La mostra dedicata dal MAR di Ravenna al fotografo Paolo Roversi — apertasi in ottobre e visibile fino al 10 gennaio 2021 — non solo è celebrazione di uno straordinario talento artistico, ma è anche un omaggio che la sua città natale gli offre con elegante riconoscenza. Roversi è infatti nato a Ravenna nel 1947, per poi trasferirsi a Parigi, dove vive a tutt’oggi, perseguendo la sua passione per la fotografia:
“Avere una mostra così importante qui è molto emozionante per me”, ammette Roversi. “Ravenna ha sempre esercitato un’influenza inconscia, sottile ma profonda nel mio lavoro artistico. La sua arte bizantina così sontuosa, il riverbero d’oro dei suoi mosaici, l’atmosfera sacra delle sue chiese… la spiritualità ieratica delle immagini religiose. E poi la quiete delle sue nebbie, la dolcezza soffice e fredda dei suoi inverni. Un critico inglese una volta mi disse che le mie immagini gli ricordavano ritratti antichi di Madonne. Non le avevo mai viste attraverso questa lente, ma in effetti è vero che riflettono un senso di purezza, qualcosa di immacolato e profondamente religioso.”
La mostra, intitolata ‘Paolo Roversi—Studio Luce’, prende il nome dallo studio parigino in Rue Paul Fort in cui l’artista ha continuato a lavorare fin dal suo arrivo nella capitale francese negli anni ’70. Curata con sensibilità da Chiara Bardelli-Nonino, è una survey estensiva e suggestiva della affascinante visione artistica del fotografo: “Le immagini di Paolo vivono al di fuori del concetto di tempo”, spiega Nonino. “Lavorando al suo sterminato e straordinario archivio, sono stata colpita dalla qualità a-temporale delle sue immagini. Anche quando fotografa la moda, che è ovviamente un fenomeno intrinsecamente legato al contemporaneo, il suo sguardo si eleva in qualche modo sopra il perimetro della temporalità. Le sue fotografie non necessitano precisazioni di date o luoghi, sfuggono a ogni classificazione didascalica. E quando si riferisce alle immagini di moda, Paolo preferisce definirle come ‘ritratti’ e non come lavori editoriali illustrativi dello stile del momento.”
L’approccio curatoriale alla mostra è più esperienziale che cronologico, iniziando dai lavori in piccolo formato, più intimi e personali, per poi approdare ed aprirsi alla spettacolarità elegante delle figurazioni editoriali, per le quali ha sempre collaborato con creatori di pari livello visionario — Rei Kawakubo, Azzedine Alaïa, e recentemente Maria Grazia Chiuri. “Quello che volevo sottolineare”, spiega Nonino, “è anche la qualità coesiva della sua visione. La sua palette espressiva è ricca di sfumature, ma attraverso gli anni Roversi è sempre rimasto fedele a sé stesso — la sua visione consistente, il suo sguardo modulato attraverso un linguaggio unico, fortemente identificativo e personale.”
Il legame di Roversi con i suoi soggetti è sentimentale, illuminato da un riverbero spirituale sottile e ineffabile come un’aura. La luce — dalla qualità lattea e quasi fosforescente — è elemento fondante di un’estetica dalla purezza poetica, dove l’occhio indulge contorni sfumati dal pudore elegante, una sensualità delicata eppure espressiva, ammaliante e arcana come un incantesimo. La femminilità che Roversi coglie nei suoi ritratti è un distillato pittorico e ispirato che rimanda a certa ritrattistica sacra, o a figure femminili dal fascino elusivo che attraversano la letteratura romantica, o ancora alle ineffabili, angeliche trasfigurazioni della mistica medievale. È il riaffiorare dell’idea evocativa e potente di Musa — non a caso, una sezione della mostra è dedicata a questo tema: “Le muse di Roversi non sono oggetti passivi e idealizzati che ricevono il suo sguardo”, sottolinea Nonino. “Sono soggetti attivi, che partecipano alla creazione dell’immagine. Il suo occhio non si impone, ma rivela.” È un aspetto suggerito anche dal saggio del filosofo Emanuele Coccia nel catalogo che accompagna la mostra: “Paolo Roversi ha trasformato lo studio — il luogo che ha accompagnato la fotografia fin dai suoi inizi — in un teatro unico e alchemico che non isola i soggetti dal mondo circostante e conferisce loro un aspetto a-tipico; al contrario, ne rivela la natura più intima e profonda.[…] Un volto viene fotografato affinché la sua luce non venga mai spenta.” Chiosa lo stesso Roversi: “Nelle mie immagini cerco di arrivare all’anima delle persone che ho davanti all’obiettivo. Per me, le modelle o i soggetti dei miei ritratti sono Muse, artiste tanto quanto lo sono io, giocolieri capaci di animare uno spazio vuoto con la loro magia. È la loro ombra che definisce il mio sentimento della luce.”