ZoneModa Journal. Vol.10 n.2 (2020)
ISSN 2611-0563

Archivi digitali della moda e patrimonio culturale tra descrizione e integrazione

Daniela CalancaUniversità di Bologna (Italy)

Graduated in Philosophy and in Arts at Alma Mater Studiorum Bologna University, she is Contemporary History Researcher at the Department for Life Qualities Studies — University of Bologna — Rimini Campus. She is Director’s Delegate for International Relations at Department for Life Qualities Studies. Among her recent publications: Storia sociale della moda contemporanea, BUP 2014; Bianco e Nero. L’Istituto Luce e l’immaginario del fascismo (1924–1940), BUP 2016; Moda e immaginari sociali in età contemporanea, B. Mondadori 2016.

Pubblicato: 2020-12-22

Abstract

The physical distancing, a consequence of the current pandemic, has contributed to highlight a number of problems related to digital archives on the web, which have been debated for about 20 years. In particular, when faced with the cultural need to aggregate different data in the field of research and studies, it emphasised how the integration of cultural heritage in the digital domain has not yet been achieved. In this regard, the issue is not so much and not only technological but above all of a conceptual, historiographical and methodological nature. Starting from the assessment that the technological tool is the answer and not the question, this essay presents some reflections on fundamental issues, still under debate, related to the cultural heritage of fashion, especially fashion archives. This is in order to propose a hypothesis that is historiographical rather than technological, for potential integration of digital fashion archives into the web, as the founding pillar of the intercultural system of national heritage.

Keywords: Fashion; Digital Archives; Cultural Heritage; Description; Integration.

I. Lo Status quaestionis

Il processo di applicazione di tecnologie dell’informazione ai beni culturali ha dato vita a prodotti dall’immagine accattivante che, però, non sembrano in grado, come afferma Stefano Vitali, di trasmettere l’idea di un patrimonio culturale unitario per poi esplorarne le reali interconnessioni.1 In tal senso, le pratiche conservative, le metodologie di descrizione, inventariazione e catalogazione, con l’avvento del computer e del Web, hanno in genere conosciuto una pura e semplice trasposizione in ambiente digitale, che non ha contemplato innovazioni davvero radicali.2

Tanto che “In progetti come Europeana oppure CulturaItalia, più che di fronte ad una effettiva integrazione dei diversi ambiti disciplinari, siamo al massimo di fronte a una giustapposizione di oggetti o descrizioni, per lo più privi di elementi contestuali e di reciproche relazioni che non siano del tutto estrinseche e basate su elementi non sempre significativi”.3 Ciò si nota anche a proposito della sezione Fashion di Europeana, e di numerosi progetti statali di collezioni digitali della moda.4 Dalle relazioni fra i sistemi descrittivi di ambiti diversi dei beni culturali, afferma Vitali, “Ci si potrebbe forse attendere qualcosa di più: un vero e proprio scambio di conoscenze, la loro condivisione o il loro transito dallo specifico dominio nel quale tali conoscenze sono state generate ad un ambito più generale che faccia scaturire dal loro intreccio e dalla loro integrazione nuove forme o nuovi livelli di conoscenza”.5

E questo sovrappiù di conoscenza non può risultare dall’accostamento fra le descrizioni dei diversi oggetti e/o dalla loro riproduzione digitale: è necessario, piuttosto, “Far interagire descrizioni e riproduzioni digitali con un sapere più ampio, un sapere che faccia riferimento ai contesti complessivi in cui quegli oggetti sono stati posti in essere e poi successivamente conservati, utilizzati e interpretati”.6

Rispetto a ciò, nell’ambito del patrimonio della moda, l’interazione tra un sapere più ampio che si riferisca a contesti complessivi sul piano della ricerca storica, ancor prima che in ambiente digitale, non è ancora stata conseguita. In tal senso, molteplici approcci di ricerca, orientamenti e competenze specifiche, mettono in luce il modo in cui diverse prospettive e diversi metodi, nonché una documentazione multiforme, contribuiscano a creare una visione del patrimonio della moda articolato e complesso, come appare chiaramente sul piano epistemologico-gnoseologico.7 In altri termini, conservato com’è nei tradizionali istituti conservativi (archivi, musei, biblioteche), il patrimonio culturale della moda è un patrimonio complesso, multiforme e disaggregato.8

Esemplare a questo proposito, è la collezione tessile che il conte Luigi Alberto Gandini (1897–1906), Direttore del Museo Civico di Modena dal 1900, donò al Museo stesso tra il 1881 e il 1882.9

Costituita da oltre duemilacinquecento frammenti di tessuti d’abbigliamento e d’arredo, quali velluti, damaschi, broccati, rasi, taffetas, tele stampate, ricami, merletti ad ago e a fuselli, passamanerie, nastri, galloni e frange, la collezione offre un ricchissimo campionario di filati, di tecniche e ornati dell’arte tessile, prevalentemente italiana ed europea, dal Medioevo all’Ottocento. Essa comprende anche un gruppo di abiti maschili e femminili, dei secoli XVIII–XIX, conservati a deposito.10

Nella seconda metà degli anni 80, lasciata la carriera pubblica, Gandini si occupa di ricerche storiche riguardanti la documentazione legata alle sue raccolte, come la storia del costume per individuare le testimonianze scritte specifiche, volte a illuminare le forme e la storia dell’abbigliamento. La ricerca di Gandini si rivolge alla ricerca negli archivi di casa d’Este, per reperire tutte quelle informazioni sugli abiti e le stoffe utili alla documentazione dei costumi antichi, attraverso un grosso scavo archivistico oltre che negli archivi di casa d’Este, per esempio anche nell’archivio di Stato di Bologna.11

Il 23 marzo 1887 Gandini tiene una conferenza, dal titolo Ars Textrina, nei locali dell’Esposizione Tessuti e merletti, organizzata a Roma, presso il Museo artistico industriale12, nella quale evidenzia come la conoscenza storica, in termini di valore, sia utile non solo in termini passati, ma anche soprattutto presenti:

“Quando si pensi che le opere immortali d’Arnolfo di Cambio, dell’Orgagna, del Brunelleschi e di tanti sommi per l’impulso avuto dalla ricchezza acquistata coi commerci, e segnatamente con quello della lana e della seta; quando si pensi che tanti superbi palazzi che ergono al cielo la fronte annerita dal tempo, furono dimora di patrizi e mercanti, lanaioli e setaioli, dobbiamo sentirci orgogliosi e commossi di ammirazione e riconoscenza”.13

L’orgoglio e la riconoscenza, sottolinea Gandini, non riguardano solo le opere artistiche maggiori, ma anche e soprattutto le arti minori, che devono essere conservate per offrire impulso alle arti industriali:

“Conservare quanto ancora ci rimane a ricordanza dell’operosità dei nostri antichi che furono ad un tempo navigatori, mercanti e guerrieri, non solo deve essere oggetto di curiosità, ma di culto, che dobbiamo estendere su tutti i ricordi dell’antica grandezza italiana. Conservare con iscrupolo, non solo le grandi manifestazioni dell’arte, ma anche le minori, è un dovere di un popolo civile. Oggigiorno poi che le arti si volgono all’imitazione dell’antico per sorgere a nuova vita, e le arti industriali si rifanno collo studio de’ cimeli preziosi delle età passate, una collezione anche di frammenti di tessuti tornerà sempre di grande utilità”.14

Anche l’Italia, come le altre nazioni europee, sta sviluppando il processo di recupero della propria storia, e di valorizzazione del proprio patrimonio a scopi industriali, in particolare per quanto riguarda la formazione di una moda italiana:

“L’Inghilterra, che oggi in fatto di buon gusto industriale tiene il primato in Europa, è giunta alle presenti collezioni dopo aver sparso a piene mani le sue sterline per formare i grandi Musei Industriali, fra i quali il Kensington Museum, ove sono raccolti i saggi di tutta l’arte di tutti i tempi, di tutti i popoli. Noi italiani, mossi da quell’esempio e specialmente dagli esempi splendidi del nostro passato, batteremo le nuove vie dell’industria con fermezza e coraggio. Ce ne dà fede questa Esposizione inaugurata col contributo del Governo, con tenacia dal Municipio Romano, con amore dalla Direzione del Museo Artistico Industriale, ce ne dà fede il pensiero che l’Augusta Regina regna con gentile sentimento d’arte sulla moda italiana”.15

Come un Giano bifronte, è la storia della moda, afferma Gandini, il patrimonio su cui investire per il futuro industriale delle stoffe e delle trine italiane:

“E intanto altri popoli aprirono gli occhi e noi li chiudemmo. Ma ora non più. Accortasi l’Italia d’aver dormito abbastanza s’è rimessa al lavoro. Ed anche in queste sale ne abbiamo tali splendidi saggi da fare sperare che fra non molto le stoffe e le trine italiane occuperanno nel commercio mondiale il posto che godevano nei secoli andati. Tuttavia ad emanciparci vieppiù dalle estere industrie, a dare maggiore impulso alle nostre, giovi la ricordanza della storia. E ad imitazione dei tessitori siciliani del Re Ruggero sia d’ora innanzi nostra impresa: silenzio e operosità”.16

In sintesi, schematizzando, dal punto di vista della catalogazione, abbiamo:

  • Oggetti Costume e Moda Collezione Gandini → Museo Civico di Modena

  • Dalla schedatura dei beni librari italiani – OPAC SBN Istituto centrale per il catalogo unico on-line si rilevano le collezioni delle pubblicazioni di Luigi Alberto Gandini presenti in Italia. In particolare
    → 25 libri custoditi presso l’Accademia Nazionale di Scienze, Lettere di Modena, altri sono a Modena ma in altre sedi,
    → 12 sono presenti nella Biblioteca comunale di Sassuolo, 8 a Bologna, 4 a Ferrara, 2 a Ravenna e 1 a Forlì

  • I documenti storici → Archivio di Stato Estense, Archivio di Stato di Bologna e altri Archivi.


Tuttavia, dal punto di vista della documentazione, sarebbe necessario disporre di un apparato di informazioni che coprono un raggio molto più ampio, specie laddove Gandini si riferisce, per esempio, a tutta la questione dei Musei statali internazionali, nella sfida geopolitica e commerciale nazionalistica in cui erano inseriti gli stati europei, Italia compresa.17

II. Tra tangibile e intangibile

Per procedere in questa direzione, sul piano epistemologico, si impone la necessità di individuare in primo luogo un criterio di ri-descrizione dei dati relativi alla moda stessa, in modo tale da poter risolvere il problema della disaggregazione con cui si presentano i dati stessi.

In tal senso, le categorie del museo, per esempio, in cui si trova una collezione — l’oggetto moda — non sono adeguate a descrivere l’oggetto stesso. Ossia, tali categorie non contemplano tutte le informazioni necessarie per uno studio completo dell’oggetto stesso. La collezione, infatti, può essere ri-descritta specificando con che cosa quella stessa collezione sta in relazione fuori dal museo, fuori dall’archivio o dalla biblioteca.

È possibile realizzare questa ri-descrizione, presupponendo, sul piano metodologico, nonché concettuale, il passaggio dalla catalogazione dell’oggetto posseduto (per esempio un libro in biblioteca, un abito in un museo), alla documentazione necessaria, conservata insieme all’oggetto posseduto, ma che può essere conservata da un’altra parte, e che si arricchisce, a sua volta, con relazioni analoghe, con gli oggetti simili conservati altrove.

Il passaggio dalla catalogazione alla documentazione può essere ottenuto solo attraverso l’adozione di un criterio culturale, che per sua natura non può che essere intangibile. In altri termini, il criterio riaggregatore degli oggetti materiali della moda, conservati nella tradizionale rete degli istituti conservativi, quali gli archivi, i musei e le biblioteche, è immateriale. Ossia, il criterio che riunisce insieme tutti gli elementi sparsi e disaggregati di ogni prodotto culturale, è il concetto di moda come bene culturale intangibile. Bene culturale intangibile è il concetto organizzatore chiave, che non è dato dal luogo dove sono conservati gli oggetti fisicamente, ma consiste nella rilevanza che assume la moda in quanto tale, senza dislocare fisicamente gli oggetti che la riguardano.

D’alta parte, in questa prospettiva — al di là di tutta la discussione in materia che ha suscitato da tempo, e che continua tutt’ora a suscitare — il Codice dei Beni Culturali, entrato in vigore nel 2004, è esplicito nel definire i concetti di patrimonio culturale, bene culturale, bene paesaggistico, bene culturale immateriale, beni questi destinati alla fruizione della collettività. In particolare, dall’incrocio degli articoli n. 2, 7 bis, 10 e 11, emerge, a ben vedere, un rapporto di correlazione tra le categorie fondanti, quali per esempio cose/oggetti, civiltà, identità, mediante cui si rende comprensibile l’ effettiva correlazione fondante tra tangibile e intangibile. A questo proposito, può essere opportuno richiamare la rilevanza della nozione del chiasmo e della relazione chiasmica tra il soggetto e l’oggetto, così come ci vengono proposte da Maurice Merleau-Ponty (1908–1961).

La correlazione tra tangibile e intangibile può essere considerata infatti come un rapporto di tipo chiasmico, quale è quello descritto da Merleau-Ponty: “Nessuna cosa, nessun lato della cosa si mostra se non nascondendo attivamente gli altri, denunciandone l’esistenza nell’atto di nasconderli. Vedere è, per principio, vedere più di quanto si veda, accedere a un essere di latenza. L’invisibile è il rilievo e la profondità del visibile, e il visibile non comporta positività pura più dell’invisibile”.18 È cosi possibile ricomporre la separazione del soggetto dall’oggetto, del visibile dall’invisibile, del tangibile dall’intangibile nella trama unitaria del loro reciproco rapporto. In particolare, nell’articolo n. 2, il rapporto chiasmico fondante è già osservabile laddove si interseca la dimensione del bene culturale (mobile e immobile), della testimonianza con il concetto del valore di civiltà.19 Nell’Articolo 7 bis, inserito dal D.Lgs. 26 marzo 2008, n. 62, in stretto collegamento con l’Unesco, la correlazione fondante chiasmica si fa largo tra “espressioni di identità collettiva” e “testimonianze materiali”,20 quali sono definite nell’Articolo 10.21

La definizione di bene culturale immateriale, si richiama al concetto di “patrimonio culturale immateriale”, che comprende: “le pratiche, rappresentazioni, espressioni, sapere e capacità, come pure gli strumenti, artefatti, oggetti, e spazi culturali associati, che le comunità, i gruppi e, in alcuni casi anche i singoli individui, riconoscono come parte integrante del loro patrimonio culturale. Ciò che rileva, in particolare, non è la singola manifestazione culturale in sé, ma il sapere e la conoscenza che vengono trasmessi di generazione in generazione e ricreati dalle comunità ed i gruppi in risposta al loro ambiente, all’interazione con la natura e alla loro storia. Il patrimonio immateriale garantisce un senso di identità e continuità ed incoraggia il rispetto per la diversità culturale, la creatività umana, lo sviluppo sostenibile, oltre ché il rispetto reciproco tra le comunità stesse ed i soggetti coinvolti”.22

Non solo. Il rapporto tra civiltà-identità e oggetti che la esprimono è un rapporto immateriale, cioè culturale: ci troviamo di fronte al problema delle interconnessioni tra materialità e immaterialità, un problema questo che, a sua volta, pone quello del significato storico da attribuire agli oggetti della moda, non solo quello della loro rappresentazione nel contesto. Sicché, quali sono le categorie storiche mediante le quali è stato concepito il significato storico degli oggetti della moda? Quale è stata la loro logica storica? Possiamo considerare le categorie in termini di una complessa rete relazionale la cui natura non è né soggettiva né oggettiva, ma frutto di un fenomeno storico specifico con proprie regole di funzionamento e di cambiamento. Tali categorie, pertanto, non costituiscono un semplice mezzo per trasmettere il significato di proprietà reali, ma costituiscono una parte attiva nel processo di costruzione di quei significati.

Su queste basi, sono le pratiche e non le strutture, il punto di partenza dell’analisi storico-sociale, dal momento che le pratiche sono considerate, in questa ottica, lo spazio in cui si svolge l’intreccio significativo fra coercizione sociale e iniziativa individuale. Sono le pratiche quindi e non la struttura — in senso marxista — a costituire il punto di partenza dell’analisi. In tal senso, è radicale lo spostamento della riflessione storica dal piano delle rappresentazioni al concetto di immaginario sociale, quale l’ha definito il filosofo Charles Taylor: “Per immaginario sociale intendo qualcosa di più profondo degli schemi intellettuali che le persone possono assumere quando riflettono sulla realtà sociale con un atteggiamento distaccato. Penso, piuttosto, ai modi in cui gli individui immaginano la loro esistenza sociale, come le loro esistenze si intrecciano a quelle degli altri, come si strutturano i loro rapporti”.23

Applicando il concetto di immaginario sociale, si può spiegare in che modo le persone esperiscono il mondo, stabiliscono relazioni tra loro, intraprendono le loro azioni, movendo sempre da una matrice categoriale che essi non possono trascendere e che concretamente influenza le loro attività. Attraverso il concetto di immaginario si coglie il fatto che le persone vivono e hanno esperienza sempre all’interno di un discorso, nel senso che questo impone un quadro che limita ciò che può essere esperito o il significato che l’esperienza può circoscrivere, e con ciò influenza ciò che può essere detto e fatto.24

I discorsi, allora, costituiscono le configurazioni strutturali delle relazioni tra i concetti, connessi ognuno all’altro in virtù di una compartecipazione alla medesima rete concettuale. Due sono le conseguenze: 1) ogni concetto può essere decifrato solo nei termini della sua collocazione in relazione agli altri concetti nella rete delle sue connessioni e non nei termini del solo riferimento ad oggetti reali; 2) l’attivazione di un concetto mobilita tutta la rete concettuale a cui esso appartiene.25

E dunque, in questa prospettiva, stabilire il contesto, considerando tutte le fonti disponibili di un oggetto del patrimonio della moda, significa anche indagare l’immaginario o gli immaginari del patrimonio storico, in cui è inserito lo stesso patrimonio della moda. E ciò allo scopo di comprendere, tra l’altro, come la moda e i costumi abbiano concorso a delineare il variegato universo del patrimonio nazionale. Un patrimonio, detto nei termini di Dominique Poulot, non solo formato da oggetti, ma anche da immaginari, quali luoghi della persona pubblica, della storia patriottica e dell’identità culturale.26

Rispetto a ciò, allargando lo sguardo alle molteplici sfere d’influenza che si situano alle spalle della formazione e dello sviluppo del patrimonio storico della moda, non si può trascurare che la storia della moda funga da catalizzatore, metaforicamente come un Giano bifronte, soprattutto nel processo di costruzione della moda nazionale. Un processo questo in cui, fin dall’inizio dell’Ottocento, la volontà di liberarsi dal vassallaggio francese, chiama in causa, a ben vedere, il richiamo al glorioso passato nazionale del Rinascimento.27 In tal senso, è di fatto l’orientamento alla storia, ciò che forgia tutto lo sviluppo in questione: si tratta di quella storia che serve per apprendere e per produrre.28 Ossia, per conoscere e riconoscere le radici dell’italianità, in un procedimento continuo di formazione identitaria, da un lato, e di applicazione di tale conoscenza alla produzione industriale, dall’altro, che si fa largo, soprattutto dopo l’Unità d’Italia, e che si radicalizza tra fine Ottocento e inizio Novecento.29 Come del resto, si è visto, affermava lo stesso Gandini nella sua conferenza.

Dunque, su queste basi, si fa largo l’ipotesi di studiare la storia del costume e della moda, quale è stata documentata, scritta, interpretata e utilizzata in un determinato momento storico nei termini di patrimonio culturale, allo scopo di definire il contesto dei saperi complessivi. In tal senso, appare rilevante soprattutto un’ ipotesi di ricerca il cui obiettivo sia quello di ricostruire il processo storico di formazione del patrimonio statale della moda, il passaggio da bene privato a bene pubblico.

III. Istituzioni e forme di conservazione

Su queste basi, lo strumento è la catalogazione degli oggetti della moda contenuta nell’inventario dell’Archivio della Direzione Generale delle Antichità e delle Belle Arti (1860–1890), che presenta la documentazione prodotta dalla Direzione generale dal 1860 al 1890, noto comunemente come “Primo versamento”, la cui consistenza è di bb. 642 e regg. 178.30 A seguito dell’unificazione italiana, con R.D. 11 ag. 1861, n, 202, viene approvata la nuova pianta organica del Ministero della pubblica istruzione. Nel 1875 viene istituita la Direzione generale degli scavi e musei di antichità con funzioni distinte da quelle del Provveditorato artistico.31

La nuova amministrazione deve procedere ad un nuovo censimento del patrimonio nazionale in una condizione di vuoto legislativo. L’Unico provvedimento in vigore sull’intero territorio dello Stato era l’articolo 422 del codice civile del 1865.32 Le carte dell’inventario sono frutto nella maggior parte dei casi della corrispondenza tra uffici centrali ed organismi periferici nel corso degli anni compresi tra il 1860 e il 1890.33 Estrapolando le informazioni relative alle parole chiave degli oggetti, sulla base di un campione di buste, noi troviamo le seguenti informazioni, così schematizzabili:

N.
Busta
Museo/Galleria Dono Acquisto Deposito Oggetto Nome proprietario Anno
217 Museo Nazionale Firenze X Abiti ricamati del XVIII secolo Marchesa Alfieri 1884
217 —N/R— X Broccato in velluto e oro Signor Ardinghi 1883
620 Museo Civico Venezia X Campionario di stoffe antiche Signor Richetti 1892
228 Museo etrusco Firenze X Pianete e broccati Signor Costantini 1883

Questo inventario non contiene la parola moda, ma i termini degli oggetti che la compongono, quali per esempio: abito, stoffe, broccato, velluto, pianeta, pizzo, merletto, arazzo, ecc…

Allo stesso modo, ci troviamo davanti a un’ampia costellazione di termini chiave del patrimonio della moda nel volume del Ministero dell’Istruzione — Direzione Generale delle Antichità e delle Belle Arti, I musei e le gallerie d’Italia Notizie storiche e descrittive raccolte da Francesco Pellati, con la prefazione di Corrado Ricci, iniziato nel 1910 e pubblicato nel 1922.34

Questo volume, tra gli altri, è di fondamentale importanza per conoscere non solo quali oggetti fanno parte in quel momento del patrimonio storico della moda nazionale, ma anche e soprattutto perché li localizza, come appare, a titolo esemplificativo dalle tabelle di seguito riportate.

TABELLA Stoffe
CITTÀ MUSEO / GALLERIA / PINACOTECA ANNO DI ISTITUZIONE
Vercelli Museo Leone 1899
Torino Museo Civico 1860–1861
Genova Museo Chiossone 1905
Milano Museo Poldi Pezzoli 1887
Padova Museo Civico e Bottacin 1857
Padova Museo della Fabbriceria di Santa Giustina 1900
Treviso Museo Civico 1879
Torcello (Burano) Musei Civici
Castellarquato (PC) Tesoro della chiesa parrocchiale
Piacenza Raccolta Alberoni
Ravenna Museo Nazionale
Reggio Emilia Museo Comunale
Firenze Museo Nazionale
Firenze Museo Stibbet
Chianciano (SI) Raccolta Municipale
San Giminiano (SI) Museo Civico
Montefiorino (AP) Pinacoteca Comunale
Matelica (MC) Pinacoteca
Pesaro Pinacoteca Civica e Museo Oliveriano
Roma Museo Artistico Industriale
Napoli Museo Filangeri
Palermo Museo Nazionale
TABELLA Arazzi
CITTÀ MUSEO / GALLERIA / PINACOTECA ANNO DI ISTITUZIONE
MUSEO / GALLERIA / PINACOTECA
Torino Museo Civico
Genova Galleria e Museo di Palazzo Bianco
Genova Raccolta degli ospedali civili
Lovere (BG) Pinacoteca Accademia 1828
Milano Museo Poldi Pezzoli
Pavia Museo Civico
Rovigo Pinacoteca della Concordia 1833
Venezia Tesoro e Museo della Basilica di San Marco
Forlì Museo e Pinacoteca Comunale 1838
Parma Museo di Antichità
Castellarquato (PC) Tesoro della Chiesa Parrocchiale
Firenze Galleria degli Uffizi
Firenze Museo Stibbert
Siena Museo dell’Opera del Duomo 1901
Fabriano (AN) Pinacoteca Comunale 1820
Loreto (AN) Museo del Palazzo Regio
Fermo (AP) Pinacoteca e Museo Civico
Matelica (MC) Pinacoteca Museo Piersanti 1902
Urbino Galleria del Palazzo Ducale
Norcia (PG) Municipio
Roma Raccolta Ospedali Civili
Roma Musei Vaticani
Napoli Museo Nazionale
Palermo Galleria d’Arte

Di fatto, nell’ambito del patrimonio culturale della moda, si fa largo specificamente un incrocio tra questioni epistemologiche relative sia agli oggetti del patrimonio, sia delle procedure tecniche di descrizione e analisi dei dati, ora trasposte in ambiente digitale. In questa direzione, notevoli sono gli stimoli a proseguire in questa direzione e fra tutti, si impone quello in base al quale appare rilevante prospettare, per esempio, un nuovo orientamento di organizzazione della conoscenza, secondo cui si ipotizza che la descrizione dovrebbe adeguare lo standard di metadatazione agli oggetti specifici del patrimonio della moda. In particolare, supporre che il processo di definizione dello standard venga ricavato da una descrizione dell’oggetto idonea ai fini della ricerca e non viceversa, ossia non applicando semplicemente categorie predisposte a priori.

In ambito digitale, questo procedimento può prendere le mosse dal nuovo metodo di descrizione adottato con l’introduzione del Web Semantico e fondato sull’impiego dei linked open data, per giungere, su questa base, alla formulazione di un modello standard di descrizione ricavato da un’analisi più fedele e soddisfacente dell’oggetto, anziché fondato su categorie prestabilite, spesso inadeguate a coglierne la specificità culturale.35 Al riguardo, Dino Buzzetti osserva:

“A mio modo di vedere il rapporto tra la propria interpretazione e la descrizione standard dovrebbe essere rovesciato. Mi spiego: non si tratta di adattare la propria interpretazione agli standard, ma di fondare e ricavare gli standard dall’analisi dei dati, ossia dalla produzione dei LOD (Linken Open Data) ottenuti come risultato delle pratiche analitiche di ricerca. A quel punto sono gli standard che vanno usati in modo tale da poter essere adattati ai LOD ricavati dai dati. È banale: è la scarpa (i metadati) che deve adattarsi al piede (i dati) e non il piede alla scarpa. Di qui anche il rapporto tra ricerca (ossia elaborazione e produzione di dati) e pratica di metadatazione (ossia di descrizione dei dati prodotti). Non sono contrario ai linguaggi controllati e agli standard (ci mancherebbe!) che sono necessari per rendere interoperabili i dati di ricerca, ma i linguaggi controllati e gli standard dovrebbero essere fondati sui risultati della ricerca e non si dovrebbero modificare i dati di ricerca per poterli adattare costrittivamente alle forme previste dagli standard. Non si tratta — per usare stridenti anglicismi ormai entrati nell’uso corrente — di ‘personalizzare’ i metadati standard, ma di ‘customizzare’ i linguaggi controllati e gli standard di metadatazione ai dati della ricerca. Si tratta di stabilire il contesto, poiché è dal contesto che dipendono le relazioni tra gli elementi; dove possibile, questo dovrebbe essere stabilito con procedimenti di ‘data mining’ o ‘text mining’, a seconda che si tratti di fonti testuali o di altra natura. Anche nel caso di oggetti di altra natura, p. es., reperti archeologici, oggetti tessili o altro ancora, occorre considerare le fonti e le descrizioni disponibili che riguardano quell’oggetto. Il fatto che il mondo del Semantic Web sia ‘open’, nella pratica, deve per me significare questo”.36

A questo proposito, possiamo considerare, per esempio, la scheda di catalogazione dell’oggetto Arazzo, contenuta nel catalogo degli Uffizi, e nella banca dati a cui aderiscono la Galleria dell’Accademia, oltre alla Galleria degli Uffizi, il Museo del Bargello, il Polo Museale della Toscana, la Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e paesaggio per la città metropolitana di Firenze e le provincie di Pistoia e Prato (Tabella A).37 E possiamo poi confrontare, nel contempo, questa scheda con la scheda di catalogazione dell’oggetto Arazzo contenuta nel catalogo online delle collezioni dei Musei Civici di Venezia (Tabella B).38

Le diverse strutture di queste schede di catalogazione non permettono di integrare le informazioni e i dati necessari alla ricerca storica alla documentazione in generale sull’oggetto arazzo. A questo scopo, la tecnologia offre ora la possibilità di ottenere nuove integrazioni, attraverso lo strumento dei Link Open Data.

Tabella A
Tabella B

Dunque, su queste basi, alla luce di quanto affermato fin qui, la possibilità di sviluppare una proficua sinergia tra “moda e tecnologia” nell’ambito del patrimonio culturale, per quanto riguarda in particolare gli archivi digitali della moda, si presenta a partire da alcune questioni dirimenti, quali la necessità di aggregare i dati, cioè le informazioni sugli oggetti della moda, adottando un nuovo criterio di aggregazione, ossia il criterio della moda come bene culturale intangibile, e procedendo di conseguenza a ridescrivere i dati stessi, al fine di individuare nuovi percorsi di ricerca.

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Vitali, Stefano. Descrivere il patrimonio culturale: intrecci, condivisioni, convergenze. Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, Istituto Centrale per gli Archivi — ICAR, ottobre 2017. http://www.icar.beniculturali.it/fileadmin/risorse/Materiali_e_Contributi/Stefano_Vitali_Torre_Pellice_12_ottobre_2017.pdf.

Vitali, Stefano. “Dall’amministrazione alla storia, e ritorno: la genesi della rete degli archivi di Stato italiani fra la Restaurazione e l’Unità.” In Erudizione cittadina e fonti documentarie Archivi e ricerca storica nell’Ottocento italiano (1840–1880). Firenze: Firenze University Press: 21–69.


  1. Cfr. Stefano Vitali, Descrivere il patrimonio culturale: intrecci, condivisioni, convergenze (Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, Istituto Centrale per gli Archivi, 2017), 5 ss. Vedi inoltre Stefano Vitali, Passato digitale. Le fonti dello storico nell’era del computer (Milano: Mondadori, 2004).↩︎

  2. Vitali 2017.↩︎

  3. Ibid. 7. Cfr. http://www.culturaitalia.it/opencms/aderisci_al_portale_it.jsp; https://www.europeana.eu/it; https://www.europeana.eu/it/collections/topic/55-fashion.↩︎

  4. Cfr. https://www.europeana.eu/it/collections/topic/55-fashion.↩︎

  5. Vitali: 8.↩︎

  6. Ibid. Inoltre cfr. Federico Valacchi, “Pezzi di cose nel mondo. Il processo di integrazione delle descrizioni archivistiche nei sistemi interculturali,” in JLIS.it vol. 7, n. 2, (2016).↩︎

  7. Cfr. Daniela Calanca, Storia sociale della moda contemporanea (Bologna: Bononia University Press 2014); Daniela Calanca e Cinzia Capalbo (eds), Moda e Patrimonio culturale ZoneModa Journal, vol.8 n.1, (2018).↩︎

  8. Cfr. Calanca, 2018.↩︎

  9. Cfr. la collezione digitale https://www.google.it/maps/@44.6480418,10.9205604,3a,75y,90t/data=!3m8!1e1!3m6!1sAF1QipNGWG_xf6QCT0dhUUeoy_Jy-XK8KlYMjycJTQZH!2e10!3e12!6shttps:%2F%2Flh5.googleusercontent.com%2Fp%2FAF1QipNGWG_xf6QCT0dhUUeoy_Jy-XK8KlYMjycJTQZH%3Dw203-h100-p-k-no-pi-2.9338646-ya169.5-ro0-fo100!7i6000!8i3000.

    e cfr. http://www.museicivici.modena.it/it/media/raccolte/raccolte-museo-arte/tessuti.↩︎

  10. Cfr. Marta Cuoghi Costantini e Iolanda Silvestri, La Collezione Gandini. Tessuti del Medioevo e del Rinascimento (Bologna: Bononia University Press, 2010).↩︎

  11. Cfr. Annarita Battaglioli, Pupattole e abiti delle dame estensi. Ricerche di Luigi Alberto Gandini (Modena: Mucchi Editore, 2010).↩︎

  12. Cfr. Raffaele Erculei, Tessuti e merletti, Esposizione del 1887 Catalogo delle opere esposte (Roma: 1887).↩︎

  13. Ibid. 154–55.↩︎

  14. Ibid. 155.↩︎

  15. Ibid.↩︎

  16. Ibid. 176.↩︎

  17. Cfr. Daniela Calanca, “The Fashion Palace”, in The Culture, Fashion and Society Notebook (Milano: Bruno Mondadori: 2019), 3–15.↩︎

  18. Maurice Merleau-Ponty, Segni (Milano: Il Saggiatore, 1967), 44.↩︎

  19. Art. 2. Sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà.↩︎

  20. “Articolo 7bis (1) Espressioni di identità culturale collettiva 1. Le espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, adottate a Parigi, rispettivamente, il 3 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005, sono assoggettabili alle disposizioni del presente codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l’applicabilità dell’articolo 10”.↩︎

  21. Cfr. Art. 10.↩︎

  22. Cfr. Il Patrimonio Immateriale, come indicato all’art. 2 della relativa Convenzione del 2003, individuabile in 5 settori, ossia tradizioni ed espressioni orali, incluso il linguaggio in quanto veicolo del patrimonio culturale immateriale; arti dello spettacolo; consuetudini sociali, riti ed eventi festivi; saperi e pratiche sulla natura e l’universo; artigianato tradizionale.↩︎

  23. Charles Taylor, L’età secolare (Milano: Feltrinelli, 2009), 224–225.↩︎

  24. Cfr. Daniela Calanca, Bianco e Nero (Bologna: Bononia University Press, 2016), 280 ss.↩︎

  25. Ibid.↩︎

  26. Cfr. Dominique Poulot, Musée nation patrimoine (Paris: Éditions Gallimard, 1997). Dominique Poulot, Patrimoine et Modernité (Paris: L’Harmattan, 1998). Dominique Poulot, Une histoire du patrimoine en Occident, XVIIIe–XXIe siècle: Du monument aux valeurs (Parigi: Press Universitaire de France, 2006). Vedi Roberto Balzani (ed), Collezioni, musei, identità tra XVIII e XIX secolo (Bologna: il Mulino, 2007); Roberto Balzani (ed), I territori del patrimonio (Bologna: il Mulino, 2015). Andrea Ragusa, Alle origini dello Stato contemporaneo (Milano: Franco Angeli, 211).↩︎

  27. Cfr. Daniela Calanca, Moda e immaginari sociali in età contemporanea (Milano: Bruno Mondadori, 2016).↩︎

  28. Rassegna d’Arte, I/12 1901, p. 191 ss.↩︎

  29. Cfr. Daniela Calanca, Storia sociale della moda contemporanea (Bologna: Bononia University Press, 2014); Calanca, Moda e immaginari. Daniela Calanca e Cinzia Capalbo (eds), Moda e Patrimonio Culturale ZoneModa Journal, vol.8, n.1 (Luglio 2018). Daniela Calanca, “The Fashion Palace”, in The Culture, Fashion and Society Notebook (Milano: Bruno Mondadori: 2019), 3–15. Daniela Calanca, “Moda e Patrimonio Cultural entre Imaginarios Sociais e Praticas Coletivas na Contemporaneidade”, in Revista De Historia, 178, (2019), 1–28.↩︎

  30. Cfr. Matteo Musacchio, L’Archivio della Direzione Generale delle Antichità e delle Belle Arti (1860–1890) Inventario (Ministero per i beni culturali e ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, Archivio Centrale dello Stato. Roma: 1994, vol.2).↩︎

  31. Ibid.↩︎

  32. Ibid.↩︎

  33. Ibid.↩︎

  34. Cfr. Francesco Pellati, I Musei e le Gallerie d’Italia (Ministero dell’Istruzione, Direzione Generale delle Antichità e delle Belle Arti, Roma: Loescher, 1922).↩︎

  35. Cfr. Eero Hyvönen, Publishing and using Cultural Heritage Linked Data on Semantic Web (Morgan&Claypool Publishers Series, 2012); Iryna Solodovnik, Repository Istitutzionali Open Access e strategie Linken Open Data (Firenze: Firenze University Press, 2015); Mauro Guerrini e Tiziana Passemato, Linked Data per biblioteche, archivi e musei (Milano: Editrice Bibliografica, 2015); Hilary K. Thorsen e Maria Cristina Pattuelli, Linked Open Data and the Cultural Heritage Landscape, in Ed Jones, Michele Seikel (eds), Linked Data for Cultural Heritage (Chicago: Ala Editions, 2016, cap.1).↩︎

  36. Intervista a Dino Buzzetti, realizzata a Bologna il 5 giugno 2020. Cfr. Dino Buzzetti, Alle origini dell’Informatica Umanistica. Humaties Computing e/o Digital Humanities, Rend. Mor. (Acc Lincei, s.9, v.30, 2019): 71–103.↩︎

  37. Cfr. http://catalogo.uffizi.it/it/29/ricerca/detailiccd/1407189/.↩︎

  38. Cfr. http://www.archiviodellacomunicazione.it/sicap/OpereArte/3800/?WEB=MuseiVE.↩︎