergenti della moda in Italia.15 Il progetto è stato ideato nel 2019 con l’obiettivo di organizzare le esperienze analizzate attraverso un modello interpretativo che tiene conto del fatto a mano e delle tecnologie digitali, intersecate con il confronto tra filiera corta e lunga. Tra gli obiettivi della ricerca vi è anche quello di contribuire ad approfondire il territorio orientato all’utilizzo del digitale che è ancora in larga parte inesplorato e quantitativamente marginale rispetto al tradizionale ambito del manifatturiero
L’attività di ricerca è stata sviluppata attraverso un lavoro di analisi desk e interviste qualitative, che hanno consentito di individuare e analizzare quattro casi studio, scelti come esempi recenti di sperimentazione di mixed reality in contesti che appartengono al sistema creativo, produttivo, comunicativo e retail della moda in Italia. Tale scelta è inoltre coerente con l’approccio qui adottato di dare voce a un Made in Italy che non sia soltanto espressione dei grandi brand. La selezione è ricaduta su InVRsion e Sense – Immaterial Reality, progetti nati già alcuni anni prima della crisi pandemica, e su IL3X e Barbara Bologna, che hanno invece iniziato ad approfondire maggiormente le opportunità della mixed reality durante il lockdown. Tutte queste esperienze sono nate a Milano e interessano diversi aspetti della moda: materiali, design, comunicazione, retail. Il Covid-19 ha influenzato anche le modalità di questa ricerca che ha utilizzato come fonti conversazioni video con i rappresentanti dei casi in esame, effettuate tra il giugno e il settembre 2020,16 oltre all’analisi dei relativi siti web, dei materiali in essi contenuti e dei profili Instagram associati.
IL3X17 è una start up fondata a gennaio 2020, con l’obiettivo di progettare e vendere capi digitali che possono essere indossati nei social network e in esperienze live, grazie all’utilizzo del riconoscimento facciale e del body tracking, ancorando un oggetto disegnato digitalmente a punti fisici del corpo. Il brand agisce su due diversi fronti sia creando oggetti digitali in 3D indossabili, sia dotando di realtà aumentata degli oggetti fisici, con animazioni digitali che si attivano al riconoscimento di un eventuale oggetto prestabilito. I capi digitali sono presentati sul sito come “Designed in Italy”, anziché Made in Italy, sottolineando il volontario scollamento dall’identità manifatturiera della moda italiana, pur mantenendo un riferimento al concetto altrettanto classico di design italiano. Ad agosto 2020 è stata presentata la collaborazione con Missoni, grazie alla quale sono state sviluppate tre mascherine facciali virtuali con i tessuti d’archivio del brand di Sumirago. È interessante notare come un brand storico, che ha costruito il proprio heritage sulla materialità delle tipiche lavorazioni a maglia, si apra a sperimentazioni digitali e a possibili traiettorie da intraprendere sulla valorizzazione dell’archivio.
InVRsion18 è una start up fondata nel 2015 che realizza showroom e spazi retail nella realtà virtuale immersiva, includendo prodotti e contenuti in 3D. Gli oggetti digitali reagiscono al movimento e all’interazione con l’utente in modo simile a come accadrebbe nella dimensione fisica. L’obiettivo del progetto è immaginare una nuova esperienza di acquisto, che unisca shopping tradizionale e e-commerce. Il progetto si avvale principalmente della realtà aumentata che da pochi anni ha iniziato a mostrare il suo potenziale, permettendo di sovrapporre elementi digitali al mondo fisico attraverso l’utilizzo dello schermo di uno smartphone o di un visore dedicato, di una fotocamera e di sensori. La previsione dichiarata sul sito Internet dalla start up è che presto questa rivoluzione dello shopping entrerà nei camerini dei negozi “dove specchi magici elaboreranno enormi quantità di dati in pochissimi secondi per darci informazioni personalizzate e consigli di abbinamento al vestito che stiamo provando”. Il caso di InVRsion è qui preso in esame come esempio di uscita dalla prima spettacolare applicazione della mixed reality, ancora limitata agli specchi magici e schermi interattivi di pochi flagship stores internazionali quali brand italiani come Prada In Store Technology di New York del 2002 e Hybrid Shop di Pinko di Milano del 2013. Inoltre, l’effettiva diffusione di queste tecnologie è interessante per le sue implicazioni in termini di big data e sorveglianza dei gusti e degli interessi delle persone.
Il terzo caso preso in esame è Sense – Immaterial Reality,19 azienda nata nel 2018 che sviluppa esperienze condivise multisensoriali di realtà immateriale, intesa come evoluzione della realtà aumentata attraverso la fusione di realtà fisica e realtà virtuale fotorealistica. L’applicazione mobile Sense Fabric consente di simulare il comportamento fisico dei tessuti, osservare il loro movimento toccando il dispositivo, soffiando sullo schermo o muovendolo. Questi tessuti possono essere visualizzati su un outfit digitale che, grazie alla realtà aumentata, può comparire nel luogo in cui si trova chi osserva. Sense ha introdotto la figura del Chief Magic Officer,20 attualmente ricoperta da Silvia Valeria Rinaldi, per evidenziare la componente “magica” che unisce la realtà materiale a quella immateriale. Come dichiarato da Rinaldi durante la tavola rotonda Phygital Textiles. The Virtual Side of Fashion, organizzata da C.L.A.S.S. il 7 luglio 2020, “oggi la bacchetta magica è il nostro cellulare, trasformato in un vero e proprio strumento futuristico […]. L’illusione è portare le sensazioni reali dei prodotti, ovunque ci si trovi”.21 In questo senso, la tecnologia consente di creare oggetti immateriali da vivere nella vita fisica. L’aggettivo phygital, neologismo che unisce il concetto di fisico e di digitale, aiuta a comprendere quanto le due dimensioni siano sempre più integrate tra loro e siano parte della stessa realtà.
L’ultimo caso è rappresentato dalla designer Barbara Bologna,22 forse il meno direttamente implicato nell’integrazione delle tecnologie digitali nel processo creativo, ma che è stato qui selezionato per aver sperimentato azioni nella mixed reality in risposta alla necessità di social distance dovuta all’emergenza Covid (Fig. 2). Unico esempio qui trattato di designer, Barbara Bologna è stata ed è una body artist, che del corpo ha fatto un oggetto di culto e blasfemia insieme, portandolo dal teatro alle passerelle. In questo contributo sono analizzati in modo particolare sia la collaborazione di Bologna con il duo Trashy Muse durante la sfilata della collezione Tribù a febbraio 2020, sia l’esperimento di costruzione di una fashion tribe online attraverso il canale web W40tribu, da lei creato e lanciato all’inizio del lockdown23. Bologna ha utilizzato questo strumento per traslare il proprio universo ibrido di moda e arte in una dimensione digitale e accessibile a tutti e ovunque, declinando quindi il concetto di remoto in un’esperienza partecipativa e di chiamata a una nuova sinergia collettiva. Questo caso esemplifica il rapporto, già illustrato, che la moda intrattiene con le tecnologie del sé e contribuisce alla costruzione del discorso di un nuovo Made in Italy.
Il Covid-19 ha comportato in Italia un rapido sviluppo delle sperimentazioni sul digitale in ambito moda, come confermato dalle interviste svolte durante la ricerca. Erika Lamperti, ad esempio, ha dichiarato che la chiusura dovuta all’emergenza pandemica è stata l'acceleratore della messa in opera del progetto IL3X, immaginato alla fine del 2019 e rapidamente sviluppato nei mesi successivi. Le abitudini delle persone sono cambiate e si sono create nuove dinamiche: ad oggi non sembra più necessario muoversi da casa per lavorare o agire socialmente e le collaborazioni con professionisti fisicamente distanti non appaiono più impossibili. In questo contesto, quindi, la possibilità di socializzare in spazi digitali o virtuali offre molto terreno per aziende come IL3X, che progettano capi destinati a essere usufruiti nel contesto della mixed reality.
L’intero sistema della moda, tra cui aziende, brand, designer, riviste, fotografi, ha iniziato a immaginare come sfruttare le opportunità delle tecnologie digitali per trovare nuove forme di relazione, sia sul piano personale sia professionale. L’esperienza del lockdown ha reso evidente che lo spazio fisico domestico, intimo e privato, è entrato nello schermo, assumendo una nuova identità pubblica, ma ha fatto sembrare vero anche il contrario. Dalla testimonianza di Silvia Rinaldi emerge, per esempio, che applicazioni mobili come quella sviluppata da Sense e denominata Fabric hanno consentito “di portare lo show-room a casa del cliente. Se in show-room ho scaffali, manichini e una collezione a disposizione che posso vedere, quello che possiamo offrire noi in questo momento è la possibilità di avere cento manichini a casa propria”. La creazione di cataloghi immateriali consente, infatti, alle aziende tessili di presentare a distanza le proprie collezioni a designer e industrie manifatturiere, riducendo di conseguenza gli sprechi, i tempi, le prove e gli spostamenti.
I primi mesi del 2020 hanno rappresentato una fase di grande sviluppo anche per InVRsion, come confermato da Esposito nel corso dell’intervista. Prima di quel momento l’azienda si era concentrata sulla progettazione di spazi retail virtuali solo per la grande distribuzione alimentare. Durante le settimane di lockdown, spiega Esposito, “ci siamo accorti che interi comparti industriali, tra cui la moda, erano in ginocchio per l’impossibilità di incontrare domanda e offerta, buyer e brand… e quindi abbiamo adattato il nostro software per le esigenze della moda”. A differenza di altri ambiti, gli oggetti della moda richiedono però una maggiore attenzione e cura, possono essere allestiti ed esposti in modi diversi: piegati su una mensola, appesi a una gruccia, indossati a manichino. Questo ha spinto InVRsion a sviluppare una ricerca su questo fronte, avendo considerato come, proprio in seguito al Covid-19, sia tornato in auge il negozio di prossimità. Si prospetta, allora, un possibile scenario in cui anche i negozi dei principali brand possano diventare luoghi fisici molto piccoli e intimi, all’interno dei quali trovare schermi di realtà virtuale. Si apre così una prospettiva che consente di unire le caratteristiche dell’acquisto “brick and mortar” — ovvero in un negozio fisico — con quelle dell’ecommerce.
La dimensione estesa della progettazione
I casi studio analizzati dimostrano che i progetti di moda orientati al digitale non si propongono di “cannibalizzare la moda fisica”, ma di offrire “un canale in più”, come evidenziato da Lamperti. In questa dimensione estesa va ricollocato allora il lavoro del fashion designer, per individuare come cambia il processo creativo. Per la fondatrice di IL3X, già designer di scarpe per il proprio marchio Lamperti Milano, l’integrazione tra realtà fisica e digitale aumenta il grado di libertà creativa dei progettisti di moda, liberandoli dai vincoli della produzione materiale: resa dei tessuti, tecniche di confezione, vestibilità e costi. Nelle aziende di moda la prototipia digitale è già ampiamente diffusa e consente di valutare sullo schermo se un prodotto va inserito o meno nella collezione e quali varianti sviluppare senza dover realizzare tutti i prototipi. Questo approccio non porta solamente a una riduzione dei tempi e dei costi, ma permette di sperimentare un maggior numero di idee creative. Lo scenario che molti giovani designer immaginano, tra cui Lamperti, include lo sviluppo di collezioni interamente digitali, che consentano una esperienza della moda più intensa di quella fisica. Un esempio, è la possibilità di avere capi che si animano, si trasformano, che includono esperienze sonore e che si raccontano. La tendenza che sembra emergere dalle testimonianze raccolte durante la ricerca è che ci si stia avviando verso una diffusione delle esperienze progettuali che, fino a poco tempo fa, erano appannaggio di pochi designer considerati visionari e attivi nelle zone di confine tra arte, moda e tecnologia, come nei casi di Hussein Chalayan e dei suoi abiti multiformi e della designer e ricercatrice Ying Gao e dei suoi tessuti interattivi.24
Nella percezione degli intervistati, la libertà creativa del designer è da leggere in relazione diretta con la necessità di recuperare il gap tecnologico che caratterizza la moda, soprattutto in Italia, dove tradizionalmente c’è un approccio più legato alla dimensione fisica, manuale e artigianale. Se in architettura, ad esempio, le fasi di progettazione avvengono da più di venti anni in modo totalmente digitale, nella moda rimane comunque diffuso l’approccio manuale al disegno, almeno nella fase ideativa. La diffusione di software digitali come quelli messi a disposizione da Sense permettono invece di disegnare tessuti come fossero telai virtuali o di progettare in 3D abiti e accessori. Tuttavia, ciò che per gli intervistati è una maggiore libertà creativa, non sembra riguardare tanto la creatività, quanto la velocizzazione dei processi di verifica delle idee dei designer, di sviluppo di analisi di mercato prima della prototipia e di messa a disposizione di contenuti digitali per le fasi successive di comunicazione e vendita. Questo apre a domande sulla possibile marginalizzazione dell’apporto creativo del fashion designer al cospetto dei flussi di dati che sarà sempre più spesso chiamato a interpretare. A scongiurare una totalitaria trasposizione del processo creativo sul digitale è il riscontro di come, al momento, il modello digitale non risulti essere mai totalmente fedele al prototipo fisico: per questo “sarà sempre necessario l’ultimo colpo di bacchetta magica dell’artigiano”, citando Rinaldi. È interessante notare come continui a riemergere lo stereotipo dell’artigiano-mago che è stato al centro della narrativa del Made in Italy.
La realtà estesa tra fisico e digitale coinvolge anche i modi di interazione tra designer e retailer. Un esempio è il progetto Sunnei Canvas, presentato a luglio 2020 dal brand Sunnei, fondato a Milano nel 2014 da Loris Messina e Simone Rizzo.25 Il progetto consiste in una piattaforma nella quale avatar digitali indossano e presentano alcuni dei capi unisex più iconici del marchio, inclusi accessori, calzature e borse (Fig. 3). Alcuni retailer selezionati dal brand hanno la possibilità di essere guidati in questa esperienza dagli stessi avatar, personalizzando l’outfit e facendolo produrre nel colore, tessuto, cuciture e lunghezze prescelti. L’esempio di Sunnei Canvas concorre a sostegno della tesi della diffusione della progettazione espansa, in cui il venditore si trasforma in co-designer della collezione, partecipando alle scelte creative che dalla dimensione digitale si tradurranno in quella fisica. È ipotizzabile, allora, che in futuro sarà possibile acquistare e provare un capo digitale, il cui costo potrà essere ridotto per l’assenza di materiali e logistica e, se soddisfatti, convertirlo in prodotto fisico. Possono così nascere armadi di abiti in mixed reality.26 Un’esperienza su cui confida Lamperti e i molti “techno designer”27 che stanno lavorando in tale direzione.
La mixed reality diventa, infine, uno spazio di sperimentazione creativa anche per i consumatori, che possono indossare molti più capi per soddisfare il proprio desiderio di apparire e di cambiare. Il digitale, infatti, consente di “essere più persone in un giorno” (Lamperti) e attraverso lo schermo è possibile cambiare istantaneamente il proprio look a seconda delle situazioni, annullando quel rituale consolidato di aprire l’armadio la mattina e scegliere l’outfit per l’intera giornata. Muovendoci digitalmente attraverso situazioni e luoghi diversi, ma rimanendo fisicamente nello stesso punto, è possibile caratterizzare la nostra presenza nei differenti contesti attraverso gli abiti digitali. Il consumatore può acquisire così un ruolo primario, e non più soltanto perché a lui sono indirizzati i capi delle collezioni, ma perché diviene il perno attorno cui si crea l’universo di un brand. Nell’interazione totale a cui è chiamato nel momento in cui si avvicina a un certo prodotto di moda, il soggetto si fa fruitore e creatore a un tempo, sovvertendo le normali gerarchie produttive e stabilendo il maggiore o minore successo di una proposta.
Le applicazioni in questa estensione della realtà consentono di modificare, sostituire, definire le estetiche dei prodotti, provarli virtualmente su se stessi o su un avatar somigliante; attraverso lo schermo si diventa factotum di una nuova declinazione del concetto di moda, vissuta ed esperita nella realtà estesa. Altra questione allora è capire, invece, quanto questa condizione di demiurghi non sia un gioco di specchi preconfezionato e con regole circoscritte, dove chi vi partecipa viene attratto solo dal divertissement tecnologico.
Nell’idea di avatar, vestito digitale e rappresentazione virtuale si percepisce la profondità dell’esperienza della moda mise en abyme. Per Barbara Bologna lo schermo del cellulare è interessante in quanto sottile, perché non dichiarato, supporto alla (de)strutturazione della propria immagine, per la creazione di una serie di identità molteplici che popolano le sue collezioni. Le sperimentazioni della designer con le tecnologie sono abbastanza recenti, precedendo di una sola stagione il momento cruciale segnato dalla pandemia. Se fino a pochi anni fa Bologna si proposta nel ruolo della creatrice schiva e poco incline all’esposizione mediatica, con l’avvento dei social media e la diffusione dei filtri digitali la sua immagine ha subito un cambiamento radicale al punto da divenire faccia e corpo dei suoi stessi abiti. Con il suo profilo Instagram, e in particolar modo attraverso un uso costante delle stories, la designer sembra celebrare quotidianamente la possibilità della trasformazione continua, offrendosi come figura distorta, visibile ma allo stesso tempo celata, in una sovraesposizione che diventa manifesto.28 La realtà ibrida qui analizzata accentua la natura mutevole ed effimera della moda, generando identità in costante mutamento, trasgressive, estreme e fugaci.
Oggetti di moda e tempi digitali
La moda digitale si sta sviluppando in risposta ad alcune abitudini espresse, soprattutto dai consumatori più giovani, sui social network. Instagram, Tik Tok, Facebook, solo per citarne alcuni, sono diventati canali in cui a vincere è la costante, massiva sovraesposizione mediatica di coloro che vi agiscono e acquistano valore proprio in base alla frequenza di pubblicazione dei contenuti e al numero tanto più elevato di follower attratti da tali contenuti. “Tutti vogliono pubblicare in continuazione. Vogliono condividere una storia, un video di dove sono e cosa fanno” (Lamperti). Una conseguenza è il fenomeno sempre più diffuso del wardrobing, ovvero la restituzione di un capo — spesso molto costoso — indossato una sola volta per mostrarsi attraverso una foto o un video su Instagram. “I social media rendono immortale il momento. Un capo, una volta indossato, diventa obsoleto”, dichiara la fondatrice di IL3X. L’istante fisico, portato sul digitale, si trasforma in tempo infinito. Questo implica la necessità di molti consumatori di avere a disposizione un numero elevato di abiti e accessori che possano definire sempre nuove identità sui social network, divenendo così una fondamentale alternativa alle occasioni di incontro fisico drasticamente limitate dal Covid-19. Per queste ragioni si sta diffondendo l’utilizzo del digital clothing, che esiste e può essere indossato esclusivamente nella mixed reality. Si arriva a un’idea di moda destinata a un uso sociale istantaneo, un’esperienza digitale di self fashioning che consente all’individuo di costruire la propria identità attraverso gli abiti digitali e mutarla un istante dopo. È importante evidenziare il contrasto che caratterizza la moda digitale: nonostante non sia soggetta ai limiti di durata della moda fisica, connessa ai materiali, al loro consumo e deterioramento, e quindi potenzialmente utilizzabile all’infinito, è fruita per un tempo molto limitato. Sempre Lamperti sottolinea, però, come l’arco temporale di utilizzo può anche essere stabilito dal brand, programmando il momento di attivazione e di cancellazione del capo digitale. Può essere legato alla durata di uno specifico evento, può essere geolocalizzato, può essere stabilito il numero di pezzi totali acquistabili, può essere fruibile solo a determinate categorie di persone: oggetti digitali che potrebbero potenzialmente essere senza limiti di tempo, spazio e numero vengono programmati per essere l’oggetto del desiderio di un limitato nucleo di consumatori. Una disponibilità limitata, infatti, crea quella sensazione di necessità che rende un prodotto desiderabile.
La moda digitale consente di far coincidere quasi nello stesso istante i momenti in cui un capo viene presentato da un brand, messo in vendita, acquistato e indossato dal consumatore, annullando il tempo dell’attesa che tradizionalmente caratterizza la moda. Anche la moda fisica ha avviato negli ultimi anni alcune sperimentazioni che rivedono i tempi e le pratiche di presentazione e vendita delle collezioni, cercando di rispondere alle esigenze dei consumatori derivanti dai social media. Ne è un esempio la pratica denominata “see now, buy now”, attuata per la prima volta nel 2016 da Burberry con la collezione primavera-estate 2017:29 al termine della sfilata, i capi erano subito acquistabili nei negozi fisici e online del marchio inglese. Questo modello è stato adottato successivamente da alcuni marchi, ma non ha trovato una larga diffusione perché comporta un’ampia produzione di capi di cui non si può conoscere anticipatamente il riscontro del pubblico. È dunque poco sostenibile economicamente, ma anche da un punto di vista ambientale perché produce molte rimanenze. Il digitale, allora, può rappresentare il mezzo per fornire una risposta sostenibile alle nuove esigenze dei consumatori.
Nel panorama esteso, analizzato in questo contributo, si modifica anche il concetto, radicato nel sistema della moda, di stagionalità. La moda digitale vive in uno spazio non condizionato da stagioni meteorologiche, che la rende molto più libera nell’utilizzo dei materiali, nella stratificazione dell’outfit, nella tipologia dei capi. Questo ricadrà nel lavoro creativo dei designer, come riconosciuto dalla stessa Lamperti: da un lato porterà a una moda fisica più lenta, basata sulla qualità dei materiali, con colori continuativi, slegata dalle tendenze e dal bisogno di proporre continuamente novità; dall’altro permetterà alla moda digitale di essere più sperimentale e varia. Questi due approcci, secondo la sua previsione, vivranno in simbiosi.
Lo sviluppo della moda nella mixed reality modifica i tempi di creazione, produzione e consumo. Al pari della moda fisica, le fasi di progettazione e sviluppo dell’idea creativa richiedono un tempo lungo e una sequenza di azioni che consentono di arrivare alla definizione di un prototipo. Nella dimensione digitale, però, questo consente lo sviluppo di varianti e modifiche in tempi molto ridotti, non necessita di attendere per la successiva produzione ed è possibile replicarlo all’infinito. Ne deriva una notevole riduzione dei costi, spingendo il digitale a essere fruibile da tutti. Non vanno però dimenticate le scelte di alcuni brand digitali, come ad esempio The Fabricant, di presentare alcuni capi come pezzi unici, “su misura”, il cui prezzo di vendita è paragonabile a quelli della couture fisica.30 Questa può essere interpretata come couture digitale, e cioè un’azione artigianale applicata alla moda digitale.
L’analisi della moda nella mixed reality, dunque, mette in discussione le varie connessioni con la dimensione temporale: cambiano i tempi della produzione, della durata, dell’attesa e della fruizione. Le distinzioni tra presente, passato e futuro sfumano rapidamente l’una nell’altra. La novità diventa in pochi istanti il presente digitale del consumatore e poi il suo archivio.
Tra intimità ed esperienza espansa
Le misure di allontanamento sociale e le restrizioni alla libertà di circolazione introdotte come misure anti-pandemiche nel 2020 hanno rafforzato il ricorso a forme digitali di partecipazione e vicinanza, incentivando un diverso utilizzo dei sensi per un’espansione dell’esperienza. In particolare a essere stravolta è stata l’intimità, se consideriamo con questo termine ciò che si pone in relazione diretta con la dimensione più personale e, in qualche modo, segreta della persona. Già prima del Covid-19 le tecnologie digitali avevano iniziato a disvelare questa dimensione protetta, riservata, celata, in un dissolversi inesorabile di superfici liminari, fino ad arrivare a una mixed reality sempre più totalizzante. L’intimità cela l’invisibile, il privato, gli strumenti digitali invece esportano questa sfera riservata in un bacino molto più ampio in cui il piano di condivisione e interazione fa risultare quasi obsoleta la volontà di proteggere il proprio spazio privato. Durante i mesi di lockdown, l’intenzione più socialmente condivisa è stata quella di rompere virtualmente la propria intimità, violarla attraverso accattivanti escamotage digitali per far sì che ognuno desideri portarla allo scoperto e creando un altro livello di presenza di sé, privo di riservatezza sociale.
Molti lavori portati avanti ormai da diversi anni nella sperimentazione delle tecnologie “indossabili” hanno dimostrato come si possano ampliare e trovare nuove forme riconducibili a quanto di più intimo possediamo, ovvero la nostra stessa presenza.31 Una presenza che quindi potremmo definire aumentata, disgregata, moltiplicata, legata al corpo che la genera, ma dal quale immediatamente prende le distanze diventando tout un court qualcosa altro.
Altro esempio significativo di esperienza espansa della moda nella mixed reality è quella proposta da Barbara Bologna con la piattaforma W40tribu.32 Questo canale online, aperto durante il lockdown, è stato la risposta all’esigenza di distanziamento sociale imposto, creando attraverso la rete una nuova tribù, una società incorporea di figure alterate. Personaggi reali, ma estrapolati da visioni fantastiche, che nel web riacquistano così la loro dimensione immateriale. La designer dichiara: “Credo che la pandemia ci abbia portato ad essere più inclini, vicini a un qualcosa che noi non avevamo ancora realmente sperimentato. Perché sì, eravamo tutti interconnessi, avevamo WhatsApp, Instagram, il virtuale e tutta una parte di rete che comunque utilizzavamo quotidianamente. Ma forse senza mai capire davvero che questa virtualità fosse qualcosa di paradossalmente più ‘carnale’, che avesse ‘colori ed emozioni’ capaci di rispondere, di attivare un qualcosa di ancora sconosciuto sia sentimentalmente che eroticamente”. Una carnalità scavata attraverso la webcam, rivelatesi nell’intimità domestica delle case durante il lockdown. L’intento di Bologna è stato quello di creare una interconnessione cyborg collettiva, che mettesse in relazione designer, fotografi, stylist, editor, modelli e modelle, consentendo che il lavoro dell'uno fosse in sincronia con quello di tutti gli altri.33 Un’esperienza espansa, condivisa e connessa, attraverso telecamere e monitor, in cui ricezione e partecipazione si confondono, reale e aumentato diventano a portata di schermo e le distanze si dissolvono per lasciare spazio alle identità tribali di abiti multiformi e corpi mutevoli. Come afferma la designer: “W40tribu è un’estensione amplificata dell’apparente casualità dei flussi che vanno a palesare articolazioni, laddove prima sembrava di scorgere solo linee, perché durante il lavoro siamo cresciuti assieme a questa creatura, plasmandola e facendoci plasmare. Per questo abbiamo voluto raccontare anche tutto il back, il dentro, quello che di solito non si dice perché appare sconveniente, e non solo creativamente, anche tecnicamente. E così abbiamo posto il veto al segreto”. Si ribadisce nuovamente l’idea che nella mixed reality il soggetto non sia più solo uno spettatore davanti allo specchio, oltre il quale può osservare la magia della moda, ma si trasforma in attore, protagonista di questa esperienza espansa resa possibile dallo schermo. Il segreto della magia decade perché si è parte della magia stessa, collocata en abyme.
Conclusioni
Con questo articolo si è cercato di dimostrare come la moda del XXI secolo necessiti di modelli interpretativi che superino una visione contrapposta tra materiale e immateriale, tra fisico e digitale. Il contributo propone come modello la mise en abyme, inteso come spazio virtuale creato dagli schermi dei dispositivi tecnologici portatili e in cui si esprime l’esperienza della moda e del sé. Attraverso questo approccio è stata indagata la mixed reality che caratterizza il contemporaneo, intensificata in Italia durante la pandemia di Covid-19. I casi studio analizzati hanno permesso di indagare l’esperienza espansa della moda nelle sue forme performative e il ruolo da essa giocato nel ridefinire la progettazione e i suoi autori; le rappresentazioni e il discorso del Made in Italy; l’intimità tra le persone, gli oggetti e gli spazi. In questo senso, l’esperienza del lockdown ha reso evidente come lo spazio fisico domestico e privato sia entrato nello schermo, assumendo una nuova identità pubblica.
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Il progetto YooxMirror Reloaded è stato presentato il 25 giugno 2020 da Giorgia Roversi, direttrice della sostenibilità e inclusione di Yoox Net-A-Porter Group, durante il secondo incontro del workshop WHAT IF? Collaborative Conversations and Speculative Fashion, organizzato dall’Università Iuav di Venezia. http://www.iuav.it/DIPARTIMEN/CHISIAMO/eventi/2020/06--giugno/What-if/index.htm, [ultimo accesso 24 settembre 2020].↩︎
http://www.youtube.com/watch?v=D3_cNqH8Abo, [ultimo accesso 24 settembre 2020].↩︎
“created by the new styles”: Elizabeth Wilson e Lou Taylor, Through the Looking Glass. A History of Dress from 1860 to the Present Day (Londra: BBC Books, 1989), p. 89. Cf. anche Lou Taylor, The Study of Dress History, Establishing Dress History (Manchester: Manchester University Press, 2004).↩︎
Su questo dibattito cf. Christopher Breward, “Culture, Identities, Histories: Fashioning a Cultural Approach to Dress”, Fashion Theory, vol. 2 n. 4 (1998): 301-313. Giorgio Riello, “L’oggetto di moda: tre approcci per la storia della moda”, in Maria Giuseppina Muzzarelli, Giorgio Riello e Elisa Tosi Brandi (a cura di), Moda. Storia e storie (Milano-Torino: Bruno Mondadori-Pearson, 2010): 131–144.↩︎
Su questi temi un ruolo storico ha avuto la mostra di Jean-François Lyotard e Thierry Chaput, “Les Immatériaux” (Parigi: Centre Georges Pompidou, 28 marzo - 15 luglio 1985).↩︎
Elizabeth Wilson, Adorned in Dreams. Fashion and Modernity (Londra: I.B. Tauris, 1985). Elizabeth Wilson, Vestirsi di sogni. Moda e modernità (Milano: FrancoAngeli, 2008).↩︎
Anthony Vidler, “Foreword”, in Giuliana Bruno, Public Intimacy Architecture and the Visual Arts (Cambridge MA e Londra: MIT Press, 2007), x.↩︎
Caroline Evans, “Masks, Mirrors and Mannequins: Elsa Schiaparelli and the Decentered Subject”, Fashion Theory, vol. 3, n. 1 (1999): 3-31. Caroline Evans e Alessandra Vaccari (a cura di), Time in Fashion. Industrial, Antilinear and Uchronic Temporalities (Londra e New York: Bloomsbury, 2020). Lucia Ruggerone e Renate Stauss, “The Deceptive Mirror: The Dressed Body Beyond Reflection”, Fashion Theory (2020).↩︎
Agnès Rocamora, “Personal Fashion Blogs: Screens and Mirrors in Digital Self-Portraits”, Fashion Theory, vol. 15, n. 4 (2011): 407–424.↩︎
Paola Colaiacomo (a cura di), Fatto in Italia: la cultura del made in Italy (1960-2000) (Roma: Meltemi, 2006).↩︎
Paul Milgram e Fumio Kishino, “A Taxonomy of Mixed Reality Visual Displays”, IEICE Transactions on Information and Systems, vol. E77-D, n. 12 (dicembre 1994): 1321-1329. Paul Milgram, Haruo Takemura, Akira Utsumi e Fumio Kishino, “Augmented reality: A class of displays on the reality-virtuality continuum”, Proceedings of SPIE – The International Society for Optical Engineering, vol. 2351 (1994): 282-292.↩︎
Jean Baudrillard, Simulacra and Simulation (Ann Arbor: University of Michigan Press, 1994): 105. Cit. in Steve Dixon, Digital Performance. A History of New Media in Theater, Dance, Performance Art, and Installation (Cambridge MA: MIT Press, 2007): 249.↩︎
Cf. Paola Bertola e José Teunissens, “Fashion 4.0. Innovating Fashion Industry Through Digital Transformation”, Research Journal of Textile and Apparel, vol. 22, n. 4 (2018): 352-369. Cf. anche Federica Vacca, “Artisanal advanced design. Advanced manufacturing processes as a tool to revitalize peculiar Italian (craft)productions”, in The Virtuous Circle: Design Culture and Experimentation, Proceedings of the Cumulus Conference, a cura di Luisa Collina, Laura Galluzzo e Anna Meroni (Milano: McGrowHill, 2015): 703-715.↩︎
Massimo Temporelli, “Artigiano portami via”, Wired, edizione italiana, n. 93 (giugno 2020): 120. Cf. MD Journal, n. 9 Designed & Made in Italy (2020). Sui tentativi di riconfigurazione dell’artigianato cf. anche: Giovanni Maria Conti e Paolo Franzo, “Distretti produttivi virtuali. La transizione del Made in Italy nella moda”, in Maria Antonia Barucco, Fiorella Bulegato e Alessandra Vaccari ( a cura di), Remanufacturing Italy. Il Made in Italy nell’epoca della postproduzione (Milano: Mimesis-dCP, 2020 in pubblicazione).↩︎
Il progetto di ricerca Fashion Futuring: modelli emergenti di fashion design in Italia è coordinato da Alessandra Vaccari, co-ideatrice con Ilaria Vanni.↩︎
L’intervista alla designer Barbara Bologna è avvenuta il 6 giugno 2020; quella a Matteo Esposito, CEO di InVRsion, l’1 settembre 2020; quella a Erika Lamperti, co-fondatrice e CEO di IL3X, e quella a Silvia Valeria Rinaldi, Chief Magic Officer di Sense – Immaterial Reality, il 2 settembre 2020.↩︎
http://www.il3x.com, [ultimo accesso 18 settembre 2020].↩︎
http://www.invrsion.com, [ultimo accesso 18 settembre 2020].↩︎
http://www.sense-immaterialreality.com, [ultimo accesso 18 settembre 2020].↩︎
Il ruolo del Chief Magic Officer compare per la prima volta nel 2008 in Disney, indicando “un ambasciatore di sogni”. È significativo che l’azienda milanese abbia deciso di collegare l’innovazione tecnologica e digitale alla magia, al sogno, all’invenzione di altre realtà.↩︎
https://www.youtube.com/watch?v=WlDip4my3Hk [ultimo accesso 24 settembre 2020].↩︎
http://www.barbara-bologna.com/ [ultimo accesso 25 settembre 2020].↩︎
https://www.w40tribu.com/ [ultimo accesso 25 settembre 2020].↩︎
Cf. http://yinggao.ca/, [ultimo accesso 6 novembre 2020].↩︎
Tim Blanks, “How Sunnei Bucked the Fashion System”, Business of Fashion (16 luglio, 2020), http://www.businessoffashion.com/articles/tims-take/is-sunnei-the-future-of-milan-fashion.↩︎
Nel corso dell’intervista Lamperti dichiara di aver registrato il dominio Ardorbe, che allude all’idea di un guardaroba in AR (Augmented Reality), con l’obiettivo di vendere capi digitali di altri designer, intercettando e riunendo molte creatività.↩︎
Cf. Anouk Wipprecht, Technosensual. Where Fashion Meets Technology (Vienna: Edition Mono/Monochrom, 2012).↩︎
http://www.instagram.com/barbara_bologna [ultimo accesso 28 settembre 2020].↩︎
Rosy Boardman, Yvonne Haschka, Courtney Chrimes e Bethan Alexander, “Fashion ‘see-now-buy-now’: implications and process adaptations”, Journal of Fashion Marketing and Management, vol. 24, n. 3 (2020): 495-515.↩︎
http://www.thefabricant.com [ultimo accesso 28 settembre 2020].↩︎
Johannes Birringer e Michèle Danjoux, “The Emergent Dress. Transformation and intimacy in streaming media and fashion performance”, Performance Research, vol. 11, n. 4 (2006): 41-52.↩︎
https://www.w40tribu.com/ [ultimo accesso 25 settembre 2020].↩︎
Benedetta Pini, “Barbara Bologna, mutazioni genetiche, cyborg e eterodirezione”, i-D (12 maggio, 2020), https://i-d.vice.com/it/article/5dzmvq/barbara-bologna-mutazioni-genetiche-cyborg-e-eterodirezione↩︎